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Nessuno come Lui

Posté par atempodiblog le 20 novembre 2007

Nessuno come Lui dans Articoli di Giornali e News plivio

Tra i fondatori delle varie religioni, Gesù è unico. Nessuno si è proclamato Dio come ha fatto Lui, dimostrando di esserlo. Una ragione fondamentale per la veridicità e la credibilità del cristianesimo.
Un confronto fra il cristianesimo e le altre religioni prima ancora che sui contenuti dottrinali e morali, che pure sono importanti, deve riguardare la persona dei loro fondatori.
È lo stesso Gesù che ha impostato in questo modo il problema quando ha rivolto agli apostoli quell’interrogativo inquietante che nel corso dei secoli non cessa di bussare al cuore di ogni generazione: « La gente chi dice che sia il Figlio dell’uomo? » (Mt 16,13). Paragonare Gesù Cristo a Mosé, a Buddha, a Confucio, a Maometto e così via è molto istruttivo perché, senza venire meno al rispetto per ogni esperienza spirituale, si può cogliere l’indiscutibile originalità e unicità del cristianesimo in rapporto a tutte le altre religioni.
A questo riguardo occorre innanzi tutto che gli stessi cristiani siano consapevoli del centro irradiante della loro fede, perché solo in questo modo potranno premunirsi da quella forma di relativismo che consiste nella tendenza a mettere tutte le religioni sul medesimo piano.
Da questa mentalità nasce il sincretismo religioso e quella religione fai-da-te che sceglie dal supermarket della spiritualità ciò che più appaga i propri gusti.
Per essere cristiani, infatti, non basta credere in Dio, come comunemente molti ritengono. Non sono cristiano perché penso che « Qualcuno » lassù ci deve pur essere. Quasi tutte le religioni infatti fanno riferimento a un Essere supremo e non dobbiamo dimenticare che quella cristiana è stata fortemente contrastata da un monoteismo intransigente come quello ebraico.
Che cosa dunque contrassegna il cristianesimo e ne fa di esso una religione radicalmente diversa da tutte le altre? lo sono cristiano non perché credo in Dio, ma perché credo che Dio si è fatto uomo.
La fede cristiana non è la credenza nell’esistenza di Dio (la quale indubbiamente è importante, ma viene data per presupposta) ma è la fede nell’evento dell’incarnazione. Tutto ciò è professato nel « Credo » che viene recitato ogni domenica: «Et incarnatus est de Maria Virgine et homo factus est» «Si è incarnato nel seno della Vergine Maria e si è fatto uomo»).
Il mistero di Dio Santissima Trinità e dell’Incarnazione del Verbo sono il cuore della professione di fede cristiana, ma molti se ne rendono conto e non vedono l’originalità assoluta del cristianesimo e la sua irriducibilità rispetto alle altre concezioni religiose.
I cristiani sono coloro che credono che Gesù è il Figlio di Dio che si è fatto uomo.
Guardando a Gesù di Nazareth, così come lo guardavano Pietro e gli altri apostoli, essi affermano senza esitazioni: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio Vivente» (Mt 16,16).
La diversità rispetto agli altri fondatori religiosi, in particolare Buddha e Maometto, che stanno all’origine di due religioni mondiali che competono col cristianesimo nella ‘conquista dei cuori’, risulta evidente.
Per il buddisti il Buddha è soltanto un uomo come tutti noi, che, cercando la salvezza ed essendo pervenuto alla illuminazione, può farci da maestro con la sua dottrina. Per i mussulmani Maometto è il profeta di Allah, ma così partecipe della condizione umana comune da aver passato buona parte della sua vita nell’esercizio del potere politico, economico e militare.
Nessun buddista di stretta osservanza vi dirà che il Buddha è Dio. Un mussulmano poi e un ebreo di stretta osservanza vi confermeranno che affermare che un uomo è Dio è una bestemmia.
In questa prospettiva bisogna dunque riconoscere che il cristianesimo, in quanto centrato sul mistero dell’incarnazione, è una religione unica e assolutamente controcorrente rispetto al modo comune di pensare degli uomini.
Credere che un uomo, e lui solo, è Dio e che come tale è l’unico Salvatore del genere umano, è il Signore della storia e il Giudice del mondo, risulta assolutamente « scandaloso » per l’umana sapienza.
San Paolo ha parlato dello scandalo della croce, ma è lui stesso a direi che questo scandalo è incominciato con l’incarnazione (Fil 2,7). Credere che un uomo è il Figlio di Dio «nato dal Padre prima di tutti i secoli: Dio da Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio vero, generato, non creato, della stessa sostanza del Padre» è scandaloso non solo per gli Ebrei contemporanei di Gesù, ma anche per gli uomini del nostro tempo, i quali sono disposti anche a ritenere che Gesù è uno dei più grandi uomini che siano mai esistiti, ma ritengono assurda la fede cristiana nella sua divinità.
Certi riconoscimenti della grandezza umana di Gesù (riformatore religioso, rivoluzionario, filantropo, saggio, ecc…) non devono trarre in inganno. Vengono concessi, purché non si dica che lui è Dio.
Eppure Gesù nei tre anni della sua vita pubblica ha esplicitamente manifestato il mistero della sua persona divina. Possiamo dire che questo è stato il tema fondamentale della sua stessa predicazione. Il Vangelo di Gesù Cristo riguarda soprattutto la sua uguaglianza col Padre, del quale è Il Figlio e dal quale è stato inviato per la salvezza del mondo. Certamente la rivelazione di Gesù riguardo se stesso è stata graduale, coinvolgendo prima gli apostoli e poi le folle, ma non vi è dubbio che le parole e i gesti da lui compiuti sono stati afferrati nel loro profondo significato ed è per questo che è stato condannato a morte dal Sinedrio dopo che, per il medesimo motivo, hanno cercato in più occasioni di lapidario.
Gesù in nome proprio perdona i peccati, modifica la legge di Mosé con il suo autorevole « Ma io vi dico», e compie miracoli impressionanti per l’onnipotenza che esprimono.
Anche i profeti prima e gli apostoli dopo compiranno miracoli, ma non facendo appello alla propria autorità personale come fa Gesù.
Oltre ai gesti, anche le parole di Gesù sono esplicite e colpiscono nel segno penetrando come spada tagliente nei cuori, per cui alcuni credono e altri gridano allo scandalo. Al riguardo è illuminante questo dialogo riportato dall’evangelista Giovanni: avendo Gesù affermato: «lo e il Padre siamo una cosa sola» (Gv 10,30), i Giudei portano delle pietre per lapidarlo. Allora Gesù domanda loro: «Vi ho fatto vedere molte opere buone da parte del Padre mio; per quale di esse volente lapidarmi? Gli risposero i Giudei: Non ti lapidiamo per un’opera buona, ma per la bestemmia e perché tu, che sei uomo, ti fai Dio» (Gv 10,33).
Ancora più importante, per il contesto in cui è avvenuta, è la testimonianza di Gesù davanti al Sinedrio, dove appare con chiarezza che è stato condannato a morte per essersi fatto uguale a Dio. Il sommo sacerdote gli domanda: «Ti scongiuro, per il Dio vivente, perché ci dica se tu sei il Cristo, il Figlio di Dio». «Tu l’hai detto», gli rispose Gesù, ma poi aggiunge parole, ben comprensibili ai presenti, con le quali si attribuisce l’autorità divina di giudicare il mondo:
«Anzi, io vi dico: d’ora innanzi vedrete il Figlio dell’uomo seduto alla  destra di Dio, e venire sulle nubi del cielo» (Mt 26,63-64).
Che un uomo con le parole e con i gesti che compie si attribuisca un’autorità divina non è certo cosa di poco conto. Basti a questo riguardo riflettere sul fatto che in tutte le Sacre Scritture, dall’Antico al Nuovo  Testamento, quello di Gesù Cristo è un caso unico.
Persino il Battista, il più grande degli uomini, come Gesù stesso ha dichiarato, è al paragone soltanto una voce che grida nel deserto (Lc 3,3).
Gli uomini che hanno ascoltato la testimonianza di Gesù, e in particolare gli apostoli che hanno condiviso con lui tre anni di vita, si sono trovati di fronte a qualcosa di assolutamente inaudito e al di là di ogni attesa e immaginazione. Eppure non potevano mancare i segni di credibilità che rendessero la scelta della fede un «rationabile obsequium», e perciò sopra la ragione, ma non contro la ragione. Quali erano questi segni di credibilità?
Al riguardo non si finirebbe mai di parlare, perché la persona di Gesù è un abisso inafferrabile di luce. Però potremmo sinteticamente affermare che la testimonianza di Gesù su se stesso era credibile per l’eccelsa santità, di fronte alla quale quella degli uomini più santi è come un lucignolo fumigante davanti al sole; per la sublime sapienza, per cui anche i non credenti, che abbiano la mente sgombra di pregiudizi, non hanno difficoltà a ritenere gli insegnamenti di Gesù contenuti nel Vangelo i più elevati che mai siano usciti da una bocca e un cuore d’uomo; per la potenza di miracolo che si esercita in nome proprio non solo sulle malattie e la morte degli uomini, ma anche sul regno della natura e soprattutto sull’impero delle tenebre che trema e indietreggia quando Gesù lo comanda.
Questi motivi di credibilità che hanno aiutato non pochi, pur nel rigido contesto del monoteismo ebraico, a credere alla testimonianza di Gesù, hanno poi avuto il sigillo della sua gloriosa resurrezione, con la quale Gesù ha dato la prova inoppugnabile di essere «Dio e Signore», come confessa l’apostolo Tommaso (Gv 20,28).
A mio parere si dovrebbe insistere di più in chiave apologetica, sull’eccelsa santità di Gesù e cercare di comprenderla, per quanto è possibile, nella sua profondità abissale.
Comunemente si afferma con san Paolo che Gesù era un uomo in tutto simile a noi «eccetto il peccato». Questa espressione però non va intesa soltanto come se la santa umanità del Salvatore sia esente dalla ferita originale e dai peccati personali, per cui in lui non c’è quell’impulso al male che invece c’è in noi e che si esprime nella triplice concupiscenza.
In Gesù Cristo non solo non c’era il peccato, ma già nella sua vita terrena la sua umanità era una pienezza di Grazia (Gv 1,16), per cui egli poteva dire: «Filippo, chi ha visto me ha visto il Padre» (Gv 14,11).
La sua santa umanità era intimamente unita alla persona divina e Gesù come uomo esprimeva in forma umana la vita e la santità di Dio.
«Anche i più piccoli tratti dei misteri della sua vita ci manifestano l’amore di Dio per noi» (Catechismo della Chiesa Cattolica, 516). A questo riguardo balza subito alla luce la diversità di Gesù rispetto a tutti gli altri uomini, in particolare ai grandi leader religiosi dell’umanità.
Mentre essi cercano una via di salvezza (la cercò Buddha nella meditazione e Maometto nella sottomissione ad Allah), Gesù si presenta come uno che non cerca nessuna salvezza, ma al contrario la dona.
Gesù non cerca la verità, ma dice di essere la verità e la luce; Gesù non cerca la felicità, la gioia, la vita, ma afferma di essere colui che dà la pace, la gioia e la vita eterna; allo stesso modo Gesù non cerca una via, ma dice di essere lui quella via che porta gli uomini alla meta.
Mentre gli uomini, anche i migliori, si sforzano di uscire dalla caverna in cui sono imprigionati (è l’immagine platonica della condizione umana), Gesù è colui che entra nella caverna per liberarli.
Gesù non è un uomo che fa l’esperienza del male di vivere che tutti gli uomini fanno, ma è la medicina a questo male. Tutto questo brillava nella sua persona e quelli che l’hanno conosciuto e hanno aperto il cuore hanno compreso il mistero dell’Emmanuele, di Dio con noi.

di Padre Livio Fanzaga - Il Timone
Tratto da: Come una fonte

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« Figli padroni »

Posté par atempodiblog le 16 novembre 2007

Genitori troppo deboli, nelle famiglie dilagano i « figli padroni »

di Rassegna Stampa (del 15/11/2007)

L’allarme per un fenomeno in crescita lanciato dal rapporto sui giovani di Eurispes-Telefono Azzurro: cresce l’aggressività contro tutti. E il bullismo scopre l’on-line. In discoteca la moda dello « shottino » superalcolico. Sessualità: romanticismo addio.

Roma – Nelle case italiane spadroneggiano i figli, anzi, i « figli-padoroni ». Sono bambini ed adolescenti che hanno genitori timorosi che eccedono in permissivismo e ne approfittano. Il fenomeno dilagante si chiama «pedofobia». Bambini e giovani sono così fuori controllo, diventano aggressivi, con gli amici, i professori e gli stessi genitori. È la principale novità nel mondo dell’infanzia e dell’adolescenza del Rapporto annuale. Un mondo dove sia i piccoli sia i giovani si confermano amanti delle tecnologie; oltre a guardare la tv e usare il telefonino (a cui non rinuncerebbero mai) sono anche utenti di Youtube e dell’mp3. Vivono spesso con stress ed ansia non solo gli abusi ma anche le notizie su incidenti d’auto, terremoti, guerre. In generale, sanno di poter contare sulla mamma e il papà. Sulla prepotenza dei figli fra le mura domestiche, l’analisi dei ricercatori è un atto d’accusa verso i genitori: troppo impegnati, rientrano a casa stanchi, eccedono nell’essere accomodanti fino a rasentare l’indifferenza.

Genitori troppo permissivi A fronte di un figlio-padrone c’è un genitore permissivo, incapace di stabilire regole e di farle rispettare, spaventato dalle reazioni aggressive dei figli. Sono genitori impotenti del bambino che non vuole mangiare, dormire, abbandonare un videogame. «È un vero e proprio capovolgimento dei ruoli, contraddistinto dal timore dei genitori di subire attacchi verbali o fisici da parte dei figli. Anzichè rimproverare i figli e correggerne i comportamenti, un crescente numero di adulti preferisce soddisfare le loro richieste con la convinzione che in fondo si tratta di piccoli capricci cui non conviene opporsi». In tema di abusi, il rapporto riferisce i dati del servizio Emergenza Infanzia 114 di Telefono Azzurro (gennaio 2006-agosto 2007): i maltrattamenti sessuali corrispondono al 4,2% delle chiamate, quelli fisici al 5,1%, quelli psicologici al 7,6%. La violenza domestica, con il 9%, è una delle principali cause di richiesta di aiuto. Altri dati del rapporto. Il 4% dei bambini è obeso e il 24% è in soprappeso. Circa un quarto della giornata di un bambino è dedicata al tempo libero. Per i bambini e gli adolescenti gli amici restano un punto di riferimento importante tanto da vedersi anche tutti i giorni nel 63,6% dei casi. I bambini italiani sono frequentatori di feste di compleanno: 11 l’anno contro la media europea di 7.

Il bullismo ora è on-line Il bullismo sposa la rete. È la nuova forma di prevaricazione e di prepotenza fra i più giovani basata sull’uso di Internet o del telefonino. La deriva del cyber-bullying – come la definisce il rapporto sull’ infanzia e l’adolescenza di Eurispes-Telefono Azzurro – prende forma nell’invio di sms ed e-mail oppure nella creazione di nuovi siti o anche nella diffusione di foto o di filmati compromettenti sulla rete. Il tutto, rigorosamente coperto dall’anonimato, per minacciare o calunniare la vittima malcapitata. Proprio la caratteristica impersonale e la forza mediatica di messaggi scritti, di foto o di filmati rende particolarmente gravose le conseguenze di questi episodi per la vittima. A livello mondiale si stimano che circa 200 milioni di bambini e giovani sono abusati dai loro compagni. Secondo alcuni studi, l’85% degli episodi di bullismo si svolge in presenza di osservatori che però intervengono solo nell’11% dei casi.

In disco lo « shottino » superalcolico Si chiama « shottino » (lo « sparo ») ed è la tendenza che sta dilagando fra i giovani. Si tratta di un superalcolico puro, assunto per stordirsi immediatamente. Si beve prima di entrare nelle discoteche ed arrivare così già ubriachi, dopo un giro nei bar, sulla pista da ballo. L’assunzione di questo mix di alcolici, specie nelle lunghe serate in discoteca, è pericoloso perchè dà energia ed euforia. In Italia, si sta inoltre diffondendo la consuetudine (proveniente dalla Spagna), chiamata « botellon »; ossia ritrovarsi in piazza con una bottiglia di vino o di altri alcolici e formare un gruppo che condivide, oltre alle bevute, anche giochi, musica improvvisata e chiacchiere. Gli appuntamenti si diffondono con il passaparola, spesso su Internet.

La sbornia del week end E’ un fenomeno rilevante: la quota di chi si ubriaca fra i giovani 11-24 anni che va in discoteca raggiunge il 9,2% contro l’1,9% di chi non ci va. Il rapporto ricorda che nel nostro paese, il 12% (contro la media Ue del 27%) dei ragazzi 15-24 anni beve alcolici regolarmente. I giovani italiani bevono meno ma cominciano prima: in media a 12,2 anni contro i 14,6 della Ue. Le conseguenze di un eccesso di bere si ritrovano sulla strada. Sono 2.500 i giovani che ogni anno perdono la vita per incidenti stradali causati dall’alcol.

Sesso: addio romantiscismo Più sesso occasionale e meno romanticismo. È così che gli adolescenti vivono la sessualità secondo il rapporto Eurispes-Telefono Azzurro presentato oggi a Roma in cui fra l’altro si sottolinea che le relazioni sessuali si intrecciano e si svolgono, a volte in modo esclusivo, anche via sms in una sorta di immaginario erotico virtuale. Nel 2002, il 17,4% non aveva mai avuto un rapporto occasionale, nel 2007 questa percentuale è scesa al 7,7%. Un ragazzo su tre tuttavia non risponde alle domande. Inoltre, se nel 2002 il 54% dei ragazzi non aveva mai fatto sesso occasionale a rischio, nel 2005 si è passati al 47,7%. Anche se il 40,1% del campione riferisce poi di non aver mai avuto un rapporto occasionale senza protezione ma non va trascurata il 13,4% a cui è capitato qualche volta di non farne uso e il 2,7% che non lo utilizza abitualmente; l’1,8% invece non prende mai precauzioni. Gli adolescenti si mostrano poco sognatori rispetto all’ amore. A fronte del 49,1% che vede la sessualità come l’ espressione dell’amore , il 14,8% lo considera un’esigenza naturale e l’11,3% un’attrazione fra due persone. In generale, il 32,7% dei giovani ha un approccio pragmatico con il sesso. Sono le ragazze, più dei ragazzi, ad essere ancorate alla visione romantica del sesso: il 63,2% contro il 22,6% dei maschi.

Il costo dei figli? Più alto al Nord Una coppia con un figlio spende in media 2.887 euro al mese. Se nasce un altro bambino la spesa aumenta di circa 207 euro arrivando a 3.094 euro. Rispetto a nord e sud del paese esistono differenze sostanziali. Una famiglia con un figlio sostiene una spesa media mensile pari a 3.211,14 euro al nord, a 3.00,56 al centro, a 2.206,02 al sud. La differenza è quindi di oltre mille euro. In generale i settori maggiormente sensibili agli aumenti sono quello alimentare (65,47 euro), l’abbigliamento e le calzature (43,64), i trasporti (30,31), l’istruzione e il tempo libero (circa 20). Decresce invece la spesa per l’abitazione (-22,96). La situazione cambia se il nucleo familiare arriva ad avere tre o più figli. In questo caso, l’aumento complessivo di spesa familiare media mensile, rispetto ad una coppia senza figli, è pari a 311,33 euro ed è fortemente influenzato dalla spesa alimentare.

L’esercito dei lavoratori-minorenni In Italia ci sono 400 mila lavoratori minorenni, stimanoEurispes e Telefono Azzurro, un fenomeno che coinvolge sia italiani sia stranieri e che interessa l’interno territorio nazionale. Il lavoro minorile (nel mondo si stimano 218 milioni piccoli lavoratori) si ritrova in contesti di disagio e di povertà; a volte è considerato un’alternativa alla strada. I minori sono spesso inseriti in contesti di imprenditoria familiare dove non esistono condizioni di povertà. Si registra poi quella che il rapporto definisce una «fascia grigia», ossia bambini coinvolti in attività lavorative, non veri e propri sfruttamenti, che permettono la compresenza di scuola e lavoro. Infine, non mancano situazioni di vera e propria tratta e sfruttamento gestito da realtà criminose italiane e straniere tale da configurarsi come una nuova forma di schiavitù.

Il Giornale – articolo di Redazione – giovedì 15 novembre 2007

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Tifoso ucciso. E la Chiesa?

Posté par atempodiblog le 15 novembre 2007

TIFOSO UCCISO. E LA CHIESA?
fonte: iltimone.org

Da domenica scorsa, dall’uccisione di Gabriele Sandri nella stazione di servizio di Badia al Pino in poi, abbiamo assistito a una serie di eventi che ci hanno lasciati sgomenti. Su tante cose meriterebbe riflettere: su questo Paese – e non solo il calcio – ormai ostaggio di una minoranza violenta e cieca oltre che impunita; su uno Stato che assiste inerme a un atto di guerra (come giudicare altrimenti l’assalto a una caserma) e ad atti che abbiamo visto soltanto in tentativi di golpe; sui costi esorbitanti di distruzioni che ancora una volta saranno ripagati con le tasse di cittadini che, in cambio, non possono neanche più godere del diritto di assistere a una partita di calcio. Su tante altre cose si potrebbe riflettere, ma quello che vorremmo oggi porre all’attenzione – visto che nessuno se ne è accorto – è la profanazione persino della Chiesa, con la complicità degli stessi cattolici che sembrano aver smarrito qualsiasi criterio di giudizio.

E’ difficile infatti sottrarsi alla sensazione di disgusto nel rivedere le immagini dei funerali e dei commenti tv ad esse legate. La chiesa era chiaramente percepita come il prolungamento della curva: zona vietata agli agenti di polizia e cori da stadio all’esterno. Ma anche all’interno della chiesa la situazione non sembrava migliore. La liturgia si è aperta sulle note di una canzone di Gianna Nannini – “Meravigliosa creatura” –, la preferita dal ragazzo ucciso: si capisce la buona intenzione dell’omaggio a un ragazzo scomparso in circostanze tragiche, ma la chiesa non è un semplice luogo di ritrovo in cui far scorrere immagini nostalgiche, è il luogo dove siamo richiamati alla domanda sul senso della nostra vita, è il luogo dell’incontro con la misericordia di Cristo. Anche i canti liturgici servono a questo: non a ripiegarsi su se stessi e sul proprio dolore, ma ad aprirsi all’unico che ci può salvare dal male. Quello che si è visto è né più né meno il riproporsi di antiche usanze pagane, quando i morti venivano sepolti con i loro oggetti perché sarebbero serviti loro nell’altra vita.Non entriamo nel merito dell’omelia, perché siamo certi che – come solito – i giornalisti hanno scelto solo brevi passaggi più facilmente “vendibili” all’opinione pubblica. Eppure quel chiedere giustizia umana – più che legittimo – forse andava spiegato esplicitamente visto che la folla che partecipava, in gran parte associa al termine giustizia l’idea della vendetta, come si è visto all’uscita del feretro. Sì, è vero, il parroco ha anche detto che la giustizia non deve essere vendetta, ma in fondo non sono le stesse cose che aveva già detto il presidente Napolitano? Siamo sicuri che alla voce “giustizia” noi cattolici non abbiamo nulla di originale da suggerire? Che senso ha il sacrificio in croce di Gesù se è soltanto per ripetere ciò che un laicissimo presidente della Repubblica ha già detto? E che enorme fastidio quegli applausi durante l’omelia: cinque volte, ci dicono i cronisti. L’omelia come un comizio, un discorso pubblico qualsiasi.

E se il parroco avesse detto qualcosa di sgradito, sarebbero stati legittimi anche i fischi, visto che la platea – data la situazione è giusto chiamarla così – ha diritto ad esprimere la sua opinione? E qui chiediamo ai nostri vescovi: visto che fedeli e parroci sembrano incapaci di capire la differenza tra la spiegazione della Parola di Dio e una qualsiasi conferenza, non sarà il caso di imporre la proibizione degli applausi durante le cerimonie liturgiche, inclusi battesimi e matrimoni? Almeno forse qualcuno si porrebbe qualche domanda e sarebbe aiutato a comprendere meglio il senso dell’evento che si sta celebrando.

Si potrebbe andare avanti, ma una cosa è importante cogliere: in questo sfacelo evidente della nostra società, in cui anche le massime istituzioni hanno alzato bandiera bianca e la gente è disorientata e avvilita, soltanto la Chiesa può indicare la strada e ricostruire un popolo. E’ deprimente lo spettacolo di cattolici – ordinati o meno – che si piegano alla cultura dominante, alla legge del più forte, magari gratificati da qualche applauso. Dobbiamo prendere coscienza del tesoro che ci è stato donato e dobbiamo fare in modo che fruttifichi, per amore di Gesù e della gente che egli ci ha messo intorno. Soltanto la ripresa di questa coscienza potrà evitare lutti peggiori a questo popolo.

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Dalla parte della polizia (anche oggi)

Posté par atempodiblog le 12 novembre 2007

DALLA PARTE DELLA POLIZIA (ANCHE OGGI)
di Michele Brambilla – lunedì 12 novembre

Con tutta la pietà per il tifoso della Lazio ucciso, e con tutto lo sconcerto per il gravissimo comportamento del poliziotto che ha sparato, non possiamo chiudere gli occhi di fronte alla realtà e non vedere quale sia, nella demenziale giornata di ieri, il fatto più inquietante per il Paese. È la colossale caccia al poliziotto che si è scatenata in tutta Italia; gli assalti ai commissariati; gli incidenti su campi di calcio che nulla avevano a che fare con quanto accaduto; le partite rinviate o sospese per l’infame ricatto dei cosiddetti «ultrà», lupi che per un giorno hanno preteso di vestire i panni dell’agnello.
Ricapitoliamo i fatti. Ieri mattina, a un autogrill nei pressi di Arezzo, la polizia è intervenuta per sedare una rissa tra automobilisti. Intervento improvvido, anzi maldestro, anzi gravemente colpevole, possiamo anche usare il termine «assassino», visto che un agente ha sparato ad altezza d’uomo contro chi se ne stava già andando. C’è scappato il morto. Solo a dramma consumato s’è saputo che i litiganti erano divisi dal tifo sportivo: juventini contro laziali. Ma per quanto ne sapessero i poliziotti, si poteva trattare anche di tutt’altro: non è stata, insomma, un’operazione di ordine pubblico contro il «tifo organizzato».
Ma anche se lo fosse stata: dalla tragedia di Arezzo gli ultrà di tutta Italia hanno preso pretesto per scatenare una sorta di guerra civile degna d’un Paese sull’orlo di un golpe. Chi sono questi soggetti che hanno costretto otto squadre a non giocare, terrorizzato chi era allo stadio con i bambini, e poi incendiato caserme, ferito poliziotti, sfasciato auto e negozi? Sono singolari personaggi usi a scannarsi fra loro per l’«amore» a una maglia, ma anche a trovarsi solidali quando c’è da abbattere tutto ciò che ai loro occhi appare come l’ordine costituito, di cui lo «sbirro» è il facile simbolo. Ma quale «ordine»: è solo il vivere civile, la pacifica convivenza, la gioia di assistere a una partita di calcio. È tutto questo che hanno in odio.
Il poliziotto che ha sparato va processato e, se risulterà colpevole, condannato e licenziato. Ma che cosa ci fa più paura? La possibilità che una singola persona possa sbagliare o anche impazzire, oppure la presenza in Italia di simili bande? Ecco perché diciamo che i delinquenti sono loro, gli ultrà che ieri hanno messo a ferro e fuoco mezza Italia.
E non solo ieri. Sono anni che viviamo sotto l’incubo di questi personaggi che il mondo del calcio non ha mai avuto il coraggio di emarginare veramente. Quanti sono? Centomila? Cinquantamila? O forse solo ventimila? Comunque troppi. È una vergogna che ogni domenica migliaia di poliziotti – «ricompensati» con quattordici euro lordi – debbano essere sottratti a ben più importanti incarichi per evitare i danni di questi dementi.
Gli ultrà? Via, sciò, fuori dai piedi. Che non entrino mai più, negli stadi. E se sarà necessario fermare il calcio, lo si fermi. Per una volta ha ragione Beppe Grillo: ci ha stufato, questo calcio così stressante, aggressivo, con le sue polemiche che rincoglioniscono.
Noi stiamo con la polizia, non c’è neanche bisogno di dirlo.

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Mafalda in conclave con il cardinale Biffi

Posté par atempodiblog le 30 octobre 2007

Mafalda in conclave con il cardinale Biffi
Nell’autobiografia dell’arcivescovo di Bologna molti episodi curiosi. E non mancano le critiche a Giovanni XXIII e Wojtyla
di Andrea Tornelli
Il Giornale n. 253 del 2007-10-26

Mafalda in conclave con il cardinale Biffi dans Articoli di Giornali e News Mafalda-in-conclave-con-il-cardinale-Biffi

E il cardinale in conclave citò il fumetto di Mafalda. Esce in questi giorni in libreria l’autobiografia del cardinale Giacomo Biffi, arcivescovo emerito di Bologna, intitolata Memorie e divagazioni di un italiano cardinale (Cantagalli, pagg. 636, euro 23,90), un volume che si legge tutto d’un fiato e rappresenta un eccezionale spaccato della vita della società italiana e della Chiesa degli ultimi settant’anni. Tanti gli aneddoti e i retroscena raccontati da questo «italiano cardinale» che non ha mai nascosto il suo pensiero dietro fumosi giri di parole o stile «ecclesialese» e ha sempre detto pane al pane e vino al vino senza temere di apparire controcorrente o politicamente scorretto.
Uno degli episodi più curiosi del libro riguarda l’ultimo conclave, dell’aprile 2005, dal quale è uscito Papa (par di capire anche grazie al contributo di Biffi) il cardinale Ratzinger. In uno degli incontri che quotidianamente i porporati tenevano prima di rinchiudersi a votare, il 15 aprile, Biffi intervenne dicendo: «Vorrei esprimere al futuro Papa (che mi sta ascoltando) tutta la mia solidarietà, la mia simpatia, la mia comprensione, e anche un po’ della mia fraterna compassione. Ma vorrei suggerirgli anche di non preoccuparsi troppo di quello che qui ha sentito e non si spaventi troppo. Il Signore Gesù non gli chiederà di risolvere tutti i problemi del mondo. Gli chiederà di volergli bene con un amore straordinario… In una “striscia” e “fumetto” che ci veniva dall’Argentina, quella di Mafalda – continua Biffi – ho trovato diversi anni fa una frase che in questi giorni mi è venuta spesso alla mente: “Ho capito – diceva quella terribile e acuta ragazzina – il mondo è pieno di problemologi, ma scarseggiano i soluzionologi”».
Dirette e per nulla paludate sono anche le critiche che il cardinale rivolge al Concilio Vaticano II e a Giovanni XXIII. Al primo, Biffi rimprovera il silenzio sul comunismo. «Comunismo: il Concilio non ne parla. Se si percorre con attenzione l’accurato indice sistematico, fa impressione imbattersi in questo categorico asserto. Il comunismo è stato senza dubbio il fenomeno storico più imponente, più duraturo, più straripante del secolo ventesimo; e il Concilio, che pure aveva proposto una Costituzione sulla Chiesa e il mondo contemporaneo, non ne parla. Il comunismo – continua il cardinale – a partire dal suo trionfo in Russia nel 1917, in mezzo secolo era già riuscito a provocare molte decine di milioni di morti, vittime del terrore di massa e della repressione più disumana; e il Concilio non ne parla. Il comunismo (ed era la prima volta nella storia delle insipienze umane) aveva praticamente imposto alle popolazioni assoggettate l’ateismo, come una specie di filosofia ufficiale e di paradossale “religione di stato”; e il Concilio, che pur si diffondeva sul caso degli atei, non ne parla. Negli stessi anni in cui si svolgeva l’assise ecumenica, le prigioni comuniste erano ancora luoghi di indicibili sofferenze e di umiliazioni inflitte a numerosi “testimoni della fede” (vescovi, presbiteri, laici convinti credenti in Cristo); e il Concilio non ne parla». «Altro che i supposti silenzi nei confronti delle criminose aberrazioni del nazismo – conclude – che persino alcuni cattolici (anche tra quelli attivi al Concilio) hanno poi rimproverato a Pio XII!».
Di Papa Giovanni, invece, Biffi critica alcune espressioni divenute poi il Leitmotiv del pontificato. Quella contro i «profeti di sventura». E in proposito il cardinale ricorda che in realtà a proclamare «l’imminenza di ore tranquille e rasserenate, nella Bibbia sono piuttosto i falsi profeti».
Quanto alla necessità di guardare più a ciò che unisce invece che a ciò che divide, Biffi lo definisce un principio assennato per quanto concerne i problemi della quotidianità «ma guai se ce ne lasciamo ispirare nella testimonianza evangelica di fronte al mondo» perché «in virtù di questo principio, Cristo potrebbe diventare la prima e più illustre vittima del dialogo con le religioni non cristiane».
Non manca pure un accenno al dissenso che il cardinale ebbe con Giovanni Paolo II in merito al «mea culpa» per gli errori del passato promosso in occasione del Giubileo: «A mio avviso avrebbe scandalizzato i “piccoli”». «Il Papa – continua Biffi – testualmente allora disse: “Sì, questo è vero. Bisognerà pensarci su”. Purtroppo non ci ha pensato abbastanza».
Colpiscono infine nel libro anche le cose non dette: l’autore dedica pochissime righe al cardinale Carlo Maria Martini, del quale fu ausiliare per più anni, limitandosi a dire che con la fine dell’episcopato del suo predecessore, il cardinale Colombo, era finita «un’epoca tra le più luminose e feconde della nostra vicenda ecclesiale (milanese, ndr) per il calore e la certezza della fede».

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Nuove rivelazioni su Padre Pio? No, sono le solite panzane

Posté par atempodiblog le 25 octobre 2007

Nuove rivelazioni su Padre Pio? No, sono le solite panzane dans Antonio Socci antoniosocci

Se Gesù tornasse e fosse visto anche oggi mentre cammina sulle acque, certi giornali l’indomani titolerebbero: « Clamoroso. Gesù di Nazareth non sa nemmeno nuotare ». Come certi dotti che, avendo Gesù guarito un paralitico, lo accusarono di aver compiuto il miracolo di sabato, giorno festivo.
Finisce nel ridicolo il pregiudizio che nega l’evidenza. Un tempo lo usavano contro Gesù, poi contro i santi, come padre Pio.
Ho appena consegnato alla Rizzoli (e sarà in libreria il 14 novembre prossimo) il mio libro su questo grande santo e su alcune cose sconvolgenti che ha compiuto e – avendo consultato decine di volumi, compresi quelli della causa di beatificazione – ho fatto una indigestione di fango. E’ impressionante la varietà di accuse, insinuazioni e calunnie che per mezzo secolo gli sono state rovesciate addosso. Spesso da parte ecclesiastica.
Le « virtù eroiche » che la Chiesa ha infine riconosciuto a padre Pio, dichiarandolo – per volontà di Giovanni Paolo II – « beato » nel 1999 e « santo » nel 2002, si riferiscono anche all’umiltà evangelica con cui ha sopportato in silenzio tanto fango: « beati sarete voi » avvertì Gesù stesso « quando vi insulteranno e vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia » (Mt 5, 11).
D’altra parte alla fine i crocifissi vincono sempre. E’ una storia vecchia.
Una cosa (soprannaturale) è la Chiesa, altro sono gli uomini di Chiesa. Gli uomini di Chiesa bruciarono Giovanna d’Arco e la Chiesa l’ha fatta santa. Gli uomini di Chiesa hanno perseguitato Giuseppe da Copertino, Giuseppe Calasanzio e don Bosco; la Chiesa li ha fatti santi. Così con padre Pio. Padre Gerardo di Flumeri, vicepostulatore della causa, ha scritto: « A causa delle stigmate, padre Pio fu sospettato di essere un imbroglione, un mistificatore, un nevrotico, un ossesso. E questi sospetti provenivano non soltanto da miscredenti, dagli atei, ma addirittura da alcuni suoi confratelli, da qualche superiore e anche dalle autorità ecclesiastiche.
Padre Pio subì condanne dal Sant’Uffizio e restrizioni alla sua libertà di apostolato ».
Alla fine la verità ha trionfato. Ma, com’è noto, le antiche accuse messe in giro riemergono periodicamente dagli archivi. C’è per esempio quella, fra le più note e meschine, secondo cui il padre stesso si sarebbe procurato le stimmate con degli acidi. L’insinuazione nacque dal fatto che padre Pio – era cosa nota e ovvia – dopo la stimmatizzazione del 20 settembre 1918 usava la tintura di iodio e poi l’acido fenico sperando di tamponare il sangue che fluiva in quantità dalle ferite e per pulire le piaghe aperte.
Certi ecclesiastici in malafede ci costruirono sopra la loro accusa. Sono gli stessi che lo accusarono di profumarsi perché dalla sua persona crocifissa emanava a volte uno straordinario aroma di fiori. Anche questa insinuazione era infondata infatti questo fenomeno soprannaturale si verificava soprattutto quando il padre era lontano (faceva sentire il suo profumo ai suoi figli spirituali nei momenti di bisogno) e anche dopo la sua morte e lo attestano centinaia di testimonianze (l’ « osmogenesia » ha riguardato anche altri santi).
Ieri, sul Corriere della sera, Sergio Luzzatto ha pubblicato un biglietto con cui padre Pio chiedeva a una sua figlia spirituale di comprargli in farmacia « 200-300 grammi di acido fenico puro per sterilizzare ». E un’altra sostanza analoga. Oltretutto perché in piena epidemia di spagnola in convento si usavano per sterilizzare le siringhe per fare le iniezioni ai frati ammalati (era proprio il giovane padre Pio a farle, come infermiere d’emergenza).
E dov’è la notizia? La cosa in sé è del tutto risibile. La notizia però non sta nel fatto, quanto nell’insinuazione con cui in quell’estate 1919 fu fatta arrivare in Vaticano. Ed è quel sospetto che ieri ha fatto fare il titolo al « Corriere »: « Padre Pio, ecco il giallo delle stigmate ». Sottotitolo: « Nel 1919 fece acquistare dell’acido fenico, una sostanza adatta per procurarsi piaghe alle mani ».
Primo. In questo biglietto di Padre Pio non c’è davvero nessuna aura di segretezza cospirativa che possa alimentare i sospetti, ma al contrario un tono di serena normalità quotidiana (« Carissima Maria, Gesù ti conforti sempre e ti benedica!
Vengo a chiederti un favore. Ho bisogno di aver da 200 a 300 grammi di acido fenico puro per sterilizzare. Ti prego di spedirmela la domenica e farmela mandare dalle sorelle Fiorentino. Perdona il disturbo »). Mandare un tale biglietto in giro è semmai prova di purità e di una coscienza solare.
Secondo. A quella data (estate 1919) padre Pio portava già le stigmate da un anno e dunque sarebbe comico affermare che nell’estate 1919 egli si procurò dell’acido per prodursi delle ferite nel settembre 1918. Terzo: le ferite che portava non erano « macchie o impronte, ma vere piaghe perforanti le mani e i piedi » e quella del costato « un vero squarcio che dà continuamente sangue » (cose incompatibili con bruciature da acido). Quarto. Il padre portò le stimmate per 50 anni e non poté certo procurarsi – con la segretezza del cospiratore – per mezzo secolo dosi industriali e quotidiane di acido (oltretutto per interi periodi fu segregato e sempre controllatissimo).
Ma soprattutto su quelle stimmate ci sono i referti medici di fior di studiosi, dal professor Romanelli al professor Festa, che a quel tempo le analizzarono, ripetendo le visite a distanza di anni e arrivando sempre alla conclusione che non potevano essere state prodotte né dall’artificio umano, né da uno stato psicopatologico, ma avevano un’origine non naturale. Romanelli argomenta, come scrive Fernando da Riese, che non può essere stato l’acido a provocare le ferite perché esso « non permetterebbe ai tessuti causticati di dare sangue e sangue rutilante », soprattutto di venerdì, come invece ha continuato ad accadere per decenni. Il dottor Festa ha confermato con altri studi. Inoltre l’acido avrebbe dato origine a ferite diverse da quelle dai contorni netti. Questi medici negarono anche l’origine nervosa perché mai nella letteratura scientifica si era verificata e perché se anche fosse « una volta prodotte (tali ferite) dovrebbero seguire il decorso di qualunque altra lesione, cioè guarire o suppurare ».
E invece per mezzo secolo le stimmate di padre Pio sono state un miracolo permanente: né rimarginavano, né suppuravano, dando sempre sangue fresco.
Il professor Bignami, che essendo di idee positiviste neanche ammetteva l’ipotesi soprannaturale, finì per fornire la migliore conferma: fece isolare e sigillare per giorni le piaghe con la certezza che sarebbero infine guarite o migliorate e invece si verificò l’esatto contrario.
Le stimmate, che padre Pio peraltro portò con immenso imbarazzo (sentendosene indegno), sparirono solo quando il santo lo chiese come grazia al Cielo e cioè alla vigilia della sua morte nel 1968: si chiusero improvvisamente (come erano venute) e senza lasciare traccia. Con quelle sofferenze padre Pio « pagò » milioni, letteralmente milioni, di grazie ottenute per chiunque soffrisse (si studino i dossier medici) e milioni di conversioni: comunisti, massoni, protestanti, agnostici (perfino qualche ecclesiastico) che trovavano la fede dopo essere andati a San Giovanni Rotondo magari con ostilità o pregiudizio.
Si convertivano non perché padre Pio facesse discorsi o teorie colte. No.
Solo per la sua santità, cioè per la potenza di Dio. Perché lui si prendeva letteralmente su di sé le loro sofferenze, senza averli mai visti il padre mostrava di conoscere il loro passato, leggeva nella loro anima, otteneva la guarigione di malati inguaribili, si manifestava a distanza col suo profumo e la bilocazione, prediceva eventi che sarebbero accaduti e compiva altre opere sconvolgenti. Il mistero di padre Pio è ancora da capire.

di Antonio Socci – Libero

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Attacco a Padre Pio

Posté par atempodiblog le 23 octobre 2007

Nuovo attacco a Padre Pio: “Stimmate false”
di Andrea Tornielli –
Il Giornale 23/10/2007

Attacco a Padre Pio dans Andrea Tornielli san-padre-pio-da-pietrelcina

C’è un ultimo segreto sulle stimmate di Padre Pio da Pietrelcina, il santo del Gargano venerato da milioni di persone in tutto il mondo. Un segreto legato a quattro grammi di acido fenico, che il giovane frate richiese a una farmacista nel 1919. Si tratta di una vecchissima testimonianza, ben conosciuta e analizzata a fondo da quanti hanno lavorato al processo di beatificazione, rimasta però inedita negli archivi del Sant’Uffizio.
Aiuta a chiarire le accuse lanciate nei primi anni Venti contro Padre Pio da padre Agostino Gemelli, fondatore dell’Università Cattolica, il quale, pur senza esaminare le piaghe che si erano da poco prodotte sulle mani e sui piedi del frate stimmatizzato (perché quest’ultimo si rifiutò di mostrargliele in mancanza di un ordine scritto del Vaticano), concluse che le ferite non erano soprannaturali ma frutto di autolesionismo e isteria. Accuse che sono state ampiamente smentite da diverse successive analisi ed esperimenti.
Ma ora sta per uscire un saggio dello storico Sergio Luzzatto che riaprirà la polemica. Il titolo è: L’altro Cristo. Padre Pio e l’Italia del Novecento. L’autore ha consultato le «carte segrete» degli archivi vaticani.
E da lì ha preso la storia dell’acido fenico e della farmacista.
Il documento è stampato in un fascicolo del Sant’Uffizio del marzo 1921. A riprova dei dubbi sollevati da Gemelli, l’allora Suprema Congregazione dottrinale presenta la deposizione giurata della ventottenne Maria De Vito: «Io sono stata un’ammiratrice di P. Pio e l’ho conosciuto di presenza la prima volta il 31 luglio 1919. Dopo essere ritornata sono rimasta a San Giovanni Rotondo un mese. Durante il mese in cui ho avuto occasione di avvicinarlo più volte al giorno, ne ho riportata sempre ottima impressione.
La vigilia della mia partenza per Foggia, il P. Pio mi chiamò in disparte e con tutta segretezza, imponendo il segreto a me in relazione anche agli stessi frati suoi confratelli, mi consegnò personalmente una boccettina vuota, richiedendomi che gliela facessi pervenire a mezzo dello « chauffeur » che presta servizio nell’autocarro per trasporto passeggeri da Foggia a San Giovanni Rotondo con dentro quattro grammi di acido fenico puro, spiegandomi che l’acido serviva per la disinfezione delle siringhe occorrenti alle iniezioni che egli praticava ai novizi. Insieme mi venivano richiesti altri oggetti come pastiglie Valda, nasalina, etc. che io mandai».
Il documento del Sant’Uffizio continua informando che dopo circa un mese la giovane ricevette una lettera nella quale «le faceva richiesta di quattro grammi di veratrina. Non avendola trovata nella farmacia di sua proprietà, la richiese da un suo cugino con lettera che sta pure agli atti. Questo, impressionatissimo, la rifiutò», perché sospettava che Padre Pio potesse usarla per procurarsi le lesioni alle mani di cui già si cominciava a parlare.
È noto che queste testimonianze arrivarono in Vaticano perché presentate dall’arcivescovo di Manfredonia Pasquale Gagliardi, nemico giurato di Padre Pio e artefice della «prima persecuzione» contro il frate, del quale diceva: «Si procura le stimmate con l’acido nitrico e poi le profuma con l’acqua di colonia».
Ecco dunque su quali (labili) basi faceva queste affermazioni. Che peso dare, allora, a questa testimonianza? Non esiste alcuna prova che quei quattro grammi di acido fenico – sostanza con proprietà antisettiche, usato solitamente come disinfettante – siano stati adoperati dal futuro santo per provocarsi le ferite.
E dalle migliaia di pagine del processo canonico emerge un’altra verità. Le stimmate di Padre Pio furono esaminate attentamente dal professor Festa, che il 28 ottobre 1919 scrisse una dettagliatissima relazione accertando che esse «non sono il prodotto di un traumatismo di origine esterna, e che neppure sono dovute all’applicazione di sostanze chimiche potentemente irritanti». Anche il dottor Bignami fece un esperimento sulle mani di Padre Pio, sigillando le sue piaghe per due settimane, con tanto di firme di controllo.
Alla riapertura delle bende, sanguinavano come il primo giorno e non si erano né rimarginate né infettate.
La prova dell’inconsistenza dell’accusa sta proprio in questo: se il frate si fosse procurato con l’acido le piaghe, queste si sarebbero chiuse oppure sarebbero andate in suppurazione. Per cinquant’anni, invece, sono rimaste inspiegabilmente aperte e sanguinanti.

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Fiction su San Francesco e Santa Chiara

Posté par atempodiblog le 10 octobre 2007

Per la Rai Saladino è buono e la Chiesa ha la faccia feroce

Di Mario Palmaro

Il Giornale
10/10/2007

Dopo aver visto in tv Chiara e Francesco, ne siamo più che mai convinti: proponiamo una moratoria di almeno dieci anni per le fiction dedicate ai santi. Anche Francesco d’Assisi è caduto vittima di questa alchimia mediatica, che trasforma il sale del Vangelo in zucchero ecumenico, il fuoco della vocazione in brodino caldo filantropico. Lo sceneggiato della Lux Vide era cominciato benino con un’onesta rievocazione della vita del Poverello di Assisi. Fintantoché agli sceneggiatori non è saltato in mente di dedicare un terzo del tempo a loro disposizione alle Crociate. E qui è accaduto il fattaccio. Francesco va in Egitto per parlare con il Sultano, e chi trova a dar scandalo? Un cardinale guerrafondaio, armato fino ai denti, che pare appena uscito dalla marcia su Roma. Tutto vestito di nero, mascella volitiva, sguardo magnetico da «querciolo di Romagna», al prelato manca solo il balcone di Palazzo Venezia. Naturalmente spiega a Francesco che a lui la pace non interessa nulla, vuole vincere punto e basta. Come dire, è sempre «l’ora delle decisioni irrevocabili». E Francesco, invece di fare il bravo balilla, obietta che i Saraceni «credono nel Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe».
Ora, nessun uomo del Medioevo avrebbe mai potuto proferire un concetto del genere, perché un cristiano del Duecento non avrebbe mai detto che «i musulmani credono nel nostro stesso Dio»: e, a rigor di logica, non dovrebbe dirlo neanche oggi. In ogni caso, quando il vero Francesco andò dal Sultano, nel 1219, gli disse parole ben diverse: «I cristiani giustamente attaccano voi e la terra che avete occupato, perché bestemmiate il nome di Cristo e allontanate dal suo culto quelli che potete».
Nella fiction della Rai, invece, quando il Sultano rimprovera il Poverello perché i cristiani hanno mosso guerra, lui non sa far di meglio che chiedergli scusa. Di più: si mette a trattare una spartizione della Terra Santa, neanche fosse il precursore della Comunità di Sant’Egidio. Risultato: lo spettatore meno avvertito ne ricava che cristiani e musulmani avrebbero potuto vivere tranquillamente in pace, nel pieno rispetto della convenzione di Ginevra, se non fosse stato per quei cattivoni dei crociati.
In queste fiction dei giorni nostri, i protagonisti sono letteralmente sradicati dalla mentalità del loro tempo e ragionano come un uomo del Terzo millennio, imbevuto di politically correct. Nella fiction della Lux Vide, accanto ai «buoni» Francesco e Chiara si muovono schiere di vescovi e cardinali cattivissimi. In questo modo, la santità diventa davvero un miracolo inspiegabile, perché non si riesce a capire come una specie di associazione a delinquere quale appare la Chiesa del passato riesca poi a produrre figure di eccelsa moralità come un Francesco o una Chiara d’Assisi.
È la fiction, bellezza. Questi lavori, anche quando sono prodotti da cattolici come i fratelli Bernabei della Lux, non hanno nessuna intenzione di descrivere chi veramente fu un certo santo del passato. Preferiscono confezionare un fantoccio imbottito dei buoni sentimenti, della mentalità e dei luoghi comuni del tempo presente. Ma così facendo, non si fa un buon servizio ai credenti. Né tanto meno ai laici che vorrebbero sinceramente capire più da vicino che cos’è un santo: anche loro, l’altra sera, avrebbero probabilmente voluto incontrare Chiara d’Assisi. Ma quelli veri erano altrove.

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Giuseppe Moscati in tv così lontano dalla realtà

Posté par atempodiblog le 8 octobre 2007

Giuseppe Moscati in tv così lontano dalla realtà dans Articoli di Giornali e News sangiuseppemoscati

D’accordo, le vite dei santi fanno audience, tant’è che proprio mentre trasmettevano lo sceneggiato in due puntate su San Giuseppe Moscati compariva l’annuncio di Chiara e Francesco, ennesima fiction sul Poverello d’Assisi (una all’anno in media). Ma se le biografie agiografiche «tirano» e se, com’è ovvio, sono rivolte a un pubblico familiare (e soprattutto cattolico) da prima serata, che c’entra una scena di sesso, insistito e senza veli, nella prima puntata del Giuseppe Moscati? I santi sono il contrario del politicamente corretto e di certo non amano che si parli di loro nascondendosi dietro il dito della didascalia «liberamente ispirato a». Questa «avvertenza per lo spettatore» dovrebbe giustificare ogni volo pindarico, ma di fatto finisce col piegare il racconto alle regole più mediocri e banali del narrare per immagini.

Così, si prende un santo, persona per definizione eccezionale, e lo si trasforma in un generico buonista da telefilm d’ambientazione sanitaria. Ciò accade perché si diffida della capacità di una vita di santo di essere di per sé spettacolare. Il vero Moscati (che, per inciso, portava gli occhiali e non assomigliava a Beppe Fiorello, bensì all’attore che fa la parte dell’amico-nemico) era uomo da comunione quotidiana, di cui nello sceneggiato non c’è traccia. In tutta la prima puntata lo si vede una sola volta in preghiera e, paradossalmente, davanti al «Cristo velato» della napoletana cappella Sansevero, una scultura massonica ed esoterica. Forse si pensa di vendere lo sceneggiato all’estero, dove nessuno conosce quella statua? Ma lo stesso può dirsi della figura di S. Giuseppe Moscati, e specialmente all’estero.

Il vero Moscati, che fu famoso per l’infallibilità delle sue diagnosi, abilità definita «miracolosa» anche dai suoi colleghi razionalisti e atei, usava consultarsi con Dio prima di pronunciarne una. Al contrario, darebbe alla fiction una profondità che potrebbe aspirare al capolavoro. Lo stesso ragionamento vale per l’espediente escogitato dai soggettisti per spiegare la scelta celibataria del Moscati: una banale delusione d’amore. Invece, nella storia vera, l’ormai illustre cattedratico e scienziato (fu tra gli anticipatori della biochimica) venne chiamato d’urgenza al capezzale di una donna di malaffare. Era uno scherzo di pessimo gusto che sapeva di poter contare sulla carità eroica del santo, il quale non badava al suo rango e nemmeno alla parcella quando c’era da assistere un malato. Quel giorno Giuseppe Moscati si infilò nella chiesa delle Sacramentine e, davanti all’immagine della Madonna del Buon Consiglio, fece voto perpetuo di castità. Ovviamente, si è pensato che la castità non sia «telegenica». E si è persa un’altra occasione per uscire dall’usuale piattezza delle trame. E dire che il cattolicissimo Moscati era un pugno nell’occhio per la classe medica del suo tempo, trasudante positivismo agnostico e scientista: conflitto che da solo bastava a riempire un film. Domanda: perché non affidano a un vero romanziere cattolico i soggetti filmici sui santi?

di Rino Cammilleri
[Da «il Giornale», 30 settembre 2007]

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Le idee spietate di un grande pensatore

Posté par atempodiblog le 11 septembre 2007

La decostruzione dell’uomo secondo René Girard

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Dove si è dissolta la religione, lì è iniziato un processo di decomposizione.Oggi ci sono tre aree in cui l’uomo è in pericolo: nucleare, terrorismo e manipolazione genetica.
Potete leggere l’articolo cliccando testo di cui sopra.

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La morte non è uno show

Posté par atempodiblog le 10 septembre 2007

La morte non è uno show
Se lo ricordi pure la Chiesa
di Antonio Socci – Libero

La morte non è uno show dans Antonio Socci antoniosocci

Da giorni i quotidiani e le tv sono pieni di articoli e servizi sulla morte di Luciano Pavarotti e su quella di Gigi Sabani. Tutti a discettare di tutto, ma nessuno parla del « fatto »: la morte, questa ‘usanza’ come diceva ironicamente Borges « che tutti, prima o poi, dobbiamo rispettare ». Se ne evita pure il pensiero. Perché guardare in faccia la morte impone di interrogarsi sul senso della vita e sul destino, cioè su Dio.
Mentre tutto il nostro mondo è stato costruito sulla dimenticanza e sulla distrazione. È stato congegnato precisamente per censurare e dimenticare quella domanda e Dio; cioè, alla fine, per dimenticare noi stessi: «Tutto cospira a tacere di noi/ un po’ come si tace un’onta/ forse un po’ come si tace una speranza ineffabile» (Rilke). Viviamo tutti come se non dovessimo mai morire, come se la spiacevole incombenza riguardasse solo gli altri. Come se non sapessimo che da un momento all’altro noi, proprio noi, potremmo essere chiamati a render conto della nostra esistenza davanti al trono dell’Altissimo che ce l’ha donata, che è l’unico Padrone e Signore della vita. Lo storico francese Pierre Chaunu tempo fa scrisse: «Ci è capitata una curiosa avventura: avevamo dimenticato che si deve morire. È ciò che gli storici concluderanno dopo aver esaminato l’insieme delle fonti scritte della nostra epoca. Un’indagine sui circa centomila libri di saggistica usciti negli ultimi vent’anni mostrerà che solo duecento (una percentuale, dunque, dello 0,2 per cento) affrontavano il problema della morte. Libri di medicina compresi».

Un nemico da evitare
Tuttavia la morte, che se ne frega dei libri di saggistica, testardamente continua a farci visita con una certa frequenza. Quando irrompe fastidiosamente nelle nostre giornate parrebbe inevitabile parlarne, ma abbiamo studiato una serie di procedure e riti per evitare di guardarla in faccia. In genere si dribbla l’inquietante domanda, straparlando del deceduto. Se si tratta di un personaggio famoso è tutto sopra le righe, tracima in chiacchiericcio, in retorica o in pettegolezzo. Nessuno prega. E nessuno accenna una riflessione. Eppure è chiaro che cosa fragile ed effimera sia la vita: sic transit gloria mundi … Anche per Pavarotti è stato così. Celebrazioni, fiumi di inchiostro, ore di televisione, dichiarazioni, discussioni, canonizzazioni. Ci si è messo pure il vescovo di Modena, che ha trasformato l’antica Cattedrale in camera ardente, come si fa per i papi o per i santi. E Romano Prodi è andato a fare l’orazione funebre. Tutti parlano. Nessuno sui giornali accenna una riflessione sul mistero della vita. Nessuno fa silenzio. Nessuno prega. Padre Remo Sartori, che ha dato l’estrema unzione a Pavarotti, ha raccontato ieri che negli ultimi mesi il maestro lo cercò: «Mi contattò a Pasqua. Sapeva di essere malato, e sentiva la necessità di un conforto spirituale». Così si è avvicinato di più a Dio: «In lui c’era una fede di fondo sulla quale non nutriva dubbi». Quando sorella morte si fa annunciare dalla malattia e dalla sofferenza all’inizio ci sentiamo ingiustamente bersagliati dalla sorte, ma alla fine per tanti si rivela una grazia, un tempo di misericordia. Don Giussani diceva: «Dio chiede una più particolare partecipazione alla Croce per la redenzione del male del mondo. Dio desidera la purificazione dei nostri peccati. E il digiuno e la disciplina che non pratichiamo volontariamente, il Signore misericordioso ce li fa vivere attraverso questi dolori e queste privazioni. Ma lo scopo più grande di tali avvenimenti è di richiamarci, soprattutto nei momenti di lotta vertiginosa, che Lui solo è il Vero, Lui solo è la speranza». A me è capitato, solo pochi mesi fa, di vivere la malattia e la morte di mio padre pregando proprio con la voce di Pavarotti (che è stato un dono di Dio per tutti). Mio padre era in ospedale, ormai in rianimazione. Stava morendo. E per qualche giorno, andando a trovarlo, ascoltavo in auto una struggente canzone di Eric Clapton che questo artista cantò proprio con Pavarotti al « Pavarotti and friends for war child ». Era una preghiera alla Madonna. Accenno (traducendole) le parole di « Holy Mother », ma l’emozione dei suoni di Clapton e della voce di Pavarotti è indescrivibile. Le prime strofe cantate dalla voce malinconica di Clapton dicevano: «Madre Santa, dove sei?/ Stanotte sono a pezzi./ Ho visto le stelle cadere dal cielo./ Madre Santa, non posso trattenermi dal piangere/ Oh, stavolta ho bisogno del tuo aiuto./ Fai che finisca questa notte di solitudine./ Dimmi per favore per quale via andare/ per ritrovare me stesso di nuovo./ Madre Santa, ascolta la mia preghiera./ In qualche modo so che ci sei sempre./ Manda un po’ di pace al mio cuore/ toglimi questa angoscia». Poi Clapton ripeteva «I can’t wait», non posso più aspettare a lungo, non farti attendere ancora. Qui entrava la voce travolgente di Pavarotti: «Madre Santa ascolta il mio pianto/ io ho imprecato il tuo nome migliaia di volte/ ho sentito la rabbia attraversarmi l’anima/ ma ora ho bisogno della tua mano da poter afferrare./ Oh sento che la fine sta arrivando/ le mie gambe non correranno più a lungo./ Tu sai che in questa notte io preferirei essere tra le tue braccia». E il finale, dolcissimo: «Quando le mie mani non suoneranno più/ la mia voce ci sarà ancora, ma io svanirò./ Madre Santa, allora io sarò/ disteso, in salvo tra le tue braccia». Alla fine questo solo conta: di poter essere perdonati e abbracciati. Per questo la cosa più importante, secondo me, è morire in pace con Dio. Il resto è nulla. Siamo tutti ombre che passano in pochi istanti sul teatro del mondo. Come l’erba dei campi è la nostra vita: in un giorno dissecca. L’unica chiave per entrare nella vita vera, quella che dura per sempre, è affidarsi alla misericordia di Dio. E la Chiesa è la grande fontana della Misericordia. Tutti lo avvertiamo, per questo tanti (anche personalità note come laiche) alla fine si riavvicinano ai sacramenti.

Misericordia per tutti
La cosa più confortante per tutti noi è ascoltare quello che un giorno Gesù disse alla mistica polacca santa Faustina Kowalska (recentemente canonizzata). La citazione è lunga (mi scuserete), ma vale la pena: «Desidero che i miei Sacerdoti annunzino questa mia grande misericordia per le anime peccatrici. Il peccatore non tema di avvicinarsi a Me. Anche se l’anima fosse come un cadavere in piena putrefazione, se umanamente non ci fosse più rimedio, non è così davanti a Dio. Le fiamme della misericordia mi consumano, desidero effonderla sulle anime degli uomini. Io sono tutto amore e misericordia. Un’anima che ha fiducia in Me è felice, perché Io stesso mi prendo cura di lei. Nessun peccatore, fosse pure un abisso di abiezione, mai esaurirà la mia misericordia, poiché più vi si attinge più aumenta. Figlia mia, non cessare di annunziare la mia misericordia, facendo questo darai refrigerio al mio Cuore consumato da fiamme di compassione per i peccatori. Quanto dolorosamente mi ferisce la mancanza di fiducia nella mia bontà! Per punire ho tutta l’eternità, adesso invece prolungo il tempo della misericordia per loro. Anche se i suoi peccati fossero neri come la notte, rivolgendosi alla mia misericordia, il peccatore mi glorifica e onora la mia Passione. Nell’ora della sua morte Io lo difenderò come la stessa mia gloria. Quando un’anima esalta la mia bontà, Satana trema davanti ad essa e fugge fin nel profondo dell’inferno. Il mio cuore soffre perché anche le anime consacrate ignorano la mia Misericordia e mi trattano con diffidenza. Quanto mi feriscono! Se non credete alle Mie parole, credete almeno alle Mie piaghe!».

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‘Ricordatemi da cantante d’opera’

Posté par atempodiblog le 6 septembre 2007

'Ricordatemi da cantante d'opera' dans Articoli di Giornali e News Pavarotti

Pavarotti è stato una delle più belle voci che mai abbiano illustrato il grande canto del nostro paese.
Era un appassionato di calcio – tifoso della Juventus – ed era stato, in gioventù, portiere (smise presto per problemi di agilità anche se ‘occupava’ bene la porta).
Luciano Pavarotti était doté d’un timbre de voix unique, immédiatement reconnaissable.

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Napoli allo sbando, dietro l’emergenza c’è il vuoto di valori

Posté par atempodiblog le 27 août 2007

Napoli allo sbando, dietro l'emergenza c'è il vuoto di valori dans Articoli di Giornali e News Cartolina-Napoli

C’era un pino marittimo in primo piano sulle vecchie cartoline di Napoli, poi dietro si vedeva la marina, il Castel dell’Ovo e le case della città sdraiate al sole. La gente scherzava, prendeva la vita, non facile anche allora, con filosofia insegnando che anche con poco si può credere nella felicità. Il pino è scomparso dalle foto, ha resistito finché ha potuto e poi è caduto. La città del sole, del canto, dell’amore è soffocata dalla nebbia fredda della delinquenza e della morte violenta che ogni giorno ci viene raccontata dai media. Arginare con la forza questa situazione sarà un rimedio temporaneo che non darà frutto per il futuro se nello stesso tempo non si troverà il modo di ripensare al nostro sistema di vivere che scommette solo sul presente, sul possedere più cose possibili, sul consumare nell’immediato costi quel che costi. Come siamo arrivati a questo noi italiani che non siamo un popolo di carattere violento, più abituati a sopportare che a prevaricare? Le risposte potrebbero essere molte, ma certamente quasi tutto quello che aveva una importanza nella vita civile di cinquant’anni fa è stato sostituito poco per volta, senza rivoluzioni di idee o di sangue, quasi senza che ce ne accorgessimo. Ci siamo lasciati prendere dall’affanno del presente e abbiamo dimenticato di disegnare un futuro per il quale metter in conto anche qualche sacrificio e dare ancora valore all’onestà, alla parola data, all’amore per sempre. Avere oggi e non pensare al domani sembra la nuova legge aperta ad ogni sopruso, ad ogni fantasia a delinquere, a non dare più nessun valore alla vita propria e quella degli altri finché uccidere diventa la conseguenza fatale di un piccolo litigio, di un furto di pochi euro. La droga ha solo una parte in tutto questo poiché anche essa è il risultato di ciò che oggi chiamiamo disagio, conseguenza diretta di una povertà di valori che sono legge della vita. Un grande esame di coscienza spetta a tutti noi, ma anche alle istituzioni, al mondo politico e alla Chiesa. Ci siamo dimenticati dei giovani, di ciò che essi hanno di più prezioso, la loro anima. Nessuno si è più occupato a dar loro quella forza di carattere necessaria a sostegno della vita di ogni giorno. I partiti politici hanno usato i giovani per i loro scopi elettorali senza insegnare loro che il metodo democratico si regge sulla dirittura morale e sul servizio del prossimo. La Chiesa ha dimenticato gli oratori, modeste ma grandi scuole di formazione e di sostegno. I giovani si sono buttati con generosità nel volontariato, quasi un grido di aiuto rivolto a tutti noi al quale abbiamo risposto offrendo regali di carta, fragili, senza il sapore della conquista. Abbiamo tolto loro la ricchezza del sacrificio, della sofferenza che richiede ogni battaglia seria e costruttiva. Allora cercano la violenza per sentirsi forti, diversi e affrontano la prigione senza lacrime né pentimento, perché questo hanno trovato sulla loro strada. È ora di ascoltare questo grido.

di Maria Romana De Gasperi – Avvenire

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