Comastri: Giovanni Paolo II trasformò la sua croce in amore

Posté par atempodiblog le 2 avril 2020

Comastri: Giovanni Paolo II trasformò la sua croce in amore
Intervista con il cardinale Angelo Comastri, vicario del Papa per la Città del Vaticano, sulla testimonianza di San Giovanni Paolo II, nel 15.mo della morte, il 2 aprile del 2005
di Alessandro Gisotti – Vatican News

Comastri: Giovanni Paolo II trasformò la sua croce in amore dans Articoli di Giornali e News GP-II

Sono passati 15 anni dalla morte di Karol Wojtyla, come ricordato da Papa Francesco all’udienza generale di oggi. Indimenticabili i giorni che segnarono il passaggio alla Casa del Padre di San Giovanni Paolo II, dopo una lunga malattia vissuta con una testimonianza cristiana che attrasse non solo i credenti ma anche persone lontane dalla Chiesa. Proprio sull’insegnamento che il Papa polacco può darci oggi, in un momento di grande sofferenza globale a causa della pandemia, si sofferma il cardinale Angelo Comastri, vicario generale del Papa per lo Stato della Città del Vaticano, in questa intervista con i media vaticani.

Cardinale Angelo Comastri, il 2 aprile di 15 anni fa, dopo una lunga malattia vissuta offrendo una straordinaria testimonianza, moriva San Giovanni Paolo II. Cosa ci offre oggi, in un contesto drammatico come quello che stiamo vivendo a causa dell’emergenza Coronavirus, la vita e l’esempio di Karol Wojtyla?
Il dilagare dell’epidemia, la crescita dei contagiati e il bollettino quotidiano del numero dei morti ha trovato impreparata la società e ha messo in luce il vuoto spirituale di molte persone. Il giornalista Indro Montanelli, poco prima di morire, uscì con questa considerazione lucida e onesta: “Se debbo chiudere gli occhi senza sapere da dove vengo e dove vado e che cosa sono venuto a fare su questa terra, valeva la pena che aprissi gli occhi? La mia è una dichiarazione di fallimento! ». Queste parole di Montanelli fotografano la situazione di una parte dell’attuale società. Anche per questo, l’epidemia spaventa: perché in tanta gente si è spenta la fede. Giovanni Paolo II era un credente, un credente convinto, un credente coerente e la fede illuminava il cammino della sua vita.

Nonostante molte sofferenze vissute e la lunga malattia, Karol Wojtyla dava sempre la sensazione a chi lo incontrava di essere un uomo in pace e pieno di gioia…
Giovanni Paolo II sapeva che la vita è una veloce corsa verso la Grande Festa: la Festa dell’abbraccio con Dio, l’Infinitamente Felice. Ma dobbiamo prepararci all’incontro, dobbiamo purificarci per essere pronti all’incontro, dobbiamo togliere le riserve di orgoglio e di egoismo che tutti abbiamo, per poter abbracciare Colui che è Amore senza ombre. Giovanni Paolo II viveva la sofferenza con questo spirito: e, anche nei momenti più duri (come il momento dell’attentato) non ha mai perso la serenità. Perché? Perché aveva sempre davanti la meta della vita. Oggi molti non credono più nella meta della vita. Per questo motivo vivono il dolore con disperazione: perché non vedono al di là del dolore.

Giovanni Paolo II ha sempre trovato nelle esperienze di sofferenza, di dolore, una dimensione di speranza, di speciale occasione di incontro con il Signore. Ricordiamo su tutto la Lettera Apostolica “Salvifici Doloris”. Una sua riflessione su questo particolare carisma del Papa polacco?
Il dolore indubbiamente fa paura a tutti, ma quando è illuminato dalla fede diventa una potatura dell’egoismo, delle banalità e delle frivolezze. Di più. Noi cristiani viviamo il dolore in comunione con Gesù Crocifisso: aggrappati a Lui, noi riempiamo il dolore con l’Amore e lo trasformiamo in una forza che contesta e vince l’egoismo ancora presente nel mondo. Giovanni Paolo II è stato un vero maestro del dolore redento dall’Amore e trasformato in antidoto dell’egoismo e in redenzione dell’egoismo umano. Ciò è possibile soltanto aprendo il cuore a Gesù: soltanto con Lui si capisce il dolore e si valorizza il dolore.

Quest’anno a causa dell’emergenza attuale, vivremo una Pasqua “inedita” per rispettare le disposizioni di contrasto al contagio. Anche l’ultima Pasqua di Giovanni Paolo II fu segnata dalla malattia, dall’isolamento. Eppure ne abbiamo tutti un ricordo indelebile. Quale insegnamento possiamo trarre da quell’ultima Pasqua di Papa Wojtyla guardando a quello che succede oggi?
Tutti ricordiamo l’ultimo Venerdì Santo di Giovanni Paolo II. Indimenticabile è la scena che abbiamo visto in televisione: il Papa, ormai privo di forze, teneva il Crocifisso con le sue mani e lo guardava con stringente amore e si intuiva che diceva: “Gesù, anch’io sono in croce come te, ma insieme a te aspetto la Risurrezione”. I santi sono vissuti tutti così. Mi limito a ricordare Benedetta Bianchi Porro, divenuta cieca e sorda e paralizzata a motivo di una grave malattia e morta serenamente il 24 gennaio 1964. Poco tempo prima, ebbe la forza di dettare una meravigliosa lettera per un giovane handicappato e disperato di nome Natalino. Ecco cosa uscì dal cuore di Benedetta: “Caro Natalino, ho 26 anni come te. Il letto ormai è la mia dimora. Da alcuni mesi sono anche cieca, ma non sono disperata, perché io so che in fondo alla via Gesù mi aspetta. Caro Natalino, la vita è una veloce passerella: non costruiamo la casa sulla passerella, ma attraversiamola tenendo stretta la mano di Gesù per arrivare in Patria”. Giovanni Paolo II era su questa lunghezza d’onda.

In questo periodo segnato dalla pandemia, ogni giorno in diretta streaming su Vatican News e sui media che lo ritrasmettono, tantissime persone si uniscono in preghiera alla recita dell’Angelus e del Rosario. Viene naturale pensare a Giovanni Paolo II legato a Maria fin dallo stemma episcopale…
Sì, Giovanni Paolo II aveva voluto sul suo stemma come motto queste parole: Totus Tuus Maria. Perché? La Madonna è stata vicina a Gesù nel momento della Crocifissione e ha creduto che quello era il momento della vittoria di Dio sulla cattiveria umana. Come? Attraverso l’Amore che è la Forza Onnipotente di Dio. E Maria, poco prima che Gesù consumasse il Suo Sacrificio di Amore sulla Croce, ha sentito le parole impegnative che Gesù le ha rivolto: “Donna, ecco tuo figlio!”. Cioè: “Non pensare a me, ma pensa agli altri, aiutali a trasformare il dolore in amore, aiutali a credere che la bontà è la forza che vince la cattiveria”. Maria da quel momento si preoccupa di noi e quando ci lasciamo guidare da lei siamo in mani sicure. Giovanni Paolo II ci credeva, si è fidato di Maria e con Maria ha trasformato il dolore in occasione di amore.

C’è da ultimo un aneddoto, una parola che Giovanni Paolo II le ha rivolto e che a 15 anni di distanza vuole condividere anche come segno di speranza per tante persone nel mondo, che soffrono, che hanno amato e continuano ad amare Karol Wojtyla?
Nel marzo 2003, Giovanni Paolo II m’invitò a predicare gli Esercizi Spirituali alla Curia Romana. Anche lui partecipò a quel corso di Esercizi Spirituali con esemplare raccoglimento. Al termine degli Esercizi, mi ricevette con tanta bontà e mi disse: “Ho pensato di regalarle una croce come la mia”. Io giocai sul doppio senso della parola e dissi a Giovanni Paolo II: “Padre Santo è difficile che mi possa dare una croce come la sua…”. Giovanni Paolo II sorrise e mi disse: “No… la croce è questa”, e mi indicò una croce pettorale che voleva donarmi. E poi aggiunse: “Anche lei avrà la sua croce: la trasformi in amoreQuesta è la saggezza che illumina la vita”. Non ho più dimenticato questo meraviglioso consiglio che mi ha dato un Santo.

Publié dans Articoli di Giornali e News, Benedetta Bianchi Porro, Cardinale Angelo Comastri, Coronavirus, Fede, morale e teologia, Quaresima, Riflessioni, Santa Pasqua, Stile di vita | Pas de Commentaire »

Benedetta Bianchi Porro

Posté par atempodiblog le 23 janvier 2014

“Io penso che cosa meravigliosa è la vita anche nei suoi aspetti più terribili; e la mia anima è piena di gratitudine e di amore verso Dio per questo”.

Benedetta Bianchi Porro dans Benedetta Bianchi Porro wv4yno

Benedetta Bianchi Porro
La storia della Chiesa è ricca di splendide figure. Che attraverso l’arduo cammino della sofferenza, sopportata con fede, e l’eroismo delle virtù cristiane hanno raggiunto la meta della vita. L’esempio di una venerabile vissuta nel secolo scorso e morta in giovanissima età.
di Matteo Salvatti – Il Timone

2mm9029 dans Stile di vita

Benedetta Bianchi Porro è una figura da tener ben presente ai nostri giorni: rappresenta infatti un’eroicità nel vivere le virtù cristiane non comune, una forza vitale dirompente, un messaggio che colpisce nel profondo. Benedetta non è la stereotipata immagine della santarellina, così distante dalla vita di tutti i giorni, ma una ragazza “virile” nel suo affrontare la vita, la malattia e le prove con coraggio e con grande attaccamento alla realtà, scorgendo quanto Dio tratteggiava sul suo cammino e rimanendo sorpresa della Sua grandezza, ma senza cedere a sensazionalismi, con infinita bontà ma senza buonismo, con dolcezza ma senza edulcorato sentimentalismo. Benedetta viene alla luce l’8 agosto 1936 a Dovadola, un modesto centro in provincia di Forlì, figlia dell’ingegnere Guido Bianchi Porro e di Elsa Giammarchi. Appena nata un’emorragia rischierà di portarla alla morte, così che la madre si trova costretta a conferirle il battesimo di necessità. Il suo calvario inizia prestissimo: a tre mesi le viene diagnostica una poliomielite, e questo comporterà il dover sopportare una menomazione fisica per tutta la vita quale può essere l’avere una gamba visibilmente inferiore all’altra. Oltre alle sofferenze per così dire sensoriali, si aggiunge dunque la derisione da parte dei suoi compagni, che mai condanna, ma che al contrario cerca sempre di comprendere e di scusare. Se da un lato Benedetta è pronta ad aiutare tutti, a essere gentile ed educata, dall’altro sente spesso il bisogno di ritirarsi a meditare, a pregare, a contemplare la grandezza del creato e del suo Creatore. Il cristianesimo di Benedetta non è dunque una sorta di sentimentalismo, di solidarietà di clan, un umanesimo filantropico, ma essenzialmente un essere al servizio della verità, conscia del fatto che la carità della verità è, in ottica cristiana, la più alta forma di carità. Ma torniamo al nostro racconto: il padre, un ingegnere termale, si trasferisce a Sirmione con la famiglia quando Benedetta ha l’età per iscriversi al liceo classico, che frequenterà a Desenzano. A quell’età Benedetta inizia a percepire i primi segnali di sordità; ciò nonostante non si lascia vincere dal timore di diventare sorda ma, al contrario, discerne sempre più cosa è essenziale e si rallegra del fatto che nulla potrà mai assordare la voce della sua coscienza. Benedetta era affezionatissima alla corona del rosario che le fu regalata in occasione del sacramento della prima comunione. Amava pregare la Vergine con una fede vera, autentica e convinta. Dopo aver perso la corona, grande fu la gioia nel ritrovarla “casualmente”: niente, infatti, le era così caro. Aveva ben capito che tutto ci è stato dato per mezzo di Maria. Benedetta individua la sua vocazione, che è quella di diventare medico.

Non mancano, però, le umiliazioni, cui lei sa rispondere sempre con una carità evangelica che lascia sbalorditi per l’illuminazione. Un esempio fra i tanti: un giorno, il professore di anatomia le getta il libretto per terra, dinanzi a tutti gli studenti, berciando che non si è mai visto un medico sordo. Invece di cedere alla collera per un simile maltrattamento, è lei che si scusa con il docente, assicurandogli di non averlo offeso volontariamente. A casa, poi, confiderà alla madre che l’insegnante si era comportato bene, dato che il libretto non si era rotto. Sarà però costretta ad arrendersi e non potrà mai diventare medico, pur essendo giunta all’ultimo esame del corso. Dovrà portare scarpe ortopediche, il busto, il bastone e sottoporsi a una lunghissima via crucis di pesanti interventi chirurgici fino a quando sarà lei stessa a diagnosticare la sua patologia: neurofibromatosi diffusa o morbo di Recklinghausen. Una malattia rarissima che la porterà, poco alla volta, alla perdita di tutti i sensi e a immobilizzarla a letto. Diventerà anche cieca ed è appropriato vedere una somiglianza con il biblico Tobia. Benedetta andrà due volte a Lourdes con il treno ospedale dell’Unitalsi, a ricevere quell’acqua con la quale era stata battezzata dalla madre. Se la prima volta ci va con l’augurio di guarire, è la seconda volta che Dio le dà la grazia speciale di capire il mistero della croce. Molti si accorgono di lei, le chiedono consigli, le scrivono e lei si dona completamente agli altri. Gli ultimi tempi continua a farlo con l’aiuto della madre, sforzandosi di utilizzare un alfabeto muto e servendosi soltanto della mano destra, unica parte del corpo non paralizzata. Chi va a trovare Benedetta non ci va espletando opera di carità, o per pietà, ma per uscirne lui arricchito; è Benedetta che visita i peccatori, i bisognosi, gli afflitti e gli scoraggiati, con la luce del suo spirito cristiano. Incarna perfettamente le parole di San Paolo: «Quando sono debole, allora sì che sono forte. Tutto posso in Colui che mi dà forza». I suoi pensieri sono raccolti in un libro e sono tradotti in tutto il mondo, poiché è impossibile non restare contagiati da questa ragazza. Come per tutti i grandi mistici, anche Benedetta ha dovuto sopportare, oltre alle sofferenze fisiche, anche momenti di aridità, la cosiddetta notte dello spirito, e questo non la sminuisce, ma, al contrario, ne esalta il valore. Il cammino della perfezione passa attraverso la croce. Non c’è santità senza rinuncia e senza combattimento spirituale. Benedetta muore, a 27 anni, la mattina del 23 gennaio del 1964, giorno dello Sposalizio della Vergine. L’ultima sua parola fu «grazie». Tempo prima aveva confidato di aver fatto un sogno: entrare in un cimitero di Romagna e trovare in una tomba aperta una rosa bianca da cui emanava una luce abbagliante. Pochi istanti prima della sua morte, in giardino, una rosa bianca fioriva in modo inspiegabile, data la stagione invernale. La Chiesa l’ha dichiarata Venerabile con Decreto del dicembre 1993. Negli anni l’interesse verso Benedetta aumenta costantemente. Sono ormai più di dieci le biografie pubblicate su di lei. La sua storia ha interessato e colpito innumerevoli personalità, da Ignazio Silone a mons. Ennio Francia, da Giorgio La Pira al cardinal Tonini, da Oscar Luigi Scalfaro a Sergio Zavoli, da mons. Angelo Comastri a Padre Turoldo. Vi è persino un giornale dedicato a lei e un sito internet che porta il suo nome (www.benedetta.it).

Ricorda
«Sappiano che sono pure uniti in modo speciale a Cristo sofferente per la salute del mondo quelli che sono oppressi dalla povertà, dalla infermità, dalla malattia e dalle varie tribolazioni, o soffrono persecuzioni per la giustizia: il Signore nel Vangelo li ha proclamati beati, e “ il Dio… di ogni grazia, che ci ha chiamati all’eterna sua gloria in Cristo Gesù, dopo un po’ di patire, li condurrà egli stesso a perfezione e li renderà stabili e sicuri” (1 Pt 5,10)». (Concilio Vaticano II, Costituzione Lumen Gentium, n. 41).

Publié dans Benedetta Bianchi Porro, Stile di vita | Pas de Commentaire »

Benedetta Bianchi Porro: una storia vertiginosa, una storia cristiana

Posté par atempodiblog le 12 octobre 2012

benedettabianchiporro.jpg

[...] Piacevolmente spiazzante è anche la storia di Benedetta Bianchi Porro, una ragazza molto talentuosa nata nel 1936 a Forlì. A diciassette anni si iscrisse alla Facoltà di medicina ma, arrivata ormai all’ultimo esame nel 1957, si diagnosticò da sola la propria malattia: neurofibromatosi diffusa, una patologia che provoca la perdita di tutti e cinque i sensi. All’età di ventiquattro anni le uniche sensibilità che le restano sono una piccola sensibilità su una mano e su una guancia e un filo di voce. Per il resto è immobilizzata nel letto, cieca e sorda. Ma non per questo non è viva, anzi. Venuta a conoscenza della situazione molto dolorosa di un giovane gravemente malato, gli scrive queste parole: “Ho trovato che Dio esiste ed è amore, fedeltà, gioia, certezza fino alla consumazione dei secoli. Fra poco io non sarò più che un nome, ma il mio spirito vivrà, qui fra i miei, fra chi soffre, e non avrò neppure io sofferto invano. […] Le mie giornate non sono facili; sono dure, ma dolci, perché Gesù è con me, col mio patire, e mi dà soavità nella solitudine e luce nel buio. Lui mi sorride e accetta la mia collaborazione con Lui. […] Tutto è una brevissima passerella, pericolosa per chi vuole sfrenatamente godere, ma sicura per chi coopera con Lui per giungere alla Patria” (A. Socci, Caterina: Diario di un padre nella tempesta, p. 125). Benedetta morì a ventotto anni. Oggi è in corso il processo per la sua beatificazione. [...]

di Giulia Tanel – Libertà e Persona.org

Publié dans Antonio Socci, Benedetta Bianchi Porro, Stile di vita | Pas de Commentaire »