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DIOGO JOTA/ Il senso di una morte che non si misura con i criteri del mondo

Posté par atempodiblog le 6 juillet 2025

DIOGO JOTA/ Il senso di una morte che non si misura con i criteri del mondo
Diogo Jota, attaccante portoghese del Liverpool, è morto in un incidente stradale in Spagna insieme al fratello. Tutto nella sua vita parlava di futuro
di Don Federico Pichetto – Il Sussidiario

DIOGO JOTA/ Il senso di una morte che non si misura con i criteri del mondo dans Articoli di Giornali e News Andr-Silva-e-Diogo-Jota

Vi sono eventi che sembrano non appartenere alla cronaca, ma affacciarsi su quella soglia silenziosa che separa il visibile dall’invisibile. La morte improvvisa di Diogo Jota, giovane calciatore del Liverpool, e di suo fratello André, avvenuta mentre facevano ritorno a casa, ci pone dinanzi a uno di questi eventi.

Nulla, in apparenza, faceva presagire una fine così precoce. Una carriera affermata, una recente unione matrimoniale, una famiglia con tre figli piccoli: tutto parlava di vita, di promessa, di futuro.

Tuttavia, proprio quando l’uomo si ritiene al sicuro, quando crede di possedere il tempo, la realtà si incarica di ricordargli la sua condizione creaturale. In un istante, ciò che sembrava stabile si infrange, e ci si ritrova senza appigli, esposti al mistero. Questo non significa che la morte sia priva di senso. Significa piuttosto che il senso non si colloca dove la logica dell’efficienza e della prestazione lo vorrebbe cercare.

Nel mondo contemporaneo, l’idea di felicità si è gradualmente identificata con la realizzazione di sé. Essa viene concepita come il risultato di una vita pianificata, ben costruita, conforme a un’immagine ideale che ciascuno elabora per sé stesso. Ma questa concezione è profondamente fragile. Essa è esposta, per sua natura, all’illusione. L’uomo non è padrone del tempo. Non può garantirsi né la durata né il compimento dei suoi progetti.

La Scrittura, al contrario, propone una concezione diversa del tempo e della felicità. Il tempo non è qualcosa da possedere, ma un dono da accogliere. La felicità non è un risultato, ma una risposta. Non si tratta di riuscire, ma di lasciarsi amare. Il vero compimento dell’uomo non sta nell’essere ciò che si è progettato, ma nell’essere riconosciuto da uno sguardo che lo precede, lo conosce, lo chiama per nome.

Questo sguardo è lo sguardo del Padre. In esso l’uomo si compie, anche se il suo percorso terreno appare interrotto. Anche un solo giorno, vissuto nella luce dell’amore, può contenere l’eternità. Anche un istante, se vissuto nella verità, può diventare definitivo.

La vita di Diogo Jota, nella sua brevità, reca tracce di una bellezza che non si misura con i criteri del mondo. Il legame con il fratello, l’amore per la sposa, la paternità vissuta nei primi anni di tre figli: sono segni di una vocazione all’Altro, di un’apertura che non si lascia chiudere nell’immanenza del successo sportivo o dell’immagine pubblica.

Non conosciamo il suo cuore. Ma possiamo dire che vi è una verità che ci riguarda tutti: l’uomo non è fatto per trattenere, ma per affidare. Non è fatto per dominare il tempo, ma per attraversarlo nella gratitudine e nella speranza.

Solo in questa luce la morte si sottrae all’assurdo. Non perché il dolore venga meno – esso resta, nella carne e nell’anima di chi sopravvive –, ma perché non è più privo di direzione. La speranza cristiana non nega la realtà della morte, ma la interpreta alla luce della risurrezione. Essa annuncia che nulla, nella vita dell’uomo, è perduto se è stato vissuto nell’amore. E che ciò che ci appare come fine, è in realtà un compimento.

Nel tempo che ci è dato, nessuno può sapere quanto durerà il cammino. Ma ciascuno può scegliere come percorrerlo. L’essenziale non è costruire qualcosa che duri, ma vivere in modo che ogni gesto sia già pieno di eternità. In questo senso, la vera felicità non è una conquista, ma una corrispondenza. Non un diritto, ma un incontro.

Per questo, la morte di un uomo giovane non è inutile, se ci richiama alla verità su noi stessi. Se ci invita a lasciare cadere l’illusione di essere i padroni della nostra esistenza. Se ci conduce a riscoprire il senso dell’attesa e della fiducia. E se ci apre, infine, alla preghiera.

Non c’è nulla di più umano – e di più cristiano – che pregare per i morti. Non è un atto rituale. È un atto di fede: fede nel fatto che nessuna vita si perde in Dio, e che ogni amore vissuto nella verità sarà raccolto nella sua misericordia.

Pregare per Diogo e per André significa riconoscere che la loro vita non si è spenta nel nulla, ma è entrata nel silenzio fecondo di un Altro. E che noi, pellegrini nel tempo, possiamo già da ora lasciarci attirare da quella luce che non tramonta.

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A Vilakkannur il riconoscimento del primo miracolo eucaristico indiano

Posté par atempodiblog le 4 juin 2025

A Vilakkannur il riconoscimento del primo miracolo eucaristico indiano
Una celebrazione presieduta dal nunzio apostolico in India ha sancito il carattere soprannaturale della comparsa di un volto di Cristo su un’ostia 12 anni fa. Un segno per la Chiesa siro-malabarese da tempo ferita dallo scontro sulla liturgia. Mons. Girelli: “L’Eucaristia sia segno di comunione con Dio e di unità dei fedeli, non di discordia”.
di Nirmala Carvalho – AsiaNews

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Con una solenne celebrazione presieduta a Vilakkannur, nello Stato indiano del Kerala, dal nunzio apostolico mons. Leopoldo Girelli, la Chiesa cattolica il 31 maggio ha riconosciuto ufficialmente come un miracolo eucaristico un fatto prodigioso avvenuto 12 anni fa nella locale chiesa di Cristo Re. Il 13 novembre 2013 il sacerdote locale, p. Thomas Pathickal, durante una liturgia di questa comunità siro-malabarese riconobbe impressa nell’ostia il volto di Cristo, testimonianza della sua presenza reale. La locale arcidiocesi affidò poi lo studio del fenomeno alla Santa Sede che nelle scorse settimane è arrivata alla conclusione che si è trattato di un fenomeno soprannaturale.

Sabato 31 maggio questa notizia è stata celebrata in questa comunità del distretto di Kannur con una liturgia presieduta da mons. Girelli alla presenza di 10mila fedeli. Il nunzio apostolico ha ringraziato Dio per i miracoli che hanno dimostrato la presenza di Cristo nell’Eucaristia nel corso della storia. “Cristo risorto è presente alla sua Chiesa in molti modi – ha commentato – ma in modo speciale attraverso il sacramento del suo corpo e del suo sangue”. Ma il rappresentante vaticano ha invitato anche a leggere questo evento straordinario dentro il cammino che la Chiesa siro-malabarese sta vivendo, segnato dalla ferita delle divisioni proprio introno alla Sacra Quarbana, la celebrazione eucaristica di questo rito orientale. Dal 2021 la decisione del locale Sinodo di implementare un metodo uniforme per la celebrazione eucaristica, richiedendo che la Messa venga celebrata rivolta verso il popolo durante la liturgia della Parola e rivolta verso l’altare durante la preghiera eucaristica ha creato fortissime tensione, soprattutto nell’arcidiocesi di Ernakulam-Angamaly.

“Il miracolo di Vilakkannur – ha detto ancora mons. Girelli  ricorda alla Chiesa siro-malabarese che la Sacra Qurbana è segno di comunione con Dio e di unità dei fedeli, e non di discordia. Come si può ignorare che le tensioni che ancora dividono il clero e i fedeli della Chiesa siro-malabarese sono in contraddizione con l’Eucaristia, sacramento di unità? Cristo nell’Eucaristia è il centro della vita cristiana. Pertanto, la celebrazione dell’Eucaristia non dovrebbe portare divisione”.

Il miracolo di Vilakkannur, ha aggiunto ancora, è “una grande benedizione nono solo per la Chiesa siro-malabarese”, ma per l’intera Chiesa in India. “È mia fervente speranza – ha aggiunto – che questa chiesa di Cristo Re a Vilakkannur diventi il regno della riconciliazione e dell’unità per la Chiesa siro-malabarese e il centro di pellegrinaggio per l’adorazione eucaristica in India”.

Jose Kavi, caporedattore del sito cattolico indiano Matters India, ha commentato ad AsiaNews: “La piccola chiesa del villaggio di Vilakkannur ha trovato posto nella Chiesa come luogo del primo miracolo eucaristico in India. Il riconoscimento è stata una cerimonia solenne, risparmiata anche dalla pioggia nonostante l’allerta rossa che era stata diramata nel distretto di Kannur: un fatto anche questo definito prodigioso dall’arcivescovo di Tellicherry Joseph Pamplany. Alcuni ancora liquidano quanto avvenuto come un espediente dell’arcidiocesi per raccogliere fondi. Ma la maggior parte della gente crede davvero che sia stato un miracolo, perché nulla è impossibile al Signore”.

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Il “re degli strumenti musicali”

Posté par atempodiblog le 30 mai 2025

“Per moltissimo tempo la partecipazione all’evento musicale – come fruitori o partecipanti – da parte delle classi più povere avveniva unicamente nelle chiese, dove predominava l’insostituibile presenza dell’organo”. (Prof. Livio De Luca)

Il “re degli strumenti musicali” dans Articoli di Giornali e News Organo

Il “re degli strumenti musicali”
Alla scoperta dell’organo, il più completo e importante degli strumenti musicali, specie per quel che riguarda la musica sacra. Eppure, oggi dimenticato. Ma non del tutto…
di Paola Stefanucci – Radici Cristiane

Non c’è grande Basilica o Chiesa, anche minuscola, sparsa sul suolo italico che non ne possegga uno: l’organo, lo strumento principe della musica liturgica, ma non solo. Si tratta di un patrimonio incalcolabile, unico al mondo, di grande pregio storico e artistico, palpitante di vita e storia bimillenaria. Non di rado, infatti, queste meravigliose macchine musicali, complesse e imponenti, furono realizzate da artisti che, nella loro specialità, non avevano nulla da invidiare per ispirazione, ingegno, sapienza e tecnica a grandi architetti, pittori e scultori.

Legato all’arte e alla cultura
Capolavori veri e propri, gli organi sono tra i pochi strumenti musicali ad avere un legame strettissimo con l’arte, la cultura e la religiosità del proprio tempo. Per questo motivo, al di là della godibilità estetica, essi costituiscono anche una fonte inestimabile di studio del passato sia per la stratificazione storica sia per la loro eterogeneità stilistica.
Il primo esemplare di cui ci è giunta notizia fu costruito nel III secolo a.C. dall’inventore greco Ctesibio di Alessandria. Fu denominato idraulico, in quanto il flusso dell’aria veniva regolato mediante la pressione dell’acqua.
Da tale prototipo, pur mantenendo le stesse componenti strutturali, l’organo si è evoluto al modello tardo trecentesco e quattrocentesco sopravvissuto sino ai giorni nostri, dotato di manticera, di somiere, di consolle, di pedaliera, di un sistema di trasmissioni, di tastiere e di registri distinti.
Fu Papa Vitaliano nel 600 d.C. a introdurlo come strumento di accompagnamento alle celebrazioni liturgiche.

[…]

Una storia lunga secoli
Fra tutti i dispositivi musicali esistenti, l’organo ha la particolarità (unica) di realizzare in assoluto la più grande quantità di timbri diversi.
Vediamo come funziona. I suoni sono prodotti dall’aria insufflata mediante il mantice (un tempo a libro, oggi a elettroventilatori) entro canne metalliche (o lignee) di diversa lunghezza. Ogni canna possiede una valvola che si apre quando viene premuto il rispettivo tasto.
Appositi meccanismi, denominati registri, regolano, a comando dell’organista, le modalità d’immissione dell’aria nelle canne, dando così luogo a una serie di timbri differenti, quanti sono i registri e le loro combinazioni. Ciascun registro produce un particolare timbro corrispondente a uno strumento musicale, ma vi sono registri che evocano suoni magici anche nel nome “voce celeste”, “flauto a camino”, “voce umana”, “coro di viole”.
L’organo possiede, inoltre, diverse tastiere e una caratteristica pedaliera per l’esecuzione delle note più gravi. Nel Medioevo fu inventato l’organo portatile, erroneamente chiamato portativo, alla francese: uno strumento di piccole dimensioni sostenuto da una tracolla usato per lo più per le processioni e nelle funzioni itineranti.
Nei primi decenni del secolo scorso è invece nato l’organo elettrico: il suono creato dall’amplificazione di oscillazioni elettriche prodotte da un certo numero di generatori azionati dai tasti, con frequenze corrispondenti a quelle previste dalla scala musicale temperata.
La letteratura per l’organo è vastissima, anche cronologicamente: abbraccia seicento anni, dal XV al XX secolo, e ha ispirato compositori quali Gabrieli, Byrd, Frescobaldi, Händel, Bach, Mandelssohn, Schumann, Liszt, Brahms, Frank, Saint Saëns, Hindemith, Messiaen, Schönberg.
Per ascoltare Girolamo Frescobaldi, celebre organista di San Pietro, nel XVII secolo, la gente di ogni estrazione sociale, dagli ultimi agli aristocratici, accorreva alla Basilica da ogni parte. La popolarità del musicista era tale che il francese Maugars, suo contemporaneo, scrisse di lui “non senza ragione, Frescobaldi solleva tanto entusiasmo in tutta Europa. Per poter giudicare il suo profondo sapere, si debbono ascoltare le sue toccate improvvisate, piene di finezze e di trovate meravigliose”. Era un’epoca in cui al di fuori del tempo la musica non era facilmente accessibile a tutti. […]

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Il Papa al santuario della Madre del Buon Consiglio di Genazzano

Posté par atempodiblog le 10 mai 2025

Il Papa al santuario della Madre del Buon Consiglio di Genazzano
Leone XIV oggi pomeriggio nella cittadina fuori Roma per visitare privatamente il luogo di culto di presenza agostiniana, dove è custodita l’immagine mariana proveniente dall’Albania. Il Pontefice ha salutato la gente in piazza e ha pregato dinanzi all’icona della Vergine: “Ho voluto tanto venire qui in questi primi giorni del nuovo Ministero che la Chiesa mi ha consegnato, per portare avanti la missione come Successore di Pietro”
de La Redazione di Vatican News

Il Papa al santuario della Madre del Buon Consiglio di Genazzano dans Apparizioni mariane e santuari La-Madre-del-Buon-Consiglio-a-Genazzano

Per la sua prima uscita a sorpresa Papa Leone XIV ha scelto un luogo simbolico, un santuario fuori Roma caro agli agostiniani che sono lì presenti dal 1200: il Santuario della Madre del Buon Consiglio a Genazzano. Il Pontefice vi si è recato oggi pomeriggio intorno alle 16, per una visita in forma privata.

Retto dai religiosi dell’Ordine di Sant’Agostino, il santuario custodisce un’antica immagine della Vergine, proveniente da Scutari (Albania), cara all’Ordine e alla memoria di Leone XIII, Pontefice che non riuscì mai a visitarlo ma che nel 1903 lo elevò alla dignità di basilica minore. Altri Papi si erano recati invece dalla Madre del Buon Consiglio: Giovanni XXIII nel 1959 e Giovanni Paolo II nel 1993. Oggi, invece, Papa Leone XIV che da cardinale, il 25 aprile 2024, aveva celebrato nel Santuario la Messa in occasione della Festa della “Venuta” della Madre del Buon Consiglio. Nella sua omelia, l’allora cardinale Prevost espresse la sua devozione alla Vergine, esortando i fedeli a ispirarsi a Maria per diffondere la pace e la riconciliazione nel mondo.

Il saluto alla gente e la preghiera alla Madonna
Questo pomeriggio Papa Leone è giunto in un multivan della Volkswagen, seduto nel sedile anteriore; è stato accolto da una folla festante di centinaia di persone radunatesi nella piazza o affacciate da finestre e balconi. In molti gridavano “Leone, Leone” e le stradine vicine si sono via via gremite. Entrato in chiesa, dove ha salutato i religiosi, il Pontefice si è fermato in preghiera, prima davanti all’altare e poi di fronte all’immagine della Vergine, lasciando in dono un mazzo di rose bianche. Al santuario, Leone XIV ha donato un calice e una patena. Con i presenti ha recitato la preghiera di Giovanni Paolo II alla Madre del Buon Consiglio.

L’affidamento a Maria
Al termine, dopo l’Ave Maria e il canto del Salve Regina, il Papa si è rivolto a quanti erano in chiesa, salutando loro e il popolo di Genazzano riunito all’esterno: “Ho voluto tanto venire qui in questi primi giorni del nuovo Ministero che la Chiesa mi ha consegnato, per portare avanti questa missione come Successore di Pietro”. E ricordando la visita fatta dopo l’elezione a priore generale dell’Ordine di Sant’Agostino, e la scelta di “offrire la vita alla Chiesa”, Leone XIV ha ribadito la sua “fiducia nella Madre del Buon Consiglio”, compagnia di “luce, saggezza” con le parole rivolte da Maria ai servitori nel giorno delle Nozze di Cana, riferite nel Vangelo di Giovanni: “Qualsiasi cosa vi dica, fatela”. Insieme alla comunità il Papa ha poi raggiunto una sala interna per un incontro privato.

Un dono e una grande responsabilità per Genazzano
Al termine dell’incontro con la comunità agostiniana di Genazzano, il Pontefice si è affacciato dal portale della Basilica e, salutando i presenti, ha ripetuto due volte “Buonasera!”. Quindi ha rivolto loro alcune parole, esprimendo la gioia di essere potuto venire a pregare la Madre del Buon Consiglio. Ha ricordato la grande devozione “che da molti anni ho nel mio cuore”, e di essere stato a Genazzano diverse volte, da “quasi 50 anni”. La presenza della Madonna, ha aggiunto, è “un dono così grande” per il popolo della cittadina laziale, da cui deriva anche una grande responsabilità: “come la Madre mai abbandona i suoi figli, voi dovete essere anche fedeli alla Madre”. Quindi il Papa ha salutato i ragazzi, e i giovani di cuore – “Lo siamo tutti, è vero?”, ha detto – e ha evocato lo spirito di entusiasmo con cui seguire Gesù, secondo l’esempio di Maria. Un fedele peruviano lo ha salutato a voce alta, e il Pontefice ha risposto: “Bene, bene, i peruviani miei fratelli!”. Infine, prima di lasciare il Santuario, ha benedetto tutti i presenti.

Divisore dans San Francesco di Sales

Freccia dans Viaggi & Vacanze Leone XIV a Santa Maria Maggiore prega sulla tomba di Papa Francesco

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Papa Leone XIV: «Il mondo ha bisogno della luce di Cristo»

Posté par atempodiblog le 8 mai 2025

Papa Leone XIV: «Il mondo ha bisogno della luce di Cristo»
Lo statunitense Robert Francis Prevost è stato eletto papa. «La pace sia con tutti voi, questo è il primo saluto del Cristo risorto», le sue prime parole. È il primo pontefice statunitense
de La Redazione di Tempi

Papa Leone XIV: «Il mondo ha bisogno della luce di Cristo» dans Articoli di Giornali e News Leone-XIV

Lo statunitense Robert Francis Prevost, 70 anni il prossimo 14 settembre, è papa Leone XIV. In soli due giorni e al quarto scrutinio, come già prima di lui Giovanni Paolo I nel 1978 e Benedetto XVI nel 2005, i 133 cardinali riuniti in conclave hanno eletto il 267° successore di Pietro.

Le sue prime parole
Il primo papa statunitense della storia, affacciandosi dalla Loggia delle Benedizioni, ha pronunciato queste parole:

«La pace sia con tutti voi! Fratelli e sorelle carissimi, questo è il primo saluto del Cristo risorto, il buon pastore che ha dato la vita per il gregge di Dio. Anch’io vorrei che questo saluto di pace entrasse nel vostro cuore e raggiungesse le vostre famiglie, tutte le persone, ovunque siano, tutti i popoli, tutta la terra: la pace sia con voi! Questa è la pace del Cristo risorto, una pace disarmata e disarmante, umile e perseverante che proviene da Dio, Dio che ci ama tutti incondizionatamente.

Ancora conserviamo nei nostri orecchi quella voce debole ma sempre coraggiosa di papa Francesco, che benediva Roma. Il Papa benediva Roma, dava la sua benedizione al mondo intero quella mattina del giorno di Pasqua. Consentitemi di dar seguito a quella stessa benedizione: Dio ci vuole bene, Dio vi ama tutti e il male non prevarrà. Siamo tutti nelle mani Dio.

Pertanto, senza paura, uniti mano nella mano con Dio e tra di noi, andiamo avanti. Siamo discepoli di Cristo, Cristo ci precede. Il mondo ha bisogno della Sua luce, l’umanità necessita di Lui come il ponte per essere raggiunta da Dio e dal suo amore. Aiutateci anche voi e aiutiamoci gli uni gli altri a costruire ponti con il dialogo, con l’incontro, unendoci tutti per essere un solo popolo sempre in pace. Grazie a papa Francesco!

Voglio ringraziare anche tutti i confratelli cardinali che hanno scelto me per essere successore di Pietro e camminare insieme a voi come Chiesa unita, cercando sempre la pace, la giustizia, cercando sempre di lavorare come uomini e donne fedeli a Gesù Cristo, senza paura, per proclamare il Vangelo ed essere missionari.

Sono un figlio di sant’Agostino, sono agostiniano, il quale ha detto: con voi sono cristiano e per voi vescovo. In questo senso possiamo tutti camminare insieme verso quella patria che Dio ci ha preparato. Alla Chiesa di Roma un saluto speciale. Dobbiamo cercare insieme come essere una Chiesa missionaria, una Chiesa che costruisce ponti e dialoga, sempre aperta a ricevere – come questa piazza con le braccia aperte – tutti coloro che hanno bisogno della nostra carità, presenza, dialogo, amore.

(Saluto in spagnolo alle persone provenienti dal Perù).

A tutti voi fratelli e sorelle di Roma, d’Italia, di tutto il mondo: vogliamo essere una Chiesa sinodale, che cammina, che cerca sempre la pace, la carità, di essere vicina specialmente a coloro che soffrono.

Oggi è il giorno della supplica alla Madonna di Pompei: nostra madre Maria vuole sempre camminare con noi, starci vicina, aiutarci con la sua intercessione e il suo amore. Allora vorrei pregare insieme a voi. Preghiamo insieme per questa nuova missione, per tutta la Chiesa, per la pace nel mondo. Chiediamo questa grazia speciale a Maria, nostra madre.

Ave, o Maria, piena di grazia,
il Signore è con te.
Tu sei benedetta fra le donne
e benedetto è il frutto del tuo seno, Gesù.
Santa Maria, Madre di Dio,
prega per noi peccatori,
adesso e nell’ora della nostra morte.
Amen.».

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Il Papa della misericordia

Posté par atempodiblog le 21 avril 2025

Il Papa della misericordia
di Andrea Tornielli – Vatican News

Il nostro Santo Padre Francesco è nato in Cielo dans Papa Francesco I Papa-Francesco

«La misericordia di Dio è la nostra liberazione e la nostra felicità. Noi viviamo di misericordia e non ci possiamo permettere di stare senza misericordia: è l’aria da respirare. Siamo troppo poveri per porre le condizioni, abbiamo bisogno di perdonare, perché abbiamo bisogno di essere perdonati». Se c’è un messaggio che più di ogni altro ha caratterizzato il pontificato Francesco e che è destinato a rimanere, è quello della misericordia.

Il Papa ci ha lasciato improvvisamente questa mattina, dopo aver dato l’ultima benedizione Urbi et Obi nel giorno di Pasqua dalla Loggia centrale della Basilica di San Pietro, dopo aver fatto l’ultimo giro tra la folla, per benedire e salutare.

Tanti sono stati i temi affrontati dal primo Pontefice argentino nella storia della Chiesa, in particolare l’attenzione verso i poveri, la fratellanza, la cura della Casa comune, il no deciso e incondizionato alla guerra. Ma il cuore del suo messaggio, quello che certamente ha fatto più breccia, è il richiamo evangelico alla misericordia. A quella vicinanza e tenerezza di Dio verso chi si riconosce bisognoso del suo aiuto. La misericordia come «l’aria da respirare», cioè ciò di cui abbiamo più necessità, senza la quale sarebbe impossibile vivere.

Tutto il pontificato di Jorge Mario Bergoglio è stato vissuto all’insegna di questo messaggio, che è il cuore del cristianesimo. Fin dal primo Angelus recitato il 17 marzo 2013 dalla finestra di quell’appartamento papale che non avrebbe mai abitato, Francesco ha parlato della centralità della misericordia, ricordando le parole dettegli da un’anziana signora venuta a confessarsi quando lui era da poco vescovo ausiliare di Buenos Aires: «Il Signore perdona tutto… Se il Signore non perdonasse tutto, il mondo non esisterebbe».

Il Papa venuto «dalla fine del mondo» non ha apportato cambiamenti agli insegnamenti della bimillenaria tradizione cristiana, ma riportando in modo nuovo la misericordia al centro del suo magistero, ha cambiato la percezione che tanti avevano della Chiesa. Ha testimoniato il volto materno di una Chiesa che si china su chi è ferito e in particolare su chi è ferito dal peccato. Una Chiesa che fa il primo passo verso il peccatore, proprio come Gesù fece a Gerico, invitandosi a casa dell’impresentabile e odiato Zaccheo, senza chiedergli nulla, senza precondizioni. Ed è perché si è sentito per la prima volta guardato e amato così, che Zaccheo si è riconosciuto peccatore trovando in quello sguardo del Nazareno la spinta per convertirsi.

Tanta gente, duemila anni fa, si è scandalizzata vedendo il Maestro entrare proprio nella casa del pubblicano di Gerico. Tanta gente si è scandalizzata in questi anni per i gesti di accoglienza e di vicinanza del Pontefice argentino verso ogni categoria di persone, in special modo per “impresentabili” e peccatori. Nella sua prima omelia a una messa con il popolo, nella chiesa di Sant’Anna in Vaticano, Francesco disse: «Quanti di noi forse meriterebbero una condanna! E sarebbe anche giusta. Ma Lui perdona! Come? Con la misericordia che non cancella il peccato: è solo il perdono di Dio che lo cancella, mentre la misericordia va oltre. È come il cielo: noi guardiamo il cielo, tante stelle, ma quando viene il sole al mattino, con tanta luce, le stelle non si vedono. Così è la misericordia di Dio: una grande luce di amore, di tenerezza, perché Dio perdona non con un decreto, ma con una carezza».

Durante tutti gli anni del suo pontificato, il 266° successore di Pietro ha mostrato il volto di una Chiesa vicina, capace di testimoniare tenerezza e compassione, accogliendo e abbracciando tutti, anche a costo di correre dei rischi e senza preoccuparsi delle reazioni dei benpensanti. «Preferisco una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade – aveva scritto Francesco in “Evangelii gaudium”, la road map del suo pontificato – piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze». Una Chiesa che non confida nelle capacità umane, nel protagonismo degli influencer che rimandano solo a sé stessi e nelle strategie del marketing religioso, ma si fa trasparente per far conoscere il volto misericordioso di Colui che l’ha fondata e la fa vivere, nonostante tutto, da duemila anni.

È quel volto e quell’abbraccio che tanti hanno riconosciuto nel vecchio Vescovo di Roma venuto dall’Argentina, che aveva iniziato il suo pontificato andando a pregare per i migranti morti in mare a Lampedusa, e l’ha concluso immobilizzato in sedia a rotelle, spendendosi fino all’ultimo istante per testimoniare al mondo l’abbraccio misericordioso di un Dio vicino e fedele nell’amore verso tutte le sue creature.

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Intervista. L’ambasciatore: «Giappone e Santa Sede, uniti per il disarmo atomico»

Posté par atempodiblog le 11 avril 2025

Intervista. L’ambasciatore: «Giappone e Santa Sede, uniti per il disarmo atomico»
Akira Chiba, rappresentante del Giappone in Vaticano: «La Chiesa, ponte di pace per l’Asia. Significativo il dialogo vaticano con Taiwan e la Cina. La Santa Sede all’Expo di Osaka con Caravaggio»
di Giacomo Gambassi – Avvenire
Tratto da: Radio Maria

Intervista. L'ambasciatore: «Giappone e Santa Sede, uniti per il disarmo atomico» dans Articoli di Giornali e News L-ambasciatore-del-Giappone-presso-la-Santa-Sede-Akira-Chiba-davanti-al-paravento-che-racconta-la

Alle sue spalle ha un paravento dove il colore che domina è il giallo oro. In un angolo del separé, trasformato in dipinto, si scorge la scena di una Messa celebrata all’interno di una pagoda. E al centro spicca una nave: quella che porta a Roma la prima delegazione nipponica ricevuta in udienza da un Papa. «C’è una storia di relazioni lunga quasi cinque secoli fra Giappone e Santa Sede. Ma non si tratta solo di fare memoria di un passato che affonda le sue radici nell’opera evangelizzatrice di Francesco Saverio, bensì di guardare insieme al futuro individuando campi di azione condivisi», spiega l’ambasciatore del Giappone presso la Santa Sede, Akira Chiba. Uno è il disarmo nucleare. Papa Francesco aveva parlato di «vocazione alla pace» propria del Paese asiatico visitando nel 2019 Hiroshima e Nagasaki, le due città dove nell’agosto 1945 erano state sganciate le bombe atomiche Usa che avrebbero chiuso la seconda Guerra mondiale. «Si tratta di un’arma immorale che ha il potenziale di annientare l’intera umanità – afferma l’ambasciatore -. Il Giappone non è soltanto il Paese che ha vissuto la tragedia dell’arma nucleare, ma è anche consapevole di aver causato quanto è risultato con la bomba atomica. Quindi si sente chiamato ad avere un ruolo primario nel costruire la pace. E con la Santa Sede condivide l’obiettivo ultimo dell’eliminazione completa delle testate nucleari». Una pausa. «La pace mondiale passa anche dall’Asia – sottolinea Chiba -. E la Santa Sede può offrire un suo specifico contributo alla stabilità del continente, soprattutto se si tiene conto di Taiwan. Infatti continua ad avere relazioni diplomatiche con Taiwan e sta rafforzando i suoi rapporti con la Cina». Come a dire: la posizione vaticana si conferma nel segno dell’equilibrio e del dialogo.

La rappresentanza del Giappone si affaccia su via della Conciliazione. E dalle finestre si vedono i pellegrini del Giubileo diretti verso la Basilica di San Pietro e la Porta Santa. «Siamo grati alla Santa Sede che qui a Roma si priverà della Deposizione di Cristo di Caravaggio per inviarla nel nostro Paese», annuncia il diplomatico originario di Tokyo, 65 anni, che nel 2023 ha presentato le lettere credenziali al Papa. Il riferimento è all’unica opera dell’artista barocco presente nei Musei Vaticani che verrà esposta all’Expo 2025 ospitato nell’isola artificiale sul lungomare di Osaka. Domenica l’apertura dei padiglioni che possono essere visitati fino al 13 ottobre. «Quello italiano accoglierà anche la Santa Sede con un suo spazio specifico. Una collaborazione che aiuterà a riflettore su una storia comune». E a far conoscere lo “Stato del Papa” che nel Sol Levante è una sorta di grande sconosciuto. «Sono appena 450mila i cattolici, a fronte di una popolazione di oltre 120 milioni di abitanti. Ad essi si aggiungono i fedeli stranieri che frequentano le chiese del Paese: in particolare, brasiliani, filippini, vietnamiti e peruviani. Sui media la figura del Papa non ha ampia attenzione. Persino la malattia di Francesco con il suo ricovero in ospedale è passata in sordina. Eppure nelle ultime settimane l’interesse verso la Chiesa cattolica è cresciuto». La ragione? «L’uscita del film Conclave anche nelle sale giapponesi che ha avuto una vasta eco nella società». L’ambasciatore cita l’arcivescovo di Tokyo, Tarcisio Isao Kikuchi, che a dicembre è stato creato cardinale. «Lui è rimasto sorpreso. Ma in Giappone in molti non sanno neppure che cosa significhi essere cardinale. Certo, è un onore poterne avere due: oltre a Kikuchi, abbiamo Thomas Aquinas Manyo Maeda, arcivescovo di Osaka-Takamatsu». Eppure la fede cristiana permea la vita dell’isola, benché non se ne abbia coscienza. «Nella nostra lingua ci sono espressioni mutuate dalla Bibbia che vengono impiegate comunemente. Cito quella che si usa quando improvvisamente si riesce a comprendere qualcosa: “Mi sono cadute le squame dagli occhi”. È tratta dal racconto della conversione di san Paolo negli Atti degli Apostoli: “In quell’istante gli caddero dagli occhi come delle squame e recuperò la vista”».

Quale il ruolo della Santa Sede nella crisi di Taiwan?
«È significativo che la Santa Sede abbia relazioni diplomatiche con Taiwan. Bisogna risalire al 1971, quando all’Onu il governo di Pechino fu ritenuto l’unico rappresentante del Paese, per ricordare come molte nazioni abbiano abbandonato Taiwan per preferire la Cina. Invece la Santa Sede aveva scelto di non tagliare i rapporti. Oggi tutti siamo coscienti che il Partito comunista cinese voglia la riunificazione di Taiwan con la Cina. E non si può garantire che ciò avvenga senza spargimento di sangue. Al momento la Santa Sede sta cercando di rafforzare i legami con la Cina continentale. Però, se dovesse interrompere improvvisamente i rapporti con Taiwan, tutto ciò potrebbe rappresentare un incentivo per la Cina a usare la forza per giungere all’annessione».

Una situazione esplosiva?
«Non possiamo abbassare la guardia. Inoltre il Giappone, in caso di attacco della Cina, diventerebbe un possibile bersaglio perché accoglie numerose basi militari americane».

Lei è stato consigliere d’ambasciata in Cina. Come valuta l’interlocuzione fra Santa Sede e Repubblica popolare cinese?
«Sono numerosi i cattolici in Cina. Per questo comprendo il dialogo vaticano, che di per sé è una cosa buona. Però va garantita la libertà religiosa. L’attuale Partito comunista, che prosegue sulla linea di Mao Tse-tung, continua a volere sinicizzare la religione».

E la Corea del Nord?
«Qui si intrecciano più elementi. C’è il programma nucleare che sta sviluppando e che prevede sia la produzione sia il trasporto degli armamenti. Poi c’è il rapporto con la Corea del Sud che viene vista come un nemico nonostante il popolo sia unico. Infine, guardando al Giappone, abbiamo il caso dei nostri connazionali rapiti e portati nella Corea del Nord per insegnare giapponese: un caso riconosciuto ma che Pyongyang non intende risolvere. Desidereremmo che la Corea del Nord diventi un Paese degno di fiducia».

Il mondo si sta riarmando, compresa l’Europa. La Chiesa ripete che le armi non sono mai la soluzione. Anche il Giappone si riarma…
«Vero. Eppure non lo fa per invadere i Paesi vicini, ma per difendersi. In caso di guerra, avremmo munizioni sufficienti solo per qualche settimana. Allora è stato deciso di aumentare gli stanziamenti per la difesa; però senza volere esportare la guerra».

Il Papa ha detto in Giappone che occorre «favorire tutte le mediazioni dissuasive». Come l’Asia può contribuire alla pace nel mondo?
«Anche l’Asia è instabile. Tuttavia nel sud-est asiatico c’è un organismo, l’Asean, che ha una funzione considerevole nel mantenimento dell’ordine regionale e quindi della pace. È formato da dieci Stati, presto undici, che in passato sono stati in guerra fra loro. Solo che da tempo la Cina sta minando l’unità dell’Asean».

In Russia, negli Usa, in Europa si torna a parlare dell’impiego delle armi nucleari a proposito del conflitto in Ucraina.
«Ciò dimostra la pericolosità degli arsenali atomici. La guerra in Ucraina è stata causata dall’invasione russa. Mosca dice che potrebbe usare la bomba nucleare. L’Occidente risponde in modo simile. Perciò bisogna fermare la guerra in Ucraina».

La Chiesa si spende per la pace.
«E ha ottenuto storici risultati in vari angoli del mondo. La figura del Papa è riconosciuta a livello planetario come guida morale. Le sue parole sono necessarie per il bene della famiglia umana».

Oltre allo stop alle armi atomiche, quali altri ambiti d’impegno possono unire Giappone e Santa Sede?
«Ne indico due: la tutela dell’ambiente, collegata ai cambiamenti climatici; e l’aiuto alle popolazioni africane. Quest’anno il Giappone torna a ospitare la Ticad, la Conferenza internazionale di Tokyo sullo sviluppo dell’Africa con i capi di Stato del continente. La Chiesa ha un ruolo imprescindibile in Africa: penso alle scuole, alle cliniche mediche, ai presidi sociali; ma soprattutto alla fiducia che si è conquistata presso la gente perché è sempre rimasta accanto alle persone anche durante i periodi più difficili, come quelli di guerra. Per il Giappone è importante lavorare con la comunità ecclesiale. Ed è eloquente la presenza del cardinale Kikuchi che è presidente di Caritas Internationalis ed è stato per anni missionario in Ghana».

Il Giappone ha profondi valori religiosi. Possono favorire il dialogo fra le religioni?
«Nel Paese sono pochi coloro che dichiarano l’appartenenza religiosa. Eppure il dialogo interreligioso si vive in famiglia. Ad esempio, da neonati si fanno i riti di purificazione nel santuario shintoista; magari ci si sposa in una chiesa cristiana; il funerale è celebrato con il rito buddista. Inoltre la cultura giapponese è segnata da un insegnamento: non pensare solo a se stessi. Indica la consapevolezza che c’è qualcosa di più importante del proprio io. La ritengo una forma diffusa di religiosità».

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La speranza e l’arte sono cura

Posté par atempodiblog le 4 avril 2025

La speranza e l’arte sono cura
Le arti hanno un ruolo importante per chi affronta una malattia, ma anche nella prevenzione e nella formazione del personale sanitario. Sempre più la scienza indaga le correlazioni tra la bellezza e il benessere fisico e mentale. Nell’intervista a Fabrizio Consorti, medico e presidente del comitato “Cultura è Salute”, emerge la stretta connessione tra espressioni artistiche, medicina e condizioni dei pazienti
di Eugenio Murrali – Vatican News

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“Per i malati, trovarsi in un ambiente bello è positivo. È neurobiologicamente fondato che la bellezza fa bene”. Fabrizio Consorti, già docente di Chirurgia Generale all’Università di Roma “Sapienza”, ha a lungo sperimentato il beneficio delle espressioni culturali sui pazienti. Ma non è solo. L’Organizzazione Mondiale della Sanità nel 2019 ha pubblicato un rapporto ricchissimo sull’impatto delle arti sul benessere.

Una visione unitaria della persona
Già Papa Francesco, lo scorso gennaio, nel Messaggio per la XXXIII Giornata Mondiale del Malato, aveva posto l’accento su un aspetto umano dei luoghi di cura:

I luoghi in cui si soffre sono spesso luoghi di condivisione, in cui ci si arricchisce a vicenda. Quante volte, al capezzale di un malato, si impara a sperare! Quante volte, stando vicino a chi soffre, si impara a credere! Quante volte, chinandosi su chi è nel bisogno, si scopre l’amore!”.

Uno sguardo complessivo sulla persona ammalata, un’attenzione rivolta a tutte le sue dimensioni. Osserva Consorti: “In una visione unitaria della persona umana non c’è separazione tra la mente, il corpo, lo spirito e la rete di relazioni che compongono l’essere”.

Il progetto “Cultura è Salute”
L’umanizzazione dei luoghi di cura e il valore aggiunto che arti figurative, letteratura, musica, cinema, teatro, danza rappresentano per i processi di terapia e riabilitazione sono alla base dei progetti portati avanti dal comitato “Cultura è Salute”, dell’Associazione Club Medici, presieduto da Consorti: “Abbiamo messo in rete oltre cento associazioni e istituzioni con l’assunto che il bene culturale, in tutte le sue espressioni, favorisce la salute. Abbiamo inoltre, a gennaio dello scorso anno, realizzato un evento comune in un luogo meraviglioso, le corsie sistine dell’ospedale Santo Spirito in Sassia”. L’appuntamento aveva il significativo titolo Effetto Michelangelo. L’arte come effetto e strumento dell’azione di cura di sé e degli altri. E scorrendo il portale dell’associazione sono moltissime le iniziative che vedono nella creatività uno strumento terapeutico. Altre proposte sono legate ai libri e vedono fiorire piccole biblioteche e luoghi adatti alla lettura negli ambienti di cura. Il progetto Punto Biblio Digital  offre inoltre la possibilità ai pazienti di accedere a un servizio digitale per il prestito di libri.

Clinica come servizio, “inchinarsi” sui malati
“La speranza è la conditio sine qua non per ottenere la guarigione. E questa speranza è curata in maniera fondamentale dal rapporto di fiducia tra curante e curato. Sulla fiducia si costruisce la speranza che quello che stai facendo è buono per te”, assicura Consorti. Il medico, che crede molto nella forza della cultura, tanto che è impegnato anche come presidente dell’Opera di Promozione dell’Alfabetizzazione nel Mondo, ha poi una visione molto netta di quello che è il concetto di servizio che deve guidare chi si dedica alla cura degli altri: “Ai miei studenti ricordavo che il termine ‘clinica’ deriva dal verbo greco ‘klinomai’ che significa ‘inchinarsi’, quindi è piegarsi sui malati, la forma più alta di servizio che si possa compiere. Per cui è bello che nel giubileo si celebri una giornata per tutti coloro che sono nella condizione di malattia, soprattutto di malattia cronica, che diventa un pezzo della tua esistenza con cui convivere”.

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Il Credo di Nicea, carta d’identità del cristiano

Posté par atempodiblog le 4 avril 2025

Il Credo di Nicea, carta d’identità del cristiano
Pubblicato dalla Commissione Teologica Internazionale il documento “Gesù Cristo, Figlio di Dio, Salvatore – 1700° anniversario del Concilio Ecumenico di Nicea (325-2025)” dedicato all’assise passata alla storia per il Credo che proclama la fede nella salvezza in Gesù Cristo e nel Dio Uno, Padre, Figlio e Spirito Santo. Quattro capitoli nel segno della promozione dell’unità dei cristiani e della sinodalità nella Chiesa
de La Redazione di Vatican News

Il Credo di Nicea, carta d’identità del cristiano dans Articoli di Giornali e News Una-raffigurazione-del-Concilio-di-Nicea

Il prossimo 20 maggio il mondo cristiano farà memoria dei 1700 anni dall’apertura del primo Concilio ecumenico, quello svoltosi a Nicea nel 325, passato alla storia principalmente per il Simbolo che raccoglie, definisce e proclama la fede nella salvezza in Gesù Cristo e nel Dio Uno, Padre, Figlio e Spirito Santo. Completato poi dal Concilio di Costantinopoli del 381, il Credo di Nicea è divenuto nella pratica la carta d’identità della fede professata dalla Chiesa. Per questo la Commissione Teologica Internazionale (CTI) ha deciso di dedicare all’assise conciliare che fu convocata dall’imperatore Costantino in Asia Minore un documento di quasi settanta pagine, con il duplice obiettivo di rievocarne il significato fondamentale e di mettere in luce le straordinarie risorse del Credo, rilanciandole nella prospettiva della nuova tappa dell’evangelizzazione che la Chiesa è chiamata a vivere nell’attuale cambiamento d’epoca. Anche perché la ricorrenza avviene durante il Giubileo della speranza e in concomitanza con la coincidenza della data di Pasqua per tutti i cristiani, in Oriente e in Occidente.

Per tali motivi Gesù Cristo, Figlio di Dio, Salvatore – 1700° anniversario del Concilio Ecumenico di Nicea (325-2025), questo il titolo del documento uscito [...], giovedì 3 aprile, non è un semplice testo di teologia accademica, ma si propone come una sintesi che può accompagnare l’approfondimento della fede e la sua testimonianza nella vita della comunità cristiana. Del resto a Nicea per la prima volta l’unità e la missione della Chiesa si espressero a livello universale (da qui la qualifica di “ecumenico”) nella forma sinodale di quel camminare che le è propria, divenendo così pure un punto di riferimento e di ispirazione nel processo sinodale in cui è coinvolta la Chiesa cattolica oggi.

Al documento hanno lavorato anche due teologhe
Articolato in 124 punti, il documento è frutto della decisione della CTI di approfondire nel corso del suo decimo quinquennio uno studio sull’attualità dogmatica di Nicea. Il lavoro è stato condotto da una Sottocommissione presieduta dal sacerdote francese Philippe Vallin e composta dai vescovi Antonio Luiz Catelan Ferreira ed Etienne Vetö, dai sacerdoti Mario Angel Flores Ramos, Gaby Alfred Hachem e Karl-Heinz Menke, e dalle professoresse Marianne Schlosser e Robin Darling Young. Il testo è stato votato e approvato in forma specifica all’unanimità nel 2024 e poi sottoposto all’approvazione del cardinale presidente Víctor Manuel Fernández, prefetto del Dicastero per la Dottrina della Fede, presso il quale è istituita la Commissione. Il porporato argentino, dopo aver avuto l’approvazione di Papa Francesco, il 16 dicembre scorso ne ha autorizzato la pubblicazione. I quattro capitoli in cui si snoda la riflessione delle teologhe e dei teologi, sono preceduti da un’introduzione intitolata “Dossologia, teologia e annuncio” e seguiti dalla conclusione.

Una lettura dossologica del Simbolo
Il primo capitolo “Un Simbolo per la salvezza: dossologia e teologia del dogma di Nicea” (nn. 7-47) è il più corposo. Offre «una lettura dossologica del Simbolo, per metterne in evidenza le risorse soteriologiche e quindi cristologiche, trinitarie e antropologiche», con l’intento di dare «nuovo slancio al cammino verso l’unità dei cristiani». Rimarcando la portata ecumenica della fede di Nicea, il testo esprime la speranza di una data comune per la celebrazione della Pasqua, più volte auspicata dallo stesso Papa Bergoglio. In proposito il n. 43 evidenzia infatti come questo 2025 rappresenti per tutti i cristiani «un’occasione inestimabile per sottolineare che ciò che abbiamo in comune è molto più forte di ciò che ci divide: tutti insieme, noi crediamo nel Dio trinitario, nel Cristo vero uomo e vero Dio, nella salvezza in Gesù Cristo, secondo le Scritture lette nella Chiesa e sotto la mozione dello Spirito Santo. Insieme, noi crediamo la Chiesa, il battesimo, la risurrezione dei morti e la vita eterna». Di conseguenza — mette in guardia la CTI al n. 45 — «la divergenza dei cristiani a proposito della festa più importante del loro calendario crea dei disagi pastorali all’interno delle comunità, al punto da dividere le famiglie, e suscita scandalo presso i non cristiani, danneggiando così la testimonianza resa al Vangelo».

“Noi crediamo come battezziamo; e preghiamo come crediamo”
Ma accogliere la ricchezza di Nicea dopo diciassette secoli porta anche a percepire come quel Concilio nutra e guidi l’esistenza cristiana quotidiana: ecco perché il secondo capitolo “Il Simbolo di Nicea nella vita dei credenti” (nn. 48-69), di tenore patristico, esplora come la liturgia e la preghiera siano state fecondate nella Chiesa dopo quell’avvenimento, che costituisce una svolta per la storia del cristianesimo. «Noi crediamo come battezziamo; e preghiamo come crediamo», ricorda il documento, esortando ad attingere oggi e sempre a quella “fonte di acqua viva”, il cui ricco contenuto dogmatico è stato determinante nello stabilire la dottrina cristiana. E in tal senso il documento approfondisce la ricezione del Credo nella pratica liturgica e sacramentale, nella catechesi e nella predicazione, nell’orazione e negli inni del IV secolo.

Evento teologico ed ecclesiale
Il terzo capitolo “Nicea come evento teologico e come evento ecclesiale” (nn. 70-102) approfondisce quindi il modo in cui il Simbolo e il Concilio «rendono testimonianza dello stesso avvenimento di Gesù Cristo, la cui irruzione nella storia offre un accesso inaudito a Dio e introduce una trasformazione del pensiero umano» e come essi rappresentino anche una novità nel modo in cui la Chiesa si struttura e adempie la propria missione. «Convocato dall’imperatore per risolvere una contesa locale che si era estesa a tutte le Chiese dell’Impero romano d’Oriente e a numerose Chiese dell’Occidente — spiega il documento —, per la prima volta vescovi di tutta l’Oikouménè sono riuniti in Sinodo. La sua professione di fede e le sue decisioni canoniche sono promulgate come normative per tutta la Chiesa. La comunione e l’unità inaudite suscitate nella Chiesa dall’evento Gesù Cristo sono rese visibili ed efficaci in modo nuovo da una struttura di portata universale, e l’annuncio della buona notizia di Cristo in tutta la sua immensità riceve anch’esso uno strumento di un’autorità senza precedenti» (Cfr n. 101).

Una fede accessibile anche ai semplici
Infine, nel quarto e ultimo capitolo “Custodire una fede accessibile a tutto il popolo di Dio” (103-120) vengono messe in luce «le condizioni di credibilità della fede professata a Nicea in una tappa di teologia fondamentale che mette in luce la natura e l’identità della Chiesa, in quanto essa è interprete autentica della verità normativa della fede mediante il Magistero e custode dei credenti, in special modo dei più piccoli e dei più vulnerabili». Secondo la CTI la fede predicata da Gesù ai semplici non è una fede semplicistica e il cristianesimo non si è mai considerato come una forma di esoterismo riservato a una élite di iniziati, al contrario Nicea sebbene dovuta all’iniziativa di Costantino rappresenta «una pietra miliare nel lungo cammino verso la libertas Ecclesiae, che è dovunque una garanzia di protezione della fede dei più vulnerabili di fronte al potere politico». Nel 325 il bene comune della Rivelazione è realmente messo “a disposizione” di tutti i fedeli, come conferma la dottrina cattolica dell’infallibilità “in credendo” del popolo dei battezzati. I vescovi pur avendo un ruolo specifico nella definizione della fede, non possono assumerlo senza essere nella comunione ecclesiale di tutto il Santo popolo di Dio, tanto caro a Papa Francesco.

Perenne attualità del primo Concilio ecumenico
Ecco allora le conclusioni del documento con «un pressante invito» ad «annunciare a tutti Gesù nostra Salvezza oggi» a partire dalla fede espressa a Nicea in una molteplicità di significati. Anzitutto la perenne attualità di quel Concilio e del Simbolo da esso scaturito sta nel continuare a lasciarsi «stupire dall’immensità di Cristo, così che tutti ne siano meravigliati» e a «rianimare il fuoco del nostro amore per lui» perché «in Gesù homooúsios (consustanziale) al Padre… Dio stesso si è legato all’umanità per sempre»; in secondo luogo consiste nel non ignorare «la realtà» né distogliere «dalle sofferenze e dagli scossoni che tormentano il mondo e sembrano compromettere ogni speranza», mettendosi anche in ascolto della cultura e delle culture; in terza istanza vuol dire rendersi «particolarmente attenti ai più piccoli tra i nostri fratelli e le nostre sorelle», perché «questi crocifissi della storia sono il Cristo tra di noi», ovvero «coloro che hanno più bisogno della speranza e della grazia», ma al contempo conoscendo le sofferenze del Crocifisso sono a loro volta «gli apostoli, i maestri e gli evangelizzatori dei ricchi e dei benestanti»; e da ultimo vuol dire annunciare «in quanto Chiesa» ovvero «con la testimonianza della fraternità», mostrando al mondo le cose meravigliose per cui essa “una, santa, cattolica e apostolica” è “sacramento universale di salvezza”, e diffondendo al contempo il tesoro delle Scritture che il Simbolo interpreta, la ricchezza della preghiera, della liturgia e dei sacramenti che derivano dal battesimo professato a Nicea e la luce del Magistero; sempre con lo sguardo fisso verso il Risorto che vince sulla morte e sul peccato e non su degli avversari, non essendovi perdenti nel Mistero Pasquale, se non lo sconfitto escatologico, Satana, il divisore. Non a caso il 28 novembre scorso, ricevendo in udienza i membri della CTI, il Pontefice elogiandone il lavoro aveva parlato dell’utilità di un documento mirante a «illustrare il significato attuale della fede professata a Nicea… per nutrire la fede dei credenti e, a partire dalla figura di Gesù, offrire anche spunti e riflessioni utili a un nuovo paradigma culturale e sociale, ispirato proprio all’umanità di Cristo».

Una giornata di studio su Gesù Cristo, Figlio di Dio, Salvatore – 1700° anniversario del Concilio Ecumenico di Nicea (325-2025), si terrà proprio il 20 maggio, alla Pontificia Università Urbaniana dalle 9 alle 19.30, con la partecipazione dei teologi e delle teologhe che hanno contribuito alla elaborazione del documento e di altri esperti della materia.

Divisore dans San Francesco di Sales

Freccia dans Viaggi & Vacanze Leggi qui il testo integrale del documento

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I pericoli della pace ingiusta

Posté par atempodiblog le 30 mars 2025

I pericoli della pace ingiusta
Una pace predatoria, ostentatamente punitiva, non offre alcun affidamento di stabilità per il futuro
di Paolo Mieli – Corriere della Sera
Tratto da: 
Radio Maria

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È ormai evidente che gli Stati Uniti si accingono ad imporre all’Ucraina un iniquo «accordo» con l’aggressore. A dispetto della lodevole insistenza del capo dello Stato Sergio Mattarella, del presidente della Conferenza episcopale Matteo Zuppi e di molti leader europei sul tema della «pace giusta», Donald Trump e Vladimir Putin lasciano intendere in tutti i modi possibili e all’unisono d’essere alla ricerca di un’intesa che preveda un trattamento punitivo per l’Ucraina. Accompagnata da un’umiliazione, fin dove è possibile, dell’Europa tutta. Il messaggio subliminale (anzi, quasi esplicito) inviato da Washington a Zelensky e alle sue forze armate che ancora si battono palmo a palmo in regioni già formalmente annesse alla Russia, è che ogni sforzo è inutile. E, per quel che riguarda gli europei, ostentatamente esclusi dal tavolo della trattativa, si lascia intendere che è da considerare implausibile un loro ruolo, in territorio ucraino, anche solo a difesa della «pace ingiusta» che prima o poi verrà imposta. Si acconcino, gli europei, a parare semmai i prossimi colpi dei russi. Non tanto quelli da considerarsi inevitabili rivolti contro le indifese aree che un tempo appartennero all’Unione sovietica (in qualche caso interi Paesi). Quanto quelli indirizzati contro l’insieme degli Stati europei. È infatti probabile che Mosca, con il consenso americano, vorrà testarne, uno per uno (nessuno escluso), la tenuta, la capacità di reazione nonché di difesa. E non solo in termini militari.

Quello di Putin è non da oggi un Paese destinato a vivere e sopravvivere esclusivamente in tempi di guerra. Soprattutto adesso che ha davanti a sé un quadriennio, quello trumpiano, in cui quasi ogni porta gli verrà spalancata e può aspirare a ripresentarsi agli occhi del mondo come la grande potenza che fu all’epoca di Stalin. Un’occasione davvero eccezionale. Gli Stati Uniti si sottraggono all’improvviso ad ogni impegno preso dal 1945 in poi. Ottant’anni svaniti nel nulla, senza che si sia levata dal profondo dell’America un’argomentata voce di dissenso. Quantomeno su questo specifico tema. Un appuntamento angosciante che nessuno, qui in Europa, si aspettava. Quantomeno in forme così dirette e brutali.
Prevedibile che a questo punto l’Europa si dividerà: da una parte i Paesi confinanti con la Russia o quelli che godono di un’autentica tradizione e consapevolezza di sé; dall’altra gli appartenenti all’area latina, mediterranea che sanno benissimo cosa sono diventati e si mostrano, conseguentemente, più inclini ad occuparsi esclusivamente delle proprie cose, al disimpegno, alla mediazione, alla «pace». «Giusta» o «ingiusta» che sia.

L’impreparazione è tale che al momento l’Europa è sprovvista persino di analisi che le consentano di capire se esiste ancora una missione storica continentale e quale sia. Ci sono formule, come quella della «pace ingiusta», che non si ha nemmeno il coraggio di rendere esplicite tanto abbiamo introiettato e assimilato, dai tempi del profeta Isaia, il concetto che «non c’è pace senza giustizia».
Qui in Italia c’è qualcuno che osa, che, anche a costo di entrare in evidente contrasto con i moniti di Mattarella e Zuppi, dà segni di apertura alla formulazione proibita. L’ex presidente della Corte costituzionale Gustavo Zagrebelsky nel corso di un’intervista (a Silvia Truzzi per il «Fatto Quotidiano») si è domandato: «Se non siamo in grado di garantire la pace giusta, saremmo disposti a fare la guerra, una guerra definitiva, con le bombe atomiche?». Per quel che lo riguarda, lui ha risposto apertamente di no, anche a costo di passare per «pusillanime». Prima di tutto, ha aggiunto Zagrebelsky, «viene la vita della gente comune e anche quella dei soldati». E «finché c’è vita, c’è speranza». Quindi: meglio una «pace ingiusta» (finalmente qualcuno che pronuncia quelle parole senza girarci intorno: «pace ingiusta») che una «morte giusta per tutti, innocenti compresi». Tanto più che una pace «per quanto ingiusta non preclude la possibilità di operare successivamente per ottenere giustizia».

Per parte nostra, fatte salve le preoccupazioni umanitarie di Zagrebelsky, dubitiamo che quella «ingiusta» possa essere considerata un’autentica pace. Sappiamo benissimo che anche le paci del passato contenevano dosi di ingiustizia (che tra l’altro hanno poi provocato ulteriori guerre). Ma la pace predatoria, ostentatamente punitiva nei confronti di chi si sta battendo da oltre tre anni e di chi, come l’Europa su quella resistenza ha investito più di quanto abbiano fatto gli Stati Uniti, non offre alcun affidamento di stabilità. Quanto alla «possibilità di operare successivamente per ottenere giustizia», abbiamo paura che essa possa rivelarsi un auspicio di impossibile concretizzazione. O, peggio ancora, temiamo che questo «secondo tempo» ipotizzato da Zagrebelsky porti a disgregazioni e guerre più sanguinose ancora di quelle a cui stiamo assistendo.

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Il dolore del Papa per il sisma in Myanmar e Thailandia e per gli incendi in Corea

Posté par atempodiblog le 29 mars 2025

Il dolore del Papa per il sisma in Myanmar e Thailandia e per gli incendi in Corea
Due telegrammi da parte del Pontefice, a firma del segretario di Stato Parolin, alle autorità civili ed ecclesiastiche dei Paesi asiatici. Francesco assicura la preghiera per i defunti e la vicinanza a quanti sono impegnati per i soccorsi
de La Redazione di Vatican News

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Papa Francesco è “profondamente rattristato” per la perdita di vite umane e per la “diffusa devastazione” causata dal terremoto nel Sud-est asiatico, che ha colpito Myanmar e Thailandia. Il sisma di magnitudo 7.7 ha devastato ampie zone dei due Paesi e provocato morti e feriti. In un telegramma di cordoglio a firma del cardinale segretario di Stato, Pietro Parolin, indirizzato alle autorità ecclesiastiche e civili birmane e thailandesi, il Pontefice “offre sentite preghiere per le anime dei defunti e l’assicurazione della sua vicinanza spirituale a tutti coloro che sono stati colpiti da questa tragedia”. Il Papa “prega anche che il personale di emergenza sia sostenuto nella cura dei feriti e degli sfollati dai doni divini di fortezza e perseveranza”.

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Vicinanza alla Corea colpita dagli incendi
Ancora tramite un telegramma, a firma sempre del cardinale Parolin, pubblicato successivamente e inviato alle autorità civili ed ecclesiastiche locali, il Papa esprime la preoccupazione per “la minaccia alla vita” e per “i danni” causati dai diffusi incendi in varie parti della Corea che hanno colpito in particolare le aree boschive. Nel messaggio Francesco affida le anime dei defunti “all’amorevole misericordia di Dio onnipotente” e invia “sentite condoglianze” a quanti ne piangono la perdita. Il Papa assicura anche preghiere per i feriti e i soccorritori e il personale di emergenza, invocando su tutti “le benedizioni divine di consolazione, guarigione e forza”.

Gli incendi, i peggiori mai registrati Corea del Sud, hanno interessato soprattutto la parte sud-orientale del Paese. Le vittime  stando agli ultimi bilanci del governo  sono 26 e 30 invece i feriti, di cui otto gravi. Risultano esserci ancora incendi in dieci zone medie e grandi.

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Il saluto ai fedeli, la sosta a Santa Maria Maggiore: il Papa è tornato a casa

Posté par atempodiblog le 23 mars 2025

Il saluto ai fedeli, la sosta a Santa Maria Maggiore: il Papa è tornato a casa
Nell’Angelus scritto il grazie del Pontefice per le preghiere: «Ho sperimentato la pazienza del Signore». Francesco esprime dolore per i nuovi bombardamenti su Gaza: «Tacciano subito le armi»
di Mimmo Muolo – Avvenire

Il saluto ai fedeli, la sosta a Santa Maria Maggiore: il Papa è tornato a casa dans Articoli di Giornali e News Il-Papa-affacciato-al-balcone-del-Gemelli-Ansa
Il Papa affacciato al balcone del Gemelli  Ansa

Si affaccia in carrozzina dal balconcino per due minuti, saluta, benedice e mostra il pollice in segno che va tutto bene. Poi, guardando giù ai tremila fedeli presenti, dice: «Questa signora con i fiori gialli, che brava». La voce migliorata rispetto all’audio messaggio di oltre una settimana fa. Anche l’aspetto buono, in relazione a ciò che ha passato. E poi torna dentro. È già una giornata memorabile, questa domenica 23 marzo 2025, nella storia del pontificato di Francesco. Il Papa, dopo 38 giorni di ricovero, riappare in pubblico al momento dell’Angelus. E subito dopo, a bordo di una Fiat 500, lascia il Gemelli. Per dirigersi – questa la sorpresa, un’altra di quelle a cui ci ha abituati Francesco – alla Basilica di Santa Maria Maggiore, dove arriva alle 12.40 e consegna a Sua Eminenza il Cardinale Makrickas dei fiori da porre davanti all’icona della Vergine Salus Populi Romani. Gesto tanto significativo quanto importante per far comprendere lo stato d’animo del Papa. Il quale evidentemente considera questi la lunga degenza come uno dei viaggi più pericolosi e impegnativi compiuti durante il suo Pontificato.

Da Casa Santa Marta, infatti, era partito il 14 febbraio scorso, febbricitante, e con addosso quella polmonite bilaterale che per due volte, in questo mese e oltre (come hanno detto ieri i medici) lo ha portato «in pericolo di vita». Enorme dunque l’emozione nel vederlo nuovamente, sia pure per così breve tempo.

È già una giornata memorabile, e di festa, per la guarigione del Pontefice, incessantemente invocata con preghiere e rosari. E proprio a una preghiera mariana, l’Angelus, si affida Francesco per mostrarsi finalmente di persona, dopo la fotografia diffusa domenica scorsa e che lo ritraeva nella cappella del suo appartamento, al decimo piano del Gemelli. Tutti gli occhi sono puntati verso quella finestra, non solo quelli delle migliaia di persone che affollano il piazzale di ingresso del Policlinico, attorno alla statua di san Giovanni Paolo II, epicentro di preghiere e omaggi in questi giorni. Ma anche gli occhi del mondo intero, che seguono la diretta diffusa urbi et orbi, si potrebbe dire, dai canali di Vatican Media.

Il Papa non pronuncia che poche parole. Ma quanto significative. Il resto lo dice con il linguaggio del corpo. E adesso può finalmente tornare a casa, dove dovrà restare in covalescenza per almeno due mesi. Il che, tradotto in termini pratici, significa, che non potrà tenere udienze per i primi tempi. Poi si vedrà. E anche per i riti della settimana santa, tra meno di un mese, ormai, si valuterà in base all’evoluzione delle condizioni di salute. L’umore del Papa è comunque buono, come si è visto anche oggi, ed è «felicissimo» di tornare a casa hanno detto i medici. Dal punto di vista della polmonite bilaterale è guarito, non ha mai avuto il Covid, non è mai stato intubato ed è rimasto sempre vigile e ben orientato, hanno riferito i sanitari ieri pomeriggio. Ha solo bisogno di riposo e il luogo migliore per lui in questo momento è casa sua.

Il testo dell’Angelus, come già era capitato nella cinque domeniche precedenti durante il ricovero, è stato distribuito per iscritto. Commentando la parabola del fico sterile e della pazienza del contadino, Francesco scrive: «In questo lungo tempo di ricovero, ho avuto modo di sperimentare la pazienza del Signore, che vedo anche riflessa nella premura instancabile dei medici e degli operatori sanitari, così come nelle attenzioni e nelle speranze dei familiari degli ammalati. Questa pazienza fiduciosa, ancorata all’amore di Dio che non viene meno, è davvero necessaria alla nostra vita, soprattutto per affrontare le situazioni più difficili e dolorose».

Poi il Papa rivolge un pensiero agli scenari di guerra. «Mi ha addolorato la ripresa di pesanti bombardamenti israeliani sulla Striscia di Gaza, con tanti morti e feriti. Chiedo che tacciano subito le armi; e si abbia il coraggio di riprendere il dialogo, perché siano liberati tutti gli ostaggi e si arrivi a un cessate il fuoco definitivo. Nella Striscia la situazione umanitaria è di nuovo gravissima ed esige l’impegno urgente delle parti belligeranti e della comunità internazionale». «Sono lieto invece – prosegue il testo – che l’Armenia e l’Azerbaigian abbiano concordato il testo definitivo dell’Accordo di pace. Auspico che esso sia firmato quanto prima e possa così contribuire a stabilire una pace duratura nel Caucaso meridionale».

Francesco esprime infine gratitudine per le preghiere: «Con tanta pazienza e perseveranza state continuando a pregare per me: vi ringrazio tanto! Anch’io prego per voi. E insieme imploriamo che si ponga fine alle guerre e si faccia pace, specialmente nella martoriata Ucraina, in Palestina, Israele, Libano, Myanmar, Sudan, Repubblica Democratica del Congo. La Vergine Maria ci custodisca e continui ad accompagnarci nel cammino verso la Pasqua». E infatti è confermato che anche stasera alle 19.30 si pregherà in piazza San Pietro. Il Rosario sarà animato animato dai canonici del Capitolo della Basilica Vaticana e guidato dal cardinale Mauro Gambetti, arciprete della stessa Basilica.

I saluti e gli incontri prima di uscire dall’ospedale
Questa mattina, prima di affacciarsi dal balcone del quinto piano dell’ospedale per un saluto e per impartire la benedizione, Papa Francesco ha salutato brevemente il personale e i vertici dell’Università Cattolica e del Policlinico Gemelli: il Rettore dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, professoressa Elena Beccalli; il Presidente della Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS, dottor Daniele Franco; inoltre il Preside della Facoltà di Medicina e chirurgia dell’Università Cattolica, professor Antonio Gasbarrini; il Vicepresidente della Fondazione Policlinico Gemelli, dottor Giuseppe Fioroni; il Direttore generale della Fondazione Policlinico A. Gemelli IRCCS, professor Marco Elefanti, l’Assistente Ecclesiastico Generale dell’Università Cattolica, S.E. Monsignor Claudio Giuliodori, e il professor Sergio Alfieri, Direttore del Dipartimento di Scienze Medico-Chirurgiche del Policlinico e Responsabile dell’equipe medica del Gemelli; il direttore sanitario della Fondazione Policlinico Gemelli, dottor Andrea Cambieri.

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La festa della Sindone, a Torino un’ostensione multimediale aperta al mondo

Posté par atempodiblog le 16 mars 2025

La festa della Sindone, a Torino un’ostensione multimediale aperta al mondo
Presentate le iniziative speciali collegate alla festa liturgica del sacro lino di Torino nell’anno giubilare. L’iniziativa, dal titolo “Avvolti. Sindone, Speranza, Giubileo”, si avvale delle nuove tecnologie per offrire un approccio inedito dove fede e innovazione si uniscono per arrivare al cuore delle persone. Il cardinale Repole: “Sarà la prima ostensione multimediale della storia”
di Maria Milvia Morciano – Vatican News
Tratto da: Radio Maria

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“Si ricorda anche che alcuni studiosi hanno osservato, mediante un confronto al computer, una perfetta corrispondenza del Volto Santo di Lucca con quello dell’Uomo della Sindone”. (Maria Milvia Morciano)

Quest’anno la memoria liturgica della Sindone, il 4 maggio prossimo, riveste un significato particolarmente intenso perché è racchiusa nell’anno giubilare: i suoi significati di fede e di speranza diventano pertanto più vividi non solo per la città di Torino che la custodisce, ma anche per tutto il mondo che quest’anno potrà parteciparvi grazie alle tecnologie digitali, realizzando un pellegrinaggio virtuale, attraverso programmi dedicati e collegamenti speciali.

Calco della resurrezione
[...] durante la conferenza stampa di presentazione delle iniziative speciali collegate alla festa, dal 25 aprile al 5 maggio, il cardinale Roberto Repole, arcivescovo di Torino e vescovo di Susa, custode pontificio del sacro lino, ne ha ricordato l’attualità poiché, mostrando “un Uomo sconfitto dalla storia, vilipeso, torturato e ucciso”, rispecchia i drammatici eventi attuali, guerre ma anche malattie e l’abbandono dei più deboli. Allo stesso tempo, però, il velo è un “invito a vivere una vita nuova” perché è “il calco della resurrezione” e in questo senso apre alla speranza che è sempre “fiducia che tutte le sconfitte della nostra storia non siano l’ultima parola, ma solo nell’orizzonte dell’eternità. È un orizzonte di speranza, quel telo, che ci lascia Gesù, perché ci dice che ci sarà un giudizio sulla storia, di cui molti uomini e donne hanno bisogno”.

La “Tenda della Sindone” accanto alla Cattedrale
Come già preannunciato lo scorso anno, l’ostensione pubblica non avrà luogo, ma le proposte offerte sono diverse: programmi dedicati e collegamenti speciali e, nel centro del capoluogo piemontese, a piazza Castello, proprio dietro la Cattedrale dove è custodita la Sindone, l’allestimento di una “Tenda della Sindone” che durante i giorni della festa accoglierà cittadini e visitatori che avranno così l’opportunità di conoscere il velo sindonico, la sua storia e il suo significato. “C’è un modo laico di avvicinarsi al telo, che porta un interesse – ha osservato il porporato – di tipo scientifico, poi c’è un interesse religioso, che deriva dalla tradizione cristiana, perché sorprendentemente la Sindone dice ciò che dicono i Vangeli rispetto alla morte di Gesù”. L’esposizione è stata allestita in una tenda e non in un luogo sacro, ma “è comunque subito dietro alla cattedrale, dove il telo è conservato – ha sottolineato il cardinale Repole – e direi che permette di immergersi in quella vicenda di cui parla il Nuovo Testamento. Nulla vieta che chi vuole possa poi sporgersi nella cattedrale”.

Un nuovo approccio per avvicinare ancora più persone
Nella tenda sarà esposta, distesa su un tavolo, quasi come su un “tavolo operatorio”, la riproduzione della Sindone a grandezza naturale, che potrà essere “esplorata” illuminando di volta in volta alcuni dei dettagli più significativi: come il Volto, la corona di spine, i segni dei chiodi. Le risorse offerte dalla tecnologia permetteranno di vedere il lino su cui è impresso il negativo fotografico del corpo di Gesù: non sarà esposto, ma fruibile in modo multimediale, “sarà la prima ostensione multimediale della storia” – aggiunge ancora Repole – “che spera, con questo nuovo approccio di avvicinare nuove persone, anche molti giovani”. Infatti, attenzione particolare sarà riservata alle nuove generazioni perché “ci sembrava un modo di concludere un itinerario di catechesi con un taglio esistenziale rivolto ai più giovani – precisa il cardinale – con la consapevolezza che per noi cristiani con loro si gioca una partita nuova, perché la trasmissione della fede come avveniva in passato non è più scontata”.

Per questo motivo, il progetto della diocesi di Torino è stato realizzato, oltre che in occasione dell’Anno giubilare, anche come contributo alla “Festa dei giovani” che conclude il ciclo di catechesi 2024-2025, iniziato l’8 novembre dello scorso anno e giunto alla terza edizione. Guidato dal cardinale Repole, il corso coinvolge i ragazzi delle diocesi di Torino e Susa di età compresa tra i 18 e i 30 anni. L’iniziativa è stata resa possibile grazie al contributo di Regione Piemonte, Città di Torino, Camera di Commercio di Torino, Fondazione Carlo Acutis.

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Padre Roberto Pasolini: il vero riposo è pace interiore, accogliere ciò che la vita ci dona

Posté par atempodiblog le 14 mars 2025

Provate ad immaginare se un bel giorno vi arrivasse un invito che stavate aspettando da moltissimo tempo, da qualcuno che avevate tanto atteso di incontrare. Una persona al fianco della quale avete tanto desiderato di trattenervi, per stare lungo tempo vicini a parlare. Il giorno in cui quell’invito arrivasse, quanto grande sarebbe la vostra gioia? La morte è l’invito di Dio ed è con questa gioia in cuore che io la attendo. Io so bene quanto Dio sia buono e bello e con quanta tenerezza Egli si prenda cura di me”.

di Takashi Paolo Nagai

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Padre Roberto Pasolini: il vero riposo è pace interiore, accogliere ciò che la vita ci dona
Nella nona meditazione degli Esercizi Spirituali in Aula Paolo VI, di cui pubblichiamo una sintesi, il predicatore della Casa Pontificia si sofferma sul concetto biblico del riposo che non è inattività ma condizione di pienezza e appagamento. E prima delle parole del religioso, quelle di monsignor Viola, segretario del Dicastero per il Culto Divino, che a nome della Curia assicura al Papa, nell’anniversario dell’elezione, vicinanza e preghiera
de La Redazione di Vatican News

La vita eterna è un dono già presente, ma spesso fatichiamo a comprenderne un aspetto fondamentale: il riposo. Fin da piccoli, siamo abituati a sentire la preghiera:

«L’eterno riposo dona loro, o Signore, e splenda ad essi la luce perpetua. Riposino in pace. Amen».

L’idea di un’eternità basata sul riposo eterno può sembrare deludente, come se la vita finisse con un’infinita dormita. Ma questa percezione nasce da un equivoco profondo: vediamo il riposo solo come inattività, mentre nella visione biblica è una condizione di pienezza e appagamento.

Dio stesso ha vissuto il riposo, quando Gesù, dopo la croce, è stato deposto nel sepolcro. Questo momento non è un’inerzia sterile, ma il compimento di un’opera, come racconta un’antica omelia sul Sabato Santo: «Dio è morto nella carne ed è sceso a scuotere il regno degli inferi».

Cristo riposa, eppure agisce misteriosamente, liberando i prigionieri degli inferi. Questo ci insegna che fermarsi non significa essere inutili, ma saper abbracciare il tempo con fiducia, senza inseguire un’attività frenetica e sterile.

Oggi il riposo è un lusso trascurato. Viviamo in una società che ci impone di essere sempre attivi, sempre connessi, sempre produttivi. Eppure, più aumentano le opportunità, meno riusciamo a riposare davvero. La parabola del servo, che dopo aver lavorato non si aspetta un premio ma accetta di aver fatto ciò che era chiamato a fare, ci insegna un segreto importante. Fino a quando viviamo con l’ossessione del risultato, non troveremo mai riposo. Solo chi accoglie con serenità il proprio limite può finalmente fermarsi in pace.

Il vero riposo non è inattività, ma libertà. È lo stato in cui non dobbiamo più dimostrare nulla, perché ci lasciamo abbracciare dall’amore di Dio. È la pace interiore che ci permette di dire: «Chi è entrato nel riposo di Dio, riposa anch’egli dalle sue opere, come Dio dalle proprie» (Eb 4,10).

Vivere bene il riposo significa allenarsi alla vita eterna, imparando a vivere senza paura, a lasciar andare il superfluo e a fidarci del fatto che Dio è già all’opera in noi.

Il riposo vero è pace interiore, non si misura in risultati, ma nella capacità di accogliere ciò che la vita ci dona. Non è fuga, ma un modo per imparare a vivere più intensamente, senza ansia. Non è passività, ma una fiducia attiva che ci rende liberi di amare. «Nell’amore non c’è timore. L’amore perfetto scaccia il timore» (1Gv 4,18).

Alla fine, la vita eterna non è un traguardo lontano, ma una realtà che cresce già dentro di noi. Già ora, siamo chiamati a viverla.

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Bartolo Longo, il fondatore del Santuario di Pompei, sarà santo. Decreto definisce venerabile Salvo D’Acquisto

Posté par atempodiblog le 25 février 2025

Bartolo Longo, il fondatore del Santuario di Pompei, sarà santo. Decreto definisce venerabile Salvo D’Acquisto
Brindisino di nascita, studi di Giurisprudenza a Napoli. Poi l’incontro con una nobildonna che sposa. Giovanni Paolo II lo eleva agli altari nel 1980. Papa Francesco avvia il processo di beatificazione di Salvo D’Acquisto
di Elena Scarici – Corriere del Mezzogiorno

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Bartolo Longo, il fondatore del Santuario di Pompei, sarà santo. Lo rende noto la Sala Stampa della Santa Sede, riferendo dell’udienza concessa ieri da Papa Francesco al cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato vaticano, e a monsignor Edgar Peña Parra, sostituto per gli Affari generali, per autorizzare il Dicastero delle Cause dei Santi a promulgare i decreti riguardanti nuovi santi e beati.

Il nome di Bartolo Longo è sinonimo nel mondo della Madonna di Pompei, veneratissima dai napoletani e meta ogni anno di pellegrinaggi da tutti i continenti. Vissuto tra la metà dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento, pugliese di Latiano (Brindisi), quello che diventerà un apostolo del Rosario vive una prima fase della vita con un disagio interiore molto acuto. Durante gli studi di Giurisprudenza a Napoli si avvicina per qualche tempo allo spiritismo per poi ritrovare la fede grazie all’aiuto di alcuni sacerdoti. Si accende in lui il desiderio di promuovere opere di carità e diventato amministratore dei beni della contessa Marianna Farnararo, rimasta vedova con cinque figli piccoli, lavora perché la gente povera che viveva sui terreni della nobildonna nella Valle di Pompei abbia una esistenza più dignitosa. Nel 1875 porta a Pompei una immagine della Madonna e nel 1876 avvia la costruzione del santuario destinato a diventare luogo di culto mondiale, consacrato alla Madonna del Rosario il 7 maggio 1891.

Bartolo Longo sposa la contessa e insieme donano la proprietà del santuario a Leone XIII, che ne lascia ai coniugi l’amministrazione. Per lui è l’inizio di una nuova vita di totale devozione alla Vergine, che esercita anche con un intenso lavoro di scrittura e diffusione di libri, opuscoli e riviste. Muore nel 1926, Giovanni Paolo II lo eleva agli altari nel 1980. Proprio questa enorme diffusione della devozione mariana scaturita dal Santuario di Pompei ha indotto nel 2024 l’arcivescovo prelato e delegato pontificio del Santuario Tommaso Caputo, assieme al vescovo di Acerra Antonio Di Donna, presidente dei presuli campani, a chiedere al Papa la canonizzazione del Beato Bartolo Longo.

Si avvia invece alla beatificazione Salvo D’Acquisto, il vicebrigadiere napoletano dell’Arma dei Carabinieri Reali insignito della Medaglia d’oro al valor militare per essersi sacrificato il 23 settembre 1943 salvando così un gruppo di civili durante un rastrellamento delle truppe naziste nel corso della Seconda guerra mondiale. La storia di Salvo D’Acquisto è un esempio di eccellenza umana prima che prettamente cristiana: nato a Napoli nel 1920, a 18 anni entra nell’Arma dei carabinieri. Tra il ‘40 e il ’42 viene inviato in Libia dove dimostra schiettamente le sue convinzioni sia per la rettitudine morale sia per i gesti con cui la accompagna, il segno della croce in pubblico o la recita del Rosario. Diventato vicebrigadiere viene destinato alla stazione di Torrimpietra.

Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, il 22 settembre un reparto nazista – ormai nemico in terra italiana – arriva alla Torre di Palidoro, ubicata nel territorio della caserma. Alcuni soldati individuano e forzano incautamente delle cassette contenenti ordigni, provocando un’esplosione che uccide un militare e ne ferisce altri due. Il comandante sospetta di un attentato e fa arrestare Salvo D’Acquisto che, per l’assenza del suo superiore, in quel periodo comanda la stazione dei carabinieri. Il vicebrigadiere spiega a più riprese che si è trattato di un tragico incidente, ma i nazisti decidono per una rappresaglia e rastrellano 22 persone, le costringono a scavare una grande fossa e si apprestano a fucilarle quando Salvo D’Acquisto si autoaccusa come unico responsabile dell’accaduto, offrendosi in cambio della liberazione di tutti gli altri. Il carabiniere 23enne viene fucilato all’istante mentre gli ostaggi riescono ad avere salva la vita. Una decisione, è stato riconosciuto nel decreto che definisce “venerabile” Salvo D’Acquisto, non dettata da «un semplice atto di solidarietà civica e di filantropia laica», bensì inserita «in uno stile di vita consapevolmente e coerentemente cristiano». Le spoglie di Salvo D’Aquisto sono conservate nella basilica di Santa Chiara a Napoli.

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