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«Pecore e Pastori»

Posté par atempodiblog le 25 novembre 2008

«Pecore e Pastori». Il nuovo saggio del cardinal Biffi
di Andrea Tornielli

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«Una delle cose che mi impressionano di più è che al giorno d’oggi non è più l’eresia, ma è l’ortodossia a fare notizia». Giacomo Biffi, ottant’anni lo scorso giugno, arcivescovo emerito di Bologna, milanese di nascita, porporato che non ha mai avuto paura ad apparire controcorrente, dopo il volume Memorie e digressioni di un italiano cardinale pubblica per le edizioni Cantagalli un nuovo libro intitolato Pecore e Pastori. Riflessioni sul gregge di Cristo (pagg. 256, euro 13,80, in libreria dal 25 novembre). Chi sono le pecore e chi è il pastore? Quali i loro compiti? Parte da queste domande, il cardinale, che in una delle pagine del volume scrive: «Oggi sempre più frequentemente ci si meraviglia quando un papa o un vescovo dice ciò che la Chiesa ha sempre detto (e non può non dire perché appartiene al suo patrimonio inalienabile); come se fosse ormai persuasione pacifica che anche la Chiesa non creda più al suo messaggio di sempre. Talvolta in qualche settore del mondo cattolico si giunge persino a pensare che debba essere la divina Rivelazione ad adattarsi alla mentalità corrente per riuscire “credibile”, e non piuttosto che si debba “convertire” la mentalità corrente alla luce che ci è data dall’alto. Eppure si dovrebbe riflettere sul fatto che “conversione” non “adattamento” è parola evangelica». Del resto, «la prima frase che Gesù pronuncia inaugurando il suo apostolato non è: “Il mondo va bene così come va; adattatevi al mondo e siate credibili alle orecchie di chi non crede”; ma è: “Il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo”». Il brano del nuovo libro di Biffi che anticipiamo in questa pagina è dedicato al tema dell’omosessualità e più in generale della sessualità. Il rispetto, l’accoglienza e la misericordia per il peccatore non inibiscono il cardinale dal ricordare le parole severe contenute nella Scrittura.

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Quella battaglia contro la verità

Posté par atempodiblog le 25 novembre 2008

Russia
Quella battaglia contro la verità

Pigi Colognesi – tracce.it (RIVISTA INTERNAZIONALE DI COMUNIONE E LIBERAZIONE)

La Rivoluzione d’ottobre compie novant’anni. Tra dibattiti, ricostruzioni storiche e celebrazioni di qualche nostalgico. Ma che cosa c’era alla radice di quel fatto capace di generare tragedie nella storia? Un rifiuto della realtà. E un pericolo molto attuale

La Rivoluzione sovietica compie novant’anni. Siamo invasi da ricostruzioni storiche, interpretazioni politiche, dotti dibattiti su meriti e torti dei seguaci di Lenin che hanno attuato il primo esperimento di società comunista, col suo strascico di morti, dittatura, gulag. Non mancano i nostalgici, pervicacemente attaccati all’idea che, in fondo, quella rivoluzione è stata e rimane un grande ideale, malauguratamente tradito dai suoi stessi promotori. Né mancano i parallelismi tra l’Urss e l’attuale Russia putiniana, tornata a far la voce grossa sullo scacchiere internazionale.
Qui non ci occupiamo di tutto ciò. Vogliamo tentare di rispondere a un’altra domanda. Cosa ci dice oggi la Rivoluzione d’ottobre? Va da sé che la storia non si ripete e che, quindi, le condizioni attuali sono così diverse da quel lontanissimo 1917 che ogni parallelo potrebbe apparire forzato. Tuttavia la storia dovrebbe essere magistra vitae e pertanto pertinente al nostro presente. È dunque importante cercare di capire se qualcosa dei movimenti spirituali, culturali e politici che hanno determinato la Rivoluzione sovietica è presente ancora oggi. Tentiamo di rispondere utilizzando la mostra che la Fondazione Russia Cristiana ha curato nella scorsa edizione del Meeting di Rimini.

Il caso Tolstoj
Lev Tolstoj è stato l’intellettuale che più di ogni altro ha determinato la cultura russa dal secondo Ottocento fino alle soglie della crisi rivoluzionaria (muore nel 1910). Per tutta la vita inseguì l’ideale della giustizia e del bene, fino a costruire una sorta di religione fondata sulla non violenza, la bontà, lo spirito comunitario. Ovviamente Tolstoj – cui non sfuggivano le fondamentali domande religiose che urgevano in lui a un’apertura al Mistero – dovette fare i conti anche col cristianesimo. Ma ne accettò solo quello che poteva rientrare negli schemi della sua razionalistica visione del mondo. Benissimo l’insegnamento morale contenuto nel Vangelo, ma che non gli si parlasse della persona di Cristo (disse che non avrebbe neppure avuto piacere di incontrarlo) e tanto meno di una qualche autorità (quella della Chiesa) esterna alla sua coscienza. E la Chiesa ortodossa lanciò contro di lui l’anatema, anche per preservare dalla confusione il popolo che poteva scambiare la predicazione “buonista” di Tolstoj per vero cristianesimo. Da parte sua la Chiesa ortodossa si trovava da due secoli gravemente asservita al potere laico, come si trattasse di un ministero alla pari di altri; tanto che a capo del Santo Sinodo, la massima autorità ecclesiastica russa, sedeva un funzionario laico, nominato dallo Zar. Un cristianesimo, quindi, formalmente ossequiato, ma per certi aspetti lontano dalla vita del popolo e, soprattutto, dal cuore della riflessione culturale, ove si costruiva la mentalità futura. La presunzione razionalistica che si crede capace di costruire “l’uomo nuovo” e la debolezza esistenziale e culturale della Chiesa hanno sicuramente contribuito a creare il clima in cui lo spirito rivoluzionario ha potuto attecchire.
Non è difficile trovare analogia con l’oggi. Da un lato, un cristianesimo lontano dagli interessi integrali della vita, auto-recluso in una evanescente dimensione “spirituale” oppure occupato a cercare una piccola visibilità mediatica. Dall’altro, un mondo culturale e intellettuale che non può non riconoscere i “valori” del cristianesimo, ma che ne rifiuta il metodo essenziale: quello di una compagnia cui aderire e obbedire. In questa condizione si crea per forza un vuoto sia di consapevolezza, sia di esperienza. E uno spirito rivoluzionario (magari non di carattere sociale, ma, per esempio, ammantato di pretese scientifiche) può facilmente trovare terreno di coltura in questo vuoto.

Le radici del terrorismo
Il terrorismo aveva radici antiche in Russia (lo zar Alessandro II era morto in un attentato nel 1881), ma negli anni immediatamente precedenti la rivoluzione (e con immensa soddisfazione dei rivoluzionari stessi) raggiunse livelli spaventosi: dal 1900 al 1917 ci furono oltre ventitremila attentati con più di undicimila morti. La vita umana non aveva più nessun valore di fronte alla volontà rivoluzionaria di far cadere il regime. Fino al punto che l’assassinio in quanto tale (a prescindere dai suoi obiettivi politici) era diventato un “valore”. E se a morire in qualche attentato erano anche civili innocenti, non importava; anzi: poteva servire a creare il desiderato clima di terrore. C’erano pure i kamikaze (nel 1907 una ragazza ventunenne entrò nella direzione carceraria di San Pietroburgo con addosso cinque chili di nitroglicerina) e i progenitori delle autobombe (una carrozza imbottita di esplosivo, lanciata contro l’abitazione del Primo Ministro).
Prima della Rivoluzione d’ottobre ci fu una specie di prova generale, nel 1905. Riflettendo su quel primo sussulto, un gruppo di pensatori (Bulgakov, Berdjaev, Struve e altri) pubblicò una raccolta di saggi intitolata La svolta (Vechi). Vi analizzavano soprattutto le colpe della classe intellettuale. Ma quel che qui importa rilevare è che gli estensori di Vechi avevano acutamentemesso in evidenza l’assurda propensione al nulla, alla distruzione, alla morte che animava i rivoluzionari. È impressionante rileggere oggi quelle pagine. Sembra che gli estensori stiano descrivendo la malattia da cui è afflitta la nostra società: non c’è nulla di certo, ogni vecchio valore va distrutto, le basi della convivenza devono essere completamente sradicate, ogni tradizione rifiutata. Essi parlano esplicitamente di funesto «amore per la morte», di fascino del nulla, come del tarlo sotterraneo ma attivissimo che rode le radici della società.

«Lottare contro il gelo»
Non possono non venire in mente le cronache attuali: la paura del terrorismo sta ormai nel sottofondo della nostra consapevolezza quotidiana, così come l’ansia di fronte a trasformazioni che non sappiamo governare, dall’imponente fenomeno migratorio alle incontrollabili mutazioni climatiche. Ma quel che più colpisce è la somiglianza della situazione spirituale di fondo descritta da Vechi con la nostra. La violenza gratuita o per futili motivi (in famiglia, nelle scuole, sulle strade) denota un grave sprezzo per la vita, una sua radicale svalutazione. La verità sembra diventata una chimera irraggiungibile, tanto che il percorso educativo la lascia fuori dal suo orizzonte, sostituendola con qualche blanda regola di convivenza (che alla fine non può che essere un equilibrio di potere). L’assenza di certezze viene eretta a criterio di sanità e laicità del pensiero, generando una insicurezza di fondo dove ogni avventurismo può trovare spazio. «Noi amiamo la morte», dicono nei loro messaggi alcuni kamikaze; e così sembrano confermare che la religione è nemica della vita. Mentre l’Occidente «sazio e disperato» la vita l’ama così poco che i figli stessi diventano un problema. Per questo Benedetto XVI ha parlato di una grave malattia morale che attanaglia la nostra civiltà e che consiste esattamente in una strana propensione per il nulla.
Da premesse simili derivò la rivoluzione sovietica. Non sappiamo cosa ci riserva il futuro. Chiara è la responsabilità dei cristiani: la testimonianza che il nulla non può vincere perché è già stato sconfitto. Come diceva Sergej Fudel’, un credente russo che ha passato decenni in lager, il nostro compito è quello di «lottare contro il gelo che attanaglia il mondo col tepore del proprio respiro».

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«La Chiesa è donna e loro ne sono la testimonianza vivente»

Posté par atempodiblog le 24 novembre 2008

Parla la badessa Anna Maria Canopi
«La Chiesa è donna e loro ne sono la testimonianza vivente»
La scelta «Leggiamo le notizie essenziali su alcuni quotidiani per capire le necessità di tutti gli uomini»
di Gian Guido Vecchi – Corriere della sera

«Si dicono troppe parole, c’ è troppo rumore. Ciò che più manca al mondo è l’ interiorità, la profondità: il silenzio». Per questo cresce il numero di giovani che scelgono la clausura, madre? «La scelta oggi è più consapevole e responsabile, una responsabilità che è dono della Grazia di Dio. Le vocazioni contemplative crescono in una società satura di frastuono, di superficialità, anche di volgarità. Si sceglie di impostare la vita su valori eterni, di tornare all’ essenzialità, alla purezza, alla semplicità. Nel Vangelo Gesù dice: rimanete nel mio amore. Rimanete. Significa sostare, raccogliersi, non essere sempre in fuga». Anna Maria Canopi è fondatrice e badessa del monastero Benedettino di clausura «Mater Ecclesiae», nell’ isola di San Giulio sul lago d’ Orta. Arrivarono in sei nel ‘ 73, la piccola isola era abbandonata come l’ ex seminario, oggi le monache sono più di settanta ed il luogo così ieratico e suggestivo che ne I numeri della sabbia di Roger Talbot, thriller fantareligioso che sta scalando le classifiche, diventa il centro dell’ azione, con la superiora dipinta quale Custode dell’ unica copia originale dell’ Apocalisse. Ma la realtà sa essere più sorprendente, la vera badessa è una grande studiosa di Patristica, autrice di diversi libri di Lectio divina e spiritualità cristiana e monastica. Madre Canopi ha collaborato all’ edizione della Bibbia Cei e del Catechismo. Ed è l’ unica donna, con suor Minke de Vries, che sia mai stata chiamata a scrivere, nel 1993, le meditazioni per la Via Crucis del Papa. Al telefono la voce è fragile, sommessa, quasi disincarnata dall’ ascesi. A Sat2000 ha mostrato un volto sereno e luminoso, seminascosto dal velo nero. «Il silenzio è espressione della nostalgia. Siamo come gocce di rugiada che anelano a ritornare nell’ oceano infinito di Dio. Il Signore fa uscire dal silenzio tutto ciò che esiste perché quando si ama si dicono poche parole, e ci si dona». Le testimonianze raccontano spesso di donne colte… «Non è un caso: oggi sono veramente molte le donne colte che scelgono la vita claustrale perché la cultura, quando è seria, porta a scoprire i valori assoluti, il Bene assoluto che è Dio». Lei disse: la Chiesa è donna e le donne «l’ anima della Chiesa». Si pensa che le donne siano piuttosto ai margini. Cosa intendeva? «Le donne sono in certo modo « l’ anima della Chiesa » a somiglianza di Maria che vi è presente con cuore di madre, colma di amore. Per questo anche tra gli apostoli Maria non ha funzioni particolari: è il tempio vivente dello Spirito Santo che è amore e anima tutta la Chiesa». Perché la clausura femminile è più radicale? «È un dono. Certo dipende dai singoli, ma la donna, forse per l’ istinto materno, è portata alla dedizione totale, a compiere scelte di maggior sacrificio, nella gratuità». Come essere sicure di una scelta «per sempre»? «Chi entra in monastero ha in animo di donarsi per sempre; c’ è tuttavia un periodo di formazione, il noviziato, nel quale si è aiutate a fare discernimento sull’ autenticità della vocazione. Ci possono essere dubbi prima e dopo. Talvolta esistono motivi seri per non proseguire. Ma la vocazione che passa attraverso il crogiuolo della prova diventa più pura e forte». C’ è chi pensa alla clausura come una «fuga dal mondo» dettata dal pessimismo. Il mondo è messo così male? «La società del nostro tempo è gravemente malata di superficialità, relativismo, instabilità, protagonismo, edonismo, consumismo e molti altri mali che denotano, loro sì, una concezione pessimista dell’ uomo e della vita. Ha bisogno di una trasfusione di santità e ottimismo cristiano. Le comunità di vita contemplativa possono dare « pronto soccorso » offrendo il loro sangue purificato dalla comunione vitale con il Cristo». Che rapporto avete con il mondo esterno? «Sereni rapporti fraterni, accogliendo quelli che desiderano pregare con noi e approfondire la conoscenza di Dio ascoltando le Sacre Scritture. Noi non abbiamo né radio né Tv; non usiamo internet. Leggiamo alcuni quotidiani per assumere nella nostra preghiera le necessità di tutti, gioie e dolori». Perché il mondo ha bisogno della vita contemplativa? «Il monaco è colui che sta alla presenza di Dio per tutti. Nel silenzio e nella solitudine, nell’ ascolto della Parola e nella preghiera, nell’ umile amore oblativo, si può cercare e conoscere meglio Dio e testimoniarlo agli altri con una vita santa. E questo è possibile soltanto « nulla anteponendo all’ amore di Cristo », per attingere da Lui la grazia divina che rende capaci di amare fino a dare la vita per tutti». Ride con tenerezza, Madre Canopi, mentre racconta che da piccola diceva a sua madre di desiderare almeno venti figli, «quando poi sono entrata in monastero la mamma mi fece: ma tutti quei figli? E io le ho detto: bè, ne avrò altri…».

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Come la Madonna consolava la “Santa dei poveri”

Posté par atempodiblog le 22 novembre 2008

La luce di Maria nella notte oscura di Madre Teresa

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IL SENSO DELLA VITA NASCOSTO NELLA DEPRESSIONE…

Posté par atempodiblog le 20 novembre 2008

IL SENSO DELLA VITA NASCOSTO NELLA DEPRESSIONE… dans Antonio Socci antoniosocciff4ml2

A proposito di Buffon e delle suore…
di Antonio Socci – Libero

Cosa dà senso alla vita? Cosa le dà valore e gusto? Il soldi? Il successo? La salute? Per cosa vale la pena vivere? Mi ha colpito, in questi giorni, il casuale intrecciarsi sui giornali di storie apparentemente lontanissime. Tre storie.
Quella di Gigi Buffon, il portierone della Juventus e della Nazionale, quella di Eluana Englaro e quella di altre due donne, Maria Teresa Olivero e Caterina Giraudo, sequestrate cinque giorni fa in Kenia dove vivono come missionarie.

Buffon ha pubblicato un libro dove racconta la sua storia: “Numero 1”. Secondo il senso comune questo allegro giovanottone ha tutto per essere felice. Cosa gli manca? E’ il più grande portiere del mondo, ha la giovinezza, la salute, la celebrità, la prestanza fisica, il successo, i soldi, gli amori, gli amici, un lavoro che è la sua passione, perfino un carattere solare, la simpatia e il buonumore. Non gli manca niente.

Eppure proprio lui racconta come un giorno di dicembre del 2003 gli si è spalancato sotto i piedi l’abisso della depressione. Senza motivi particolari. Un velo scuro sempre più opprimente, uno smarrimento progressivo: “cosa mi succedeva?”. Racconta di momenti in cui si sentiva sprofondare: “ero impaurito… mi tremavano le gambe all’improvviso, un malessere continuo mi attraversava… come se fossi continuamente altrove”.

Quello di Buffon non è un caso strano. In forme diverse è quasi la normalità per i cosiddetti “uomini di successo”. Cesare Pavese diceva: “c’è qualcosa di peggio del fallire nei propri progetti: è riuscirci”. Perché è lì, quando sei “arrivato”, quando stringi fra le mani quello che volevi possedere, che avverti il nulla e ti scopri insoddisfatto, destabilizzato. Tanto da smarrirti.

Per superare questo senso “di paura e insicurezza” Buffon si è fatto aiutare. E comunque un giorno, d’improvviso, il sole è tornato: paradossalmente è tornato a splendere proprio con “l’orrenda partita Italia-Danimarca 0-0”, a dimostrazione che davvero il “male di vivere” non dipende da circostanze negative. Ma sta nell’anima.

L’uscita del tunnel
Oggi il celebre calciatore racconta cosa comprese all’uscita dal tunnel: “I soldi non sono tutto. In testa mi rimbalzavano queste parole. E all’improvviso capii quanto fossero vere. Mi resi conto che in certe situazioni i soldi con la tua vita non c’entrano nulla, non c’entrano coi tuoi valori, con quello che hai imparato, che impari ogni giorno e che puoi trasmettere a chi ti sta accanto”.

Quel gorgo oscuro – che sembrerebbe solo una disgrazia – in realtà gli ha lasciato un regalo prezioso, una consapevolezza più vera della vita, di ciò per cui vale la pena vivere. Tante cose possono farci capire meglio l’esistenza e renderci più umani e più saggi. Anche circostanze dolorose. Tutto può aprirci gli occhi e rivelarsi una carezza misteriosamente amica che dà una percezione più giusta della vita, che rende più autentici. Sì, perfino il dolore.

Proprio attraverso di esso alcuni hanno fatto incontri che hanno dato senso alla loro vita, sono diventati uomini eccezionali che danno speranza agli altri. Perle preziose. E’ il caso – per citare un altro campione del calcio – di Stefano Borgonovo che, a 44 anni, dopo la gloria dei prati verdi si è scoperto ammalato di Sla, una tremenda croce che gli impedisce ogni movimento, cosicché da tre anni vive su un letto, attaccato a un respiratore. La mentalità di oggi definirebbe tutto questo “un inferno”.

E invece chi ha incontrato Stefano, chi ha visto l’amore da cui è circondato dalla sua bella famiglia, chi ha potuto stupirsi dalla luce, dalla positività e dalla forza che emanano dal suo volto, come tanti amici calciatori (a partire da Roberto Baggio), commossi dalla sua umanità (due mesi fa gli hanno dedicato una partita allo stadio di Firenze, con lui a bordo campo) ebbene chi lo ha incontrato testimonia che è difficile trovare un uomo così vero, umano e appassionato alla vita. Uomini così sono la speranza del mondo.

Sembra incredibile, ma c’è un’impressionante quantità di persone così speciali che – nella malattia – vivono una vita più piena e umana di noi che magari scoppiamo di salute, ma non sappiamo perché siamo al mondo. Si può fare a meno di tutto, ma non del senso dell’esistenza. Che è la cosa essenziale e misteriosa che ti manca quando sembra non ti manchi niente. Tutto in noi lo desidera, lo cerca. Siamo come mendicanti, senza saperlo.

Non sapere chi sei e perché stai al mondo, non percepire l’utilità della tua esistenza, non sentirsi amati e non amare: questo è l’inferno. Non la mancanza di denaro o di salute.

Spettro della solitudine
Soldi, successo e salute non mettono al riparo dalla solitudine, dalla tristezza e dalla disperazione. Anzi, la nostra epoca mostra il contrario. Lo prova l’uso industriale che nelle società opulente si fa di psicofarmaci, alcol e droghe, cioè di trucchi chimici per eludere il “male di vivere”. L’uso compulsivo e congestionato del sesso, che caratterizza il nostro tempo di pornomania di massa, è un’altra droga per anestetizzare la solitudine, la sensazione d’inesistenza che ci avvolge.

Non c’è sciagura più grande, diceva Teilhard de Chardin, della perdita del gusto di vivere. Questa infelicità è un’epidemia dilagante. Nel mondo si verifica un suicidio ogni 40 secondi, un milione di morti l’anno. Secondo l’Oms dal 1950 al 1995 la percentuale dei suicidi è cresciuta del 60 per cento. In Italia se ne contano 4000 ogni anno ed è molto significativo che l’area più “colpita” sia il Nord-Est (Friuli 9,8 per cento), mentre la percentuale più bassa di suicidi si registra in Campania (2,6 per cento). Prova ulteriore che davvero non è il benessere economico, né il contesto sociale degradato, né la difficoltà materiale della vita a definire l’infelicità.

Per questo mi chiedo se la rappresentazione del presente che continuamente facciamo su giornali e televisione sia giusta. Non parliamo che di soldi, di bollette, di mutui, di sprechi, di tagli, di questioni sociali. Cose importanti – sia chiaro – ma la realtà è tutta qui? Noi siamo solo i nostri problemi sociali?

La risorsa della speranza
Siamo sicuri che il benessere che inseguiamo, come meta unica e assoluta, sia veramente la felicità? Certi ripetitivi programmi di informazione fanno pensare a una battuta di Bruce Marshall: “Oggi la gente vive nel benessere senza gioia. In fondo a una lunga sfilata di bollette della luce, del telefono e del gas, non intravede altro che il conto delle Onoranze funebri”.

Eppure ci sono più cose in cielo e in terra di quante ne veda la filosofia marxisteggiante ed economicista che ci domina: le cose che rendono la vita degna di essere vissuta, per le quali si può dare tutto, di solito sono oscurate. Perché non parlarne? Perché non raccontare le tante persone che testimoniano una speranza più grande delle difficoltà e delle sofferenze?

Dal rapimento, cinque giorni fa, delle due suore italiane in Kenia, scopriamo che ci sono fra noi persone – di cui i media non si occupano – che sono capaci di scelte di vita eccezionali, di un eroismo quotidiano (così pure le suore che da anni assistono amorevolmente Eluana). Perché lo fanno? Da cosa sono mosse? Cos’hanno conosciuto loro che noi non sappiamo? Quale tesoro hanno trovato che sa trasformare il dolore in amore? Abbiamo bisogno di saperlo, perché scoprire la speranza, per un popolo, è più importante che scoprire il petrolio.

E’ la risorsa più preziosa, come dimostra la nostra storia. Come c’insegnò don Giussani all’indomani di Nassiriya, davanti alla testimonianza della moglie del brigadiere Coletta. Nel dopoguerra avevamo un paese in ginocchio, uno stato a pezzi, un popolo sconfitto. Ed eravamo già prima una terra povera, senza materie prime. Eppure la nostra gente seppe esprimere un’energia inaudita che, nel giro di pochi anni, ci ha trasformato in una grande potenza economica. Da quali radici dimenticate è venuta quell’energia morale? Da quale speranza? Quale sconosciuta gioia di vivere sa ricostruire sulle macerie?

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Eluana, che sgomento la vita decisa nei tribunali

Posté par atempodiblog le 19 novembre 2008

I progressi della scienza ci portano ad affrontare problemi etici fino a pochi anni fa impensabili. Se avessi detto a mio nonno, nato nell’Ottocento e sopravvissuto a due guerre mondiali, che avrebbe potuto decidere, con l’aiuto di un atto notarile, in che modo morire penso onestamente che sarebbe inorridito. Come si fa a decidere prima una cosa di una gravità e di una complessità del genere? Certo, nessun essere umano sano di mente augura a se stesso e ai suoi cari di vivere in stato di incoscienza per anni o di dipendere dal funzionamento di una macchina. Ma una cosa è avere un timore, un’altra affrontare la realtà, quando si presenta.

Se capitasse a me, ad esempio, magari in quel momento vedrò lo sguardo della persona che amo e capirò che voglio continuare a vederlo o forse proverò curiosità per questa nuova fase della mia vita che si sta aprendo, un po’ come se visitassi una terra inesplorata. Oppure sarò sola, disperata, nessuno risponderà alla mia tristezza allora, certo, vorrò porre fine ai miei giorni. Ma come faccio a saperlo adesso, a decidere in un momento così lontano e così diverso? E se poi questa mia scelta autorizzasse qualcun altro a decidere per me? Contrariamente a quanto ci viene continuamente ripetuto, io penso che sappiamo ancora pochissimo sulla vita, su quello che c’è nella nostra mente, nel nostro corpo e che questo senso di ignoranza debba condurre al massimo timore, al massimo rispetto.

Nessuno di noi sa cosa provi veramente Eluana, nella sua attuale condizione, come non sappiamo perché le sia successo questo incidente, che senso abbia nella sua vita e in quella dei suoi genitori né perché il suo corpo continui ad essere così straordinariamente vitale. Questa vicenda provoca in me un senso di dolorosa compassione. Compassione per la sofferenza dei genitori, per quanto abbia dovuto soffrire – e per quanto ancora avrà da soffrire – la loro figlia; compassione per le suore che, per tanti anni e con tanto amore, si sono prese cura di lei. Ma oltre alla compassione, provo anche un senso di gelo e di sgomento perché l’idea che un tribunale non penale possa decidere della vita di un essere umano è qualcosa che esula dalla mia visione del mondo.

Sono profondamente contraria all’accanimento terapeutico, quando ci sono delle malattie devastanti e progressive, ma un tumore o una malattia metabolica sono ben diverse da uno stato vegetativo. Una delle cose che più mi sorprende, di questi nostri tempi, è la grande quantità di certezze che ci vengono proposte come verità assolute. L’uomo, ci viene ripetuto da più parti, ha una sola dimensione – quella razionale – e tramite questa razionalità è in grado di determinare ogni istante della sua vita in modo che l’imprevisto, quest’ospite scomodo e inquietante, scompaia definitivamente dall’orizzonte.

La vita che ci preparano i devoti della razionalità è una vita di estrema tristezza, dominata dall’ansia e dalla paura, una vita segnata dal continuo ricorso ai tribunali per avere una qualche certezza di essere nel giusto. Una vita, insomma, in cui l’uomo non è che una cosa tra le cose. Se vado in un negozio, infatti, non compro certo un oggetto guasto o scaduto e, se per caso mi capita di farlo, lo porto indietro, chiedendo un rimborso. L’essere cosa tra le cose ci porta a chiedere la perfezione, a bandire dal nostro orizzonte l’imprevisto della malattia, del dolore, lo spettro della morte. Sgombrato infatti il campo dalla necessità di interrogarsi sul mistero che avvolge le cose – perché il mistero non esiste, in quanto non provabile scientificamente – non rimane che appellarsi alla legge degli uomini, invocare una sentenza che confermi la correttezza del nostro sentire. Il tribunale è diventato il cuore attorno a cui ruota la nostra civiltà. La vita è, alla fine, un’avventura amara e, siccome non abbiamo chiesto di venire al mondo e non ne capiamo il senso, abbiamo il diritto di essere risarciti fino alle più piccole contrarietà che ci capitano.

Ricordo il caso di una ragazza che, avendo trovato un insetto in un pacchetto di patatine fritte, ha fatto causa alla ditta produttrice chiedendo i danni biologici per lo spavento provocato, danni che le sono stati peraltro riconosciuti. O casi di genitori che hanno denunciato un medico per un figlio nato con difetto di deambulazione. Ma è davvero questo il senso della nostra vita? Vivere accerchiati da pensieri ostili, da potenziali nemici, rivendicando continui danni subiti? Lo spirito del nostro tempo è quello del risentimento. Ma il risentimento è come una potente erba infestante, ha radici profonde, invasive e con il suo espandersi riduce fino ad eliminare la possibilità di provare un sentimento.

Si vuol far credere che il mistero – e dunque la domanda sulla trascendenza – sia un obsoleto retaggio del mondo clericale, mentre forse bisognerebbe dire che riguarda sempre e comunque ogni uomo, per la complessità della sua natura, per la presenza delle tenebre, per l’assoluta certezza della morte. Se contemplassimo con timore – altra grande parola scomparsa dal nostro orizzonte – questo mistero, forse saremmo costretti a interrogarci, a metterci in cammino, a entrare nell’idea che ogni cosa che accade nelle nostre vite ha un senso profondo e che crescere come esseri umani vuol dire proprio riuscire a capire questo senso, facendolo lievitare in qualcosa di più grande, di più alto, di più luminoso. La vita non è uno status quo da difendere con le unghie e con i denti, ma una condizione di continuo cambiamento, di cui, solo in parte, siamo responsabili. Ogni mattina, quando apro gli occhi, non so se arriverò alla sera o se ci arriveranno le persone a cui voglio bene. Siamo continuamente esposti all’impatto devastante del dolore, alla lacerazione del distacco, alla sofferenza delle persone amate. Proprio per questo, bisogna essere grati per ogni istante che ci viene donato, per tutte le cose, belle e meno belle, che avvengono nel corso dei giorni perché nel loro insieme costituiscono l’unicità del nostro cammino.

Sono anche profondamente convinta che ogni vita abbia la sua morte e che questi due eventi si illuminino di senso a vicenda. E che l’unicità della vita umana stia proprio nella capacità di creare rapporti d’amore. Qualche tempo fa, sono andata a trovare un’amica molto anziana ormai esasperata dall’essere ancora viva. «Dio si è dimenticato di me. Perché non muoio?», mi chiedeva. «Forse non muori perché devi ancora capire qualcosa», le ho risposto scherzosamente. «Forse perché quella pianta che hai sul davanzale domani fiorirà e tu rimarrai stupita dal suo colore, dalla bellezza che esploderà tra il grigiore dei palazzi». «Ma dov’è la misericordia di Dio?», ha incalzato lei. «Quella di Dio non lo so, ma so dove noi dobbiamo coltivarla. Nei nostri cuori».

di Susanna Tamaro – Il Giornale
www.susannatamaro.it

 

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« Ma San Francesco… »

Posté par atempodiblog le 18 novembre 2008

« Ma San Francesco avrebbe pianto solo i morti »
di Marzio G. Mian
Tratto dal sito di Vittorio Messori

Il povero Francesco è stato via via travestito e deformato in buonista, pacifista, verde, ecologista, animalista. Si sono impadroniti di questa figura dei personaggi che nulla hanno a che fare con il Francesco storico. Si tratta di travestimenti liberal, cattocomunisti, ecologisti; manipolazioni di gente abituata alla natura addomesticata, al parco dove fare una passeggiata. Ma non sanno cosa fosse la natura allo stato brado e Francesco, come tutti gli uomini del Medioevo, vedeva la Natura come un nemico, un pericolo da domare. Il ruolo del santo non è quello di fare della poesia sul lupo, ma di rendere il lupo inoffensivo. Nel Cantico delle Creature, egli parla di « sora acqua », di « sora morte », ma non degli animali. Qualcuno addirittura lo ha travestito da vegetariano. In realtà, quando poteva, mangiava allegramente le bistecche. Alcuni suoi discepoli -sventurato l’uomo che ha discepoli- pensarono di fargli piacere insistendo per passare al vegetarianesimo. Francesco s’arrabbiò moltissimo e disse che essere vegetariano è una forma di lusso da chi può scegliere cosa mangiare; invece i frati devono mangiare ciò che la Provvidenza metteva loro davanti, comprese le bistecche. Quindi Francesco non è un animalista e non è un vegetariano. E non è neanche un pacifista. Ci si dimentica che fu cappellano dei crociati. Non seguì i crociati per indurli alla non-violenza. Anzi: prima della celebre presa di Damietta, sul delta del Nilo, egli esortò i crociati prima della battaglia perché facessero fuori più saraceni possibile, E si recò dal Sultano non per « restaurare un dialogo », come direbbe un prete politicamente corretto, ma lo incontrò per convertirlo. Quindi anche il Francesco pacifista ed ecumenico è un travestimento. È vittima della sua grandezza, proprio perché è uno dei maggiori testimoni cristiani. Un’altro travestimento è quello del Francesco contestatore, simbolo di quelli che non rispettano la gerarchia. In realtà fu un santo obbedientissimo, che rispettava ogni ordine, venisse dal Papa o dal vescovo di Assisi. Ciascuno nella Chiesa ha la sua vocazione, e lui non possedeva certo quella della carriera gerarchica. Nella Chiesa ci sono due ruoli: uno istituzionale e uno carismatico. Certamente Francesco ha svolto al meglio un ruolo carismatico, ma come vescovo sarebbe stato un disastro. Non bisogna poi dimenticare il mito romantico ottocentesco. Francesi, inglesi o tedeschi si recavano ad Assisi e restavano folgorati dagli affreschi della chiesa Superiore, in gran parte responsabili della creazione della leggenda del lupo, degli uccellini, degli alberelli… Ma il Francesco vero era tutt’altro che buonista. Egli è vittima del mito romantico e della sua grandezza. I mediocri hanno una sola lettura, sono i grandi che hanno tante sfaccettature. Anche questo dibattito squallido sulla priorità dell’arte o della vita offende la figura sublime di Francesco. Noi siamo vittime dell’incanaglimento di una cultura tardoilluminista che fa dell’arte un feticcio da adorare. Siamo di fronte alla sacralizzazione della cultura e dell’arte, basta vedere le folle adoranti in quei cimiteri che sono i musei. È una forma di idolatria di fronte all’arte. E così quando viene toccato un capolavoro come quello della chiesa Superiore è chiaro che l’idolatria si scatena. Come accade al devoto se sfregiano la statua della Madonna. Devo dire brutalmente che dovendo scegliere tra la morte di un bambino e il crollo irreparabile della basilica di Assisi non ho esitazioni: preferisco il crollo della basilica. Una priorità che viene dalla fede. E credo che in questo Francesco sia d’accordo con me. A un credente, infatti, interessa la gloria di Cristo, tutto il resto è destinato a sparire: alla fine della Storia non ci saranno più capolavori. Anche se non viene il terremoto, tutti i capolavori d’arte sono a rischio, perché in una prospettiva di fede verranno inceneriti. Il peccato maggiore è l’idolatria. Vadano alla malora anche gli affreschi di Giotto se questa può essere una condizione per salvare anche una sola vita umana. E credo che oggi anche Francesco parlerebbe così.

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La prima condanna a morte repubblicana?

Posté par atempodiblog le 13 novembre 2008

Diventa definitivo il decreto della Corte di Appello di Milano che autorizza a sospendere l’ alimentazione artificiale che tiene in vita Eluana Englaro.
E’ la conseguenza della sentenza della Cassazione che oggi ha dichiarato inammissibile il ricorso della Procura di Milano contro il provvedimento del luglio scorso.

Tratta da: ANSA.it

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SIGNORI GIUDICI, PENSATECI AVREMO  LA PRIMA CONDANNA A MORTE REPUBBLICANA?
di Davide Rondoni – Avvenire

Ai Signori Giudici chiediamo solo una cosa: non dateci una condanna a morte. La prima condanna a morte dell’Italia repubblicana. Un genere di condanna che l’Italia ripudia – vantandosene dinanzi al mondo – e che mai nessun motivo di rivalsa, di odio, di giustizialismo ha introdotto sarà invece inaugurata in nome di una malintesa idea di pietà? È quasi sempre in nome del bene che gli uomini compiono qualcosa di oscuramente cattivo. Se la Corte darà il via libera alla volontà del padre di staccare l’alimentazione per Eluana e se egli troverà qualche centro medico disposto a farlo, avrà luogo l’esecuzione e l’inizio della pubblica estenuante agonia. 
Ai Signori della Corte chiediamo di considerare tutto questo: a una ragazza inerme, che non può né esprimere né difendere le sue reali, attuali volontà, si cesserà di dare alimento. A una ragazza, avvolta sì in un silenzio misterioso, ma non arida dentro, tanto da affrontare un’estenuante emorragia come le è capitato alcune settimane fa, si vorrebbe ora dare quella morte da cui ella con le sue sole forze si è invece tirata fuori. E questo perché qualcuno – a differenza di altri – non sopporta più questa dura, triste condizione. Il padre in coscienza ha voluto combattere questa strana battaglia perché sua figlia muoia. Non ce la faceva più. È comprensibile. Meno comprensibile l’accanirsi non perché le cure e la pazienza di altri sopportino la pena e le premure, bensì per la sua morte. Per toglierla di torno. Anche se non dà nessun fastidio, e già ci sono le voci di chi, come le suore che l’accudiscono, dice: la teniamo noi. Il problema, ora che i magistrati hanno scelto di occuparsi di questa faccenda, non è più, per così dire una drammatica faccenda privata tra il signor Englaro e sua figlia. È una faccenda di diritto. E il diritto italiano non contempla la condanna a morte. Per nessuno. Neppure per chi compie la strage o lo stupro più efferato. Vogliamo cominciare da una ragazza?
 
Il dilemma ora è: uno può chiedere e ottenere che un altro muoia? A meno che non si consideri Eluana già morta. Pensate a lei così, Signori della Corte? La medicina, secondo i protocolli internazionali, non classifica Eluana tra i morti. E nemmeno tra coloro che sono tenuti in vita con inutile accanimento. Voi la condannerete a morte? O la considererete come già morta? E siete certi che la sue condizioni siano davvero ‘irreversibili’, come lo stesso Pg della Cassazione ieri è sembrato chiedervi?

Bisognerà dunque avvisare tutti coloro che hanno parenti e amici in condizioni simili, e non sono pochi. Dire a loro: la Suprema Corte li considera
già morti, o condannabili. Il nostro è un appello senza potere e senza alcun velo politico. Abbiamo solo voglia che in Italia non si condanni a morte alcuno. Tanto meno una ragazza inerme. Nel tenerla in vita, secondo le condizioni che il destino ha misteriosamente riservato a lei, non si fa torto a nessuno. Nemmeno a lei, poiché nessuno può comunque arrogarsi il diritto di interpretare ora la volontà di Eluana . Le persone cambiano. La vita, lo sappiamo, ci modella, a volte radicalmente. Ma se si dà il via libera alla esecuzione allora si stabilisce che in Italia, a determinate condizioni, c’è la pena di morte. E che tali condizioni non sono d’esser assassini o stupratori, o terroristi. Ma la condizione è d’esser inerme, ‘inutile’, insopportabile, e nelle mani degli altri. Io non credo che i Signori della Corte siano favorevoli alla pena di morte. Non lo voglio credere. Magari lasciassero sospesa la vicenda, incalzando piuttosto il Parlamento a fare leggi chiare, a cui tutti attenersi e non variabili da giudice a giudice, da medico a medico. Non si sta ‘solamente’ discutendo di una ragazza, a cui certo tutti auguriamo un corso sereno del suo oscuro destino, ma di un caso le cui conseguenze varranno per tutti. Il suo povero corpo, la sua persona, che sembrano valere più niente, secondo la visione di chi la vede già come morta, potrebbero essere invece quelli di un’incredibile eroina. L’ultima muta barriera, la estrema insurrezione contro una strana volontà di introdurre nella nostra già feritissima Italia l’uso della condanna a morte.

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Non c’è più irreligione

Posté par atempodiblog le 13 novembre 2008

NON C’E’ PIU’ IRRELIGIONE
di Antonio Socci – @ Libero

Non c'è più irreligione dans Antonio Socci antoniosocci

“Dawkins: ho perso la battaglia per l’ateismo”. “Il sacerdote del’ateismo: ho fallito”.
Questi due titoli del Corriere della sera (7/11) rilanciavano le dichiarazioni al Guardian del famoso ateo militante Richard Dawkins.
Sebbene chi lo intervistava lo confortasse con notizie d’irreligione montante, il professore di Oxford, sconsolato, vede “una maggiore influenza della religione”.
Aveva scritto un libro, “L’illusione di Dio”, che ha venduto un mare di copie, con “lo scopo dichiarato di ‘convertire’ i lettori all’ ateismo”, e ora, a consuntivo, Dawkins “ammette di aver fallito”.
Qualcuno ritiene addirittura che abbia finito per portare acqua al mulino dei “nemici”.

FAMOLO STRANO
La campagna ateistica lanciata sugli autobus di Londra per esempio è stata ideata da Ariane Sherine proprio con l’appoggio di Dawkins.
Ecco lo slogan: “Probabilmente Dio non esiste, smettete quindi di preoccuparvi e godetevi la vita”.
Probabilmente? E’ difficile immaginare un’idea più controproducente.
Innanzitutto da atei militanti, che pretendono di convincere gli altri, si esige che proclamino con certezza che Dio non esiste. Se neanche loro ne sono sicuri, chi pretendono di convincere?
Chiunque ricordi la celebre “scommessa” di Pascal (un genio della matematica e del calcolo, oltreché grande pensatore cristiano) sa che quel “probabilmente” basta ed avanza per scommettere sull’esistenza di Dio. E’ assai più conveniente.
In pratica lo slogan è un clamoroso autogol. Anzi due. Perché, in qualche modo, dà ragione a chi – con Dostoevskij – afferma “se Dio non c’è tutto è permesso”.
Tesi aborrita proprio dal pensiero laico che rivendica un suo codice morale.

Fanatismo
Stando a quello slogan, chi è certo che Dio non esiste e ne è ben felice, se la dovrebbe spassare. Non dovrebbe certo consumare i suoi anni in una faticosa propaganda dell’ateismo. Anche perché ritiene ovvio che Dio è una favola. Nessuno spreca i suoi giorni per convincere gli altri che i draghi non esistono.
Dawkins dovrebbe essere il primo ad applicare lo slogan che stava scritto sui bus di Londra: “Godetevi la vita”.
Invece ha dedicato l’esistenza a quella missione, si è fatto in quattro, con uno zelo che rasenta il fanatismo.
Russel Stannard, un fisico che si è occupato di rapporti fra scienza e Dio, intervistandolo, anni fa, nel libro “La scienza e i miracoli”, si diceva incuriosito dalla strenua lotta di Dawkins.
Sembra ossessionato da Dio. Ha versato fiumi di inchiostro. E’ uno degli intellettuali che più pensa a Dio. Ricorda un tipo del romanzo di Graham Greene, “La fine dell’avventura”.
Costui stava sempre ad Hyde Park a comiziare contro il cristianesimo, con un tale impegno che la protagonista del romanzo, Sara, da sempre agnostica, sentendolo tuonare di continuo, cominciò a porsi seriamente la domanda su Dio perché non si può odiare così il nulla.
Alla fine lei si converte e muore quasi in fama di santità.

Grande vecchio
Il padre dell’ateismo filosofico-scientifico moderno, quello a cui tutti si sono abbeverati, da mezzo secolo, è Antony Flew, 82 anni, grande carriera accademica alle spalle fra Oxford e gli Stati Uniti, che però, nel dicembre 2004, ad un convegno a New York, ha annunciato di essersi completamente sbagliato.
Alla luce delle ultime scoperte della biologia (specialmente il Dna) e della fisica dichiara di arrendersi all’evidenza razionale dell’esistenza di Dio.
Il grande vecchio ha pure spazzolato sonoramente i “rampolli” del’ateismo, come Dawkins.

Ma il suo eccezionale libro, peraltro godibilissimo, dove spiega i motivi di questa conversione, “There is God” (sottotitolo: “Come il più famoso ateo del mondo ha cambiato idea”), un libro che ha fatto scalpore in America, da noi non esce. Perché?

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Mons. Maggiolini è tornato alla casa del Padre

Posté par atempodiblog le 13 novembre 2008

Mons. Maggiolini è tornato alla casa del Padre dans Articoli di Giornali e News maggiolinijy7

In ricordo di Mons. Alessandro Maggiolini  (che è stato, tra le altre cose, l’unico Vescovo italiano che faceva parte del gruppo di esperti che hanno compilato il Catechismo della Chiesa Cattolica):

Il Sacramento della riconciliazione (per capire il suo spessore)
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Il bisogno di essere perdonati

Posté par atempodiblog le 11 novembre 2008

Il bisogno di essere perdonati dans Antonio Socci antoniosocciff4

[...]  il Papa parlava dei santi come peccatori (come noi) rinati dal “perdono”. Di peccati e peccatori è pieno il mondo: siamo noi. La Chiesa ha proclamato solennemente al Concilio di Trento che – con la sola eccezione di Maria – nessuno “può evitare nella sua vita intera ogni peccato, anche veniale”. In soldoni: ogni uomo pecca. Anche i santi.

Non solo quelli come S. Agostino d’Ippona, padre della Chiesa, che sul racconto della sua vita da peccatore, poi redento, ha scritto un capolavoro di tutti i tempi, Le Confessioni. E non si tratta solo dei peccati della loro vita precedente (Francesco d’Assisi e san Paolo si sentivano per questo i più grandi peccatori). Ma anche i peccati dopo la conversione. Lo ha ripetuto il papa descrivendo gli amici-collaboratori di san Paolo: Barnaba, Silvano e Apollo. Ha raccontato la loro grande avventura missionaria, ma anche le liti fra loro. E ha concluso: “Quindi anche tra i santi ci sono contrasti, discordie, controversie. E questo a me appare molto consolante, perché vediamo che i santi non sono ‘caduti dal cielo’. Sono uomini come noi, con problemi anche complicati. La santità non consiste nel non aver mai sbagliato, peccato. La santità cresce nella capacità di conversione, di pentimento, di disponibilità a ricominciare, e soprattutto nella capacità di riconciliazione e di perdono”.

Poi – per sottolineare il messaggio che intende mandarci – Benedetto XVI ha ribadito: “Non è quindi il non aver mai sbagliato, ma la capacità di riconciliazione e di perdono che ci fa santi”. E’ facile capire il motivo di questa insistenza. Papa Ratzinger sta tentando da mesi di confutare tutte le false idee del cristianesimo che i mass media e la mentalità dominante diffondono. Una, la più insidiosa, è quella moralista secondo cui il connotato della vita cristiana sarebbe la “coerenza”. Ma il cristianesimo non è affatto questo “non sbagliare” (che non è umano e non è possibile all’uomo senza la grazia). Il cristianesimo è semmai essere innamorati di Cristo, appartenergli. E quindi la disponibilità continua, indomabile, di ogni giorno e ogni ora a chiedergli perdono del proprio limite, del proprio peccato. Il santo – dice il Papa – non è un uomo “coerente”, ma è un uomo commosso dall’essere continuamente perdonato e riportato in vita da Cristo. Don Divo Barsotti, una grande intelligenza cristiana, nel suo libro su Dostoevskij – il più grande romanziere cristiano di tutti i tempi – scrive: “la creazione più alta in cui si incarna, nei romanzi di Dostoevskij, la santità è paradossalmente una prostituta. Nemmeno Zosima (il monaco staretz dei ‘Fratelli Karamazov’, ndr) vive una viva comunione con Dio personale come Sonja in ‘Delitto e castigo’… La religione di Sonja è adesione di tutto il suo essere a Cristo. Essa crede in Dio, nel Dio vivente e vive un rapporto con Dio di umile e confidente abbandono”.

La consapevolezza della sua orribile condizione di peccato, cui è stata costretta dalle circostanze, non scalfisce la totale fiducia di Sonja nella bontà di Dio, ma la rende umilissima e compassionevole verso tutti. La sua confessione fa venire il groppo in gola: “è vero, non c’è motivo di avere pietà di me, bisogna crocifiggermi, non già conpiangermi… Ma colui che ebbe pietà di me, ma colui che ebbe pietà di tutti gli uomini, colui che comprese tutto avrà certamente pietà di noi. E’ l’unico giudice che esista. Egli verrà nell’ultimo giorno e domanderà: ‘Dov’è la figliola che si è sacrificata per una matrigna astiosa e tisica e per dei bambini che non sono i suoi fratelli? Dov’è la figliola che ebbe pietà del suo padre terrestre e non respinse con orrore quell’ignobile beone?’. Ed Egli dirà: ‘Vieni, ti ho già perdonato una volta e ancora ti perdono tutti i tuoi peccati, perché hai molto amato’. Così Egli perdonerà alla sua Sonja, le perdonerà, io lo so… Tutti saranno giudicati da Lui ed Egli perdonerà a tutti, ai buoni e ai malvagi, ai savi e ai miti. E quando avrà finito di perdonare agli altri perdonerà anche a noi. ‘Avvicinatevi voi pure’, ci dirà, ‘venite ubriaconi; venite viziosi; venite lussuriosi’. E noi ci avvicineremo a Lui, tutti, senza timore, e ci dirà ancora: ‘Siete porci, siete uguali alle bestie, ma venite lo stesso’. E i saggi, gli intelligenti, diranno: ‘Signore, perché accogli costoro?’. Ed Egli risponderà: ‘Io li accolgo, o savi e intelligenti, perché nessuno di loro si credette degno di questo favore’, e ci tenderà le braccia e noi ci precipiteremo sul suo seno e piangeremo dirottamente e capiremo tutto. Allora tutto sarà compreso da tutti e anche Katerina Ivanovna comprenderà, anche lei. O Signore, venga il Tuo Regno’ ”.

Questa pagina struggente (mi scuso per la lunga citazione) riecheggia il Vangelo. Gesù va incontro ai peccatori e ha misericordia di loro. Farisei e benpensanti scatenano una polemica contro di lui e lui li scandalizza ancor più dicendo loro: “I pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel Regno di Dio” (Mt 21, 31). Gesù non intende certo fare l’elogio del meretricio e della criminalità (il male provoca sofferenza e infelicità e va espiato). Ma Gesù vuole far capire ai benpensanti che non esistono “uomini perbene”, uomini che non abbiano bisogno del suo perdono per rinascere, e che i peccatori – che se ne sentono indegni e si confessano disgraziati – sono i più vicini al cuore di Dio, che è un Padre misericordioso.

E’ il paradosso cristiano. Un grande convertito come Charles Péguy lo diceva provocatoriamente: “Le persone morali non si lasciano bagnare dalla grazia… Ciò che si chiama ‘la morale’ è una crosta che rende l’uomo impermeabile alla grazia. Si spiega così il fatto che la grazia opera sui più grandi criminali e risollevi i più miserabili peccatori”.

Paradossalmente il peccato – che è un insulto a Dio e che rende profondamente infelici e insicuri – è una ferita da cui la grazia entra più facilmente rispetto alla corazza della presunzione perbenista è [...]. I mass media laici – a cui non piace la parola peccato – sono di solito ancora più scandalizzati per quell’altra parola: “perdono” [...]. Forse perché il “perdono” è seducente per gli esseri umani ancor più del “peccato”. Infatti il “perdono” rivela il cuore profondo di Dio che tutti noi cerchiamo, spesso inconsapevoli, brancolando nel buio.

di Antonio Socci – “Libero”

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La Casa Bianca che cambia

Posté par atempodiblog le 9 novembre 2008

Su bioetica e famiglia incognite da chiarire
di Francesco Ognibene – Avvenire

Cambiamento, novità, svolta: la presidenza di Barack Obama inizia sotto auspici mediatici e politici che difficilmente si potrebbero immaginare più
incoraggianti per il neoeletto ma che, allo stesso tempo, suonano densi di rimandi a doveri proporzionali al diffuso ottimismo. Sulle spalle del 44° inquilino della Casa Bianca gravano infatti attese che valicano ampiamente i confini americani, ben espresse ieri mattina dal direttore della Sala stampa vaticana padre Federico Lombardi quando ha ricordato che «il compito del presidente degli Stati Uniti è di immensa e altissima responsabilità non solo per il suo Paese, ma per tutto il mondo». Un augurio, certo, ma anche un garbato promemoria: ogni passo calcato a Washington risuona per tutti, specie se a compierlo è un uomo al quale viene assegnato un credito di fiducia tanto vasto.
 
L’agenda del nuovo leader americano è irta di grandi temi, dalle aree dove la pace è sotto scacco alla crisi finanziaria globale. Parti integranti di questi nodi epocali sono diventate ormai le questioni connesse alla vita e alla morte, alla famiglia e al matrimonio, alla natura umana e alla dignità della persona, che interrogano in modo sempre più stringente Parlamenti e opinioni pubbliche. Americani in testa. Lo dimostrano i molti referendum – tra i 153 proposti in 39 Stati, insieme al voto presidenziale – dedicati a questioni etiche e familiari, chiusi con un esito altalenante e spesso al termine di un testa a testa: bocciati i quesiti che miravano a limitare il ricorso all’aborto, via libera al suicidio assistito (nello Stato di Washington), no alle nozze tra persone dello stesso sesso, sì alla ricerca sugli embrioni (nel Michigan). Nel sistema federale americano ogni Stato legifera per proprio conto, e le singole scelte hanno dunque un rilievo locale. È però indubbio che l’eco di una decisione presa dal presidente e dal Congresso nel campo della bioetica o della famiglia ha ormai un’immediata risonanza ben al di là dell’America. E in questo clima di attento interesse per vedere all’opera il nuovo leader è facile immaginare il risalto di ogni sua scelta su questioni di rilievo antropologico, con ipotizzabili ricadute anche nel dibattito sempre febbrile di casa nostra. 
Va detto che le idee espresse in materia da Obama in una interminabile campagna elettorale offrono più di un motivo di perplessità. È certo opportuno aspettare i passi ufficiali del nuovo presidente: sfidando dapprima Hillary Clinton e poi John McCain, il candidato afro-americano non ha risparmiato argomenti retorici per blandire ora l’una ora l’altra componente del suo elettorato. Ma ci sono temi sui quali molti suoi supporter – americani e non solo – scalpitano per toccare con mano la ‘svolta’, il ‘cambiamento’, ovvero la coerenza con gli annunci spesi tra comizi e interviste. A cominciare dalla cancellazione della ‘dottrina Bush’ sulle staminali, cioè il fermo divieto introdotto dal presidente repubblicano all’erogazione di fondi federali per la ricerca su embrioni umani. Un punto sul quale il leader uscente si è speso fino a opporre ben due volte il proprio veto su leggi già approvate dal Parlamento. Un approccio altrettanto ‘liberal’ è immaginabile anche sul fronte dell’aborto, tema nel quale Obama ha affermato di pensare a una legge sulla «libera scelta» che escluda ogni limitazione nei tempi e nelle motivazioni per poter ricorrere all’interruzione di gravidanza. Al capo opposto della vita, il candidato democratico ha dichiarato poi di considerare uno errore politico il proprio voto a favore della mozione con la quale nel marzo 2005 il Senato americano tentò di salvare Terri Schiavo dalla morte per fame e sete. E se si è detto personalmente contrario al matrimonio tra persone dello stesso sesso – fiutando l’aria poi confermata martedì in tre diversi referendum locali – ha incluso tra le discriminazioni da abbattere proprio quelle basate sugli orientamenti sessuali pronunciandosi per la difesa della libertà di scelta e lasciando intendere, anche solo a scopo elettorale, di non escludere nulla a priori.
 
Concetti che fanno parte di un programma forzatamente generico, parole spese per chiamare voti, insieme a molte altre in linea con la genuina tradizione americana, incluse ripetute ed esplicite evocazioni religiose.
 
Attendere Barack Obama all’esame dei fatti è quindi un dovere. Ma farlo con la consapevolezza delle idee di cui viene accreditato dai molti euforici obamiani di queste ore è indispensabile.

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Obama Abbronzato?

Posté par atempodiblog le 8 novembre 2008

Obama Abbronzato? Sentite cosa dicevano Voltaire e Marx
di Antonio Socci
Fonte:
© Libero – 7 novembre 2008

Obama Abbronzato? dans Antonio Socci antoniosocci

“Ho detto a Medvedev che Obama ha tutto per andare d’accordo con lui: è giovane, bello e anche abbronzato”.
Bisogna essere molto faziosi e molto prevenuti per trasformare queste parole di Berlusconi in una gaffe.
Da due giorni si celebra l’elezione del primo presidente nero della storia americana e si esalta il suo fascino e la sua avvenenza. Ma se è Berlusconi a dirlo, allora ci si stracciano le vesti.
E’ evidente che il premier italiano – alla sua maniera affabile e scanzonata – elogia l’aspetto del neoeletto che egli palesemente trova invidiabile. Mi pare il contrario del razzismo.

Il razzismo è l’ideologia che inventa le razze e squalifica alcuni gruppi umani come “inferiori” o discriminabili.
E’ comico che la stessa cultura “politically correct” che pretende di giudicare gli elogi di Berlusconi come razzismo, poi veneri come fari di progresso degli intellettuali che, proprio su questo aspetto, hanno scritto cose sconcertanti.

Una rassegna di questi “illuminati” ci è fornita da Léon Poliakov, grande storico dell’antisemitismo. Nel volume “Il mito ariano” (pubblicato da Editori Riuniti) partiva dalla voce “Negri” che si trova nella celebre Enciclopedia di Diderot e D’Alembert.
“Quanto esplicitamente a Diderot, gli accadeva di proclamare la superiorità bianca per bocca del suo ‘buon selvaggio’ tahitiano e di filosofare sulla razza inferiore dei lapponi”.

Le nostre anime belle della Sinistra resterebbero di sasso nel leggere queste parole di Poliakov: “Così alcuni degli esponenti più accreditati dei Lumi ponevano le basi del razzismo scientifico del secolo successivo”.
Con ciò intendevano combattere la Chiesa e la sua dottrina dell’ “unità del genere umano” fondata sulla Bibbia, sulla Genesi. Si credette di attaccarla in nome di “presupposti apparentemente scientifici”.

Voltaire – sì, proprio quello che è venerato come il maestro della tolleranza – manifesta, dice Poliakov, “un esclusivismo a cui non si saprebbe dare altra qualifica che quella di razzista e di cui i suoi scritti sono una testimonianza altrettanto valida della sua vita”.
Egli, spiega Poliakov, situava “i Negri nel gradino più basso della scala: i Bianchi erano ‘superiori a questi negri, come i Negri alle scimmie e le scimmie alle ostriche’ ”.
E nel suo “Essai sur les moeurs et l’esprit des nations” dopo “aver stabilito che ‘è permesso soltanto a un cieco di dubitare che i Bianchi, i Negri, gli Albini… sono razze completamente diverse’, bollava con l’epiteto di animali soprattutto i Negri”. Per non dire degli “attacchi antiebraici” vergati dallo stesso Voltaire nel Dictionnaire.

E che dire del veneratissimo maestro laico David Hume? Poliakov ci ricorda certi suoi passi: “sono portato a sospettare che i Negri e in generale tutte le altre specie umane sono per natura inferiori ai bianchi”.
Stupefacenti poi le pagine del maestro della modernità, Hegel: “Il negro rappresenta l’uomo naturale in tutta la sua barbarie; bisogna compiere un’astrazione di tutto rispetto e moralmente elevata se si vuol comprenderlo; non si può trovare niente nel suo carattere che ricordi l’uomo”.
Ma sentiamo ancora Poliakov sui due autori del “Manifesto del partito comunista”.
“Per Engels come per Marx, era inteso che la razza bianca, portatrice del progresso, era più dotata delle altre razze.
Nella ‘Dialettica della natura’ per esempio, Engels scriveva che ‘selvaggi inferiori’ potevano ripiombare in ‘uno stato abbastanza vicino a quello dell’animale’; più avanti un ragionamento più preciso gli faceva concludere che i Negri erano congenitamente incapaci di capire la matematica”.

Per quanto riguarda “il pensiero di Marx” osserva Poliakov “restava influenzato dalle gerarchie germanomani”, si rifaceva all’ “idea dell’influenza del suolo” di Trémaux, un “determinismo geo-razziale, che fondava agli occhi di Marx l’inferiorità dei Negri e dei Russi”.
Per non dire poi della sua prevenzione verso gli ebrei (pur essendo lui stesso ebreo).
“Nel suo scritto ‘La questione ebraica’, questa intolleranza era ancora velata dalla dialettica hegeliana; ma nel ritratto che egli faceva del suo amico e rivale Ferdinand Lassale” scrive Poliakov “tutti i pregiudizi e tutti i furori del razzismo volgare sembravano essersi dati appuntamento”.
Ecco cosa scriveva Marx: “Vedo ora chiaramente che egli discende, come mostrano la forma della sua testa e la sua capigliatura, dai Negri che si sono congiunti agli Ebrei al tempo della fuga dall’Egitto (a meno che non siano sua madre o sua nonna paterna che si sono incrociate con un negro)… L’importunità dell’uomo è altresì negroide”.
Non sarebbe il caso, per il “pensiero progressista”, di fare una “piccola” revisione culturale?

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Le spalle al Cristianesimo

Posté par atempodiblog le 6 novembre 2008

LE UCCISIONI DIMENTICATE
LE SPALLE AL CRISTIANESIMO
di Ernesto Galli della Loggia

Dall’India alle Filippine, dall’Iraq al Pakistan, si susseguono gli assassinii di sacerdoti e di fedeli cristiani: perlopiù cattolici anche se numerosi sono pure i protestanti. Di fronte a queste uccisioni l’opinione pubblica occidentale ha una reazione ormai scontata: gira la testa dall’altra parte. Non fa sostanzialmente eccezione, cosa all’apparenza straordinaria, neppure la parte esplicitamente cristiana di quell’opinione pubblica, quasi che avesse il timore, alzando troppo la voce, di rendere le cose ancora peggiori.

Naturalmente viene da chiedersi quale sarebbe invece la reazione dell’uomo della strada, dei media e dei governi occidentali, se in una qualunque parte del mondo ad essere presi di mira per la loro appartenenza religiosa, al posto dei cristiani, ci fossero i seguaci di altre confessioni, per esempio gli ebrei. Ma chiederselo sarebbe solo indulgere in una polemica sterile. In realtà, infatti, la reazione quasi inesistente dell’opinione pubblica alle notizie di uccisioni di cristiani non è niente altro che il frutto di fenomeni profondi da lungo tempo all’opera nelle nostre società, l’effetto di lenti smottamenti ideologici che ne stanno cambiando il profilo ultramillenario.

Sotto i nostri occhi si sta consumando una gigantesca frattura storica: non vogliamo essere, non ci sentiamo più delle società cristiane. Non vogliono più esserlo non le grandi maggioranze, ma soprattutto le élite intellettuali. La critica della religione, infatti, è rimasta, alla fine, il solo e vero denominatore comune sopravvissuto alle infinite vicissitudini della cultura moderna.
Dell’illuminismo, del marxismo, del darwinismo, del freudismo e di ogni altro «ismo» tutti gli snodi e gli assunti sono stati di volta in volta smentiti, contraddetti e abbandonati. Una sola cosa però, comune ad ognuno di essi, è restata come acquisto generale: l’idea che la religione, e quindi innanzitutto il cristianesimo, rappresenta la prima «alienazione» dell’umanità premoderna, di cui i tempi nuovi esigono che ci si sbarazzi. È così accaduto che nelle società occidentali — lo dico con sbigottimento di non credente — la religione sia diventata intellettualmente impresentabile, e dunque sempre meno rappresentata culturalmente. E che anche perciò nelle nostre società (tranne forse gli Stati Uniti) il cristianesimo, di fatto, non strutturi più alcun senso di appartenenza realmente collettiva. Che esso sia, debba obbligatoriamente essere, invece, un fatto solo privato. Ne consegue come cosa ovvia che le sue sorti pubbliche e storiche non ci riguardano più: figuriamoci poi se si svolgono in qualche remota contrada dell’Asia o dell’Africa.

A sentire in questo modo ci ha spinto, paradossalmente, lo stesso senso comune diffuso per molti anni in tanta parte del mondo cattolico. Il quale, fino a tempi assai recenti, è stato attentissimo, anche nelle sue massime espressioni istituzionali, a non essere collegato a nulla che sapesse di Europa o di Occidente, per paura che ciò avrebbe automaticamente messo in pericolo la sua autonomia politica e/o macchiato la sua purezza evangelica. Nutrendo forse la speranza, non saprei quanto fondata, che alla fine ciò gli avrebbe fatto guadagnare altrove il terreno che qui andava perdendo.

Tratto da: Corriere della Sera

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San Giacomo sotto accusa

Posté par atempodiblog le 4 novembre 2008

Disarmato il santo patrono, gli spagnoli protestano. Sta suscitando numerose polemiche la decisione del parroco di Nieva de Cameros che ha tolto la spada alla statua di San Giacomo (Sant’Iago), il “matamoros” (l’ammazzamori) secondo la tradizione spagnola, conservata nella chiesa di San Martino. L’iniziativa non è piaciuta non soltanto agli abitanti della piccola cittadina in provincia de La Rioja ma anche al resto degli spagnoli, tanto che ne è nato un acceso dibatto sui media, in particolare su Internet.
La ragione del gesto di don José Luis Fernandez è quello di «separare il santo dall’incongruenza che l’accompagna da secoli, perché lui non ha mai ucciso nessuno», tantopiù che quelli che avrebbe ammazzato sono musulmani. Da qui l’idea di poggiare la spada ai suoi piedi «come un simbolo di chi invece calpesta la violenza».

L’iniziativa del parroco, però, non è piaciuta per niente. Il blog spagnolo Urania così ha bollato la decisione: «Violencia clerical contra Santiago matamoros». Alla fine del commento ci si chiede se l’iniziativa sia un’altra conseguenza dell’ecumenismo male interpretato del Concilio Vaticano II oppure se sia da ricollegarsi all’«invasione migratoria in Europa di 30 milioni di musulmani». Ed è proprio questo che gli spagnoli temono: un gesto politicamente corretto per non offendere gli immigrati di religione islamica.

A San Giacomo, Santiago in spagnolo, è legata una delle tradizioni più antiche del paese e uno dei santuari cristiani più famosi al mondo, quello di Santiago de Compostela. Leggenda vuole che per ben due volte sia intervenuto per prestare soccorso all’esercito spagnolo e aiutarlo a cacciare i mori (i musulmani). È quella che in Spagna chiamano “Reconquista”.

La prima apparizione viene fatta risalire all’840, quando il santo – in sella a un cavallo bianco – venne in aiuto del re delle Asturie, Ramiro I, e gli fece avere la meglio sull’emiro Abd al Rahman II. Il matamoros poi riapparve nell’859 a suo figlio Ordoño I, re di Galizia, che grazie alla sua presenza sconfisse Musa II. Dopo questi due episodi Santiago divenne il simbolo della vittoria del cristianesimo sulla religione islamica e per questo è, ancora oggi, patrono di tutta la Spagna. Ecco quindi spiegato perché tanto calore nelle proteste degli spagnoli.

A creare ancora più dissapori è stata anche la scelta del giorno, il 25 luglio, data in cui la Chiesa celebra proprio Santiago e motivo per il quale in processione è andata la statua disarmata. Dopo quell’uscita la notizia è rimbalzata sulle pagine dei quotidiani e poi sui blog. Gli spagnoli questo santo che ha aiutato l’esercito a cacciare i mori dal loro territorio lo vogliono così com’è: con la spada pronto per difenderli dagli infedeli, fa parte della loro storia e della loro cultura. E a poco sono servite le rassicurazioni di don Fernandez sulla buonafede del suo gesto.

Nella Spagna di Zapatero che vuole togliere i crocifissi dalle scuole in nome della laicità dello Stato, alla popolazione piacciono le sue tradizioni cattoliche e dalle polemiche che questa storia ha scatenato non sembrano intenzionati a rinunciarci. Anche se i musulmani si dovessero offendere.

Fonte: Lo Zuavo Pontificio

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