Pazze per Dio, la riscossa delle mistiche italiane
di Laura Bosio – Avvenire
Non si sa da quale casato venisse Angela da Foligno, nata nella città legata al suo nome intorno al 1248. Quasi nulla si conosce del periodo che precede la conversione. Non compì studi, ma pare certo che sapesse leggere. Più difficile dire se sapesse scrivere. Si sposò dopo i vent’anni, forse nel 1270, con un signorotto rimasto anonimo ed ebbe figli, che scomparvero in breve tempo insieme alla madre e al marito. In seguito a un’apparizione di san Francesco, era però già iniziato un mutamento che l’aveva portata a incontrare un direttore spirituale, un frate minore, suo concittadino e consanguineo, Arnaldo, che sarebbe diventato il depositario delle sue confidenze. Ma fu nel 1291, durante un pellegrinaggio ad Assisi, che un’esperienza mistica sconvolgente trasformò radicalmente la sua vita. Arnaldo avvertì subito la necessità di comprendere fino in fondo le cause di quella folgorazione e cominciò a scrivere tutto quello che Angela gli veniva dicendo. Nacque così il Libro della beata Angela da Foligno: lei dettava nel ‘ volgare suum’, mentre Arnaldo trascriveva in un latino semplice e piano; e quando lui, ‘frate scrittore’, non comprendeva, si faceva ripetere il discorso, talvolta riportando la parola così come la sentiva riferire. L’itinerario di Angela non è tanto un andare verso Dio, quanto un andare dentro Dio, in un rapporto diretto così forte da farla gridare. «E la sua storia – scrivono Giovanni Pozzi e Claudio Leonardi nell’antologia dedicata alle Scrittrici mistiche italiane – sarà, in questo senso, tutta una ‘pazzia’ interiore, cioè una coscienza mistica altissima, senz’altro la più alta di una donna italiana durante il Medioevo».
Morì a Foligno il 4 gennaio 1309. In Caterina da Siena si realizzò, scrivono ancora Pozzi e Leonardi, «l’esperienza di una straordinaria capacità di partecipazione: universalità dell’amore, totalità dell’allegrezza e della tristezza, senso di Dio e del nulla, compresenza di Dio e dell’uomo: Dio come perfetta giustizia oppure come piena misericordia, ma alla fine visto come ‘mare pacifico’ e l’uomo come il ‘pesce’ di questo mare». Un’universalità che ha il suo contrassegno definitivo nel motto con cui Caterina annunciò e accolse la sua morte, il 29 aprile 1380: «Sangue, sangue, sangue», dove «sangue sta per ciò che è fondamento di unità e di libertà, dando la vita a ogni vita». Quando morì, circondata da un vero cenacolo spirituale e politico, aveva solo trentatré anni, bruciata da un ardore profetico che l’aveva condotta in lungo e in largo per l’Italia e l’Europa, come la ‘fanciulla universale’ che i primi biografi riconoscono in lei. I suoi inizi non avrebbero mai lasciato prevedere simili esiti: nata da un tintore, penultima di venticinque figli, dovette lottare per vincere l’ostilità della famiglia alle sue severe ascesi e poi per superare, lei giovane analfabeta, il filtro di chi trascriveva le sue parole, con le quali costruiva una personalità e un cammino in tutto singolari, attraverso la conoscenza di Dio in sé e la conoscenza di sé in Dio: «Tu sei colui che non è. Io sono Colui che è. Se tu scorgi questa verità nella tua anima, il nemico non ti ingannerà: tu sfuggirai a tutti i suoi lacci». Maria Maddalena de’ Pazzi, fiorentina, aristocratica per nascita, si fece carmelitana nel luogo più appartato della città, il quartiere povero di San Frediano.
Come Angela e Caterina non scrisse, solo parlò, ma, diversamente da loro, non dettò per fissare nella scrittura il suo pensiero. Fu scritta da altri a sua insaputa. Durante le numerose e lunghissime estasi – nel 1584, diciottenne, subito dopo i voti ebbe estasi per quaranta giorni di seguito – parlava con un invisibile destinatario. Le sue compagne, con interminabile pazienza, raccoglievano le sue parole, formando un documento unico per la sua natura di totale e autentica oralità. Ignare di stenografia, avevano escogitato un modo ingegnoso: alcune di loro ripetevano ad alta voce le parole di Maddalena, altre le trascrivevano, poi facevano il montaggio delle parti, chiedendo alla veggente chiarimenti nei punti oscuri. La sua vita straordinaria, cui oggi dà rilievo il corpus degli scritti, passò quasi inosservata.
Tramandate attraverso le lettere, i diari, le autobiografie o sopravvissute in filigrana in testi di altri, le mistiche italiane sono un universo solo parzialmente esplorato, che dal Medioevo arriva fino a noi. A partire da Chiara d’Assisi, che condivise con san Francesco una drammatica e luminosa ‘uscita dal secolo’, o Umiltà da Faenza, fondatrice, nella Firenze del Duecento, di un monastero consacrato a Giovanni Evangelista, che le era apparso in una visione, e autrice di Sermoni percorsi da una violenza d’amore che ricorda Teresa di Lisieux, o Caterina Fieschi, nata nella Genova di metà Quattrocento, che nel suo itinerario arriva a cancellare l’’io’ e il ‘mio’, anche se riferito al Signore, fino a Veronica Giuliani, Rosa Brenti, Gemma Galgani, Lucia Mangano, Itala Mela. Cercatrici dell’impossibile che si staccano dal mondo, ma per avvicinarlo più profondamente, che fuggono per rendersi simili a Dio e nascere, più libere, nell’amore dell’Altro. Sperimentatrici che non chiedono di conoscere: chiedono di essere. Nelle possibilità impensate di un’esperienza spirituale aperta più all’intuizione che alla ragione sembrano raggiungere quegli spazi del divino che permettono di vedere senza vedere, di avere un corpo evanescente e un’anima carnale, e di celebrare la tenebra luminosa, la chiarezza più oscura, come si esprimeva Dionigi l’Areopagita, a cui la mistica deve, nel VI secolo, la sua definizione cristiana. Ma la mistica non è sentimentalismo; al contrario, è desiderio di superare, fino a estinguerle, tutte le vicissitudini delle sensazioni e dei sentimenti. È il rogo che brucia la psicologia per fare il vuoto e godere di una impossibile pienezza, nel fondo senza fondo dell’anima. Niente a che vedere con patetici abbandoni e languide estasi pittoriche, con fremiti e occasioni del cuore: nella solitudine delle mistiche il vento gelido dell’impossibile si scontra con l’ardente consapevolezza che la realtà è una, che Dio e uomo sono lo stesso.Amore è il termine della loro esperienza. Un amore che contiene e trascende tutti i termini che lo rappresentano: affetto, simpatia, sollecitudine, devozione, carità, eros. La conoscenza amorosa non è però teorica né astratta, ma sperimentale e piena di gusto. E le parole impossibili che tentano di descriverla – tanto più impossibili nell’esperienza univoca delle mistiche – non può che essere mobile e saporosa come il suo inafferrabile oggetto, se vuole essere vera. Quando scrivono, le mistiche incitano il pensiero a correre liberamente, al di là di preoccupazioni estetiche o compositive. Usano inevitabilmente il linguaggio della tradizione, ma lo alterano con irriverenza, rianimando generi abusati e antiche dottrine. Nelle lettere applicano senza disciplina il metodo del ‘meditare scrivendo’; nei dialoghi optano per una registrazione fedele dei colloqui dell’anima con Dio, o con se stessa.
La solennità dell’eloquio ecclesiastico si mescola con la vitalità del parlato quotidiano, dando vita a una prosa di volta in volta robusta o prolissa, ignara di ornato. «Mi pareva di non essere più quella – scrive nelle Lettere Maria Cecilia Baij, vissuta nella prima metà del Settecento, benedettina a Montefiascone, cantante, cembalista, assalita da apparizioni apocalittiche –: vedevo in me stessa l’immagine di Gesù, tanto risplendente e chiara che non saprei in che modo darla a intendere. Ero io, eppure non ero io, perché era Gesù in me e unito a me in modo che eravamo un’istessa cosa… Sentivo in me una pienezza totale di tutto ciò che possa godersi e bramarsi… Non so meglio spiegarmi».