Un misterioso anagramma

Posté par atempodiblog le 7 avril 2011

 

Un misterioso anagramma dans Antonio Socci pilato

[...] Ponzio Pilato, il prefetto romano che mise a morte Gesù [...], nato fra il reatino e l’Abruzzo, è particolarmente moderno, lo sentiamo come uno di noi a causa di quel drammatico dialogo riportato nel Vangelo. Pilato interroga l’imputato. Gesù lo fissa, calmo, e gli dice: “il mio regno non è di questo mondo”. Pilato è incuriosito da quell’uomo di cui ha sentito dire cose inaudite, è colpito dal suo volto, dalla sua forza interiore. Ma da governatore pragmatico vuol capire innanzitutto se è un sovversivo: “Dunque tu sei re?”. Allora Gesù gli dichiara apertamente che sì, è re, ma della verità, cioè del cosmo e della storia: “Tu lo dici: io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto al mondo: per rendere testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità ascolta la mia voce”.

Pilato tace, visibilmente stupito, ma non è tipo da seguire ciò che gli dice il cuore. Sa che solo il potere conta e quell’uomo di Nazaret sembra del tutto inerme e indifeso, uno che non conta nulla. Pilato, come si pensa oggi, ritiene che non esista la Verità: esiste solo il potere di imporre una propria verità. Così risponde scetticamente a Gesù con una battuta che non attende una risposta: “e che cos’è la verità?”. In latino le parole di Pilato, come riporta il Vangelo, suonano così: “Quid est veritas?”.

Quelle stesse parole, anagrammate, contengono la risposta: “est vir qui adest” (è l’uomo che sta di fronte). Lo nota tre secoli più tardi Agostino d’Ippona. Se solo Pilato avesse capito cosa stava dicendo, se solo avesse aspettato la riposta da quell’uomo che era ed è la Verità fatta carne. Ma il prefetto romano aveva un pregiudizio (la Verità non esiste) e così condannò l’innocente, perché non gli conveniva mettersi contro la folla. Che la verità non esista è proprio il dogma dei tempi moderni, che pure dicono di essere contro tutti i dogmi. E’ la “dittatura del relativismo”. [...]

Antonio Socci

 

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Quando la Madonna indossò il Tricolore…

Posté par atempodiblog le 17 mars 2011

Quando la Madonna indossò il Tricolore… dans Antonio Socci madonnatrefontane

Gli italiani sono “gli azzurri”. Nessuno sa che con i 150 anni dell’Italia unita, si festeggiano anche i 100 anni dell’ “azzurro” come colore nazionale. Viene dall’iconografia mariana e la dinastia sabauda ne fece un suo simbolo.
Scrive Luigi Cibrario, storico della monarchia: “quel colore di cielo consacrato a Maria è l’origine del nostro color nazionale”.
Tutto cominciò il 21 giugno 1366. Amedeo VI di Savoia salpa da Venezia per la Terra Santa, per la crociata voluta da papa Urbano V e sulla sua nave ammiraglia – accanto al vessillo dei Savoia – fa sventolare uno stendardo azzurro con una corona di stelle attorno all’ immagine della Madonna, per invocare “Maria Santissima, aiuto dei cristiani”.
L’azzurro di quel vessillo mariano fu ripreso da alcuni cavalieri sabaudi che, in onore alla Santa Vergine, cinsero delle sciarpe azzurre sull’uniforme.
Ne nacque una tradizione, fra gli ufficiali savoiardi. L’azzurro entrò a far parte dei simboli dinastici e il 10 gennaio 1572, con Emanuele Filiberto, la sciarpa azzurra diventò ufficialmente parte dell’uniforme. E poi dell’araldica del Regno d’Italia.
Pare che sia diventato il nostro colore ufficiale nelle competizioni sportive, per la prima volta, a Milano, il 6 gennaio 1911, per la partita di calcio Italia-Ungheria: quindi cento anni fa.
La piccola storia di questo simbolo fa capire che la tradizione cattolica impregna totalmente la storia italiana. D’altra parte il Regno dei Savoia è sempre stato cattolicissimo.
Con la restaurazione fu l’unico regno italiano, insieme allo Stato pontificio, ad abolire il Codice napoleonico: “la dinastia sabauda” scrive De Leonardis “aveva dato alla Chiesa cinque beati e vantava titoli di fedeltà al Cattolicesimo che fino al 1848  erano forse superiori a quelli dei Borbone e degli Asburgo; a differenza di questi ultimi i sovrani sabaudi non si erano compromessi con le idee illuministe e massoniche”.
Sarà l’ultimo re d’Italia infine a donare alla Chiesa la più preziosa delle reliquie: la Sindone.
Che l’unificazione d’Italia sotto il re sabaudo – con Cavour – abbia preso la forma di un conflitto contro la Chiesa è una di quelle tragedie storiche che probabilmente nessuno volle in maniera deliberata.
Basti pensare che il Regno sabaudo nel suo Statuto proclamava il Cattolicesimo come sua religione ufficiale. E poi c’è anche il cattolicesimo di molti patrioti (come il Pellico) e infine il fatto che lo stesso Pio IX era un entusiastico sostenitore dell’unificazione nazionale (per via federale).
Non solo quando fu eletto, con il Motu proprio “Benedite, Gran Dio, l’Italia”, quando il nome del Pontefice veniva invocato dai patrioti (ed erroneamente costoro pretesero di trascinare il Papa a far la guerra all’Austria: da qui il no e la rottura).
Pio IX restò legato all’ideale dell’Italia sempre, anche nel pieno del conflitto risorgimentale. E questo è un aspetto quasi sconosciuto.
Come i cattolicissimi Savoia, anche il Papa visse un drammatico conflitto interiore fra il dovere di difendere la Chiesa – che veniva aggredita e spogliata dal nuovo Stato – e la sua personale simpatia per la causa nazionale.
Un giorno un conte germanico in visita al Santo Padre gli manifestò il suo sdegno per l’aggressione in corso ai danni dello Stato Pontificio e della Chiesa, e, dopo averlo ascoltato, Pio IX mormorò ai suoi: “Questo bestione tedesco non capisce la grandezza e la bellezza dell’idea nazionale italiana”.
Errori tragici ve ne furono da entrambe le parti. E certamente l’idea di unificare l’Italia non per via pacifica e federale come prospettava il Papa, ma per via militare e sotto una sola dinastia fu devastante anche per il meridione d’Italia, dove da secoli governava una monarchia legittima quanto quella sabauda.
Ben ventidue anni fa, nel 1988, quando ancora non era emersa la Lega Nord, scrissi un libro di denuncia contro il Risorgimento come “conquista piemontese” e – curiosamente – fu pubblicato dalla Sugarco di Massimo Pini, un editore molto vicino al garibaldino Bettino Craxi. Il libro – riedito sei anni fa col titolo “La dittatura anticattolica” uscì quando nessuno metteva in discussione il Risorgimento.
Oggi che – al contrario – è diventata una moda, vorrei sommessamente dire il mio “Viva l’Italia!” e penso che si debba festeggiare il 17 marzo.
Per noi cattolici c’è comunque qualcosa di provvidenziale nel Risorgimento italiano (anche nella fine del potere temporale dei papi, come ebbe a dire Paolo VI), perché Dio sa scrivere diritto anche sulle righe storte degli uomini.
E infine ha fatto salvare l’indipendenza, l’unità e la libertà dell’Italia proprio ai cattolici e al Papa, il 18 aprile 1948, a cento anni esatti dalla preghiera per l’Italia di Pio IX.
Del resto il cattolicesimo era il solo cemento degli italiani. Infatti cosa li univa nell’Ottocento? La lingua no.
Nel 1861 gli italiofoni erano solo il 2,5 per cento della popolazione, perlopiù toscani (gli stessi Savoia a corte parlavano francese).
Nemmeno l’economia li univa: la Sicilia era più integrata economicamente all’Inghilterra che alla Lombardia e il Piemonte più alla Francia che alla Sicilia.
Ciò che univa il Paese erano Roma e le tradizioni cattoliche. Tanto è vero che il poema della risorgente nazione italiana fu il poema della Provvidenza, “I promessi sposi” del cattolicissimo Manzoni.
E fu deciso “a tavolino” che la lingua italiana fosse, da allora, quella della Divina Commedia dantesca, cioè il più grande poema mistico e addirittura liturgico della storia della Chiesa.
Perfino il tricolore adottato dai Savoia – nato apparentemente ghibellino – è intriso di tradizione cattolica.
Lo studente bolognese Luigi Zamboni, che col De Rolandis lo concepì nel settembre 1794, nell’entusiastica attesa dell’arrivo napoleonico che avrebbe liberato dal giogo dello Stato pontificio, partì dallo stemma di Bologna, quella croce rossa in campo bianco che viene dalle crociate e dalla Lega lombarda (a cui Bologna appartenne). Al bianco e rosso lui aggiunse “il verde”, che – disse – era “segno della speranza”.
In effetti simboleggiava la speranza nella tradizione cattolica, come virtù teologale, insieme alla fede, che aveva come simbolo il bianco, e alla carità (il rosso).
Non a caso il primo “bianco, rosso e verde” lo troviamo proprio nella Divina Commedia, sono i vestiti delle tre fanciulle che, nel Paradiso terrestre, accompagnano Beatrice e che simboleggiano appunto le virtù teologali (Purg. XXX, 30-33).
(SEGNALO CHE IN QUESTO PUNTO DEL MIO ARTICOLO SONO INCORSO IN UN ERRORE DI MEMORIA E DI DISTRAZIONE I TRE COLORI SIMBOLEGGIANTI LE VIRTù, BIANCO ROSSO E VERDE. SONO NELLE VESTI DELLA STESSA BEATRICE)
Lo stesso “mangiapreti” Carducci, che certo non era ignaro di Dante, né di dottrina cattolica, nel suo discorso ufficiale per il primo centenario della nascita del Tricolore, a Reggio Emilia, dà, a quei tre colori, proprio il significato della Divina Commedia (fede, speranza e amore, sia pure in senso laico).
E’ ovvio che la Chiesa sia intimamente legata a questa terra “onde Cristo è romano” e pare evidente la missione religiosa dell’Italia (sembra che la parola I-t-a-l-y-a in ebraico significhi “isola della rugiada divina”).
Nessuno però sa che è stata addirittura la Madonna in persona a “consacrare” il tricolore nell’importante apparizione del 12 aprile 1947 a Roma, alle Tre Fontane, a Bruno Cornacchiola (il mangiapreti che si convertì).
Era un fanciulla di sfolgorante bellezza e indossava un lungo abito bianco, con una fascia rossa in vita e un mantello verde.
Consegnò al Cornacchiola un importante messaggio per il Santo Padre. E poi alla mistica Maria Valtorta spiegò che apparve “vestita dei colori della tua Patria, che sono anche quelli delle tre virtù teologali, perché virtù e patria sono troppo disamate, trascurate, calpestate, ed io vengo a ricordare, con questa mia veste inusitata, per me, che occorre tornare all’amore, alle Virtù e alla Patria, al vero Amore”.
Aggiunse che era apparsa a Roma perché “sede del papato e il Papa avrà tanto e sempre più a soffrire, questo, e i futuri, per le forze d’Inferno scagliate sempre più contro la S. Chiesa”.
Aggiunse che apparve per la terribile minaccia del “Comunismo,la spada più pungente infissa nel mio Cuore, quella che mifa cadere queste lacrime”.
Essa è “la piovra orrenda, veleno satanico” che “stringe e avvelena e si estende a far sempre nuove prede”, una minaccia “mondiale, che abbranca e trascina al naufragio totale: di corpi, anime, nazioni”.
Era in effetti il 1947. L’Armata Rossa stava marciando su mezza Europa, fino a Trieste. E l’Italia il 18 aprile 1948 si salvò solo per l’impegno del papa e della Chiesa, da cui venne alla patria uno statista come De Gasperi, che salvò la libertà e così compì davvero il Risorgimento.

Antonio Socci – Libero

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Quando ci irridevano per la castità…

Posté par atempodiblog le 7 février 2011

Quando ci irridevano per la castità… dans Antonio Socci antoniosocci

Fummo una generazione irriverente, trasgressiva. Negli anni Settanta chi non ha fatto scioperi e okkupazioni? Il “vietato vietare”, il sei politico, poi gli spinelli, gli amorazzi usa e getta, il fanatismo ideologico, la violenza politica, i capetti intolleranti circondati di “compagne” adoranti.
Una generazione obbedientissima – come la giudicò Pasolini – ai padroni del pensiero dominante che la volevano rivoluzionaria.
Poi alcuni di noi hanno incontrato dei padri e hanno disobbedito ai padroni. Abbiamo sperimentato la vera libertà. Ci siamo avventurati in terre sconosciute, abitate da una bellezza mai immaginata, abbiamo sperimentato l’amicizia, l’autenticità, il gusto di una vita diversa.
Senza neanche metterlo a tema, seguendo il fascino di Gesù Cristo, ci siamo trovati a vivere lo splendore della castità, fra ragazzi e ragazze, e perfino a intuire la poesia rivoluzionaria della verginità.
Meravigliati da quanto era bello il volto della propria ragazza non ridotta a preda, a oggetto su cui sfogare la propria violenta solitudine.
E’ la sovrana e lieta libertà dei figli di Dio per cui Francesco d’Assisi poteva dire: “dopo Dio e il firmamento: Chiara”. E nel Testamento di Chiara si legge: “Francesco, nostra unica consolazione e sostegno, dopo Dio”.
Avevamo incontrato uomini veri e per nulla al mondo volevamo perdere quella nuova vita e quel gusto dell’esistenza.
Così diventammo gli “odiati ciellini”. Odiati dal branco dei “compagni” che, al mercato libertario delle facili carni (limitrofo alla bancarella dell’eroina), sghignazzavano sui preti e il papa e – com’era facile per gli sciocchi – sulla castità dei ciellini. In tanti casi dal disprezzo si passò pure alle spranghe, ai pugni, agli insulti.
Eccoli là, oggi, i compagni di allora. Non hanno fatto la rivoluzione, però molti hanno fatto carriera e soldi. E l’arroganza è spesso rimasta identica. Sotto la canizie e la calvizie ruggisce ancora il giovanotto fanatico di allora.
L’unica rivoluzione che hanno fatto – o meglio: che hanno servito – è stata la rivoluzione sessuale. Ad uso e consumo della società dei consumi.
Oggi la panza, che ballonzola dietro la loro cravatta di facoltosi giornalisti, potenti politici, baroni universitari, ammonisce e rimprovera. E – toh! – su cosa?
Contro il sesso sfrenato (ovviamente non il proprio: quello di Berlusconi). Pontificano accigliati contro il sesso usa e getta, tessono orazioni morali sulla dignità della donna, ci insegnano il sacro rispetto del corpo femminile, predicano il rigore morale.
In certi casi dall’alto di una vita, di una generazione, che ha conosciuto – dopo l’anarchia sessuale della giovinezza – il susseguirsi di matrimoni e relazioni…
Lo spettacolo è sorprendente. Forse è perfino occasione di riflessione. Mi sono trattenuto finora dallo scrivere sulle miserie della cronaca e ho risposto no ad alcuni talk show politici che volevano invitarmi a “giudicare da cattolico” le “notti di Arcore”.
Tuttavia da settimane vedo e sento alcuni ex rivoluzionari, con aria ispirata e virgineo candore, alzare il loro alto grido contro chi profana con immagini discinte “il corpo delle donne”, contro chi ha costumi sessuali sfrenati e – incredulo – mi stropiccio gli occhi.
Non solo ricordando le stagioni giovanili. Mi chiedo: ma su quali giornali hanno scritto finora? Su quali settimanali? Cos’avevano in copertina? Donne col burka? E quali libri hanno lanciato? Quali film e quali registi hanno esaltato? Quali costumi hanno praticato e legittimato? Quale morale hanno affermato?
D’improvviso sembra siano diventati tutti castigatissimi censori. Era inevitabile che una tale schiera di puritani si trovasse a fianco Oscar Luigi Scalfaro essendo, lui sì, un bigotto della prima ora. Ricordate l’episodio che lo ha reso “immortale”?
E’ la scenata fatta negli anni Cinquanta a una signora, casualmente intravista al ristorante, rea di avere un vestito scollato. Alla manifestazione “per la dignità delle donne” dunque parteciperà questo Scalfaro.
E leggo su Repubblica che “parteciperà anche Nichi Vendola: ‘Un’altra storia italiana è possibile, c’è un’Italia migliore per cui le donne non sono carne da macello, corpi da mercimonio, protagoniste solo in un establishment da escort’”.
Sì, caro Nichi (nei panni del teologo morale), questa Italia esiste. Ma sei sicuro che sia proprio quella che voi volete da decenni?
E’ meraviglioso lo slogan di questa sinistra: “Sono uomo e dico basta”. Ma basta a cosa? Alla famosa “libertà sessuale”? Allo slogan “il corpo è mio e lo gestisco io”? A questa sessuomania di massa?
Parliamone. A maggio scorso partecipai a una puntata di “Annozero” su preti e pedofilia. Fu molto interessante, ma ricordo che quando tentai di ampliare l’orizzonte proponendo di analizzare la (spesso patologica) sessuomania di massa che caratterizza i nostri costumi e la nostra cultura, Santoro troncò il discorso passando ad altro. Non lo ritenne interessante. Eppure è questo il clima irrespirabile.
Sono un padre, ho figlie giovani e mi fa schifo una società in cui delle giovani donne – in qualunque ambiente ! – sono discriminate se non stanno al gioco o non accettano certi compromessi. Mi fa schifo una società dove delle ragazze o dei ragazzi sono marchiati come cretini se dicono di credere nella castità o nella verginità.
O dove sei considerato un soggetto pericoloso se affermi che il matrimonio è solo tra uomo e donna, se ti ostini ad affermare che il genere non è un’opinione (che la natura – essere maschi e femmine – non è opinabile), se consideri il divorzio un male, se condanni l’aborto, la pillola del giorno dopo e se osi mettere in discussione il “sacro preservativo” venerato dalla cultura dominante.
C’è chi cerca di strattonare i cristiani per strappare loro qualche scomunica del peccatore Berlusconi. Gad Lerner ha amplificato la voce della suorina che ha tuonato “Non ti è lecito!” contro il Cav come il Battista contro Erode.
Bene.
Con quella suorina però – a proposito di Erode – tuoniamo “non ti è lecito” pure contro una cultura dominante che a livello planetario ha legalizzato la pratica dell’aborto arrivando in cinquant’anni a totalizzarne un miliardo, una cultura che abbassa sempre di più il livello di difesa della vita umana.
E vorrei ricordare a quella suorina che Giovanni Battista tuonava soprattutto contro l’ipocrisia di scribi e farisei che chiamava: “Razza di vipere!”.
Anche Gesù tuonerà contro di loro. Lui mostra compassione per i peccatori, i pubblicani e le prostitute, ma non per i “sepolcri imbiancati” che puntano il dito sul peccato altrui: “essi all’esterno sono belli a vedersi, ma dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni putridume”.
E’ di tutti noi che parla. Perché di un gran peccatore, come Zaccheo, Gesù può fare un santo, anche un grande santo come Paolo o Agostino. Ma di chi presume di giudicare gli altri, dei sepolcri imbiancati? Del resto loro saranno col dito puntato contro di Gesù fin sotto la croce.
Dicevamo della manifestazione per la dignità delle donne. Difenderanno anche la dignità calpestata delle donne nel continente islamico?
E la dignità delle donne cristiane in Pakistan, la dignità di Asia Bibi, giovane madre condannata a morte, tuttora detenuta e sottoposta a ogni umiliazione, perché cristiana?
E’ il cristianesimo che ha imposto di riconoscere alle donne la loro dignità.
Lo stesso Roberto Benigni, commentando la “preghiera alla Vergine” di Dante, ebbe a dirlo: “è da quando Dio stesso ha chiesto a Maria il suo sì o il suo no che le donne hanno acquisito il diritto di dire sì o no”.
Proprio ieri si festeggiava sant’Agata, vergine e martire. La storia di questa giovane del III secolo ci mostra l’unica vera rivoluzione che ha ridato dignità alle donne. Non certo la cultura di Repubblica e dell’Espresso o quella comunista (né, ovviamente, la cultura televisiva). Ma solo Gesù Cristo.

di Antonio Socci – Libero

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Ecco l’oceano di grazie pronte per noi, ma che noi non chiediamo

Posté par atempodiblog le 27 novembre 2010

Oggi ricorre il 180° anniversario delle apparizioni della Madonna a Santa Caterina Labouré e della Medaglia Miracolosa.

Ecco l'oceano di grazie pronte per noi, ma che noi non chiediamo dans Antonio Socci Amare-la-Madonna

AL LAMENTO E ALL’IMPRECAZIONE DI NOI MODERNI E’ STATO RISPOSTO A RUE DU BAC, PARIGI 1830.

Il 27 novembre 1830, nel convento delle Figlie della Carità (rue du Bac 140, Parigi), alle 17.30 del pomeriggio, la Madonna apparve per la seconda volta a Caterina Labouré, 24 anni, novizia. “Era di una bellezza indescrivibile”, dirà poi la ragazza. La prima volta che le era apparsa, nella chiesina del convento, Caterina era corsa ai suoi piedi appoggiando le sue mani sulle ginocchia della Vergine: “quello fu il momento più dolce della mia vita”.
Dunque quel 27 novembre le apparve con una serie di simboli molti importanti. I suoi piedi poggiavano su un globo e steso sotto c’era un serpente verdastro e giallo. La Vergine Maria, bellissima, aveva fra le mani un altro globo d’oro (sopra cui c’era una croce) e guardando verso il Cielo lo offriva a Dio.
La Madre di Cristo aveva inoltre alle dita delle mani degli anelli con grandi pietre preziose che emanavano un incredibile splendore. Ma non tutte. Più tardi la Madonna spiegò a Caterina: “Questo globo rappresenta il mondo intero e ogni anima in particolare…”. E le pietre preziose che alle sue dita emanano quella luce “sono il simbolo delle grazie che spando sulle persone che me le domandano”.
Poi spiegò dolcemente a Caterina quanto lei è pronta a riversare un mare di grazie su coloro che gliele chiedono, che si affidano a lei e che la invocano. Ma attenzione, rivelò che non si ricorre più a lei: “Le pietre che non emanano luce sono il simbolo delle grazie che non mi domandano”.
Ecco dunque svelato il dramma della moderna apostasia. Nella prima delle grandi apparizioni moderne – attraverso la Santa Vergine – ci viene rivelata la verità: sta per iniziare la grande guerra a Dio, quella in cui gli uomini si lamenteranno, accuseranno il Cielo di sordità, arriveranno fino a bestemmiarlo giudicandolo indifferente ai loro dolori e condannandolo…
Eppure Dio è pronto a riversare un oceano di grazie sui suoi figli, attraverso la Vergine Maria. Purtroppo gli uomini non gliele chiedono, non c’è nessuno che preghi e chieda e voglia “appropriarsi” delle ricchezze del Regno di Dio.
Preferiamo lamentarci o imprecare, pur non di non chiedere al nostro Padre buono attraverso l’intercessione di Maria. Eppure ci è stato detto con chiarezza, da chi sa e può. “Chiedete e vi sarà dato, bussate e vi sarà aperto, cercate e troverete”, questo aveva proclamato Gesù e non per modo di dire, le Sue parole sono eterne e vere (“passeranno il Cielo e la terra ma le mie parole, mai!”).
Ricordando quel 27 novembre nella famiglia vincenziana e in varie parrocchie, ogni 27 del mese, alle 17.30 (ora dell’apparizione) si recita la supplica, chiedendo le tante “grazie non richieste” che la Vergine di rue du Bac desidera elargire all’umanità e a ciascuno di noi.

SUPPLICA ALLA MEDAGLIA
Da recitarsi alle 17 del 27 Novembre, festa della Medaglia, in ogni 27 del mese, ed in ogni urgente necessità.

O Vergine Immacolata, noi sappiamo che sempre ed ovunque sei disposta ad esaudire le preghiere dei tuoi figli esuli in questa valle di pianto, ma sappiamo pure che vi sono giorni ed ore in cui ti compiaci di spargere più abbondantemente i tesori delle tue grazie. Ebbene, o Maria, eccoci qui prostrati davanti a te, proprio in quello stesso giorno ed ora benedetta, da te prescelta per la manifestazione della tua Medaglia. Noi veniamo a te, ripieni di immensa gratitudine ed illimitata fiducia, in quest’ora a te sì cara, per ringraziarti del gran dono che ci hai fatto dandoci la tua immagine, affinché fosse per noi attestato d’affetto e pegno di protezione. Noi dunque ti promettiamo che, secondo il tuo desiderio, la santa Medaglia sarà il segno della tua presenza presso di noi, sarà il nostro libro su cui impareremo a conoscere, seguendo il tuo consiglio, quanto ci hai amato e ciò che noi dobbiamo fare, perché non siano inutili tanti sacrifici tuoi e del tuo divin Figlio. Sì, il tuo Cuore trafitto, rappresentato sulla Medaglia, poggerà sempre sul nostro e lo farà palpitare all’unìsono col tuo. Lo accenderà d’amore per Gesù e lo fortificherà per portar ogni giorno la propria croce dietro a Lui. Questa è l’ora tua, o Maria, l’ora della tua bontà inesauribile, della tua misericordia trionfante, l’ora in cui facesti sgorgare per mezzo della tua Medaglia, quel torrente di grazie e di prodigi che inondò la terra. Fai, o Madre, che quest’ora, che ti ricorda la dolce commozione del tuo Cuore, la quale ti spinse a venirci a visitare e a portarci il rimedio di tanti mali, fai che quest’ora sia anche l’ora nostra: l’ora della nostra sincera conversione, e l’ora del pieno esaudimento dei nostri voti. Tu che hai promesso proprio in quest’ora fortunata, che grandi sarebbero state le grazie per chi le avesse domandate con fiducia: volgi benigna i tuoi sguardi alle nostre suppliche. Noi confessiamo di non meritare le tue grazie, ma a chi ricorreremo, o Maria, se non a te, che sei la Madre nostra, nelle cui mani Dio ha posto tutte le sue grazie? Abbi dunque pietà di noi. Te lo domandiamo per la tua Immacolata Concezione e per l’amore che ti spinse a darci la tua preziosa Medaglia. O Consolatrice degli afflitti, che già ti inteneristi sulle nostre miserie, guarda ai mali da cui siamo oppressi. Fai che la tua Medaglia sparga su di noi e su tutti i nostri cari i tuoi raggi benefici: guarisca i nostri ammalati, dia la pace alle nostre famiglie, ci scampi da ogni pericolo. Porti la tua Medaglia conforto a chi soffre, consolazione a chi piange, luce e forza a tutti. – Ma specialmente permetti, o Maria, che in quest’ora solenne ti domandiamo la conversione dei peccatori, particolarmente di quelli, che sono a noi più cari. Ricordati che anch’essi sono tuoi figli, che per essi hai sofferto, pregato e pianto. Salvali, o Rifugio dei peccatori, affinché dopo di averti tutti amata, invocata e servita sulla terra, possiamo venirti a ringraziare e lodare eternamente in Cielo. Cosi sia.

Salve Regina e tre volte “O Maria, concepita senza peccato, prega per noi che ricorriamo a Te”.

di Antonio Socci

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La cosa più preziosa per noi

Posté par atempodiblog le 26 septembre 2010

La cosa più preziosa per noi dans Antonio Socci sanpietro

[...] Ma cosa vi ricorda l’uomo che sbandiera la propria rettitudine e giudica con disprezzo quel peccatore laggiù?

Facile! Ricorda la parabola del fariseo e del pubblicano raccontata da Gesù, il quale però concluse che fu il peccatore che si batteva il petto e stava a testa bassa a salvarsi, non l’“uomo onesto” (che, si badi bene, era veramente una persona perbene, osservante della Legge, anche sinceramente impegnato).

Tutto questo ricorda anche le scandalizzate invettive di alcuni (non tutti) scribi e farisei contro Gesù reo di parlare con pubblicani e prostitute. Gesù, purissimo e buono, accetta anche l’invito a pranzo di pubblici peccatori, ha affetto per ciascuno di loro, e – con somma indignazione dei benpensanti – lascia che una povera donna di pessima fama gli baci i piedi bagnandoli con le sue lacrime di dolore. Erano in tanti a scandalizzarsi di questa libertà di Gesù dalle loro regole. Eppure a questi tali, a questa gente perbene, onesta e osservante della Legge, Gesù non risponde giustificandosi o arrampicandosi sui vetri, ma con un colpo da ko: “i pubblicani e le prostitute vi precederanno nel Regno di Dio” (Mt. 21,31). Doveva essere come un pugno nello stomaco (lo è pure per noi). E quando, secondo la Legge, pretendono di lapidare l’adultera e di avere il suo consenso, dice loro: “chi di voi è senza peccato, scagli la prima pietra”.

Silenzio generale, imbarazzo e poi, uno ad uno, se ne vanno. Un giorno fissando negli occhi questa gente perbene (che giudicava gli altri e li disprezzava come peccatori) scandisce queste parole: “Guai a voi, scribi e farisei ipocriti che rassomigliate a sepolcri imbiancati: essi all’esterno son belli a vedersi, ma dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni putridume. Così anche voi apparite giusti all’esterno davanti agli uomini, ma dentro siete pieni d’ipocrisia e d’iniquità… Serpenti, razza di vipere, come potrete scampare dalla condanna della Geenna?” (Mt. 23).

Si resta sinceramente sconcertati davanti a queste parole di fuoco di Gesù che tuona contro la gente perbene ed è invece dolce con i peccatori (che, in fin dei conti, sono davvero gente discutibile, gente che, come minimo, se l’è spassata). Non è che Gesù voglia invitare a essere peccatori, ma a essere umili e a non giudicare gli altri.

Perché, diciamo la verità, per ciascuno di noi i disonesti, i profittatori, gli opportunisti e i puttanieri (o le puttane) sono sempre “gli altri”. E ognuno di noi istintivamente si mette nel novero delle persone che fanno il proprio dovere, le persone perbene. Ebbene, i santi fanno l’esatto opposto. Un giorno frate Masseo chiede a frate Francesco: “perché a te tutto il mondo viene dietro, e ogni persona pare che desideri di vederti, d’udirti, d’ubbidirti? Tu non sei un uomo bello nell’aspetto, tu non sei di grande scienza, tu non sei nobile; dunque perché a te tutto il mondo viene dietro?”. E Francesco: “Vuoi sapere perché a me tutto il mondo mi venga dietro? Questo io ho dagli occhi dell’Altissimo, che in ogni luogo contemplano i buoni e i rei: poiché quegli occhi santissimi non hanno veduto fra i peccatori nessuno più vile, nè più insufficiente, nè più grande peccatore di me; e perché per fare quell’operazione meravigliosa che egli intende fare, non ha trovato più vile creatura sopra la terra… cosicché si conosca che ogni virtù e ogni bene viene da lui e nessuna creatura si possa gloriare al suo cospetto”. Nel mondo alla rovescia che è il cristianesimo è meglio sentirsi nel novero dei peccatori. E mendicare grazia. Come diceva Péguy (un grande convertito che pure, per una sua situazione familiare complessa, non si avvicinava ai sacramenti): “le persone morali non si lasciano bagnare dalla grazia”. La morale le rende impermeabili. Al contrario di chi si riconosce miserabile: “Si spiega così il fatto che la grazia operi sui più grandi criminali e risollevi i più miserabili peccatori”. Anche quando Gesù è in croce, viene dileggiato da qualche osservante della Legge, e viene “riconosciuto” dal ladrone che doveva aver praticato addirittura la lotta armata. E Gesù lo salva. La grazia è arrivata al suo cuore, attraverso le ferite della sua vita, ma non al cuore di chi era corazzato con la sua superba moralità. E’ solo questo atteggiamento umile e mendicante che ci è chiesto.

Infatti il Papa, sull’accesso all’Eucaristia, non ha affatto detto “no tu no, che sei peccatore”, come qualcuno ha fatto credere. Ecco invece le sue splendide parole: “Quanti non possono ricevere la Comunione in ragione della loro situazione, trovano comunque nel desiderio della Comunione e nella partecipazione all’Eucaristia una forza e un’efficacia salvatrice”.

Padre Pio raccomandava questa “comunione spirituale” ricordata dal Papa e considerata dal Concilio di Trento uno dei modi di comunicarsi (la Santa Messa peraltro è una forza di trasformazione e di salvezza per tutti, non solo per chi si comunica sacramentalmente). Basta sentire la fame e la sete di Lui. [...]

Don Giussani lo spiegava così: “Cristo è amabile da noi esattamente così come siamo”.

Peccatori, incoerenti, poveracci: né il limite nostro, né quello altrui può impedirci di volergli bene. E’ solo questo che Gesù ci chiede. Lui farà il resto. Dopo che Pietro lo rinnegò tre volte e poi pianse, quando Gesù, risorto, torna fra i suoi, non si mette a chieder conto del tradimento o a rimproverarlo: “Non ha detto: non peccare, non tradire, non essere incoerente. Non ha toccato nulla di questo. Ha detto: Simone, mi ami tu?”. Solo questo conta, non la nostra coerenza, ma l’affezione a Lui. La commozione al ricordo di Lui che ci ama così come siamo. Don Giussani ci scioglieva il cuore quando spiegava: “Cristo è colui che si compiace di noi, di me, dice san Pietro piangendo. Cristo è colui che si compiace di noi, di me, dice la Maddalena, la Samaritana, l’assassino. Cristo è colui che si compiace di me, e perciò mi perdona. Mi ama e mi perdona”.

di Antonio Socci

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« Caterina. Diario di un padre nella tempesta » di Antonio Socci

Posté par atempodiblog le 14 juillet 2010

Questo è il testo che compare nella terza di copertina del libro:

“Cosa provano una madre o un padre di fronte a una figlia distesa su un letto, immobile, nell’impotenza di svegliarla, non si può dire. L’angoscia e la paura di quello che potrebbe essere non hanno limiti e bisogna subito rifugiarsi nel presente e nell’implorazione alla nostra buona Madre, che può tutto e che ci ama.”
Settembre 2009, Caterina, ventiquattro anni, la figlia maggiore di Antonio Socci, è in coma dopo un arresto cardiaco. Attorno a lei e alla sua famiglia si crea una straordinaria catena di solidarietà e di preghiera, uno spettacolo di fede e amore offerto non solo dagli amici, ma anche dai numerosi lettori del blog di suo padre. Fra di loro molti sono atei e agnostici, eppure l’esperienza di Caterina spinge queste persone a riscoprire il significato e il valore della preghiera, a ritrovare il senso di una fede perduta o lasciata in disparte. È un piccolo grande miracolo, che questa ragazza compie inconsapevolmente dal suo letto d’ospedale: la sua sofferenza si traduce in un messaggio di luce per la vita dei tanti che — nei fatti o con il pensiero —le sono vicini.
Ma sono soprattutto i suoi genitori e gli amici più cari che, giorno dopo giorno, malgrado la durezza della prova a cui sono sottoposti, si affidano con ancora maggior certezza a Gesù Cristo. Il loro è un atto di fede che ottiene presto segni di speranza: il cuore di Caterina riprende a battere da solo e il suo respiro non ha più bisogno di macchine. Di lì a poco, in una sera del gennaio 2010, mentre sua madre le sta leggendo un divertente passo del Giovane Holden, Caterina si lascia andare a una bellissima e contagiosa risata. Da quel giorno, un po’ alla volta, riprende conoscenza e intraprende un faticoso cammino di riabilitazione, sia pure pieno di incognite. In questo suo coinvolgente diario, Socci ci mostra che con la fede (nella presenza viva di Gesù fra noi) e la preghiera possiamo trovare un aiuto straordinario per superare i momenti più drammatici della vita.

antoniosocciff4ml2 dans Libri

E’ uscito oggi in libreria il mio libro “CATERINA. diario di un padre nella tempesta” (Rizzoli). Qua sotto anticipo la prefazione (uscita anche su Libero di oggi) dove spiego il perché mi sono messo in questa impresa
di Antonio Socci

Quei bambini del lebbrosario…

Tante persone – scrivendo al mio blog – hanno continuato, nel corso dei mesi, a chiedermi come sta Caterina e come si evolve la sua situazione. Alcuni mi parlano delle proprie afflizioni, delle prove che devono vivere e mi domandano come riuscire a non restarne schiacciati.

Ho scritto questo libro per loro e per ringraziare i moltissimi che hanno pregato e pregano per Caterina. Ma oso (sfacciatamente) mendicare ancora preghiere ardenti perché restiamo nella tempesta o – almeno – siamo ancora in cammino. Un cammino lunghissimo, drammatico e pieno di pericoli e incognite.

Questo libro vuole essere anche un atto di fede in Gesù che ci esorta a pregare come se avessimo già ottenuto ciò che chiediamo. E quindi un atto di ringraziamento.

Insieme vuole essere il mio ringraziamento a Dio per averci dato Caterina. Lo ringrazio di averla creata e fatta cristiana. Lo ringrazio di averla fatta così buona e bella, anche nell’anima.

Lo ringrazio dello splendido popolo cristiano in cui è cresciuta e che l’ha sostenuta nella terribile prova presente. A questo popolo chiedo, con gratitudine, ancora preghiere per la nostra principessa…

Voglio testimoniare infine ciò che ha sostenuto me finora, ciò che mi ha dato conforto, coraggio, forza e anche gioia, pur fra le lacrime. Perché forse può essere un conforto e un abbraccio per altri che si trovano nella prova.

È un gesto d’amore che voglio fare con Caterina e per Caterina, verso molti sofferenti che sono soli, che non hanno la fortuna di avere tanti amici accanto, come abbiamo noi. Vorrei che ci sentissero vicini.

La Madonna ci esorta ad aver compassione della sofferenza di tutti come l’abbiamo per il dolore dei nostri figli. Come se fossero tutti nostri figli.

Tentare di dare anche un soccorso materiale, concreto, è una delle cose che abbiamo deciso di fare, fin dall’inizio del dramma di Caterina.

Abbiamo aiutato i bambini del lebbrosario di un Paese del Terzo Mondo (non posso essere più preciso perché il regime di quel Paese non tollera che si parli di lebbra: ne pagherebbero le conseguenze i missionari) che ci hanno sciolto il cuore facendoci sapere, tramite un meraviglioso missionario, di aver pregato per Caterina.

Li sentiamo come parte della nostra famiglia e della nostra compagnia.

Il dolore del mondo è un oceano sconfinato. Se noi facciamo la nostra piccola parte, il possibile, al resto pensa Lei, la Madre dolce e benedetta. Anche con i diritti d’autore di questo libro, dunque, voglio continuare aiutando – finché avrò respiro – altre opere missionarie e di carità per i più poveri e abbandonati.

Per esempio sosterremo il Meeting Point International (partner dell’Associazione Volontari per il Servizio Internazionale, AVSI) della splendida Rose Busingye[1] che a Kampala rappresenta una luminosissima speranza per tante donne poverissime e ammalate di Aids.[2]

Vorremmo aiutare anche – in ricordo di Andrea Aziani (di cui parlo nel libro) – i ragazzi più poveri delle disastrate periferie di Lima in Perù, per metterli in condizione di poter studiare.

E anche una grande opera come Radio Maria, che sta compiendo un mirabile sforzo missionario in Africa.

Infine vorremmo aiutare, con adozioni a distanza, le povere ragazzine cristiane del Pakistan, dove essere cristiani condanna a una sorte pesantissima, a volte orrenda.

Cosicché da un grande male che ha colpito la nostra famiglia, per grazia di Dio, possano nascere un bene e un conforto per tanti che sono sottoposti a dure prove.

Con Caterina, offriamo le nostre sofferenze per la gloria di Gesù, perché sia visibile la sua misericordia già quaggiù e per la salvezza dell’umanità intera (a cominciare da coloro che odiano).



[1] Per capire chi è Rose consiglio di leggere Un’avventura per sé (a cura di Paola Brizzi e Alberto Savorana), BUR 2008, pp. 17-25.

[2] Nel 2008 è stato presentato al festival di Cannes un documentario su Rose e le donne del Meeting Point, Greater, che è stato premiato dalla giuria presieduta da Spike Lee.

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Vacanze divine…

Posté par atempodiblog le 12 juillet 2010

Vacanze divine… dans Antonio Socci mappacuore

Siamo tutti in cerca del paradiso perduto. Anche se non lo sappiamo. E l’estate, la vacanza, è specialmente il tempo di questa ricerca dell’Eden. Avremmo una mappa per questa caccia al tesoro, per questa ricerca, ma non la sappiamo leggere.

Così ci accontentiamo di paradisi artificiali, a portata di mano e per tutti i portafogli. Eden di plastica. Può essere il surrogato “tutto compreso” dell’Agenzia di viaggi che ti spedisce a Sharm el sheik o il fai-da-te giovanilistico che si inebria nel chiassoso divertimentificio di Ibiza o della costa romagnola.

Illusioni, si capisce, ma la nostalgia del paradiso, del ritrovarsi del corpo e del’anima, questa attesa dell’estasi, di una felicità dello spirito e dei sensi, finalmente in armonia, questo desiderio della divinizzazione non ci abbandona mai.

In fondo la mappa (sconosciuta) che ci mette sulle tracce del vero paradiso perduto è dentro di noi, nel nostro stesso cuore.

E’ una “zona”, come quella del film tarkovskijano “Stalker”: una zona dove si avverano i desideri, piena di lussureggianti foreste e laghi, oceani e panorami sconfinati, una “zona” vergine perché non posseduta neanche da noi stessi, una “zona” sacra perché abitata da una presenza misteriosa e immensa: Dio.

Ma oltreché in noi, la mappa del paradiso perduto è leggibile pure nei segni e nella cultura della nostra Europa, se vogliamo ancora comprenderla.

Una geografia fatta di antiche abbazie, monasteri, eremi, che, nei secoli selvaggi succeduti alla caduta dell’Impero romano, furono la sorgente da cui scaturì tutto quello che di bello, luminoso, umano ha avuto la nostra civiltà.

Fra quelle mura il Cielo tocca la Terra e si sente la brezza dell’Eden. John Milton dedicò a Vallombrosa, la regale abbazia dell’appennino toscano, i versi famosissimi del suo “Paradise Lost”,  e dal momento dell’uscita del suo poema, nel 1667, “per gli inglesi, e non solo per loro, Vallombrosa sarà emblema e ritratto di un ‘Paradise Lost’ sognato e, per miracolo della poesia, descritto e quindi visibile”, scrive Alessandro Tosi.

Che aggiunge: “a partire dai pochi, ma così ispirati versi miltoniani, Vallombrosa diventava mèta irrinunciabile del viaggio in Italia”.

Iniziava il moderno turismo, che era l’antico pellegrinaggio medievale travestito laicamente.

Vallombrosa del resto è una perla nella geografia della santità, quella di san Giovanni Gualberto il cui nome è legato pure alla meraviglia di San Miniato, che domina Firenze, a un altro eden appenninico, la Camaldoli di san Romualdo, e all’abbazia di Passignano, fra Siena e Firenze.

Anche al nome di Francesco d’Assisi è legata una mappa di meravigliosi luoghi del cuore: dall’eremo delle carceri di Assisi, alla Verna, dalle Celle di Cortona a san Damiano, fino agli eremi delle clarisse nelle nostre città, che d’improvviso – lasciandoti alle spalle il traffico e la vita congestionata – ti spalancano davanti un panorama di pace.

Penso anche alle monache agostiniane di Lecceto, per stare in Toscana, o alle trappiste di Valserena e a quelle di Vitorchiano. O ai monaci delle Tre fontane a Roma.

Benedettini, clarisse, agostiniane, trappisti, carmelitani e tanti altri. I silenzi che loro abitano attraggono irresistibilmente tante persone, talvolta per l’ordinata bellezza di quei luoghi, di quelle mura antiche, di quei boschi, di quegli orti e giardini, per la pulizia dell’aria e la freschezza incontaminata delle acque, perfino per la genuinità delle cose che i monaci coltivano e offrono ai visitatori: miele, vini, marmellate…

In tutte queste cose si gustano dei sapori e degli odori che sembra di non trovare altrove, un gusto di autenticità che in realtà è in noi il riflesso dell’autenticità della loro vita, di un’esistenza fedele al grido del proprio cuore.

Il contatto con questa autenticità è vertiginoso per noi. Tempo fa la Bbc ha realizzato una sorta di “reality” nel quale cinque uomini di oggi, con tutti gli impegni e la vita di un inglese moderno, per 40 giorni e 40 notti hanno condiviso la vita dei monaci di un’abbazia benedettina.

Tre milioni di spettatori hanno seguito questa sfida. Al termine della quale quell’impatto col silenzio e con l’autenticità, con la propria stessa interiorità, aveva trasformato visibilmente i cinque.

I monaci, uomini e donne di Dio, sono gli esseri più pacifici e inoffensivi del mondo, ma hanno una luce nel volto e una pace nei gesti, sconosciuti al mondo e questo rende dirompente l’incontro con la loro vita.

Peraltro silenziosamente verso questi eremi si convogliano immensi fiumi di dolore, dalle nostre città, dalle nostre vite.

Qui tante esistenze ferite trovano chi le abbraccia, chi per loro implora giorno e notte, chi instancabilmente e gratuitamente offre se stesso in riscatto per l’esaudimento dei loro desideri e il lenimento delle loro pene.

Sono uomini e donne che aiutano Gesù a portare tutto il dolore del mondo sulle sue spalle. E a redimerlo. Mutandolo in vita e gioia.

L’ascesi, la preghiera, la contemplazione è come se – con il tempo – trasfigurassero già ora le loro persone, rendendo trasparente la loro pelle all’anima che vibra, canta e ama. Così loro custodiscono – per chiunque voglia ritrovarlo – il nostro paradiso perduto.

A cui sanno dare un nome e un volto, quello del “più bello fra i figli dell’uomo”. Il grande Agostino – che si lasciò alle spalle una vita turbolenta – è uno dei luminosi maestri di chi cerca la felicità: “Ci hai fatti per te, Signore e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te”.

Tutti i cinque sensi nell’adorazione della sua Bellezza si esaltano e si trasfigurano.

“Che cosa amo quando amo te?”, si chiedeva sant’Agostino. “Amo una certa luce, una voce, un profumo, un cibo e un amplesso che sono la luce, la voce, il profumo, il cibo, l’amplesso dell’uomo interiore che è in me, dove splende alla mia anima una luce che nessun fluire di secoli può portar via, dove si espande un profumo che nessuna ventata può disperdere, dove si gusta un sapore che nessuna voracità può sminuire, dove si intreccia un rapporto che nessuna sazietà può spezzare. Tutto questo io amo quando amo il mio Dio”.

L’audacia del linguaggio di Agostino è in realtà il linguaggio abituale dei monaci e delle monache.

Che è sempre un linguaggio sponsale: “Ormai te solo amo, te solo seguo, te solamente cerco, te soltanto sono disposto a servire perché tu solo giustamente governi, e perciò voglio essere tua proprietà” (Agostino).

Anche un maestro del monachesimo come san Bernardo di Chiaravalle sottolinea il carattere sponsale che ha la vita monastica: “amplesso veramente, dove il volere e non volere le medesime cose ha fatto uno solo di due spiriti”.

In fondo il silenzio di questi eremi riecheggia in ogni chiesa. Ed è lei la mèta del nostro viaggio, la dimora del cuore. Lo scoprì perfino Jack Kerouac, che del viaggiare, della strada, fu il poeta e che trovò proprio così il vero significato della sua “beat generation”.

Scrisse:

“Fu da cattolico che un pomeriggio andai nella chiesa della mia infanzia (una delle tante), Santa Giovanna d’Arco a Lowell, e a un tratto, con le lacrime agli occhi, quando udii il sacro silenzio della chiesa (ero solo lì dentro, erano le cinque del pomeriggio; fuori i cani abbaiavano, i bambini strillavano, cadevano le foglie, le candele brillavano debolmente solo per me), ebbi la visione di che cosa avevo voluto dire veramente con la parola ‘Beat’, la visione che la parola Beat significava beato…”.

Scriverà espressamente che il fenomeno beat esprime “una religiosità ancora più profonda, il desiderio di andarsene, fuori da questo mondo (che non è il nostro regno), ‘in alto’, in estasi, salvi, come se le visioni dei santi claustrali di Chartres e Clairvaux tornassero a spuntare come l’erba sui marciapiedi della Civiltà stanca e indolenzita dopo le sue ultime gesta”.

di Antonio Socci

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L’inferno di Haiti e il Paradiso

Posté par atempodiblog le 17 janvier 2010

L’inferno di Haiti e il Paradiso dans Antonio Socci antoniosocci

Basta un piccolo starnuto del pianeta, in un minuscolo francobollo di terra come Haiti, e sono spazzati via migliaia di esseri umani. Anche un microscopico virus è in grado di uccidere milioni di persone. Sono tutte manifestazioni di una stessa fragilità, di uno stesso destino. Tutti documenti della nostra misera condizione mortale.

C’è una sola “malattia”, trasmessa per via sessuale, che porta inevitabilmente alla morte l’umanità intera e non ha cure possibili. Non è l’Aids. Ne siamo affetti tutti, ad Haiti come qui. Si chiama: vita.

E’ una “malattia” anche stupenda (per questo la scrivo fra virgolette), è una “malattia” che amiamo, a cui stiamo attaccati con le unghie e con i denti. Ma solitamente non riflettiamo sulla sua natura effimera e quindi l’amiamo in modo sbagliato, dimenticando che dobbiamo scendere alla stazione e siamo destinati a un’altra dimora.

Quando arrivano grandi tragedie, personali o collettive, apriamo gli occhi sull’estrema fragilità della nostra esistenza e – svegliandoci – ci sentiamo quasi ingannati. Come se non sapessimo che siamo di passaggio.

Sì, siamo tutti malati terminali. Ma noi dimentichiamo di essere sulla soglia della morte dal primo istante di vita. Lo rimuoviamo.

Anzi, quasi tutto quello che facciamo ogni giorno ha questa segreta ragione: farci dimenticare il nostro destino, esorcizzare la morte, preannunciata dalla decadenza fisica, dalle malattie, dalla sofferenza, dal dolore altrui. Distrarci, come diceva Pascal: il “divertissement”.

Ormai la nostra mente è organizzata come un vero e proprio palinsesto televisivo: c’è la mezz’ora dedicata alla tragedia di Haiti dove magari si chiama a parlarne non i missionari, non organizzazioni come l’Avsi che da anni lavorano in quelle povere terre, ma Alba Parietti e Cristiano Malgioglio. Poi, subito dopo, il telecomando passa ai quiz, alle ballerine sgallettanti, alle chiacchiere (politica o sport) eccetera.

Tutti modi – si dice – “per ingannare il tempo”. In realtà per ingannare noi stessi, per dimenticare il destino . Perché il nostro insopprimibile desiderio è di vivere sempre, è di essere felici, e ci è insopportabile l’idea della morte e dell’infelicità.

Così, anche quando parliamo seriamente di tragedie come quelle di Haiti, con la faccia compunta, tocchiamo tutti i tasti fuorché quello.

Parliamo dell’emergenza (e va bene), degli aiuti da mandare (e va benissimo), della miseria di quei luoghi (verissima), poi varie storie e considerazioni, finché uno guarda l’orologio perché deve andare al tennis, un altro sbircia il telefonino e un altro ancora sussurra al vicino “ma quand’è che se magna?”.

Ricomincia il tran tran. E gli affanni. E l’ebbrezza di essere padroni della nostra vita. E le illusioni. Eppure il più grande “filosofo” di tutti i tempi chiamò “stolto” colui che riempiva il suo granaio illudendosi di poterne godere all’infinito: “stanotte stessa ti sarà chiesta la tua anima…”.

Perché un giorno tutti dovremo rispondere dei nostri atti e di come abbiamo speso il nostro tempo. In quanto la vita è un compito. Anche se ormai gli stessi preti parlano raramente dell’Inferno e del Paradiso a cui siamo destinati.

Pensiamo che inferno e paradiso siano da fuggire o cercare qui sulla terra. “Haiti, migliaia in fuga dall’inferno”, titolava ieri la prima pagina della “Stampa”. Altri giornali raccontavano i “paradisi tropicali” dei turisti a pochi passi dall’orrore haitiano.

Solo la Chiesa ci dice che c’è un Inferno ben peggiore di Haiti (ed eterno) da cui fuggire. E un Paradiso da raggiungere, di inimmaginabile bellezza e gioia, in cui tutte le lacrime saranno asciugate.

Il solo conforto oggi di fronte all’enormità del dolore di tutta quella povera gente e di fronte a tanti morti, è proprio questo: sperarli (e pregare per questo) fra le braccia del Padre, finalmente nella felicità certa, per sempre.

Ma noi, davanti alla nostra stessa morte (che è certa, inevitabile), che speranza abbiamo? Proviamo a rifletterci. Per me la sola speranza autentica è in Colui che ha avuto pietà della sorte umana, Colui che ha il potere vero e che ripagherà ogni sofferenza con un felicità senza fine e senza limiti.

Per questo la Chiesa c’è sempre, dentro ogni prova dell’umanità, dentro ogni “inferno” terreno com’è Haiti (provate a leggere le testimonianze accorate da là dei missionari). C’è per portare agli uomini la compassione di Dio, la sua carezza, il suo aiuto e soprattutto per aprire le porte del suo Regno.

“Ti sei chinato sulle nostre ferite e ci hai guarito” dice un prefazio della liturgia ambrosiana “donandoci una medicina più forte delle nostre piaghe, una misericordia più grande della nostra colpa. Così anche il peccato, in virtù del Tuo invincibile amore, è servito a elevarci alla vita divina”.
E la cosa grande che ci porta Gesù, il Salvatore degli uomini, non è solo questa, ma la resurrezione, la vittoria sulla morte, cosicché nulla di ciò che abbiamo amato andrà perduto.

Diceva don Giussani:Cristo risorto è la vittoria di Dio sul mondo. La sua risurrezione dalla morte è il grido che Egli vuole far risentire nell’animo di ognuno di noi: la positività dell’essere delle cose, quella ragionevolezza ultima per cui ciò che nasce non nasce per essere distrutto. ‘Tutto questo è assicurato, te lo assicuro, Io sono risorto per renderti sicuro che tutto quello che è in te, e con te è nato, non perirà’”.
Come si fa allora a non gioire, anche nelle lacrime? Come si fa a non affidarsi – anche nella tragedia – all’unico che salva?

Voglio dirlo con le parole di san Gregorio Nazianzeno: “Se non fossi tuo, mio Cristo, mi sentirei una creatura finita. Sono nato e mi sento dissolvere. Mangio, dormo, riposo e cammino, mi ammalo e guarisco, mi assalgono senza numero brame e tormenti, godo del sole e di quanto la terra fruttifica. Poi io muoio e la carne diventa polvere come quella degli animali che non hanno peccati. Ma io cosa ho più di loro? Nulla, se non Dio. Se non fossi tuo, Cristo mio, mi sentirei creatura finita”.

Antonio Socci

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“Come fai ad essere così bella?”

Posté par atempodiblog le 16 décembre 2009

“Come fai ad essere così bella?” dans Antonio Socci reginadellapace

Ma com’è lei? Che aspetto ha la giovane donna che dal 1981 appare a Medjugorje? E come si comporta, quale temperamento rivela, qual è il suo modo di parlare e di guardare, di pregare e di cantare, di abbracciare e di piangere, di sorridere e (quasi) di danzare per la felicità? Le descrizioni dei sei veggenti sono univoche. “La Madonna si presenta come una meravigliosa ragazza di circa vent’anni”, alta (attorno a) 1 metro e 70, un fisico slanciato, capelli neri e ondulati, ha occhi spiccatamente azzurri (“di un azzurro straordinario, mai visto prima”), sopracciglia delicate, normali, nere.

Ha il volto regolare, leggermente rosato su zigomi e guance (forse quando sorride appaiono impercettibili fossette ai lati delle labbra), naso piccolo, bello e proporzionato.

Non è sempre sorridente, ma è come se il suo sorriso restasse ogni istante “sotto pelle”, perché traspare continuamente in lei “una beatitudine indescrivibile”. C’è “una luce che l’accompagna sempre”, che la illumina e che emana da lei.

Tutti i sei veggenti concordano su un giudizio: è la creatura più bella che abbiano mai visto. E’ abbacinante (come risulta evidente a chiunque guardi i ragazzi mentre sono incantati di fronte a lei).

La forza di attrazione del suo volto annulla ogni altra cosa, percezione o interesse, cosicché i ragazzi fin dai primi giorni erano preoccupati solo di non poterla vedere più, che non apparisse più; e superavano qualsiasi minaccia o ostacolo pur di rivederla.

“Ci siamo in un certo senso innamorati di lei – racconta Marija -, specialmente all’inizio non dico che eravamo dipendenti, tuttavia, la bellezza del suo viso e la sua voce quando parlava ci attiravano”.

Degli occhi di questa giovane ragazza di Nazaret, in particolare, Jakov dice: “non basta dire che sono azzurri”. Il fatto è che “nei suoi occhi si vede tutta la bellezza che la Madonna può trasmettere, tutta la bontà di una madre, tutto l’amore di una madre, tutto ciò che di bello una madre desidera per suo figlio”.

E’ lo sguardo della ragazza che fu madre di Gesù. Uno splendido endecasillabo di Dante dice che sono “gli occhi da Dio diletti e venerati” (Par. XXXIII, 40).

Gli occhi di cui Dio stesso si è innamorato, gli occhi che Gesù bambino ha guardato, incantato. Ma la bellezza di quegli occhi splende di santità.

Un giorno Jakov gli ha chiesto: “come fai ad essere così bella?”. Lei ha risposto col suo sorriso: “Sono bella perché amo. Anche voi, figli miei, se volete essere belli, amate!”.

Infatti “quando pregate voi siete molto più belli”, perché si diventa colui che si guarda con amore (infatti, dice la Madonna, “la preghiera è ciò che il cuore umano desidera”, 25.11.1994).

Tratto da: “Mistero Medjugorije” di Antonio Socci

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Una preghiera per Caterina Socci

Posté par atempodiblog le 18 septembre 2009

Una preghiera per Caterina Socci dans Amicizia Caterina-Socci

Da domenica 13 settembre, Caterina Socci, figlia del giornalista e amico Antonio, si trova in coma in seguito a un arresto cardiaco. Ci uniamo all’appello alla preghiera che lo stesso Socci ha diffuso e ne ripubblichiamo di seguito il testo.

Ringrazio immensamente tutti coloro che in queste ore pregano per mia figlia, Caterina, 24 anni, che si trova in coma all’ospedale di Firenze per un inspiegabile arresto cardiaco.

C’è una cosa importantissima e preziosissima che si può fare: pregare! Far celebrare messe e recitare rosari per la sua guarigione  è, in questo momento, la speranza più grande. Noi e gli amici lo stiamo facendo instancabilmente, anche con la recita della preghiera per ottenere l’intercessione di don Giussani (ve la copio qua sotto).

Io e tutta le mia famiglia ve ne siamo grati.

Che Dio vi benedica.

Antonio Socci

Signore Gesù, tu che ci hai donato don Giussani come padre e ci hai insegnato, attraverso di lui, la gioia di riconoscere la nostra esistenza come offerta a te gradita, concedici per sua intercessione la grazia della guarigione di Caterina. Te lo chiediamo per la sua glorificazione e per la nostra consolazione. Amen.

Fonte: Il Sussidiario.net

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Gesù (di Antonio Socci)

Posté par atempodiblog le 9 juillet 2009

Gesù (di Antonio Socci) dans Antonio Socci gesi

Perfino Nietzsche – ed è tutto dire – ammirò Gesù: « Ha volato più alto di chiunque altro ». Ma chi è precisamente quest’uomo che da duemila anni affascina il cuore degli uomini. I Vangeli, quattro piccoli libri scritti con stile asciutto, sobrio, giornalistico, sono un resoconto fedele dei fatti che lo riguardano. Lì sono riportate le genuine testimonianze di chi c’era, di chi ha visto con i propri occhi, toccato con mano.

Allora, seguendo il percorso di Karl Adam nel volume « Gesù il Cristo » (Morcelliana), cerchiamo di « mettere bene in luce e di fissare con esattezza storica tutti i dati nettamente controllabili che riguardano la figura storica di Gesù, il suo aspetto psicologico, la sua vita e la sua struttura intima, la sua molteplice attività sulla scena della storia ». Facciamoci « un’idea chiara e ben definita dell’impressione lasciata da Gesù nei suoi discepoli e nei suoi contemporanei ».

Com’era Gesù?

C’è un fatto immediato, evidente a tutti, fin dal primo impatto. « La fisionomia esteriore di Gesù doveva esercitare un fascino irresistibile. Un giorno una donna del popolo si lasciò sfuggire, incontenibile, questo grido di lode: ‘Beato il grembo che t’ha portato e il seno che ti ha nutrito’ (Lc 11,27). Gesù rispose correggendo: ‘Beati quelli che ascoltano la Parola di Dio’ (11,28). Tale risposta lascia intendere che la donna aveva di mira non solo i pregi dello spirito, ma anche quelli del corpo di Gesù ».

Scorrendo il resoconto dei Vangeli ci si accorge bene che « quell’impressione di forza che subito, al primo apparire, Gesù esercitava sul popolo, specialmente sui malati, sui peccatori, sulle peccatoci, era prodotta sì dalle sue forze spirituali, ma certamente, in parte almeno, doveva essere un effetto del suo aspetto affascinante che trascinava le folle ». Innanzitutto colpivano i suoi occhi, lo sguardo. Non a caso Marco, nel riferire ogni detto importante di Gesù, usa la formula: « Ed Egli li fissò e disse ».

Marco parla spesso degli occhi di Gesù perché riflette il racconto che aveva ascoltato da Pietro e Pietro non ha più potuto dimenticare quello sguardo. Fin dal primo incontro con quell’uomo. Doveva essere un’esperienza impressionante incrociare i suoi occhi se perfino Pilato, di fronte a questo imputato silenzioso, uomo straziato nelle carni, che è in suo potere, resta come soggiogato dal suo sguardo, dal suo fascino, dalla sua calma, dal suo mistero. E il governatore romano, che era così cinico e sprezzante, è insicuro, quasi intimidito, davanti a lui.

Oltre allo sguardo, va sottolineata, dice Adam, « l’impressione prodotta dal portamento sano, vigoroso, equilibrato di Gesù ». Stando ai fatti dei Vangeli si capisce che « doveva essere un uomo avvezzo alla fatica, resistente, sano robusto. E già per questo Egli si distingueva da altri celebri fondatori di religioni ». La sua vita pubblica è un continuo peregrinare per vallate e monti e deserti. Spesso i suoi, che lo seguono, lamentano la fame e la sete, sotto il sole del deserto. Notevole, osserva Adam, « la sua ultima salita da Gerico a Gerusalemme. .. sotto la sferza del sole su sentieri senza ombra, attraverso ammassi rocciosi, nel deserto, dovette compiere una marcia di sei ore in salita, superando un dislivello di oltre mille metri. Ciò che meraviglia è che Gesù non si stanca. Alla sera stessa prende parte a un convito preparatogli da Lazzaro e dalle sue sorelle (Gv 12,2) ».

Fisicamente l’uomo della Sindone corrisponde perfettamente a questo identikit: prestante, alto, sano. E’ un uomo che nei due anni e mezzo della sua missione vive perlopiù all’aperto, sotto tutte le intemperie. Per centinaia di notti « non ha dove posare il capo », si riposa accanto ai gigli del campo e agli uccelli dell’aria che amerà portare ad esempio. Un uomo che fin dall’inizio si trova assediato da grandi folle cosicché Marco dice che spesso « non aveva neppure il tempo per mangiare », « fino a notte fonda andavano e venivano i malati » (Mc 3,8) e lui aveva compassione di tutti.

Dopo un miracolo fatto di sabato – che dunque farà molto discutere – va sull’altra riva del lago, ma in molti lo seguono pure là. Il Vangelo allora dice che Lui « guarì tutti » cioè guardò tutti, capì tutti, prese sul serio tutti.

Sottoposto a questa defatigante missione a volte crolla di stanchezza. Come quella volta, sulla barca: si addormentò mentre il legno di Simone attraversava le acque calme del lago. Poi di colpo l’arrivo di uno di quei tremendi « cicloni » improvvisi che, dalle gole orientali, si scatenano sul lago di Tiberiade, mandando a picco – ancora oggi – tante barche di pescatori. Simone e i suoi, che pure sono esperti, vengono presi dal panico, sanno che di lì a pochi minuti potrebbero essere risucchiati dai gorghi.

Concitati svegliano Gesù e lui subito « si ritrova e domina la situazione. Tutto questo mostra quanto fosse lungi dall’avere un temperamento eccitabile, nervoso. Invece Egli era sempre padrone dei suoi sensi, era insomma perfettamente sano ».

Ma chi è – si chiedono sgomenti i suoi – uno che può comandare perfino alla tempesta? Colpisce anche « la straordinaria chiarezza del suo pensiero », la « virile fermezza nell’eseguire la volontà del Padre », basti vedere la sua reazione in tre passi in cui i suoi tentano di « indurlo ad abbandonare la via della Passione che Lui aveva scelto irrevocabilmente ». « Gesù è l’uomo dalla volontà chiara, dall’azione sicura e decisa » « in tutta la sua vita non si trova un solo istante in cui si mostri indeciso e pensieroso sul da farsi ».

Adam osserva che pur essendo mite e umile « Gesù è un carattere eroico al sommo grado: è l’eroismo incarnato. Per lui l’eroismo è la regola » ed esige da chi lo segue coraggio e decisione. Parla con semplicità, con piccole storie tratte dalla vita di tutti i giorni, tutti lo comprendono, e tuttavia manifesta un’autorevolezza che nessun altro ha. Quando i suoi contestatori provano a metterlo in contraddizione, vengono sbaragliati. « Nessuno osa resistergli », « ha un carattere regale », gli stessi suoi amici, a cui Lui vorrà lavare i piedi come un loro servo, invitandoli a fare lo stesso, avevano un « timore reverenziale verso il Maestro ». Pur essendo sempre inerme, rifiutando ogni violenza, perfino per legittima difesa, era come temuto dai nemici. Addirittura la squadraccia armata che va ad arrestarlo di notte ha un momento di sbandamento davanti alla forza che manifestano le sue parole: « sono io, lasciate stare loro ».

« Era uno che possedeva un potere superiore ». Non era solo l’impressione di superiorità, di potenza dominatrice che traspariva dal volto di Gesù, ma il suo potere concreto su tutto. Sulla tempesta, sui demoni, sulle malattie. Un giorno un padre concitato lo supplica di andare da lui perché la sua bambina sta morendo. Quando arriva Gesù la piccola è già spirata e giace sul letto inerte. Troppo tardi. Ma Gesù si china accanto a lei, le prende una mano e le dice: « Talita Kum » (che significa: « agnellino, alzati »). E la bambina torna in vita nello sconcerto dei presenti. Non c’è solo la potenza, ma la tenerezza di quell’espressione: « agnellino ». Un uomo così non si è mai visto. Così potente e così buono.

« Egli amava la solitudine », eppure stava volentieri fra gli uomini, ha simpatia per loro (perfino per i pagani, cosa rivoluzionaria), specialmente quando sono peccatori, prostitute, pubblicani. Lui che era così puro non li disprezza, ma ne ha profonda compassione, dà loro calore, forza, luce e così scandalizza gli osservanti. Gesù invita tutti a seguire e ad amare lui, cambiando vita. Lui rivendica il potere di perdonare (e perdona tutti, sempre). Un potere che era solo di Dio. Lui si pone addirittura al di sopra della Legge e del Sabato. Nessuno poteva farlo, se non Dio solo.

Romano Guardini, nel libro « La realtà umana del Signore » (Morcelliana), va più in profondità. Dai Vangeli, dice, emerge « una figura di sconvolgente grandezza e incomprensibilità ».

Il suo vero « segreto »

Guardini si chiede « che impressione fa in complesso la figura di Gesù se la confrontiamo con grandi figure dell’Antico Testamento come Mosè ed Elia? Innanzitutto quella di una grande calma e mitezza… L’impressione che la figura di Gesù fece ai suoi contemporanei è stata evidentemente quella di una persona che possedeva una forza misteriosa. Secondo il resoconto evangelico gli uomini che lo vedono restano colpiti, anzi profondamente scossi dalla sua presenza ».

Calma e sicurezza. « In Gesù non si trova alcun indizio di esitazione o di dubbio nel pensiero, di timidezza o di riservatezza dovuta a suscettibilità per le offese o a passività di fronte agli avvenimenti… In Gesù c’è una umanità meravigliosamente pura… Egli è capace di portare la persona alla coscienza perfetta e alla realizzazione di quello che significa essere uomo… appartiene essenzialmente alla figura di Gesù la mancanza di ogni stranezza ed anomalia ». Le sue stesse parole appaiono molto sobrie, misurate, ma « la sua volontà è fortissima. Tuttavia è pieno di rispetto per la volontà umana. Mai Gesù le fa violenza. Egli possiede il perfetto accordo di tutta la sua persona, non ha paura ed è pronto a tutte le conseguenze. Nello stesso tempo Egli è calmo, senza fretta, senza alcuna premura, non c’è in Lui né angoscia, né inquietudine, né un affannato agitarsi… la sua serenità e pacatezza non ha nulla di simile al fatalismo ». Da cosa è determinata in lui « l’assenza di ogni paura »? Non solo dal temperamento: è una cosa sola con Colui che tutto crea e tutto domina.

« Egli va verso gli uomini con cuore aperto. Sta quasi sempre insieme con loro… è pieno di un inesauribile desiderio di aiutare… ». « Egli ha compassione per il popolo e le sue sofferenze, lo guarda con affetto ». Se malati e sofferenti si rivolgono a lui in massa, se i bambini gli vanno così incontro è perché sentono la sua « calda simpatia », la sua accoglienza.

« In tutto ciò non c’è nulla della calma atarassia di uno stoico o dell’avversione per il mondo di un Buddha. Gesù è pieno di vita e di umana sensibilità… ». « Gesù dà sempre l’impressione di essere infinitamente di più di quello che appare, di potere di più di quello che Egli fa, di sapere di più di quello che dice », « in Gesù non si trova affatto malinconia che è una forma diffusissima della patologia religiosa ». « Gesù non è nemmeno un visionario… Egli dà l’impressione di una perfetta e completa salute ». Anche nella tentazione di Satana è un caso unico: non deve fare nessuno sforzo per resistere, « Satana contro di lui è impotente ». Lo dice lui stesso: « il principe del mondo non può nulla contro di me » (Gv 14,30). E’ inattaccabile. Eppure questa « persona divinamente sicura è piena di vita, è in tutto umana ».

Così coloro che vivono con Lui o che lo incontrano nelle piazze, nei villaggi, nelle sinagoghe, sempre più si domandano: « ma chi è veramente quest’uomo? ».

Luigi Giussani (« All’origine della pretesa cristiana », Rizzoli) traccia questa traiettoria. Innanzitutto c’è la scoperta di « un uomo senza paragone ». La gente starebbe delle ore a guardarlo parlare, affascinati da tutti i suoi gesti, le sue espressioni, il suo volto, il suo modo di guardare negli occhi tutti. I Vangeli fanno capire che spesso, anche dopo ore, nessuno va via, anche quando si fa tardi.

Lui sa leggere nel segreto di tutti i cuori (come scopre la samaritana al pozzo), così che tutti crollano davanti a lui. « La sua intelligenza sventa ogni tentativo di coglierlo in fallo ». Come quando gli portano la donna colta in flagrante adulterio, che per la legge doveva essere lapidata: « Chi di voi è senza peccato…. ». Uno così non si era mai visto. Un giorno entrando in un villaggio s’imbatte in un corteo funebre ed è toccato dal pianto di quella madre, le si avvicina e le dice: « donna, non piangere… » E dopo questo gesto di tenerezza le restituisce il figlio vivo. « E’ difficile – commenta Giussani – che una persona potente sia veramente buona ». Ma lui è così. E’ una meraviglia mai vista sulla terra. E’ l’essere umano che ciascuno desidererebbe incontrare nella vita.

Eppure, dicono i suoi contemporanei, si sa da dove viene, si conoscono i familiari, pure i nemici si sono informati bene su di lui. Ma tale è la sua eccezionalità che ci si chiede chi sia veramente.

Anche fra i suoi amici che ogni giorno gli vedono compiere quelle cose cresce sempre di più la sensazione che egli sia un mistero inafferrabile. Finché lui si rivela apertamente: « prima che Abramo fosse, Io Sono ».

Una pretesa inaudita. Una bestemmia, per i suoi nemici. E, va detto, un caso unico nella storia. Come si può davvero credere che il figlio del falegname di Nazaret sia l’Eterno, l’Onnipotente, Colui che ha disegnato il corso delle galassie e dei millenni? Si può solo accettare la sua sfida: « viene e vedi ». Andargli dietro per capire. Anche oggi è possibile. I cristiani ogni giorno – oggi – gli vedono compiere opere immense e davanti a questa evidenza carnale, di Lui vivo e operante nel 2005, il pesantissimo attacco scatenato negli ultimi due secoli contro la storicità dei resoconti evangelici appare risibile. La prova che è davvero risorto sta nel fatto che lo si può vedere oggi operante, vivo.

Le scoperte su di Lui

D’altra parte anche le più recenti scoperte archeologiche e storiche (dal 7Q5 di Josè O’Callaghan ai lavori di Jean Carmignac, dalle « ridatazioni » di Robinson e Tresmontant alle ricerche di Carsten P. Thiede, per dirne solo alcune), oggi confermano che i vangeli furono scritti da testimoni oculari, a ridosso degli eventi e circolavano pubblicamente quando ancora erano viventi gli avversari di Gesù che avrebbero potuto contestare quelle notizie (a cominciare dal ritrovamento della tomba vuota).

Lo straordinario volume di José Miguel García « La vita di Gesù nel testo aramaico dei Vangeli » (Rizzoli, pp. 246, euro 9.50) aggiunge oggi altre scoperte straordinarie. Per esempio ha trovato addirittura che in due passi della seconda lettera ai Corinzi, scritta prima dell’autunno del 57 d.C, san Paolo parla di un Vangelo già scritto e circolante fra le comunità e cita espressamente Luca come il suo estensore. Due secoli di farneticazioni moderniste spazzate via. García, esponente della cosiddetta « scuola di Madrid », lavora da anni alla retroversione del testo greco dei Vangeli in aramaico, la lingua originaria e parlata da Gesù. In Spagna sono già usciti più di una decina di volumi che raccolgono i risultati di questo imponente lavoro. Il libro della Rizzoli ne propone una sintesi divulgativa. Lo scopo era il chiarimento di quei passi che nel greco dei Vangeli risultano oscuri o contraddittori e che sono stati usati polemicamente contro la Chiesa.

Questi studiosi spagnoli dimostrano che spesso ci troviamo di fronte a traduzioni inesatte. Si scopre per esempio che secoli di speculazioni sui « fratelli di Gesù », con cui si era messa in discussione la dottrina della Chiesa, non hanno ragion d’essere: sono sempre gli apostoli e i discepoli a essere definiti « i fratelli di Gesù ». Sotto il greco si recupera anche l’esattezza dei resoconti. Per esempio sui miracoli che in certi casi – come quello dell’indemoniato di Gerasa – erano contestati a causa dell’imprecisione del testo greco. D’altronde che Gesù impressionasse tutti per i suoi straordinari miracoli è storicamente certo perché viene attestato pure dalle insospettabili fonti ebraiche (raccolte nel Talmud di Babilonia).

Un’altra delle balordaggini propalate dalla « critica storica » è l’idea per cui Gesù si sarebbe aspettato una fine del mondo imminente, nella sua generazione, sbagliandosi clamorosamente. Si cita Mc 9, 1, oltretutto interpretando male l’espressione « Regno di Dio ». José Miguel García svela l’equivoco e confuta i critici.

C’è un altro passo cruciale dei Vangeli che ha dato occasione a infinite polemiche, soprattutto dei protestanti: l’episodio di Cesarea di Filippo quando Gesù chiede: « chi dice la gente che io sia? ». Poi lo chiede ai suoi e Pietro – ispirato dallo Spirito Santo – confessa la sua convinzione: Tu sei il Figlio di Dio. E’ così che Gesù dà a Pietro l’investitura, il primato. Ma curiosamente il racconto evangelico si conclude con un versetto strano: « e impose loro severamente di non dire questo di lui a nessuno » (Mc 8,30). Un versetto che ha fatto strologare molti sul fantasioso « segreto messianico », ma che – ricostruito nell’originale aramaico – dice tutt’altro: « E impose loro severamente di vedere sempre in lui (in Pietro, ndr) il Figlio dell’Uomo ».

Una sottolineatura clamorosa, come si vede, della missione di Pietro. A proposito del « segreto messianico » secondo cui « Gesù non fu mai consapevole di essere il Messia », anche dal lavoro di García si evidenzia l’inconsistenza di questa invenzione. Emerge chiaramente, infatti, che Gesù non solo sapeva di. essere il Messia, il Cristo, ma fa comprendere pian piano ai suoi e a chi lo ascolta che egli è Dio stesso. Alla fine lo dice apertamente ai suoi stessi nemici. E’ questa infatti l’inaudita pretesa, la bestemmia per cui fu arrestato e processato: perché, dicevano i suoi accusatori, « tu, che sei uomo, ti fai Dio… » (Gv 10,33). Ed era vero.

Ma le pagine più toccanti del libro di García sono quelle sull’ultima cena, quando Gesù dice, nella traduzione attuale: « ho desiderato ardentemente di mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione ».

Secondo García l’originale aramaico è ancora più vertiginoso: « Ho desiderato ardentemente di mangiare questo agnello pasquale quando ero lontano da voi, lontano dalla mattina del mio venire incontro al patimento. Poiché vi dico: Quando io sarò mangiato come lui (= come questo agnello pasquale), il regno celeste di Dio giungerà alla sua pienezza ».

Qui « Gesù designa la sua incarnazione: la sua venuta incontro alla morte ». E nelle prime parole si coglie « il desiderio di Gesù, già nella sua esistenza celeste » di « andare incontro alla morte » per instaurare il Regno di Dio e « sconfiggere il regno di Satana ».

Una profondità simile hanno anche le parole che Gesù pronuncia dopo aver lavato i piedi ai suoi amici, investendoli del potere sacerdotale: egli manifesta loro « la sua contentezza, poiché, grazie a loro, potrà morire nuovamente, bere di nuovo il calice che bevette sul calvario » (è la santa messa dei cristiani).

Il testo aramaico dunque restituisce, con potenza ancora maggiore, il desiderio di Gesù di morire per la salvezza di tutti gli esseri umani, la sua volontà fortissima di subire su di sé tutta lo scatenarsi di Satana per liberare gli uomini. Ecco perché, nel resoconto delle torture e della passione, Gesù appare così determinato a subire ogni atrocità, ogni umiliazione, fino in fondo, e sembra voler resistere fino in fondo perché nulla gli sia risparmiato. Vuole bere fino in fondo questo straziante calice di sofferenze e crudeltà. Senza un lamento, senza un solo gesto di difesa dai colpi, dagli sputi, dai flagelli. Fino all’ultimo istante si rivela questo essere immenso, sublime, unico. Impossibile non amarlo. Per gli uomini di tutti i tempi.

Il referto quasi fotografico di quella macellazione finale dell’agnello, dove la vittima non avrà più un centimetro di carne che non sia stata piagata, è la Sindone di Torino. E proprio dalla retroversione in aramaico di García si scopre una straordinaria conferma della Sindone. Le traduzioni correnti dicono infatti che dalla croce « presero il corpo di Gesù e lo avvolsero in bende » (Gv 19,40), ma l’originale aramaico recita: « presero il corpo di Gesù e lo avvolsero in una doppia tela di lino ». E’ l’esatta descrizione della Sindone. Guardando quell’immagine tornano in mente i versi di Pedro Calderón de la Barca:

“La tua voce ha potuto intenerirmi
La tua presenza trattenermi,
E il tuo rispetto commuovermi.
Chi sei? (…)
Tu, solo tu, hai destato (…)
L’ammirazione dei miei occhi,
la meraviglia del mio udito.
Ogni volta che ti guardo
Mi provochi nuovo stupore
E quanto piú ti guardo
Piú desidero guardarti”.


di Antonio Socci
Tratto da: Radio Maria

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Tolleranza

Posté par atempodiblog le 3 juillet 2009

 Tolleranza dans Antonio Socci maestra

Sulla Repubblica (10/6), nella rubrica di Corrado Augias, è uscita la missiva di una lettrice che racconta un fatto emblematico. Un ragazzo di 13 anni va a scuola (frequenta le medie, in un normale istituto italiano) con una maglietta che la nonna gli ha portato in regalo dal Santuario di Fatima. Sulla T-shirt stava scritto appunto “Fatima”. Sotto erano riprodotti, in scala ridotta, la Madonna coi tre pastorelli.
“L’insegnante di Storia” si legge nella lettera “ha costretto il ragazzo a toglierla (…). Alcuni compagni hanno riferito che la prof aveva inveito contro lo studente chiamandolo ‘bigotto’ e aggiungendo che i ‘cristiani non sanno più pensare con la propria testa, ma ripetono come pappagalli ciò che sentono da quel tedesco vestito di bianco’ ”.
Accade dunque che il padre del ragazzo va dal preside e quando questi ha chiamato l’insegnante si è sentito spiegare che lei “voleva ‘dare una lezione di educazione civica’, che l’Italia è un paese laico, che ‘l’errore è stato fatto da chi fa doni diseducativi per un ragazzo’ ”. Mentre andava avanti tale discussione, riferisce la lettera, “è passato un ragazzo della stessa classe con una T-shirt dove campeggiava un bimbo che mostrava il pugno chiuso dal quale fuoriusciva un solo dito: il medio. Nel retro una scritta irriferibile”.

Fonte: antoniosocci.it

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Eluana e noi…

Posté par atempodiblog le 15 février 2009

Una cosa è certa: abbiamo bisogno della “carezza del Nazareno”, come ha detto Enzo Jannacci. Senza di Lui siamo perduti, disperati… E preghiamo che Eluana sia stata abbracciata dalla Nostra Madre

Eluana e noi... dans Antonio Socci antoniosocci

Il signor Beppino Englaro a “El Pais” aveva dichiarato: “la Chiesa non mi può imporre i suoi valori”. Ma la Chiesa non imponeva niente, esortava semmai a non imporre la morte a Eluana. Nessuno fino a ieri sera ha potuto affermare che l’ordinamento italiano, a partire dalla Costituzione, permetteva – come dice brutalmente Giuliano Ferrara – “l’eliminazione fisica di una disabile”.

Nessuno. E’ noto infatti che la legge punisce addirittura chi fa morire di fame e di sete un gatto o un cane (lo si è visto proprio in un caso dell’estate scorsa).

Ora però, a un essere umano, questa morte orribile è stata inflitta. Per legge? No. Non c’è nessuna legge che lo consenta. Meno che mai la Costituzione. E nessuno – dicasi nessuno – dei progetti di legge in discussione finora (neppure i più estremisti) prevede che un caso come Eluana possa finire con la morte per fame e per sete. Non solo, ma il disegno di legge del governo che salvava espressamente Eluana in Parlamento aveva una enorme maggioranza, più grande dello schieramento di centrodestra. E allora come è potuto accadere? Per un pronunciamento della magistratura? Tutto sembra surreale. Ognuno ha le sue responsabilità (compreso il Parlamento che ha aspettato fino all’ultimo).

Ma che spettacolo tragicomico quello di intellettuali che, mentre una giovane donna stava morendo, si sono messi a strillare contro il presunto attentato alla Costituzione da parte di Berlusconi. Qua si rovescia la frittata in modo plateale. A noi sembra che Berlusconi, coraggiosamente e generosamente, abbia cercato di rimettere le cose al loro posto, restituendo all’esecutivo le sue prerogative, derivanti dal mandato popolare e a Eluana i suoi diritti. Ci sembra che l’anomalia sia il ruolo assunto in questo caso dalla sentenza magistratura, diventata, per il veto pronunciato contro il governo dal presidente Napolitano, intangibile più del Corano.

Il quale Napolitano – detto per inciso – ha manifestato la sensibilità alla vita che può avere chi come lui viene dalla storia comunista, di dirigente del comunismo internazionale del Novecento. Questa tragedia però impone adesso una svolta alla politica italiana. E speriamo che Berlusconi non si fermi. Bisogna restituire la sovranità al popolo italiano e al governo eletto dagli italiani, per restituire a tutti i propri diritti: è questione vitale per questo Paese.

Ma, tornando alla tragica storia di Eluana, in quell’intervista il signor Englaro ha aggiunto, sempre in riferimento alla Chiesa: “non mi sono rivolto alla Chiesa, ma ai tribunali di giustizia. A loro non ho chiesto niente, né glielo chiederò”. Qui sorge una domanda: è proprio sicuro il signor Englaro di non aver chiesto niente alla Chiesa? Vorremmo capire meglio. La figlia Eluana non è stata forse accudita per circa 17 anni dalle affettuose e delicate suore misericordie di Lecco?

Non so se il signor Englaro le abbia mai ringraziate pubblicamente. Le suore che hanno amato Eluana come una sorella e una figlia sono state sempre silenziose, ma – sommessamente e umilmente – quando la situazione si è fatta pesante hanno chiesto che Eluana fosse lasciata a loro, che avrebbero continuato ad accudirla con tenerezza come hanno fatto per anni. Non so se siano state ritenute meritevoli di una risposta pubblica (io non ne ho viste). Queste suore sono testimoni importantissimi fra l’altro della situazione di Eluana, il cui stato era un mistero per la medicina. Infatti nessuno può dire fino a che punto veramente la giovane donna fosse assente, fino a che punto non abbia capito tutto.

Una di queste suore ha rivelato che la ragazza sembrava avere un respiro più affannoso e un battito più veloce quando nella sua stanza si parlava della controversia relativa a lei. Ci sono poi dei fatti strani accaduti in concomitanza con quel suo trasferimento che da Lecco, dove aveva vissuto per anni con le suore, l’ha portata alla casa di cura di Udine dove dovrebbe morire. Pare che chi ha viaggiato con lei sia rimasto molto impressionato dalla sua improvvisa e persistente tosse. La domanda che sorge spontanea è la seguente: Eluana ha cercato di comunicarci qualcosa?

Il sospetto non è affatto campato per aria. Ormai la medicina si interroga seriamente sulla condizione di queste persone. Tempo fa il “Sunday Times” riferiva di un nuovo studio medico secondo cui “il 40 per cento dei pazienti in coma in ‘stato vegetativo’ possono essere mal diagnosticati”. Cioè possono avere una certa coscienza di sé.

In realtà alcuni esperimenti lo hanno già dimostrato. La “Risonanza magnetica funzionale” del neurologo Adrian Owen dell’università di Cambridge, con Steven Laureys, del’università di Liegi, ha spalancato alla medicina nuovi orizzonti (vedi “Science”, settembre 2006) facendo clamore in tutto il mondo. Il professor Owen ha monitorato le parti del cervello che si attivano quando si rievocano certi ricordi o si chiedono certe azioni. Lo ha fatto in una ragazza di 23 anni in stato vegetativo a seguito di un incidente stradale in cui aveva riportato un grave trauma cranico. Con uno scanner per la risonanza ha scoperto che in lei vi era un’attivazione delle aree cerebrali identica a quella che accade in una donna in perfetta salute.

Ha dimostrato così che il cervello del paziente in “stato vegetativo”, finora ritenuto completamente disattivato, in realtà funziona. L’eccezionale scoperta di Owen prospetta addirittura la possibilità di mettersi in contatto con queste persone che continuano a mantenere un certo livello di coscienza, ma non riescono a dare ordini al corpo.

Finora la medicina aveva brancolato nel buio, perché resta misterioso il luogo in cui veramente risieda la coscienza. Adesso scopriamo che in realtà la coscienza può permanere (e la cosa è dimostrabile con l’attivazione del cervello), ma non riesce a comunicare.

E’ la Chiesa che – contrariamente ai luoghi comuni – esorta la scienza ad andare avanti in queste ricerche. Un primo passo è stato fatto quando, è cosa recente, la medicina ha deciso di non definire più “irreversibile” lo stato vegetativo. E in effetti sono tanti coloro che si sono risvegliati sconvolgendo le previsioni infauste. Che finora la medicina abbia sottovalutato quella condizione è provato anche da diverse testimonianze di persone che – pure in ospedali italiani (parlo per conoscenza diretta) – trovatesi in coma, in una condizione nella quale secondo i medici non potevano assolutamente sentire cosa veniva detto, hanno ascoltato precisamente i discorsi che intercorrevano fra i diversi dottori durante quelle ore e li hanno poi riferiti (al loro risveglio) per filo e per segno lasciando sconvolti quegli stessi medici.

Giuseppe Sartori, ordinario di Neuroscienze cognitive all’Università di Padova, tempo fa ha dichiarato: “Da quando è stato dimostrato che i pazienti in stato vegetativo possono mantenere qualche forma nascosta di consapevolezza dovrebbe valere il principio di precauzione: non possiamo far morire una persona che forse ci sta sentendo e capisce che cosa accade a lei e intorno a lei”.

Probabilmente Eluana in queste ore ha sopportato una sofferenza fisica enorme (tanto che si è dovuto sedarla), ma – se aveva un certo grado di coscienza (come i nuovi studi dicono) – chi può dire la sofferenza morale che ha vissuto? Ora la tragedia si è consumata. La Chiesa tanto vilipesa, la Chiesa che ha abbracciato Eluana in questi 17 anni con l’amore materno delle suore, ora invoca per lei “la carezza del Nazareno”, come diceva poeticamente Enzo Jannacci. Una ricompensa eterna alle sue sofferenze. Ma il nostro Paese? Un brivido ci corre nella schiena.

di Antonio Socci
da Libero, 10 febbraio 2009

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Di fronte alla morte

Posté par atempodiblog le 23 janvier 2009

UN VENTENNE DI FRONTE ALLA MORTE E QUELLA COSA DELL’ALTRO MONDO CHE SONO…I CRISTIANI
di Antonio Socci – Libero

Di fronte alla morte dans Antonio Socci antoniosocci

“Le scrivo perché anche oggi entrando a scuola abbiamo respirato un’aria di morte”. Comincia così la lettera che mi ha scritto Marco, 19 anni, di Firenze. “Stanotte una ragazza che frequentava il terzo anno è morta dopo una notte di coma irreversibile. La sera prima stava andando in discoteca, era in macchina con altri ragazzi (…) la macchina si è schiantata contro un albero. La nostra scuola era già stata protagonista di grandi fatti di morte: tre anni fa, una ragazza che frequentava l’ultimo anno si è suicidata gettandosi da una finestra del terzo piano.

Può immaginare il clima che abbiamo respirato nei giorni e mesi seguenti… Oggi abbiamo rivissuto quel momento: le facce meste dei professori, i visi persi nel vuoto degli alunni, l’assenza fisica o psicologica dei suoi amici più cari e dei parenti”. Marco è uno studente che frequenta l’ultimo anno di liceo. Fin qui la sua è solo una cronaca consueta, descrive ciò che accade quando la morte visita le nostre giornate e specialmente un luogo di giovinezza come una scuola. Capita che – dopo lo choc di qualche giorno – gli adulti si affrettino a richiudere quella finestra spalancata sull’immenso, sul mistero dell’esistenza, per fingere che la vita sia solo il consueto teatrino in cui ci trasciniamo tristemente a recitare una parte assegnata. Ma i giovani non distolgono facilmente lo sguardo dal Mistero.
Infatti è il seguito di questa lettera che più mi ha colpito e commosso. Marco è un avventuriero, assetato di verità e di una felicità che non svanisce in un istante, dunque continua: “Il Signore sta parlando alla mia generazione e lo sta facendo con forza. Ci sta parlando attraverso la sofferenza più estrema, attraverso la morte. Non molto tempo fa altri ragazzi sono morti o rimasti gravemente feriti a causa di incidenti stradali e la loro storia si è dovuta intrecciare obbligatoriamente con la nostra fede di Cristiani. Sto scoprendo sempre di più che questo mondo non può darci niente. Non può darci amicizie vere perché la parola d’ordine del mondo è ‘essere’ e se non sei nessuno o non appari, rimarrai sempre solo. Non può darti la felicità perché non dura più di 30 secondi. Non può darti la consolazione perché la sera quando arrivi a dormire ti ritrovi solo; solo coi tuoi problemi insormontabili, solo perché i tuoi genitori si stanno separando, solo perché nessuno ti ama. Non pensa anche lei che per noi Cristiani sia pronta una nuova missione, cioè quella di ricominciare una nuova evangelizzazione?”.

Mi ha colpito leggere queste parole nella lettera di un diciannovenne, di un ragazzo normalissimo, ma che non si fa addomesticare dall’industria del rincoglionimento. Evidentemente Marco ha visto e sperimentato qualcosa di così bello e così grande che non si dissolve davanti al soffio di sorella morte. Questa parola, “evangelizzazione”, indica infatti un volto e un nome, Gesù, che stupisce e commuove, che sui giovani specialmente esercita un fascino più potente perfino della desolazione della morte. E parla al loro cuore assetato di vita, di felicità, di amore.

Marco continua: “Tanti Santi hanno viaggiato in tutto il mondo per annunciare Cristo Risorto, ma forse per il nostro tempo è necessario partire, non dall’Africa o dall’Asia, ma da casa nostra, dalla nostra via, dalla nostra parrocchia. E’ necessario far conoscere alla mia generazione che c’è un Dio che li ama, che è arrivato a morire per ognuno di noi, ma che è Risorto e ha distrutto la Morte. Posso assicurarle che queste persone stanno aspettando solo noi. Per grazia divina, i miei genitori sono entrati a far parte del Cammino-Neocatecumenale più di trent’anni fa e questo ha permesso che crescessimo nella fede. Personalmente questo Cammino mi ha permesso di scoprire un Dio che mi ama non per i miei meriti, ma per come sono, soprattutto per i miei peccati, e che vuole solamente curarmi, vuole mostrarmi il suo amore. Nella nostra parrocchia ci siamo ritrovati davanti a tante morti umanamente assurde, ma paradossalmente le famiglie implicate in queste morti hanno risposto con l’Amore… ”.

E a questo punto Marco inizia un resoconto sconvolgente di vita quotidiana. In un mondo disperato, dove i media hanno attenzione solo alle misure delle ospiti del Grande Fratello esistono uomini e donne con una certezza e un amore più forti della morte.

“Più di otto anni fa il mio amico Niccolò è morto per un tumore al cervelletto. Ha potuto concludere solo le scuole elementari e non ha conosciuto l’età più bella della vita. Nonostante tutte queste assurdità, ciò che mi ha sempre colpito di lui era il sorriso che portava con sé arrivando al catechismo, anche dopo aver fatto la terapia. Dalla sua morte, il nostro gruppo di catechismo ha ricevuto la grazia di restare unito fino ad oggi ed è un vero miracolo, pensando a dove possono essere adesso tanti miei amici. Il suo funerale fu una festa indescrivibile; uno dei suoi fratellini era così eccitato che, quando abbiamo accompagnato il suo corpo al cimitero si è messo a gridare ingenuamente di volerlo raggiungere per poter giocare ancora con lui. Quel funerale colpì tutti i presenti, perché non si era detto Addio a nessuno, si era salutato un fratello che avremmo rivisto. Per la fede dei suoi genitori e per la bellezza e la gioia di quel funerale molte persone si sono interrogate profondamente e forse lo fanno ancora oggi. Quello che colpisce sempre le persone è che i funerali nella mia parrocchia sembrano matrimoni: i canti sono tutti gioiosi e la bara è posta sopra il fonte battesimale, che si trova a terra, perché simboleggia il passaggio dalle acque della morte alla vita nuova. Più recentemente, un ragazzo, Jonatan, è morto cadendo di motorino; una cosa che non posso dimenticare è il volto di sua madre che ci invitava a stare allegri, perché Jonatan era andato in Paradiso. Sul sagrato, un suo amico mi disse che non era meravigliato della risposta di questa madre alla morte del figlio. Mi disse: ‘Loro sono religiosi’. Queste morti sono state per me una dura prova perché mi hanno diviso da tanti affetti, mi hanno messo davanti al fatto che non siamo eterni, che possiamo e dobbiamo morire. Ma ho scoperto che questa morte è stata vinta da Cristo. Egli ha vinto le mie morti. Io sono certo di questo, ma vorrei che questa buona notizia arrivasse a tutti i miei amici, a tutti i miei coetanei che forse non sanno dare un senso alla loro vita; io però sono uno solo e non posso raggiungerli tutti. Chiedo quindi aiuto alla Madre Chiesa, in cui confido perché ho sperimentato che è davvero madre, che mi dona il perdono e che davvero da essa passa la mia salvezza”.

Marco mi scrive il suo accorato appello alle parrocchie della sua città (come rispondono sacerdoti e vescovi?), le invita ad aprirsi ai movimenti “perché so che è difficile vivere da Cristiani senza una piccola comunità che ti aiuta, che ti ascolta, che ti corregge, in cui sperimenti il perdono, in cui c’è Cristo… Esorto tutte le parrocchie fiorentine ad aprire le porte a Cristo in queste nuove forme, perché i giovani sono per strada a drogarsi, a bere, senza genitori, senza Amore. La loro vita non ha un senso e noi che siamo il sale del mondo abbiamo il dovere di annunciare loro che Cristo li ama e che possono cominciare a sorridere, possono smettere di fingere, possono piangere senza paura di essere giudicati ‘deboli’, possono scoprire amicizie vere fondate sull’Amore di Cristo. Questi ragazzi hanno il diritto di sapere che rivedranno i loro amici in Paradiso e che non c’è morte che possa dividerci, c’è solo Cristo che ci unisce all’altro”.

Non è una cosa dell’altro mondo? Don Giussani diceva che il cristianesimo “è letteralmente una cosa dell’altro mondo in questo mondo”. In effetti il Paradiso inizia già qui, come il sorriso che si apre nelle lacrime e alla fine prende il sopravvento. Come il sole quando spalanca le nuvole e illumina le ultime gocce di pioggia portando finalmente l’azzurro.

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“Natale definitivo”

Posté par atempodiblog le 7 décembre 2008

“Natale definitivo” dans Antonio Socci Santo-Natale

Le tracce anagrafiche di Gesù ci portano sul Campidoglio di Roma, da dove si gode una veduta mozzafiato dei Fori imperiali. Il fazzoletto di terra tra il Tabularium – che sta alle fondamenta dell’attuale municipio – e l’Aerarium del Tempio di Saturno, duemila anni fa era il centro del mondo. In quel punto erano custoditi i documenti del censimento di Augusto, secondo Tertulliano teste fedelissimo della natività di Nostro Signore”.
Era lì dunque la registrazione anagrafica della nascita – fatta da due giovani ebrei – di un bambino chiamato Yehòshua’, Gesù, che significava Dio salvatore”. Incendi e distruzioni hanno perduto quei documenti. Sempre lì dovette trovarsi anche la relazione a Tiberio che Ponzio Pilato scrisse verso il 35 d.C. per giustificare processo ed esecuzione dello stesso Gesù. Da cui venne la proposta di Tiberio al Senato di riconoscere quel Gesù come dio, ossia di legittimare il culto di Cristo che si stava diffondendo. Il Senato rispose di no. La notizia è contenuta in un passo dell’Apologetico (V,2) di Tertulliano ed è stata recentemente dimostrata attendibile da un’autorevole storica, Marta Sordi.
Ma torniamo a quel censimento. Negli studi della Scuola di Madrid” – sintetizzati nel libro La vita di Gesù” di Josè Miguel Garcia – trova soluzione anche il problema cronologico del censimento che finora non si sapeva quando collocare e pareva storicamente dubbio.
Perché Giuseppe e Maria devono andare a Betlemme il cui nome, beth-lehem, in ebraico significa città del pane”? Perché Erode, per conto dei romani, ha imposto un giuramento-censimento. Le autorità di Betlemme pretendono che della famiglia di Davide non manchi nessuno: Giuseppe è un discendente dell’antico casato reale che è tenuto particolarmente d’occhio. Soprattutto in questi anni nei quali – a causa di alcune profezie e di alcuni segni – si è fatta fortissima l’idea che il Messia stia per arrivare. Si sa infatti che il liberatore” che gli ebrei aspettano è di sangue reale. E dunque quelli della famiglia di Re David sono tutti sospetti”.
E’ per queste origini che la famiglia di Gesù, pur essendo diventata modesta e umile, custodisce gelosamente le genealogie che non a caso si trovano riportate nei vangeli. Genealogie che raccontano storie terribili, su cui i vangeli non sorvolano affatto. Tanto da stupire quel poeta cattolico che fu Charles Péguy: bisogna riconoscerlo, la genealogia carnale di Gesù è spaventosa… E’ in parte ciò che dà al mistero dell’Incarnazione tutto il suo valore, tutta la sua profondità, tutto il suo impeto, il suo carico di umanità. Di carnale”. Secondo uno studio recente nelle origini familiari di Gesù troviamo la stessa tribù discendente da Caino, il primo omicida della storia. In Numeri 24, 21 si dice che i Qeniti sono i discendenti di Caino, verranno assorbiti dal popolo ebraico e la loro terra è dove poi sorgerà Betlemme. In un passo successivo (34,19) con Giosuè sono raccolti, per la spartizione della terra conquistata, i capi delle dodici tribù d’Israele. A capo della tribù di Giuda sta Kaleb detto il Qenizita, a cui Giosuè assegna una porzione della terra di Giuda. I Qeniti, spiega Tommaso Federici, sono dunque una sottotribù di Giuda, la loro terra sta nella ‘parte montagnosa’, con capitale Hebron. Essa comprendeva la Betlemme di Kaleb, attraverso la sua sposa Efrata”.
Dunque i Davididi sono i Qeniti o Cainiti”. Ecco – commenta Federici sopra quale abisso è disceso l’Immortale Eterno per assumere la carne dei peccatori. Cristo Signore così riassume in sé ogni Caino d’ogni tempo, per salvarlo”. Gesù dunque è il segno” che Dio aveva posto sopra Caino per cui questi ha salva la vita”.
Nel profeta Isaia leggiamo infatti: Egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori… è stato trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati guariti”.
Nello stesso ceppo familiare di Gesù sono riassunti sia Israele, sia Giuda, sia i pagani ed i peccatori più lontani. Di fatto” spiega Federici a Betlemme, Booz, antenato di David, sposando Rut la Moabita, dunque pagana e idolatra, l’inserisce a pieno titolo nel popolo di Dio, tanto che diventa antenata di David”.
La predilezione di Dio non è caduta sui migliori, ma su dei peccatori. Fra i figli di Giacobbe viene scelto Giuda, il quartogenito, uno dei fratelli che avevano venduto Giuseppe. Uno la cui moralità crolla platealmente nell’unione con la nuora, Tamar, unione da cui discende legalmente Gesù. Della sua genealogia fanno parte poi dei re idolatri, immorali e qualcuno criminale. Lo stesso Davide, il più grande dei re e il più amato da Dio, commette peccati e delitti spaventosi.
Le donne della genealogia di Gesù scriveva il cardinale Van Thuan colpiscono per le loro storie, sono donne che si trovano tutte in una situazione irregolare e di disordine morale: Tamar è una peccatrice, che con l’inganno ha avuto una unione incestuosa col suocero Giuda; Raab è la prostituta di Gerico che accoglie e nasconde le due spie israelite inviate da Giosuè e viene ammessa nel popolo ebraico; Rut è una straniera; della quarta donna… ‘quella che era stata moglie di Urìa’, si tratta di Betsabea, la compagna di adulterio di David”.
Sembra una storia terribile, eppure è la storia della salvezza. La storia da cui è nato Gesù che ha voluto riservarsi – totalmente puri e santi – solo gli ultimi rampolli di quei clan familiari: Maria e Giuseppe.
Che dunque arrivano a Betlemme dove nasce Gesù.
A lungo si è ritenuto che il 25 dicembre fosse una data convenzionale, scelta per contrastare le feste pagane del Natale Solis invicti (da identificare forse con Mitra, forse con l’imperatore romano). Ma recentemente una scoperta archeologica fatta tra i papiri di Qumran ha clamorosamente suggerito la possibile esattezza di quella data. Dal Libro dei Giubilei” uno studioso israeliano, Shemarjahu Talmon ha ricostruito la successione dei 24 turni sacerdotali relativi al servizio nel Tempio di Gerusalemme e ha scoperto che il turno di Abia” corrispondeva all’ultima settimana di settembre.
Notizia importante perché si lega a una informazione cronologica del Vangelo di Luca (1,5) secondo cui Zaccaria, il padre di Giovanni Battista e marito di Elisabetta, appartenente alla tribù sacerdotale di Abia, vide l’angelo, che annunciava il concepimento di Giovanni, proprio mentre officiava davanti al Signore nel turno della sua classe”. Quindi a fine settembre.
Il rito bizantino che da secoli fa memoria dell’annuncio a Zaccaria il 23 settembre deriva dunque da un’antica memoria, forse una tradizione orale. La Chiesa tutta poi celebra nove mesi dopo la nascita del Battista e tutta la liturgia cristiana è impostata su questa data giacché Luca (1, 26) spiega che l’annuncio a Maria avviene quando Elisabetta era al sesto mese di gravidanza. In effetti la Chiesa celebra l’Annunciazione il 25 marzo e il Natale del Signore nove mesi dopo, il 25 dicembre (lo attesta già un calendario liturgico del 326 d.C.). Ne discende che se ha fondatezza storica l’annuncio a Zaccaria il 23 settembre, a catena – come ha dimostrato Antonio Ammassari – acquisiscono storicità anche la data dell’Annunciazione e quella del Natale.
Dal recente libro di Garcia si apprende pure la verità sul luogo della nascita di Gesù. Il contesto deve essere non una grotta, ma la grande casa paterna di Giuseppe a Betlemme. Tali case erano costituite da un’unica grande stanza, dove le persone occupavano una specie di piattaforma rialzata, mentre in un’estremità si trovavano gli animali di cui la famiglia aveva bisogno per lavorare. E per questi animali era ovvio che ci fosse una mangiatoia”.
Probabilmente Giuseppe e la giovane partoriente, per avere un po’ di riservatezza e più caldo, furono alloggiati in questa parte della casa e il bambino fu posto in quella mangiatoia. E’ con una storia così ordinaria, così normale, che Dio – per i cristiani – è venuto nel mondo. E con lui la bellezza, la bontà e la salvezza. Incontrarlo è il senso della vita. Scrive Péguy: Felici coloro che bevevano lo sguardo dei tuoi occhi”.

di Antonio Socci

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