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Il devozionismo darwinista

Posté par atempodiblog le 19 octobre 2008

Il devozionismo darwinista e l’epistolario laico tra il materialista Lima-de-Faria e il card. Schönborn.

LA TRASFORMAZIONE DI UN’IPOTESI SCIENTIFICA IN CATECHISMO ATEO, IL RAZZISMO EVOLUTIVO DELLA TEOSOFIA, I TENTATIVI DI IMPARENTARLA CON MARX, IL FONDAMENTALISMO DI MICROMEGA

di Giuseppe Sermonti – Il Foglio

Dopo la fioritura di metà Novecento, con la scoperta degli antibiotici, della struttura del Dna, della sintesi proteica e delle staminali, la biologia sta diventando una vecchia signora, con remoti sogni extraterrestri, incombenti minacce terrene, povera di fascino e di attrattive, non aliena alle serate di beneficenza.

In questo contesto, il darwinismo assume il ruolo di verità devozionale, di catechismo ateo. Viene allora da chiedersi che cosa fu nei contesti culturali e politici in cui sorse e si sviluppò nel suo secolo e mezzo di vita. Segnalo al riguardo un numero del trimestrale Atrium, dedicato all’evoluzione, curato e presentato da Stefano Serafini. In qualche modo esso ribatte a un recente numero di MicroMega, dedicato a Darwin, Dio e altri animali.

Nella belle époque di fine Ottocento, sazia di positivismo, luce della ragione e darwinismo sociale, si assisteva a una rinascita di esoterismo, occultismo, spiritismo e buddismo teosofico. Presso i cercatori di una rifondazione religiosa su base gnostica, la prospettiva evolutiva era stata accettata di buon grado. « Teosofia e occultismo – scrive Massimo Marra – si fanno propugnatori di un evoluzionismo spirituale che guarda alle antiche tradizioni sapienziali. » E’ il tempo dell’antroposofia di Madame Blavatsky. In essa, la fede nel progresso si inquadra in una visione ciclica della storia e si oppone alla salvazione unica ad opera del Cristo. I cicli si evolvono come spirali ascendenti, che non conducono a specie più elevate ma a sette successive razze umane (root-races). Le prime due erano immateriali e traslucide, la terza è la Lemuriana, da cui nascono i negri, la quarta è l’Atlantide, da cui derivano aztechi, cinesi, fenici e semiti, la quinta è quella Ariana che genera egizi, indù, greci, romani e teutoni. La sesta e la settima razza devono ancora venire, ma cominciano a manifestarsi nella razza americana futura. La selezione darwiniana è ben accetta, perché provvede a liberare il campo dalle razze inferiori, condannate comunque alla scomparsa. La teosofia blavatskiana è alle fondamenta del razzismo e c’è certamente un nesso tra la sua mistica del capo e quella del Führer. La rinascita esoterica fin de siècle appare figlia diretta delle suggestioni culturali evoluzioniste e delle tentazioni razziste della antropologia positivista. Nei tempi in cui la teosofia evoluzionista si fa teoria sociale influenzando con il suo spiritualismo laico ambiti socialisti e sindacali, si stabilisce un rapporto, ancorché indiretto, tra Charles Darwin (1809-1882) e Karl Marx (1818- 1883). La famosa lettera che Marx avrebbe scritto a Darwin con l’offerta di dedicargli « Il Capitale » è in realtà una letterina a Darwin del genero inglese di Marx, Edward Bibbins Aveling, che voleva dedicare allo scienziato un suo opuscolo socialista, offerta che Darwin declinò. « E’ stato Karl Marx un ‘darwinista’? » si chiede Costanzo Preve, che di Marx è autorevole studioso. In realtà, il terreno su cui i due si sarebbero potuti incontrare, l’estensione del mondo naturale a quello sociale, trovava Darwin riluttante. Mentre un partito di « filosofi marxiani » adotterà un campo unificato naturale- sociale di leggi dialettiche, altri (come Lukàcs e lo stesso Preve) ne negano l’esistenza. Darwin non ha inteso parlare del futuro della specie umana, Marx si occupa invece proprio di questa previsione e « non aveva in testa alcuno scontro adattativo tra Borghesia e Proletariato ». Qualificare il Capitalismo come ‘fissista’ e la Classe Operaia come ‘riformatrice’ è, per Preve, un vero e proprio vaudeville filosofico da belle époque. L’equivoco fu generato dal discorso di Engels sulla tomba di Marx, che propose Darwin, morto l’anno prima, come scopritore

delle leggi generali dell’evoluzione della natura in rapporto a un Marx scopritore di quelle sociali. Questo codice darwininano fu poi sviluppato dallo steso Engels e da Kautsky, il futuro « papa rosso » (morto nel 1938). Nell’intento di dare un contenuto più scientifico al pensiero progressista, alcuni socialisti, tra cui Aveling, cercarono di fondare una sinistra scientifica, idea ripresa in questi anni dall’animalista australiano Peter Singer, nella sua operetta « Una Sinistra Darwiniana » (Ed. di Comunità, 2000). Singer auspica che la sinistra sostituisca Marx con Darwin, accetti l’esistenza di un sottofondo egoistico e competitivo negli individui e denunci l’equivalenza tra « naturale » e « giusto ». Sbocco di queste posizioneè la proposta di migliorare la società dei lavoratori con la selezione e l’eugenetica (Pearson, fine Ottocento; Muller, prima metà del Novecento). L’autoassemblaggio Singer rimprovera a Engels di aver travisato il pensiero di Darwin attribuendogli l’idea (lamarckiana) della trasmissione dei caratteri acquisiti. Giovanni Monastra, in un saggio nel volume che stiamo illustrando, ribatte che è Singer a non conoscere abbastanza Darwin, che fu invece ardente sostenitore della trasmissione dei caratteri acquisiti. Piuttosto Darwin si distaccava da Lamarck rifiutando l’esistenza di una « spinta interna » negli organismi. A due secoli da Lamarck, proprio quest’idea sta riguadagnando credito, in nuove forme, presso alcuni biologi strutturalisti (D’Arcy Thompson, Thom, Limade-Faria e il Gruppo di Osaka). Per questo aspetto la biologia moderna si ricollega più a Marx che al neo-darwinismo. In Marx, conclude Preve, non c’è un evoluzionismo selettivo à la Darwin, c’è piuttosto un evoluzionismo « per ragioni endogene ». E’ quello che oggi alcuni naturalisti propugnano col termine di « auto-evoluzione ». L’argomento è trattato, nel volume di Atrium, dal suo più autorevole rappresentante vivente, il portoghese Antonio Lima-de-Faria, autore di « Evoluzione senza selezione, Autoevoluzione di Forma e Funzione » (Ediz. italiana, Nova Scripta, Genova 2003). Lavoratore indomito, con i suoi ottantasei anni, egli considera la selezione naturale una realtà inconsistente, alla stregua dell’etere della vecchia fisica o del flogisto della chimica settecentesca, ed è convinto che si potrà trattare l’evoluzione seguendo semplicemente le leggi della fisica e della chimica moderne. Nonostante sia il decano dei citologi, non esita ad affermare che l’evoluzione ha preceduto la vita e « geni e cromosomi sono venuti dopo » (Io parlo di tre evoluzioni). La forza guida, che opera al livello cosmologico, minerale, vegetale e animale è l’autoassemblaggio. La stessa legge morfogenetica che ha prodotto la spirale della galassia M51, conforma corna di montone, colonie a spirale di invertebrati e il guscio del cefalopode Nautilus (figg. a p. 95). Rifiutando il lato « competitivo » dell’evoluzione, Lima-de-Faria ne sviluppa l’altro lato, quello dei principi generali della funzione e della forma. In una lettera al cardinale Christoph Schönborn, autore di un articolo di fondo sul New York Times del 7 luglio 2005 (« Finding Design in Nature »), il fiero materialista si complimenta con il prelato austriaco per aver definito il neodarwinismo un dogma e aver affermata la realtà di fatto del Disegno in natura. L’evoluzione è accertata, conviene, ma « una teoria dell’evoluzione non è mai esistita. » Risponde gentilmente il cardinale: mia madre ha un anno più di Lei ed è ancora attiva. Quanto Lei dice sull’autoassemblaggio appare assai coerente e trovo interessante quello che Lei afferma sul legame tra il darwinismo e l’attuale economia. In fede, Christoph Card. Schönborn. Nessuno dei due interlocutori introduce Dio nei suoi argomenti, in contrasto col fondamentalismo di MicroMega, che ha offerto l’apertura del fascicolo sull’evoluzione a Richard Dawkins che intitola il suo articolo ironicamente: « Perché quasi certamente Dio non esiste. »

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Le denunce

Posté par atempodiblog le 19 octobre 2008

da Avvenire.it

STUDENTI NEL MIRINO
«Agli esami siamo obbligati a dire che Dio non esiste»
 

«All’inizio dell’anno i professori a scuola chiedono agli alunni: alzi la mano chi è cattolico. Lo fanno per discriminarli e punirli». La confidenza, raccolta da un vescovo vietnamita, rende bene lo stato di sudditanza che i cattolici devono subire in uno dei pochi Stati che ancora si definiscono orgogliosamente «socialisti». 
Da alcuni mesi, inoltre, i cattolici – conosciuti e ‘schedati’ dalle autorità: il controllo è asfissiante, ‘spie’ e delatori sono presenti in tutte le parrocchie, i seminari, perfino nei vescovadi – hanno difficoltà ad ottenere i passaporti per uscire dal Paese. Ha Vi, studentessa cattolica di lingue all’università di Dalat, secondo centro universitario del Vietnam, confida: «Agli esami siamo obbligati a dire che l’uomo deriva dalla scimmia e che Dio non esiste, se vogliamo superare le prove. Lo scorso anno a me, cattolica, un anno hanno fatto fare apposta un esame proprio il giorno di Natale».
(L. Faz.) 



IL «CASO» DEI MONTAGNARD
Dimenticati e sfruttati. «Se non ci fossero i missionari…»
 
 

Sono 55 i gruppi etnici presenti in Vietnam; alla maggioranza Kinh, cioè vietnamita, appartengono circa l’89% degli 84 milioni di abitanti del Paese. Tra i gruppi etnici (quali i K’ho, i Churu, i Ma, i Hmong) i missionari cattolici (numerose anche le confessioni protestanti) sono molto presenti con attività di evangelizzazione, aiuto sociale e promozione umana. «Il governo si disinteressa di noi», dice una giovane montagnard K’ho nei pressi di Dalat. 
«Se non ci fossero i missionari, la gente vivrebbe ancora povera, lavorando i campi e senza istruzione. Invece i padri ci hanno insegnato nuovi lavori, istruiscono i bambini che non hanno i soldi per pagare la scuola pubblica, ci insegnano la fede con il catechismo». La povertà dei montagnard è doppia: si tratta di gente in situazione di sottosviluppo e sfruttata dalla maggioranza Kinh con la colpevole compiacenza del governo. I vietnamiti, ad esempio, si impossessano dei loro terreni oppure li pagano cifre irrisorie.
(L. Faz.) 



I FRATI ARRESTATI
Necessario un permesso per distribuire le medicine ai poveri


Alcuni giorni fa due frati francescani sono andati in un villaggio della diocesi di Kon Toum, negli Altopiani centrali, per consegnare dei medicinali ad un gruppo di poveri della zona. I seguaci di San Francesco hanno fatto del servizio ai montagnard uno dei punti centrali del loro apostolato. Essendo privi del permesso delle autorità, sono stati fermati e tenuti in arresto per un giorno intero dalla polizia del posto. «Ma come si fa a chiedere ogni volta un permesso per una cosa simile?» si chiede un religioso. Un vescovo che lavora con i montagnard ci conferma: «Di certo le autorità non motivano degli arresti con il fatto che le persone incarcerate sono cattoliche, ma ancora oggi ci sono montagnard che vengono imprigionati per la loro fede cristiana, magari con la scusa di aver
disobbedito o infranto le leggi». (L. Fazz.)

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L’Università dei somari

Posté par atempodiblog le 19 octobre 2008

L'Università dei somari dans Articoli di Giornali e News diddlxs2

Agli esami per magistrati abbiamo scoperto schiere di laureati che riempiono i loro temi di «ogniuno», «comuncue», «l’addove», «un’altro», «qual’è» e «risquotere». Un altro laureato tristemente celebre, Raffaele Sollecito, processato a Perugia per la morte di Meredith, nel suo memoriale scrive: «Il bagno è sporco ho chiesto che venghino a pulirlo». Ricevo il curriculum di una laureata in Scienza della Comunicazione alla Sapienza che si candida a lavorare come giornalista che comincia così: «Denoto un grande interesse per il mondo del giornalismo…». Denoto? Io denoto, tu denoti, egli denota interesse? E vuol fare la giornalista? Sempre meglio della sua collega, pure lei laureata, che ha scritto: «L’attore all’ungandosi verso la finestra…».
E dunque: laureati? O l’aureati? In questi giorni gli studenti di alcuni atenei hanno provato a inscenare proteste. Fallite. In corteo quattro gatti e un megafono, tutti gli altri in classe a studiare. Ma studiare cosa? Quanto? Come? E con che profitto? Cercheranno, nelle prossime settimane, di far montare la protesta anche qui, in facoltà. La sinistra ha voglia di Sessantotto, e il Sessantotto non partì proprio dagli atenei? Il paradosso è che quarant’anni fa la rivolta, che si rivelò sciagurata, cominciava da un principio sano: quello di cambiare un sistema universitario che non funzionava. Ora, invece, chi scende in piazza, quel sistema che non funziona, lo vuole conservare. Ma sì, vuole conservare quest’Università, cioè l’Università dei concorsi bloccati, della parentopoli, degli scandali dei baroni. L’Università delle lauree vendute e dei testi falsificati. L’Università truccata, come rivela in un bel libro della Einaudi, il professor Roberto Perotti, docente della Bocconi: l’Università che nelle classifiche internazionali finisce dietro quella delle Hawaii, che spende più di tutto il resto del mondo (16mila dollari per ogni studente contro i 7mila degli Usa) ma non dà risultati scientifici né una formazione adeguata. L’Università che, grazie alle sue inefficienze, premia le élite e, contrariamente a quello che si crede, punisce i ceti meno abbienti: solo l’8 per cento degli universitari italiani proviene dalle fasce più basse contro il 13 per cento degli Stati Uniti. Ma non erano i costosi Atenei americani il simbolo dell’anti-democrazia educativa?
Oggi vi raccontiamo l’ultima scoperta: all’Università di Como ci sono 24 docenti per 17 studenti. Un bel record, non vi pare? Ma da qualche giorno il Giornale (e solo il Giornale, come spesso accade) sta denunciando questa strana situazione dei nostri atenei che alzano la voce per lamentarsi dei tagli, dimenticando i loro sprechi. In sei anni le Università hanno moltiplicato i corsi di laurea: da 2444 a 5400. E non tutti utilissimi, si direbbe a prima vista. In effetti oggi si può diventare dottori, tanto per dire, in scienza dell’aiuola, in mediazione dei conflitti, in tecnologia del fitness, in scienza del fiore e in benessere animale. Manca solo il corso di laurea in raffreddore dei suini e quello in filosofia delle oche e poi il quadro sarebbe completo.
Ma poi che sbocchi danno queste facoltà? E chi le frequenta? Tenetevi forte: trentasette corsi di laurea in Italia (dicasi: 37) hanno un solo studente, a questi vanno poi aggiunti altri 66 corsi che hanno meno di sei studenti. Ma vi pare possibile? Tenere in piedi un corso di laurea e relative spese per un unico studente? O per due o tre? E poi le Università si lamentano dei tagli… A Siena hanno collezionato un buco di 145 milioni, non pagano le tasse dal 2004. Poi vai a vedere i bilanci e scopri che, per esempio, l’oculato ateneo spendeva 150mila euro l’anno per affittare alcune stanze di lusso con affaccio su piazza del Campo: inutile tutto l’anno, certo, ma nei giorni del Palio, sai che goduria…

L’Università di Siena utilizza il 104 per cento del suo bilancio per pagare stipendi. 104, avete capito bene: e per tutto il resto? Niente. Nell’ateneo toscano i tecnici sono più numerosi dei professori. E non è un caso unico: a Palermo, per esempio, ci sono 2.103 professori e 2.530 amministrativi, a Messina 1.403 professori e 1.742 amministrativi. La Federico II di Napoli, che nelle classifiche si piazza fra le dieci peggiori università d’Italia, spende il 101 per cento dei suoi soldi per il personale. L’impressione è che anche le facoltà, come la scuola, negli ultimi anni siano stati concepiti più come ammortizzatori sociali che come luoghi di formazione: non si sa se chi esce troverà un posto di lavoro. L’importante è che trovi un posto di lavoro chi resta dentro.
Dunque è vero che ci vorrebbe una protesta. Ci vorrebbe un Sessantotto. Ma per rivoluzionare l’Università, non per tenerla così com’è. E invece oggi assistiamo a questo strano paradosso: si scende in piazza solo per difendere il sistema, anche quando il sistema non funziona. I riformisti nel palazzo e i conservatori nel corteo. Strano, no? Ma nelle università ci sono i nostri migliori cervelli: gente di talento, e anche di buona volontà. Non possono non capire che dietro i luoghi comuni e la lagna per i tagli si nasconde la solita difesa di privilegi, baronie, sprechi e inefficienze, quelli che hanno creato quest’Università di laureati (o l’aureati?) pieni di lacune. O forse lagune. Quelli che ti dicono: vedrete, faremo il Sessantotto e la protesta si estenderà a macchia d’occhio. Sì, a macchia d’occhio. E la gente arriverà in piazza a frottole.


di Mario Giordano – Il Giornale

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Quella speranza che sconfigge la crisi in Borsa

Posté par atempodiblog le 18 octobre 2008

Quella speranza che sconfigge la crisi in Borsa dans Antonio Socci antoniosocci

Robert Hughes definì « cultura del piagnisteo » quella della sinistra politically correct. Ma anche la destra reazionaria vive di geremiadi. Il piagnone sommo, Oswald Spengler, le unisce. Da questi acquitrini di lacrime, nel XX secolo, sono nati frutti avvelenati. Oggi col crollo delle Borse tornano gli apocalittici. Stanno col culo al caldo, ma annunciano il tramonto dell’Occidente. Se si voltassero (« metanoia », convertire lo sguardo) vedrebbero l’alba di un tempo nuovo. E gente non disperata: i cristiani.

Certo, c’è il partito dei distruttori, dei pescecani che hanno prodotto lo sfacelo dell’economia. Ma c’è anche il « partito dell’aratro », di quelli che sembrano meno forti, come dice Péguy, ma che fanno la storia. Quando irruppero i barbari crollò l’impero romano e una civiltà millenaria fu travolta. L’economia crolla fino alla sussistenza, le campagne si spopolano, il continente si copre di foreste selvagge piene di lupi e briganti. Tutto sembra perduto per sempre e l’Europa regredisce all’età primitiva.

Eppure rinacque una civiltà più grande, bella e luminosa. Da alcuni uomini che cercavano Dio. L’unico che non passa, che non tramonta, l’eterna giovinezza. Lo ha spiegato il Papa, nel suo splendido discorso parigino: « non era intenzione dei monaci di creare una cultura e nemmeno di conservare una cultura del passato ». Volevano semplicemente conoscere Gesù Cristo. Gustare la sua presenza che non abbandona e non delude mai: « Jesu dulcis memoria/ dans vera cordis gaudia/ sed super mele et omnia/ Ejus dulcis praesentia… ».

Era la loro unica, struggente passione. Da cui venne tutto. Per questo salvarono la cultura antica. E « inventarono » il lavoro. Gesù lavoratore aveva nobilitato il lavoro manuale, un tempo ritenuto prerogativa degli schiavi, al livello divino della preghiera. Col lavoro i monaci trasformarono l’Europa devastata e selvaggia in un giardino fertile e rigoglioso. Uno storico scrive: « Dobbiamo ai monaci la ricostruzione agraria di gran parte dell’Europa », con tutto ciò che comportò in termini di alimentazione, benessere, esplosione demografica. « Educatori economici », li definì Henri Pirenne.

Il cristianesimo spazzò via la schiavitù e svegliò l’ingegno cosicché si inventarono macchine per sfruttare l’energia idraulica che « i monaci usavano per battere il frumento, setacciare la farina, follare i panni e per la conciatura ». I monaci insegnarono ai contadini a dissodare, bonificare, coltivare e irrigare, introdussero l’allevamento del bestiame e dei cavalli, l’apicoltura, la frutticoltura, i vivai di salmone in Irlanda, la fabbricazione della birra, l’invenzione del prosciutto, del formaggio e perfino dello champagne.

I cristiani inventarono gli ospedali, le università, la musica, coprirono l’Europa di cattedrali e di bellezza, inventarono la tecnologia, la scienza, la stessa libertà, l’economia moderna e la democrazia. I monaci avevano cercato solo il regno di Dio: il resto – secondo la promessa di Gesù – arrivò in sovrappiù. Fu il frutto di una liberazione dell’umano.

Il loro pensiero quotidiano era alla Gerusalemme celeste, l’incontro definitivo con Gesù. Ecco le travolgenti parole di un autore monastico del XII secolo: « Egli è il bellissimo d’aspetto, il desiderabile a vedersi, colui che gli angeli desiderano contemplare. Egli è il re pacifico, il cui volto tutta la terra desidera. Egli è la propiziazione dei penitenti, l’amico dei miseri, il consolatore degli afflitti, il custode dei piccoli, il maestro dei semplici, la guida dei pellegrini, il redentore dei morti, forte ausilio di chi combatte, pio remuneratore di chi vince ».

E oggi? Oggi il mondo è pieno di nuovi monaci. I mass media non se ne accorgono, perché un albero che cade fa più rumore di una foresta che cresce. Potrei riempire questo giornale con i loro nomi e le loro bellissime storie. Andate in Lombardia a conoscere Lorenzo Crosta che ha creato cooperative dove lavorano un centinaio di ragazzi, con handicap fisici e mentali, pieni di umanità, sorrisi e dedizione.

Andate a Teramo a vedere cosa hanno messo in piedi Ercole D’Annunzio e sua moglie, Enza Piccolroaz, partendo dal dramma di una figlia nata con una grave malattia: una delle più straordinarie strutture di riabilitazione del meridione, con un pullulare di altre opere anche di ricerca medico-scientifica. Ma penso anche ai detenuti del carcere di Padova che stanno diventando uomini nuovi e all’ultimo Meeting di Rimini hanno stupito e commosso tutti (ci hanno pure deliziato con i prodotti di pasticceria della loro Cooperativa Giotto).

Penso all’immensa opera del Banco alimentare che – nato dallo sguardo di carità di don Giussani – oggi letteralmente coinvolge milioni di italiani e dà da mangiare a un oceano di persone. E a quella stupenda cattedrale della speranza e della preghiera che è Radio Maria. E gli studenti che, invece di okkupare scuole e università dove svaccarsi, portano in giro per le strade i « cento canti » di Dante. E poi i tanti padri e madri di famiglia che sono veri eroi della speranza. E insegnanti come Mariella o Gianni che fanno scoprire ai giovani la Bellezza. E artisti pieni di fede, simpatia e talento come Francesco che ha dipinto il rosone duccesco del Duomo di Siena e si prepara a fare le vetrate della splendida cattedrale barocca di Noto. E lo scultore giapponese Etsuro Sotoo che continua l’opera di Gaudì alla « Sagrada Familia ».

Guardate i silenziosi volontari che lavorano nei Centri di Aiuto alla vita. E quel fiume di straordinarie donne e uomini di Dio su ognuno dei quali si potrebbe scrivere un libro, dalle clarisse di suor Milena, a Trevi, a quelle di suor Beatrice a Perugia, alle francescane di suor Chiara ad Assisi? Penso alle suore che assistono da anni Eluana Englaro e che supplicano: « lasciatela qui, ce ne prendiamo cura noi ». E i tanti religiosi che donano tutta la loro esistenza a sostenere la speranza dei disperati.

Penso a Stefano Borgonovo, l’ex calciatore del Milan e della Fiorentina ora malato di Sla: lui, la sua bellissima famiglia, i suoi amici. Leggete su « Tracce » che umanità e che forza! E i tanti malati che offrono la loro sofferenza e così letteralmente tengono in piedi il mondo. Andate a visitare la Casa di accoglienza « Don Dante Savini », a Perugia, che accoglie e assiste professionalmente malati terminali di Aids o di altre gravi patologie. Guardate i volti, gli occhi, dei giovani seminaristi che vivono alla Fraternità San Carlo e si preparano ad andare fino ai quattro angoli della Terra a portare il senso della vita a popoli assetati di Cristo. Non sono afflitti dal futuro dell’Occidente, perché hanno e gustano l’Eterno nel presente.

Così dissodare, irrigare, coltivare, amare, anche inventare, ingegnarsi diventano come la preghiera. Scoprite l’incredibile storia di Giuseppe Ranalli e della sua Tecnomatic che, nelle sperdute campagne dell’Abruzzo, oggi con un fatturato di 40 milioni di euro (+32 per cento nel 2008), lavora per le maggiori case automobilistiche del mondo grazie a brevetti rivoluzionari.

E Pippo Angelico, imprenditore brianzolo della Ceccato spa (settore manifatture di precisione) che – per un’amicizia nata al Meeting del 2005 – ha deciso di andare a investire a Napoli grazie al Centro di solidarietà che lavora nel Rione Sanità e che si fa carico di tanti problemi della povera gente . O scoprite « il circolino di Crescenzago », come lo chiama Giorgio Vittadini.

Mi fermo per mancanza di spazio (se Scalfari conoscesse tutte queste cose non avrebbe scritto ciò che ha scritto della Compagnia delle opere). Ma poi c’è il mondo. La stupefacente storia brasiliana di Cleuza e Marcos Zerbini e dei « Senza Terra », 50 mila persone spesso nipoti di schiavi, che hanno « scoperto » Comunione e liberazione. E i missionari che in India – come spiega padre Gheddo – stanno letteralmente capovolgendo le millenarie caste, restituendo dignità a milioni di Dalit? E donne straordinarie come l’infermiera Rose che in Uganda cura i malati di Aids? E la « resurrezione » della sua amica Vicky che è stata raccontata in un film premiato al Festival di Cannes da Spike Lee? Certo, molte cose tramontano. Ma se voltate lo sguardo vedrete l’alba di un giorno che non finisce.

Da Charles Péguy, Il mistero della carità di Giovanna d’Arco

« Non occorre che un acciarino per bruciare una fattoria. Occorrono degli anni per costruirla. Ci vogliono mesi e mesi, c’è voluto lavoro e ancora lavoro per far crescere una messe. E non ci vuole che un acciarino per dar fuoco a una messe. Ci vogliono anni e anni per far crescere un uomo, c’è voluto pane e ancora pane per nutrirlo, e lavoro e lavori di ogni genere. E basta un colpo per uccidere un uomo. Un colpo di sciabola e la cosa è fatta. Per fare un buon cristiano occorre che l’aratro abbia lavorato venti anni. Per disfare un cristiano occorre che la sciabola lavori un minuto. E’ nel genere dell’aratro lavorare vent’anni. E’ nel genere della sciabola lavorare un minuto; e di fare di più: di essere la più forte. Di farla finita. Allora noi altri saremo sempre i meno forti. Andremo sempre meno veloci. Noi siamo il partito di quelli che costruiscono. Loro sono il partito di quelli che demoliscono. Noi siamo il partito dell’aratro. Loro sono il partito della sciabola ».

di Antonio Socci
Tratto da: Libero – 17 Ottobre 2008

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La verità sul « caso Galilei »

Posté par atempodiblog le 18 octobre 2008

Il triste episodio de “la Sapienza” ha fatto tornare alla ribalta il Caso Galilei…e si sentono rievocare i soliti luoghi comuni. Ma come davvero andarono le cose?
di Corrado Gnerre

 

Le proteste per la visita di Benedetto XVI all’università de “la Sapienza” hanno fatto tornare alla ribalta il “caso Galilei”. I 67 docenti firmatari del documento contro l’invito al Papa hanno fatto riferimento ad un discorso pronunciato nel 1990 dall’allora cardinale Ratzinger, in cui, parlando del caso Galilei, il futuro papa citò alcune parole del filosofo della scienza Paul Feyerabend (1924-1994) – anarchico e ateo, quindi al di sopra di ogni sospetto – in cui si affermava che nel processo allo scienziato pisano la ragione era dalla parte della Chiesa.

Scienza o scientismo?

In realtà ciò che capitò a Galilei non fu causato dalla sua negazione della concezione geocentrica (il Sole che gira intorno alla Terra) quanto dal fatto che la sua posizione si faceva sostenitrice di un nuovo modo di concepire la scienza, un modo in cui la scienza stessa sarebbe potuta divenire l’unica ed esclusiva lettura della realtà.

Titus Burckhardt (1908-1984) nel suo Scienza moderna e saggezza tradizionale (1968) scrive a pagina 134: «La Chiesa, esigendo da Galileo di presentare le proprie tesi sul moto della terra e del sole non come verità assoluta ma come ipotesi, aveva le sue buone ragioni (…). L’esaltazione letteraria di Galileo ha fatto nascere in svariati dignitari ecclesiastici una sorta di coscienza di colpa che li rende stranamente impotenti dinanzi alle teorie scientifiche moderne, quand’anche queste siano in palese contraddizione con le verità della fede e della ragione. La Chiesa, si suol dire, non avrebbe dovuto immischiarsi nei problemi scientifici. Eppure lo stesso caso di Galileo dimostra che, accampando la pretesa di possedere la verità assoluta, la nuova scienza razionalista del Rinascimento si presentava alla guisa di una seconda religione».

Sfatiamo i luoghi comuni

Dunque, la scienza come una sorta di “nuova religione”, ovvero il passaggio dalla scienza allo scientismo. Ma su questo ritorneremo tra pochissimo. Iniziamo a sfatare alcuni luoghi comuni sul “caso Galilei”. Ci sono sette punti importanti da ribadire. 

1) L’eliocentrismo non c’entra

A differenza di quanto si dice, Galilei non ebbe i suoi problemi per la teoria eliocentrica (la Terra ruota intorno al Sole), per il semplice fatto che questa teoria non faceva paura alla Chiesa. Già quattro secoli prima di Galilei, san Tommaso d’Aquino disse che la concezione tolemaica, proprio perché non suffragata da prove, non poteva considerarsi definitiva.
Copernico, astronomo polacco e perfino sacerdote cattolico, morto ventuno anni prima di Galilei, aveva sostenuto la concezione eliocentrica; e molti contemporanei, perfino esponenti della gerarchia ecclesiastica (tra questi anche pontefici come Leone X e Clemente VII) si mostrarono aperti alle sue tesi.

Nella celebre Università di Salamanca, proprio negli anni di Galilei, si studiava e si insegnava anche la concezione copernicana. Lo stesso Galilei era a conoscenza del fatto che la Chiesa non aveva nulla da ridire sull’ipotesi di Copernico. Così scrisse a Cristina di Lorena: «[Il trattato di Copernico] è stato ricevuto dalla santa Chiesa, letto e studiato per tutto il mondo, senza che mai si sia presa ombra di scrupolo nella sua dottrina (…)».

Piuttosto era nel mondo protestante che l’eliocentrismo faceva paura. Riferendosi a Copernico, Martin Lutero scrisse: «Cadde un giorno il discorso sopra un astrologo moderno il quale voleva dimostrare che la Terra si muove e non già il cielo o il firmamento col Sole e con la Luna (…). Ma le cose adesso vanno così: chi vuole apparire savio e dotto non deve approvare quello che fanno gli altri, ma deve fare alcunché di singolare e tale che a suo credere nessun altro sia capace di fare. Il pazzo vuole rovesciare tutta l’arte astronomica».

2) Atteggiamento scientista e non scientifico

Dunque, il motivo per cui Galilei ebbe problemi non fu legato alla teoria eliocentrica ma a ragioni di filosofia della scienza. Galilei, pretendendo presentare l’eliocentrismo non come ipotesi ma come una tesi comprovata, rappresentava un atteggiamento scientista e non scientifico.

Mentre l’atteggiamento autenticamente scientifico si serve delle prove, parte sì da un’intuizione, ma sottopone questa intuizione a verifica; l’atteggiamento cosiddetto scientista è il contrario, cioè fa dell’intuizione scientifica, indipendentemente dalla verifica, l’intuizione per eccellenza da preferirsi a qualsiasi altra intuizione, tanto a quella della tradizione quanto a quella del senso comune.

Galilei, avendo solo delle intuizioni e non delle prove, pretendeva che la mentalità scientifica, solo perché “scientifica”, potesse essere “giudice” della Rivelazione. Ma la Fede, se può e deve dialogare con la scienza, non può certo dialogare con lo scientismo, che è un’ideologia e che fa della scienza una “seconda religione”, secondo la definizione del citato Burckhardt.

3) La ragionevolezza del Bellarmino

San Roberto Bellarmino (1542-1621), che svolse un ruolo importante nel processo a Galilei, non pretendeva che lo scienziato pisano rinunciasse alla convinzione eliocentrica bensì che ne parlasse per quello che effettivamente era, cioè un’ipotesi.

Così scrive  in una lettera del 12 aprile del 1615 al padre carmelitano Paolo Antonio Foscarini che appoggiava Galilei: «Dico che il Venerabile Padre e il signor Galileo facciano prudentemente a contentarsi di parlare “ex supposizione” e non “assolutamente”, come io ho sempre creduto che abbia parlato il Copernico. (…) Dico che quando ci fusse “vera dimostrazione” che il Sole stia nel centro del mondo e la Terra nel terzo cielo, e che il Sole non circonda la Terra, ma la Terra circonda il Sole, all’hora bisogneria andar con molta consideratione in esplicare le Scritture che paiono contrarie, ed è meglio dire che non le intendiamo, piuttosto che dire che sia falso quello che si dimostra».

Che poi il Bellarmino dica queste cose non improvvisando né formulando “novità”, è dimostrato dal fatto che egli nel 1571 (cinquant’anni prima) scriveva nelle sue Praelectiones Lovanienses: «Non spetta ai teologi investigare diligentemente queste cose (…). Possiamo scegliere la spiegazione che ci sembra più conforme alle SS. Scritture (…). Se però in futuro sarà provato con evidenza che le stelle si muovono con moto del cielo e non per loro conto, allora dovrà vedersi come debbano intendersi le Scritture affinchè non contrastino con una verità acquisita. È certo, infatti, che il vero senso della Scrittura non può contrastare con nessun’altra verità sia filosofica come astronomica (…)».

4) Mancanza di prove scientifiche

Galilei non portava prove convincenti per suffragare la sua ipotesi. Una prova in realtà la portava, ma era sbagliata. Inviò una lettera al cardinale Orsini dove affermava che la rotazione della Terra intorno al Sole sarebbe provata dalle maree, cioè, secondo lui, il movimento della Terra provocherebbe scuotimento e quindi le alte e basse maree.

I giudici però contestarono questa “prova” e dissero giustamente che le cause delle maree dovevano ricercarsi in altro. Ecco perché il già citato Paul Feyerabend, pur essendo ateo ed anarchico, ha affermato che nel processo a Galilei il rigore scientifico fu più dalla parte della Chiesa che non da quella dello Scienziato pisano.

5) Mitissima pena…

Galilei non subì nulla di eclatante a differenza di quanto molti pensano. Alcuni sondaggi dicono che la stragrande maggioranza degli studenti italiani credono che Galilei subì torture e che fu addirittura arso vivo.

I nostri docenti di scuola e di università invece che fare tanta cagnara dovrebbero  riflettere sulla scientificità dei loro insegnamenti. Ecco cosa davvero subì Galilei. Nel febbraio del 1632 lo Scienziato pisano pubblicò a Firenze il famoso Dialogo sopra i massimi sistemi del mondo…, e nell’agosto dello stesso anno, a Roma, se ne proibì la diffusione. Il 16 giugno del 1633 il Sant’Uffizio condannò l’autore. Il 22 giugno dello stesso anno Galilei abiurò e fu condannato a recitare una volta alla settimana i sette salmi penitenziali e al carcere, ma questo fu subito commutato in domicilio coatto. Prima nel Giardino di Trinità dei Monti (alloggio con cinque camere, vista sui giardini vaticani e cameriere personale); poi nella splendida Villa dei Medici al Pincio; quindi a Siena presso l’amico e arcivescovo Ascanio Piccolomini, in seguito a Firenze nella sua casa di Costa San Giorgio e, infine, nella Villa di Arcetri, presso il Monastero delle Clarisse di San Matteo dove vivevano le sue due figlie suore. Di tortura neanche a parlarne. 

Lo stesso Galilei fu consapevole della mitezza della pena, tanto che ringraziò i giudici e confessò di aver fatto di tutto per indisporli. La stessa scelta dell’affezionatissima figlia Virginia di farsi suora (suor Celeste) dimostra la mitezza della pena. Lei che era così attaccata al padre, qualora Galilei fosse stato maltrattato dalla Chiesa, avrebbe avuto il desiderio di consacrarsi?
Galilei, malgrado la condanna, poté continuare a pubblicare e a curare l’amicizia di vescovi e scienziati; e proprio dopo la condanna pubblicò l’opera più importante, Discorsi e dimostrazioni sopra due nuove scienze. Morì ad Arcetri l’8 gennaio del 1642, assistito da discepoli come Vincenzo Viviani ed Evangelista Torricelli; morì con i conforti religiosi e finanche con l’indulgenza plenaria e la benedizione del Papa.

6) Un contesto sfavorevole

Il processo a Galilei si può capire solo collocandolo all’interno del XVII secolo; secolo tutt’altro che facile. Verrebbe da dire che se lo Scienziato pisano fosse vissuto in pieno XIII secolo non avrebbe avuto i problemi che ebbe.

Iniziamo col considerare che nel XVII secolo il riferimento ad Aristotele non era un riferimento critico, capace cioè di selezionare e discernere (come invece riuscì a fare il vertice della Scolastica e in particolar modo san Tommaso), bensì pedissequo: Aristotele doveva essere accettato integralmente, anche per quanto riguardava la sua visione cosmica.

Inoltre, c’era stato da poco (meno di un secolo) lo scoppio della Riforma, imperversavano le guerre di religione… e il mondo protestante accusava quello cattolico di non amare la Bibbia, di leggerla poco, di non rispettarla.

Tutto questo portò, per reazione, anche alcuni ambienti cattolici ad un atteggiamento di protezione letteralistica della Bibbia stessa. Per finire, durante la Guerra dei Trenta Anni si erano diffusi i manifesti dei Rosa-Croce, che (come ha ampiamente dimostrato la storica inglese Frances Yates) furono scritti per riproporre una visione ermetica e magica del reale collegata alla prisca philosophia, da contrapporre alla visione cattolica identificabile nel fronte asburgico.

Ora, la visione ermetica e magica si fonda sul monismo e sulla identificazione del creato con il creatore (panteismo) per cui il concepire la Terra non più al centro poteva, secondo alcuni, avvalorare una concezione infinita e divina dell’universo stesso. 

7) L’ultimo dei miti da sfatare

E per finire… la famosa frase che campeggia su buona parte dei libri scolastici, e cioè che Galilei avrebbe detto “eppur si muove”, in realtà non fu mai pronunciata. Fu inventata da un giornalista italiano, Giuseppe Baretti, a Londra nel 1757.

Tratto da Radici Cristiane

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«Quel giorno a Fatima ferirono Wojtyla»

Posté par atempodiblog le 17 octobre 2008

In un documentario le memorie del Cardinale polacco Dziwisz
«Quel giorno a Fatima ferirono Wojtyla»

Il cardinale Dziwisz, segretario personale del Papa, racconta cosa accadde nel 1982. «Ricordo il sangue»

Ad appena un anno dall’attentato di Ali Agca in Piazza San Pietro, Papa Giovanni Paolo II fu vittima di una seconda aggressione e «rimase ferito». Ne parla per la prima volta il cardinale polacco Stanislaw Dziwisz, per 39 anni fedele segretario personale di Karol Wojtyla, nel documentario inglese intitolato «Testimony» che racconta la vita e le opere del Papa scomparso tre anni fa. Il prete spagnolo ultraconservatore Juan Fernandez Krohn il 12 maggio del 1982, durante la visita di Wojtyla a Fatima, non solo tentò di assassinare il Pontefice avvicinandosi a lui con un pugnale, ma riuscì a ferirlo leggermente. Il prete fu velocemente immobilizzato dalla polizia e arrestato.

A FATIMA – Giovanni Paolo II si era recato in quei giorni al santuario di Fatima per ringraziare la Madonna di avergli salvato la vita dopo l’attentato subito il 13 maggio dell’ anno prima. «Adesso posso rivelare che il Santo Padre rimase ferito» afferma nel documentario il cardinale Dziwisz. «Ricordo che quando tornammo nella stanza c’era del sangue». Il prete spagnolo passò diversi anni in una prigione portoghese e dopo aver scontato la sua pena fu espulso dal paese lusitano. Nel documentario, basato parzialmente sul libro di memorie del cardinale Dsiwisz, intitolato «Una vita con Karol» e narrato dalla voce dell’attore inglese Michael York, sono presenti anche le immagini dell’ultima apparizione pubblica di Wojtyla dallo studio che affaccia su piazza San Pietro. A causa della sua malattia Wojtyla non riuscì a parlare ai fedeli. Facendo riferimento a quest’ultimo episodio Dsiwisz afferma che Giovanni Paolo II, più tardi nella sua stanza, confessò al suo fedele segretario: «Se non posso parlare più, allora è arrivato il momento di passare a miglior vita».

PROIEZIONE - Il documentario, che sarà proiettato per la prima volta giovedi sera in Vaticano, è stato girato a Roma e in alcune città della Polonia dove Giovanni Paolo II visse durante la sua adolescente e gli anni precedenti al suo Pontificato. Il cardinale Dziwisz ha sottolineato che quest’opera su Karol Wojtyla dimostrerà «che Giovanni Paolo II non è stato dimenticato» e si dichiara orgoglioso di essere stato l’assistente di una personaggio così grande. «Karol è stato quasi un padre per me» ha concluso il cardinale polacco.

Francesco Tortora – corriere.it

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Se un dogma cambia la storia… gli ospedali…

Posté par atempodiblog le 13 octobre 2008

Non è facile capire, per l’uomo moderno, l’incredibile influenza e le conseguenze che può avere avuto in passato sulla vita degli uomini un dogma religioso. Un esempio interessante è l’efficacia operativa che ha avuto nella storia del mondo è il dogma dell’Incarnazione di Dio e della resurrezione dei corpi. Ad esso infatti mi sembra si possa ricondurre l’istituzione tipicamente cristiana e medievale dell’ospedale. Se è vero infatti che la medicina, come scienza, nasce dalla valorizzazione del Logos, tipicamente greca, e biblica, è altresì un fatto che la grecità e le altre culture non hanno mai avuto una attenzione particolare, di tipo caritativo e non solo speculativo, per il corpo debole, sofferente, malato.

La carità cristiana, e solo quella, ha prodotto nei secoli xenodochi, ospizi, misericordie, orfanotrofi, ospedali ed opere pie, dai moti dei pegni ai monti delle doti per le fanciulle senza padre, non solo in nome di Cristo, ma in nome, nel contempo, di una nuova visione teologica del corpo umano. Perché il corpo avesse un ruolo, una attenzione nuova, fu necessario che il pensiero filosofico e teologico cristiano rompesse i ponti con la visione negativa della materia, presente nel mondo greco, e desse al corpo una dignità totalmente altra. Occorreva che il corpo divenisse il tempio di Dio stesso, destinato alla resurrezione eterna. Platone non avrebbe mai accettato la rivoluzione “materialistica” corporale del cristianesimo; avrebbe respinto l’idea di un Dio che prende corpo come pure l’idea che anima e corpo potessero vivere, congiunti, in eterno. Per lui, come poi per gli gnostici, e l’oriente in genere, il corpo era essenzialmente prigione (soma-sema). Tutta la visione greca, e non solo, era essenzialmente cosmocentrica. Per questo “era assurdo che quel corpo che da essi era visto come ostacolo e fonte di ogni negatività e di ogni male, quel corpo dovesse risorgere” (Reale). Dinanzi all’antropocentrismo cristiano, estremamente rivoluzionario, che propone l’uomo come vertice del creato e il corpo come strumento nobile, destinato a risorgere, proposto da san Paolo, i filosofi ateniesi risponderanno con l’interuzione del dialogo. Plotino, che non voleva neppure farsi un ritratto, per disprezzo al suo corpo, sosterrà che l’unica resurrezione possibile è dal corpo, non del corpo, “perché risorgere con un corpo equivale a cadere da un sonno in un altro”, essendo esso, in fondo, solo la prigione, la zavorra, il limite, dell’anima. Analogamente Celso, polemista pagano dei primi secoli, scriverà che “non è in effetti possibile che un corpo completamente corrotto ritorni alla natura originaria e proprio a quella primitiva costituzione dalla quale si è dissolto”, perché Dio potrebbe “sì fornire alla anima una vita eterna, ma ‘i cadaveri’, dice Eraclito, ‘son da buttar via più che lo sterco’. Ma rendere irragionevolmente eterna la carne, piena di cose che il tacere è bello, Dio certo né lo vorrà né lo potrà”, essendo ciò assolutamente irragionevole.

Anche nel mondo romano, l’opposizione al cristianesimo fu spesso dovuta proprio alla visione del corpo propria dei cristiani, accusati, casua l’Eucarestia, di cannibalismo. Così per Apuleio il dogma della resurrezione dei corpi era assurdo, e il mediatore non poteva essere un dio fatto uomo ma dei “daemones, genere animalia, ingenio rationabilia, animo passiva, corpore aeria, tempore aeterna”. Il cristianesimo insomma pose fine all’inconciliabilità platonico-gnostica tra materia e spirito, rendendo così comprensibile, doverosa, diffusa la cura del corpo. Ma no è tutto: la filosofia cristiana cercò di armonizzare anima e corpo, dopo secoli di dualismo, subordinando il corpo all’anima, ma in un modo del tutto originale, tramite una visione unitaria e non dualistica dell’uomo, considerato non più come somma direi spuria di anima e corpo, ma come composto, indissolubile, unico, di anima e corpo, in modo che l’uno non possa essere senza l’altro, cioè senza una comunione profonda. Per san Tommaso, infatti, sebbene “il corpo è per l’anima e non viceversa”, l’uomo “non è né l’anima né il corpo, ma l’insieme dei due”, al punto che all’anima, “senza il corpo sarebbe
impossibile prendere coscienza del proprio essere” (“Sergio Simonetti, L’anima in san Tommaso, Armando).

Un’idea simile, per la quale non vi è nulla di fisico che non sia anche spirituale, e viceversa, apre la possibilità di guardare all’uomo nella sua unità integrità, nella profonda relazione esistente in lui tra vita biologica e vita fisica. Apre, come dicevo, all’epopea della carità medievale e controriformista, creatrice unica dell’istituzione ospedaliera. Ebbene , nell’attualità mi sembra che accada una regressione: da una parte l’attenzione cristiana per il corpo, perdendo il suo punto di equilibrio, determina una visione totalmente materialista (che è comunque i parte debitrice al cristianesimo). Dallo spiritualismo pre cristiano, che disprezzava il corpo, si passa al materialismo post cristiano, cartesiano, nietzchiano, meccanicista, che trascura la componente spirituale. Dall’altra anima e corpo vengono nuovamente scissi e tornano in conflitto tra loro: si pensi all’idea del gender, che scinde sessualità biologica e sessualità culturale; si pensi alla contraccezione, che scinde amore spirituale e amore carnale; si pensi alla fecondazione in vitro, dove sperma e ovuli vengono conservati sotto azoto, sradicati dal loro ambiente naturale, e dove il processo fisiologico della formazione dell’embrione, che in natura avviene nel corpo, viene spostato in un utero altrui, o in una provetta di vetro, come se operazioni di questo tipo non avessero alcuna conseguenza psico-fisica sulla donna e sul nascituro.

di Francesco Agnoli

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Attacco a cellulari con sms

Posté par atempodiblog le 13 octobre 2008

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Foto Ansa

NAPOLI – Cellulari intercettati con un sms: é su questo che sta indagando la polizia postale di Napoli dopo che sono state presentate due denunce alla Polposta di San Giovanni a Teduccio. Il meccanismo, secondo quanto al momento accertato e secondo quanto raccontano oggi organi di stampa, sarebbe tanto semplice quanto inquietante: sul cellulare arriva un sms sconosciuto, basta aprirlo per avviare la procedura di download di un virus indicato come ‘trojan’ che penetra nella memoria del cellulare. Sul telefonino si scarica un software che consente il collegamento con un altro cellulare: quando si ricevono telefonate o si chiama un numero, automaticamente dal cellulare collegato è possibile ascoltare la conversazione. Difficile, al momento, stabilire le proporzioni di questo fenomeno ma intanto l’informativa è stata trasmessa alla Procura di Napoli. S’indaga a tutto campo, anche negli ambienti della criminalità, per capire chi potrebbe gestire il software.

Fonte Ansa

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Le storie che insegnano

Posté par atempodiblog le 6 octobre 2008

Le storie che insegnano dans Articoli di Giornali e News scuolayz0

Si è discusso moltissimo di grembiulini, e di maestro unico. Argomenti importanti, che però toccavano aspetti relativamente esterni al «core business» della scuola: gli allievi, e la loro capacità/disponibilità ad apprendere. Come si fa ad insegnare qualcosa a un bambino, e poi a un adolescente? A quali condizioni lo studente si rende disponibile ad apprendere, organizzare le idee, mettere a fuoco un linguaggio? La funzione, e la difficoltà della scuola, infatti, è proprio questa.
Ammesso che i maestri sappiano cosa devono insegnare, la parte più difficile è però far loro capire come farlo. Mentre moltissimi sembrano disposti a scendere in piazza in nome della lotta ai grembiuli, e, naturalmente, della pluralità dei maestri (che significa anche moltiplicazione dei posti), pochi sembrano interessati alle condizioni psicologiche che rendono possibile l’apprendimento.

Eppure il grande problema della scuola negli ultimi anni sembrava proprio quello. I ragazzi non erano affatto motivati a imparare, non ne avevano nessuna voglia. E infatti non imparavano nulla, o quasi, come puntualmente risultava dai test di ammissione alle università, o alle aziende.
Se si scambia Costantino per un tronista, non è solo perché si guarda troppa televisione. È anche (ad esempio) perché la Storia antica ti è stata presentata in modo noioso, e nessuno ti ha raccontato l’episodio del sogno fatto prima della battaglia, dove il futuro imperatore sogna la croce, e «sente»: «Con questo simbolo vincerai», affrettandosi quindi a farne la nuova insegna dell’esercito romano, e sbaragliando l’avversario.
L’episodio manca dai libri, in parte perché è leggendario, e si pretende che a scuola ci siano solo fatti (salvo poi diffondere miti già morti, ma «politicamente corretti»); in parte perché presenta una conversione, e ciò puzza di clericalismo; in parte perché l’Impero romano viene fatto in fretta e male, per timore di alimentare simpatie fasciste. Così nessuno sa chi è Costantino, che ricorderebbe se qualcuno gli avesse raccontato la cinematografica storia del sogno.
Questa è invece la prima condizione necessaria perché gli studenti imparino: la scuola deve interessarli. Per farlo sarebbe meglio, almeno fino agli ultimi anni del liceo, non impartire direttamente delle nozioni, ma raccontare delle storie. Ogni sapere, scienze comprese, è traducibile in storie: dei protagonisti, delle idee, dei processi della natura.
Le storie, però, occorre saperle narrare. Raccontare le storie è un’arte precisa e complessa: per questo chi la possedeva godeva di grande prestigio, nei villaggi e nelle comunità. Ogni comunità si costituisce attorno a delle storie che si raccontano e che ne costituiscono l’anima, come quelle narrate nel passato attorno al fuoco, nei paesi. Anche la comunità scolastica nasce non attorno a degli edifici (in Africa a volte non ci sono neppure), ma attorno a uno storyteller che narra delle storie, nel giusto modo, catturando l’attenzione di chi l’ascolta. Perché questo accada occorre che chi racconta sappia innanzitutto stupirsi, commuoversi, e rimanere affascinato, lui per primo, quando racconta una storia. Deve sempre essere come se fosse la prima volta che anch’egli l’ascolta.
Questa è del resto la prima qualità del maestro: la sua capacità di stupirsi, come Platone ci racconta che Socrate costantemente faceva con i suoi allievi. È questa anche la differenza dal falso maestro, che ha invece un tono sapiente, come se sapesse tutto, e nulla più lo stupisse. Così diventa noioso, e per gli allievi l’avventura dell’apprendere non comincia mai.

di Claudio Risé – Tratto da “Il Mattino di Napoli”

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Un processo di 5 minuti

Posté par atempodiblog le 23 septembre 2008

Liberi e felici i due fermati per il caos Roma-Napoli
Patteggiamento e pena sospesa. Il legale: « Ma che ha fatto? »

Treni distrutti e coltelli
un processo di 5 minuti

di CARLO BONINI – repubblica.it


ROMA - Danilo Durevole, ultras da San Giorgio a Cremano, cui lo hanno detto per telefono, pare non volesse crederci. Da non stare nella pelle. Alle 9 e mezza del mattino, nell’aula 7 della quarta sezione penale del tribunale ordinario di Roma, giudice monocratico Maria Bonaventura, lo Stato salda il primo « conto » (si fa per dire) con la domenica della vergogna. 31 agosto, Roma-Napoli. Ventiquattro ore di normale devastazione. E fanno 4 mesi e 10 giorni di reclusione, 800 euro di multa. Sospensione condizionale della pena. Danilo, libero già la mattina del 1 settembre, libero resterà.Per liquidare una storia che, non più tardi di dieci giorni fa, aveva messo a rumore Governo, opposizione, Dipartimento della Pubblica Sicurezza, sono sufficienti quindici minuti di orologio. Danilo non c’è. Se ne è rimasto a Napoli, perché la prima regola, in ogni processo ultras, è « buttarsi contumace ». Far dimenticare la propria faccia a chi ti dovrà giudicare e confidare nel tempo che, nel calcio, è medicina miracolosa, capace di annebbiare la rabbia e la paura. Alessandro Cacciotti, l’avvocato che difende Durevole, confabula con il pubblico ministero. Chino sul codice, somma e sottrae con perizia contabile. Quando si raddrizza per interloquire, appare soddisfatto. « Patteggiamo », dice. Il giudice chiede: « In che misura? ». « Mesi 3 di reclusione, 600 euro di multa. Pena sospesa ». « Mi sembra un po’ pochino, avvocato, non crede? ». Cacciotti appare sconcertato: « Mi scusi, signor giudice, in fondo il mio cliente che ha fatto? ».

Già, in fondo, Danilo Durevole ha avuto soltanto la sfortuna di essere uno dei due soli tifosi napoletani arrestati quel giorno. Se ne stava tranquillo in curva nord con « una torcia esplosiva in mano ». Era arrivato da Napoli su un treno sequestrato in partenza e devastato lungo il tragitto (500 mila euro di danni). Dalla stazione Termini aveva raggiunto l’Olimpico su un convoglio speciale dell’Atac da cui, lungo un tragitto di poco più di 4 chilometri, erano state lanciate appena 41 bombe carta. Aveva soltanto menato mani e piedi con chi lo ha arrestato. Allarga le braccia Cacciotti, in un crescendo di enfatica incredulità.

« Una vicenda come al solito amplificata dai media. Il ragazzo è incensurato e in fondo risponde solo del possesso di un petardo e di resistenza alla polizia. Normale, quando si viene fermati in uno stadio ». Il giudice lo interrompe: « Il contesto in cui si sono svolti i fatti è particolare. Provi a riformulare la richiesta, avvocato ». Cacciotti riformula: « Potrei arrivare a mesi 4 e giorni 10″. Il giudice: « Quattro mesi e mezzo, direi ». Cacciotti: « No, giudice, 4 mesi e 10 giorni che per altro è perfettamente divisibile con le imputazioni. Guardi, facciamolo insieme. Pena base, mesi 9 di reclusione. Ridotta per le attenuanti generiche a mesi 6. Aumentata per il secondo capo di imputazione a mesi 6 e giorni 15 oltre a 1.200 euro di multa. In forza del rito, ridotta a mesi 4 e giorni 10 di reclusione più 800 euro di multa. E naturalmente sospensione condizionale della pena ». Il pm annuisce distratto. Cinque minuti di camera di consiglio. Quattro mesi e 10 giorni siano. Pena sospesa.
Toccherebbe ora al suo compare, Diego De Martino. L’altro sfortunato. Quando lo hanno arrestato all’Olimpico, le mani le aveva impegnate entrambe. Una bomba carta nella sinistra. Un coltello a serramanico nella destra. Anche lui, libero, ha pensato bene di non affacciarsi in aula. Anche lui è difeso da Cacciotti. Meglio, da Cacciotti e Lorenzo Contucci, l’avvocato degli ultras, il professionista che ha legato la sua immagine all’omicidio di Gabriele Sandri (è l’avvocato della famiglia). Rispetto a Durevole, De Martino naviga in acque più agitate. Non fosse altro, perché ha precedenti per rapina e un Daspo di 3 anni scaduto pochi giorni prima di Roma-Napoli.

Ma Contucci non si perde d’animo. Sussurra all’orecchio del collega la trovata. « Signor giudice – argomenta Cacciotti – per De Martino chiediamo il rito abbreviato (prevede una riduzione di un terzo della pena, ndr) ma, preliminarmente, chiediamo una perizia sul coltello che la polizia dice di avergli sequestrato per verificare se effettivamente siano presenti impronte digitali dell’imputato. Vede, signor giudice, De Martino non ha avuto difficoltà ad ammettere le sue responsabilità. Ma il coltello, proprio no. Lui dice di non averlo mai avuto. E’ una questione di giustizia ».

La perizia sul coltello equivale a sostenere che la polizia ha mentito nel suo rapporto di fermo. Il giudice la concede e rinvia il processo « agli esiti dell’esame peritale ». Sul fondo dell’aula, i due poliziotti del reparto celere che hanno arrestato De Martino hanno la faccia di pietra. Uno di loro, Gianluca Salvatori, incrocia l’avvocato Contucci. « Ma non vi vergognate? », dice.

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Intervista-verità a Ivano Fanini

Posté par atempodiblog le 23 septembre 2008

Pantani, la provetta scambiata e il dopato che vincerà il Mondiale di Varese

Intervista-verità a Ivano Fanini, presidente dell’Amore & Vita: “I big hanno lasciato la Vuelta una settimana prima per assumere epo in tranquillità” – “Riccò? Da squalifica a vita” – “Tutti i miei ragazzi morti miseramente”

di Paolo Ziliani – paoloziliani.it

Non usa giri di parole Ivano Fanini, 57 anni, presidente del team ciclistico «Amore & Vita-McDonald’s», parlando dell’aria pesantissima che si respira in gruppo a 5 giorni dalla gara clou dei professionisti ai Mondiali di Varese.

Fanini, che Mondiali saranno?

«Se alla Rai facessero le cose per bene, domenica, al momento della premiazione della prova iridata su strada dei professionisti, dovrebbero mandare una didascalia che dica: “Corridore Tizio, medaglia d’oro, dopato; corridore Caio, medaglia d’argento, dopato; corridore Sempronio, medaglia di bronzo, dopato”».

Le sue sono accuse molto gravi.

«Lo so, ma accadrà quello che avviene da anni nei Giri d’Italia, di Spagna e di Francia: vincerà un corridore che si dopa, altrimenti non ce la farebbe, e batterà un corridore che si dopa e un altro che si dopa. E se le “cure” saranno state fatte in modo “intelligente”, l’antidoping non diventerà un problema».

Si spieghi meglio.

«Ha visto cos’è successo nell’ultima settimana della Vuelta? Tutti i big che puntano a vincere il Mondiale e i loro gregari sono tornati a casa senza un motivo giustificato. Ho chiesto al mio direttore sportivo, Pierino Gavazzi, che è stato tre volte campione d’Italia e ha vinto una Sanremo, come mai succede questo: e mi ha risposto che i corridori tornano per fare quello che in gergo viene chiamato il “rifornimento”, cioè per assumere epo al riparo da occhi indiscreti. È quello che i corridori chiamano “la cura”. La fanno tutti, il big che deve vincere e il gregario che deve aiutare a vincere. Unica avvertenza: sospenderla qualche giorno prima della corsa per non lasciare tracce il giorno fatidico».

Qualcuno però ogni tanto viene beccato.

«Poca roba. Nella rete generalmente finiscono i giovani, come Riccò e Sella. Dopo i tanti casi di doping in cui era stato coinvolto da dilettante, Riccò avrebbe già meritato di essere squalificato a vita. In quanto a Sella, fino a un anno fa era un corridore normale. Di colpo, al Giro 2008, è diventato un fenomeno: e anche nel suo caso la spiegazione ha il nome della nuova epo, il Cera. Anche lui in un certo senso paga l’inesperienza. Errori così non li commette certo un Piepoli, la lunga ombra di Riccò. Che la sua squadra ha licenziato lo stesso perché nessuno ormai si fida più di uno come lui».

Riccò cacciato dal Tour ha fatto rivivere i fantasmi di Pantani, spedito a casa in maglia rosa a Madonna di Campiglio il 5 giugno del 1999.

«È vero. Ma nessuno sa che anche l’anno prima, al Giro del ’98, quello da lui vinto trionfalmente, Pantani avrebbe dovuto essere mandato a casa. Invece al posto suo fu cacciato Forconi, un gregario. Che il giorno dopo, visto che era un mio ex corridore, era stato con me 6 anni all’Amore & Vita, venne a trovarmi in ufficio e mi raccontò tutto. “Hanno fatto uno scambio di provette e hanno mandato a casa me, che alla Mercatone sono l’unico ad avere i valori bassi”, mi disse. Riccardo era un modesto gregario, uno da 20-30 milioni di lire l’anno. Beh, dopo quell’episodio, e quella squalifica, si è costruito una villa sulle colline di Empoli: e si è fatto una posizione. Oggi collabora con Beppe Martinelli, il direttore sportivo di allora, ed è il team manager della Vangi, un club di dilettanti assai quotato».

Abbiamo parlato di Riccò, Sella, Piepoli, ma fra i corridori squalificati in casi diversi ci sono stati anche Basso, Di Luca, Petacchi…

«È una situazione senza ritorno. Un anno fa, al Giro, dopo il tappone dello Zoncolan vennero sottoposti a un controllo a sorpresa Di Luca, Riccò, Simoni e Mazzoleni: i 4 italiani meglio piazzati in classifica. Ebbene, tutti e 4 fecero la pipì degli angeli: in pratica mostrarono il profilo ormonale di un bambino di 7 anni. Una cosa da ridere. Nonostante questo, credo che Di Luca continui a intrattenere rapporti col medico super-squalificato Santuccione; e il massaggiatore di Riccò è sempre Pregnolato, che seguiva Pantani e fu incastrato nella retata dei Nas a Sanremo, nel Giro del 2001, con un sacco di robaccia in valigia, quindi venne squalificato. Per non parlare di Basso, che è stato coinvolto nell’Operación Puerto, ha raccontato un sacco di balle e adesso è pronto al rientro, bello come il sole».

Che cosa si dovrebbe fare?

«Squalificare a vita l’atleta trovato positivo. Ed estendere automaticamente la squalifica al team manager, o direttore sportivo, perché alle verginelle tradite dal loro pupillo non crede più nessuno. Due anni fa, dopo i pasticci combinati dai suoi corridori, la Milram ha licenziato in tronco il d.s. Stanga – che sapeva tutto – e ha fatto bene. E mi chiedo: che cosa ci sta a fare ancora nel ciclismo uno come Bjarne Rijs? Uno che ha imbrogliato tutta la vita, che ha vinto un Tour da dopato e che dopo gli scempi commessi da d.s. è ancora lì, sull’ammiraglia, e ha appena vinto il Tour de France con Sastre, che sul podio a Parigi ha avuto l’impudenza di ringraziare Manolo Saiz, ossia il principale artefice del doping nel ciclismo assieme ai medici Ferrari e Santuccione».

Lei è il presidente dell’Amore & Vita-McDonald’s e da molti anni si sta battendo a spada tratta contro il doping. Perché lo fa?

«Fino al ’98 sono stato un dirigente come un altro, ho fatto come tutti. Le mie squadre hanno vinto una quindicina di tappe, tra Giro e Vuelta, con corridori che si dopavano. Poi ho cominciato a vedere ragazzi che stavano male, ho cominciato a contare i morti, e mi sono ribellato. Vuole sapere quanti miei ex ragazzi sono morti negli ultimi anni? Sei. E ben tre nelle ultime tre stagioni: Galletti, Cox e Fois. Galletti l’avevo ingaggiato a 30 anni a patto che non toccasse più il doping e si era rilanciato al punto da diventare un fido gregario di Cipollini. È morto in gara due anni fa. Cox, sudafricano, aveva talento e a 23 anni era passato alla Barloworld: a 28 anni è morto nel suo Paese, abbandonato da tutti, dopo un’inutile operazione in Francia per problemi vascolari dovuti all’assunzione di sostanze proibite. Fois è stato l’ultimo, circa 6 mesi fa: è morto con la maglia dell’Amore & Vita nell’armadio. Come ho fatto spesso con tanti corridori in difficoltà, l’avevo ingaggiato per ridargli una ragione di vita, per toglierlo dalla strada. Si stava riprendendo. Non ce l’ho fatta».

Ma i telecronisti e gli inviati, quando Riccò vince «alla Pantani», si perdono in peana.

«Sanno tutto ma tacciono. E quando succede il fattaccio fingono di stracciarsi le vesti. La parola d’ordine è “business & spettacolo”: il resto non conta. E la salute dei corridori meno che mai. Un dramma, perché molti di questi ragazzi, quando subiscono lunghe squalifiche o smettono di correre, passano dal doping alla cocaina o ad altre tossicodipendenze. Com’è successo a Pantani, a Jiménez e a Fois: che purtroppo oggi non ci sono più».

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Baby calciatori, silenzio stampa sui risultati

Posté par atempodiblog le 20 septembre 2008

Baby calciatori, silenzio stampa sui risultati:
vedere la classifica è stress

Baby calciatori, silenzio stampa sui risultati dans Articoli di Giornali e News sereni03gcm5

Spero che Il papà di Giovanna, il nuovo bellissimo film di Pupi Avati, arrivi presto sugli schermi della Gran Bretagna e spero che lo vadano a vedere tutti i dirigenti del football inglese che ieri hanno abolito risultati e classifiche dei campionati dei bambini di 7 e 8 anni (in alcune zone, anche di quelli di 9, 10 e 11 anni). Il film potrebbe essere un provvidenziale antidoto alla sciagurata illusione di preservare i piccoli dal trauma della sconfitta, dall’onta dell’ultimo posto, perfino dall’istinto della competizione.
Perché questo è il movente ultimo dei dirigenti del calcio inglese: proteggere i bambini, evitare che fra loro qualcuno emerga come più bravo e quindi qualcun altro, inevitabilmente, come meno bravo; soprattutto, poi, evitare la gogna mediatica della classifica appesa all’ingresso degli spogliatoi o magari – orrore – pubblicata sul settimanale locale. Resta il gioco, restano i gol, restano i più forti e i più scarsi, perché la realtà non la si può eliminare. La si può però nascondere. Non basta più ovattarla con De Coubertain, addolcirla con un complimento, ripararla con un giocattolo. No: la realtà, quando è sgradevole, bisogna occultarla, negarla.
La partita senza risultato e il campionato senza classifica sono l’ultimo anello di una catena che parte da lontano, dal vietato sgridare del dottor Spock all’abolizione dei cartelloni murali con i voti di scuola a fine anno. Così come il bocciato non deve essere traumatizzato dal vedere il proprio nome in quella che ormai viene considerata una lista di proscrizione, il baby inglese non deve provare l’umiliazione neppure di un secondo posto.
Va detto che tra le motivazioni addotte dalla federazione calcistica inglese ce n’è una non peregrina, che si rifà all’ormai straripante e prepotente presenza dei genitori alle partite di calcio dei bambini. Chiunque abbia figli che giocano sa di che cosa parlo. Fino a una ventina di anni fa ai campionati di pulcini, primi calci e giovanissimi il genitore era una presenza rara e persino preziosa: serviva a dare una mano, anzi un volante e quattro ruote, ad allenatori e accompagnatori indaffarati a organizzare le trasferte. Sugli spalti non si sentiva gridare un «bravo», né un batter di mani. Oggi papà, mamme, zie e nonni si costituiscono in tifo organizzato: cominciano incitando; poi passano all’insulto all’arbitro; quindi a quel pirla dell’allenatore che non capisce che mio figlio non può giocare sulla fascia; infine la rissa con i genitori dell’altra squadra: sta’ zitto, che c. vuoi, ti faccio un c. così, ci vediamo fuori.
Ma non è con l’abolizione del risultato e della classifica che si risolve il problema. Intanto perché i genitori-ultras ai bordi del campo se ne fregheranno del mancato verbale: continueranno a seguire la partita e a contare i gol. E poi non è anestetizzando i bambini che si placano i furori e le frustrazioni degli adulti. Si puniscano loro, piuttosto: si impedisca ai genitori scalmanati di seguire i figlioli al campo.
I bambini poi, anche quando perdono, soffrono molto meno di quanto soffriamo noi per loro. Prima ancora di rientrare negli spogliatoi, per il bimbo la sconfitta è digerita, il gol in fuorigioco dimenticato, il fallo accettato come facente parte della realtà di una partita.

Eppure è nel malinteso tentativo di tutelarlo da un trauma che la federazione inglese – e chissà quanti altri tra poco – vogliono privarlo dell’aspetto più sano del gioco. La competizione non è – non deve essere, almeno – occasione per prevaricare e per irridere. Ma per sperimentare se stessi sì; per provare fatica, per capire che ogni traguardo va meritato, per fare esperienza della gioia di una vittoria e della delusione di una sconfitta. Perché di questo i bambini dovranno poi vivere: fatica, merito, gioia, delusioni, vittorie e sconfitte.
Come Il papà di Giovanna trucca i risultati degli esami di maturità per procurare un fidanzato alla figlia bruttina, i dirigenti del football inglese truccano anzi addirittura annullano le classifiche per evitare uno scacco ai bambini meno bravi. Come Il papà di Giovanna, vogliono tenere i bimbi sotto una campana di vetro, nell’illusione di preservarli dalle prime avvisaglie dell’asprezza della vita. Ma come Il papà di Giovanna produrranno disastri. I bambini sono abbastanza intelligenti per capire, e una sconfitta tenuta nascosta fa più male di una sconfitta accettata.
Questo dovremmo capire noi che siamo un po’ tutti papà di Giovanna: dovremmo capire che i nostri figli sono più forti di quanto noi immaginiamo.

di Michele Brambilla – Il Giornale

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Perché i cristiani contano meno degli orsi?

Posté par atempodiblog le 13 septembre 2008

Perché i cristiani contano meno degli orsi?
Il Cardinale Caffarra denuncia il silenzio dei media sulle persecuzioni in India

BOLOGNA, giovedì, 11 settembre 2008 (ZENIT.org).- Il 9 settembre scorso, in occasione della giornata di preghiera e di digiuno per i cristiani perseguitati nello Stato indiano dell’Orissa, il Cardinale Carlo Caffarra ha denunciato il “silenzio assordante dei media”, più preoccupati degli orsi che dei cristiani, ed ha spiegato “la grandezza del martire che smaschera la povera nudità del relativismo”.

Di fronte alla comunità di fedeli riunita nella Cattedrale di Bologna, l’Arcivescovo di questa città ha rivolto il proprio pensiero ai fratelli e alle sorelle indiani, perseguitati e martirizzati ed ha ribadito l’accorato appello del Santo Padre, sostenendo di volere con il “digiuno e la preghiera condividere la stessa passione di chi è perseguitato per il nome del Signore”.

Solidale e vicino alle sofferenze e ai disagi dei cristiani indiani, il porporato ha denunciato “l’assordante silenzio’ che i mezzi della comunicazione (esclusi quelli cattolici) [...] stanno mantenendo su queste gravi violazioni a fondamentali diritti della persona: il diritto alla vita, e il diritto alla libertà religiosa”.

“Questo ‘assordante silenzio’ ci dona materia di profonde riflessioni”, ha commentato il Cardinale Caffarra, che si è poi chiesto: “perché ci si mostra più preoccupati della sorte degli orsi polari che di uomini e donne colpevoli solo di aver scelto la fede cristiana?”.

L’Arcivescovo di Bologna ha cercato di spiegare questo comportamento precisando che “il martirio disturba gravemente chi ritiene che alla fine tutto è negoziabile; chi nega che esista qualcosa di indisponibile e che non può essere mercanteggiato”.

“Il martire – ha aggiunto – esalta la dignità della persona in modo che non può che essere censurato da chi pensa che alla fine l’uomo è solo un frammento corruttibile di un tutto impersonale. La grandezza del martire smaschera la povera nudità del relativismo”.

Il porporato ha quindi ricordato le vicende e l’insegnamento di Gesù, che è morto in Croce per salvarci ed ha spiegato che “i nostri fratelli e sorelle stanno percorrendo la via del Signore”.

“Essi sono il chicco di grano che caduto nella terra indiana, porterà molto frutto – ha proseguito –. Hanno ritenuto che è meglio, se così vuole Dio, soffrire operando il bene piuttosto che facendo il male”.

“I fratelli e sorelle perseguitati – ha concluso – ci stanno dando il più grande insegnamento sull’uomo, sulla sua dignità, sulla sua altissima vocazione”, per questo “non ci turbi più nulla, ma adorando solo Cristo nel nostro cuore, siamo pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in noi”.

Fonte: ZENIT.org

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Ai tg piacciono più gli dei cristiani

Posté par atempodiblog le 13 septembre 2008

AI TG PIACCIONO PIU’ GLI ORSI DEI CRISTIANI
Scritto da: Riccardo Cascioli il 10-9-2008

A quanti, seguendo i TG serali, si sono preoccupati nei giorni scorsi per la sorte di nove orsi polari farà sicuramente bene sapere che si trattava della ormai solita bufala ecologista. L’ha smascherata il sito SVIPOP con una ricostruzione puntuale dei fatti: si è partiti da un casuale – e unico – avvistamento a metà agosto da parte di un aereo governativo americano che era in zona per tutt’altro, per costruirci poi un romanzo che è andato arricchendosi via via di dettagli e ipotesi fantasiose senza alcun riscontro reale. Per quanto ne sappiamo, dunque, quegli orsi probabilmente stavano tranquillamente nuotando per fatti loro come è normale che facciano.

La cosa che però qui ci interessa maggiormente è il fatto che le redazioni RAI e Mediaset avevano tutta la possibilità di verificare la fondatezza o meno della notizia, ma hanno preferito spararla così, evidentemente hanno ritenuto che queste notizie aumentano  gli ascolti. Senonché proprio negli stessi giorni – come abbiamo ricordato in una precedente notizia – nello stato indiano dell’Orissa si è registrata un’ondata di violenze contro i cristiani che ha provocato dai 50 ai 100 morti (a seconda delle fonti) e decine di migliaia di sfollati. E di questo TG1 e TG5  hanno preferito non dare conto. Peraltro la situazione nell’Orissa e in altri stati indiani è da anni critica per i cristiani, non si tratta perciò di un episodio isolato, e meriterebbe perciò qualche approfondimento.

Dunque di fronte a due notizie – una drammaticamente vera, che coinvolge decine di migliaia di esseri umani, e una già “fortemente sospetta” e poi rivelatasi clamorosamente falsa, con nove orsi protagonisti – i due più importanti TG della sera hanno scelto di dare ampio risalto soltanto alla seconda (il fenomeno è vero anche per i maggiori quotidiani, ma la tv ha chiaramente un impatto ben diverso). La cosa dimostra che nelle notizie c’è una vera e propria gerarchia, condivisa sia dalle direzioni dei principali TG sia dal pubblico che li segue: la sorte degli animali è più importante della sorte degli esseri umani (anche la notizia degli orsi fosse stata vera, nove plantigradi contano più di decine di migliaia di uomini indiani); tra gli esseri umani poi, i cristiani sono in fondo alla graduatoria: pochi giorni prima la denuncia delle violenze sulla popolazione tibetana ha avuto ben altro risalto, mentre dei cristiani cinesi che soffrono uguale persecuzione nessuno ne parla e a loro nessuno dedica medaglie olimpiche.

Ma soprattutto dobbiamo notare che ormai anche nei TG dilaga la fiction, che ha preso il posto della realtà. Così una mega-bufala come quella degli orsi toglie lo spazio ad eventi reali come la persecuzione in India, non ultimo perché fa più spettacolo. Dobbiamo perciò abituarci a guardare ai canali informativi principali come a un’ulteriore forma di spettacolo, che non solo non ci informa veramente ma ci “distrae” dalla realtà.

Anche questo è un effetto della secolarizzazione, della perdita dell’identità cattolica. Il cristianesimo è l’unica religione che guarda alla realtà in modo positivo, perché la realtà è segno di Cristo. La realtà va dunque affrontata e vissuta per quello che è. Ma quando si perde questo significato la realtà diventa inconoscibile, fa paura. Allora ci si crea una realtà a propria immagine o ad uso e consumo del potere dominante. E’ bene prenderne chiaramente coscienza per non lasciarci ridurre in schiavitù, e tornare protagonisti nel mondo. 

Fonte: Il Timone

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La « dolce morte » per tutti

Posté par atempodiblog le 9 septembre 2008

Ecco l’ultima idea di Zapatero:
la « dolce morte » per tutti


Il governo intende concedere il diritto all’eutanasia anche a chi non è malato terminale. Il ministro spagnolo della Salute anticipa le linee guida di una normativa che entrerà in vigore entro la fine della legislatura…

Madrid – L’ultimo affondo del governo Zapatero ai valori della Chiesa cattolica si chiama eutanasia e arriva con parole che evocano un’epoca che credevamo superata. «Il proprietario del tuo corpo sei tu e sei tu che decidi. Questo è socialista!». Sembra uno slogan del Sessantotto e in un certo senso lo è. Perché il terreno di coltura che lo ha prodotto è proprio quello, quello dell’autodeterminazione che, rifiutando le regole, assurge paradossalmente a regola essa stessa. L’unica differenza è che non siamo nel Sessantotto, ma quarant’anni dopo, oggi, e che a parlare non è un figlio dei fiori ma Bernat Soria, il cinquantasettenne ministro della Salute spagnolo.
È su questa libertà di decidere del proprio corpo, oltre che della propria vita e della propria morte, che la Spagna guidata dal socialista José Luis Zapatero si avvia a varare una legge che preveda il suicidio assistito. Con un deciso colpo di acceleratore e in barba a tutte le resistenze della società civile, in particolare di quella cattolica, tanto da puntare a realizzare l’obiettivo entro la fine di questa legislatura, vale a dire entro il 2012, e attraverso una modifica del Codice Penale.
In una intervista rilasciata al quotidiano El Paìs, Soria spiega che l’intervento, legislativo e normativo allo stesso tempo, rientrerà nell’ambito di un più ampio progetto che riguarda le norme a garanzia di una “morte degna“.
«La battaglia contro la morte non si può vincere, ma quella contro il dolore sì», ha detto Soria spiegando che la legge attualmente in vigore, voluta dal Partito Popolare, dà la possibilità ai malati di morire senza soffrire, ma la sua applicazione, di fatto, la annulla. «Per questo – dice Soria – abbiamo elaborato una strategia nazionale per le cure palliative, che include la formazione professionale, facilitazioni per l’assistenza domiciliare, regolare le fasi terminali della malattia, la “morte degna” e il diritto di ogni malato di poter decidere di interrompere le terapie». Che, in altre parole, significa che il governo Zapatero intende concedere a tutti, anche a chi non è un malato terminale, di porre fine alla propria vita. Con il placet e l’aiuto dello Stato.
A poco servono le rassicurazioni circa la “collegialità” e la serietà con la quale sarà definito il progetto, aprendo prima di tutto una riflessione in seno al governo: «Il ministero della Salute e quello della Giustizia – ha detto Soria – si apprestano a consultarsi con esperti del settore» per creare una commissione che offra elementi in base ai quali «prendere una decisione politica».
Politica, appunto, perché al di là della presunta difesa del malato e del suo diritto ad autodeterminarsi, questo progetto del governo Zapatero altro non è che l’ennesima mossa volta a smantellare la rete sociale e di diritto costruita dai precedenti governi guidati dal Partito Popolare. In Spagna l’eutanasia non è consentita ma la legge permette ai malati di rifiutare di essere curati. Un’eventuale legislazione sul suicidio assistito potrebbe riguardare le persone gravemente malate ma non in immediato pericolo di vita. Un distinguo fondamentale, che apre scenari inquietanti di arbitrarietà e intorno al quale non c’è alcun dubbio che si scateneranno le polemiche e gli attacchi politici, in primis da parte della Chiesa cattolica, come già avvenuto per le leggi sul matrimonio gay con possibilità di adozione e il divorzio breve. Oltre che sull’apertura di Zapatero verso la fecondazione assistita ai single e la revisione della legge sull’aborto. Ma la reazione della Chiesa cattolica spagnola pare non preoccupare affatto il governo: «Come ministro e deputato socialista – ha detto Soria – l’unico mandato di cui devo rispondere è quello conferitomi dai cittadini. Non so quali strategie terranno la Conferenza Episcopale, il Partito Popolare e altri gruppi, e comunque non è rilevante».

di Barbara Benini
Il Giornale n. 36 del 2008-09-08

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