L’unico rifugio, nella notte del mondo

Posté par atempodiblog le 11 juin 2012

L'unico rifugio, nella notte del mondo dans Antonio Socci

Nella notte del mondo e anche nella notte (attuale) della Curia romana, in una notte in cui tutti, umili o potenti, brancolano nel buio, c’è un popolo in cammino che sa dove andare: a Loreto, alla piccola, umile e immensa casa della Madre di Gesù.
E’ infatti il popolo di Maria che ogni anno cresce in entusiasmo e in numero: quest’anno (cioè stanotte) in novantamila hanno affrontato a piedi il cammino di 40 chilometri che separa Macerata da Loreto, dov’è la Santa Casa, per il tradizionale pellegrinaggio che nacque 34 anni fa come iniziativa degli studenti di Comunione e liberazione ed è diventato il grande pellegrinaggio dei giovani.
Alla fine di un anno di studio, di lavoro, di gioie e dolori, vanno ad abbracciare lei, la grande Consolatrice, la Stella del mattino.
E’ lei la Madre dei giovani perché è la Madre di Gesù, giovinezza del mondo. E’ la dolce soccorritrice che ha nel cuore tutti e che sostiene il cammino di ciascuno verso il suo destino luminoso. Anche nel dolore.

Da soli non si riuscirebbe a camminare per una notte intera, così a lungo. Camminare insieme dà forza e rende possibile l’impossibile.
La fatica di un duro cammino nella notte, sacrificando il sonno, aiuta a portare fra le braccia di Maria tutti i desideri, le persone sofferenti, i drammi, le domande, i problemi di ciascuno e di tanti amici che non hanno potuto essere presenti.
Lì, in quella casa dove Dio si è fatto uomo, dove lei ha cresciuto Gesù, dove Gesù è diventato grande e da dove è partito per andare a morire e così salvare il mondo, la Madonna stringe al suo cuore ognuno come il figlio prediletto e porta tutte le implorazioni davanti al trono di Dio che a lei nulla può negare.
Sempre, nei momenti di tribolazione (guerre, terremoti, epidemie) il popolo ha cercato rifugio fra le braccia di Maria. E sempre, nei momenti di più grande crisi della Chiesa (come gli anni Settanta), i santuari mariani sono stati la roccaforte della resistenza e della rinascita del popolo cristiano.
Non le accademie teologiche (che spesso deviano dietro alle ideologie mondane), non le burocrazie clericali (impegnate spesso a farsi la guerra e talora a perseguitare i santi), non i cosiddetti intellettuali cattolici, ma i santuari di Maria.

Oggi è di nuovo così. Lourdes, Fatima, Medjugorije, la Porziuncola, Pompei, Caravaggio e tanti altri (compresa Radio Maria che è un grande santuario nell’etere). Ma Loreto ha un posto speciale.
Non solo perché è un miracolo il santuario stesso, ma perché fin dai primi tempi dell’annuncio di Gesù, per la Galilea e la Giudea, la casa di Maria è stata il rifugio, la fonte ristoratrice, l’oasi.
Anzitutto per Gesù stesso che nell’abbraccio della Madre – tornando o facendo sosta nei suoi instancabili viaggi per le polverose città della sua terra – trovava consolazione dalle tante incomprensioni e dal tanto odio che contro di lui accumulavano tutte le élite e tutti i poteri.
Ma la piccola casa di Maria e il suo immenso cuore erano il rifugio anche di tutti quelli che, feriti dall’orrore del mondo, Gesù si caricava sulle spalle e poi portava a consolare e abbracciare.
Nel meraviglioso “L’Evangelo come mi è stato rivelato”, della mistica Maria Valtorta che ha potuto rivivere e riferire tutta la vita pubblica di Gesù, vi sono storie bellissime.
Per esempio quella della splendida Aglae che da Siracusa era finita schiava-concubina dell’erodiano Sciammai, a Ebron. Viveva in quella che un tempo era stata la casa di Elisabetta, Zaccaria e del Battista.
L’incontro con Gesù la folgora. Lei donerà agli apostoli i suoi gioielli con i quali verrà riscattato proprio il Battista nel primo arresto.
La donna, dopo aver ascoltato, sotto l’anonimato del velo, la predicazione di Gesù scapperà dal padrone e si rifugerà da Maria a Nazaret, dove diventa una delle prime discepole ed eremite cristiane.
Anche Aurea è una schiava, poco più che bambina, proveniente dalla Gallia e acquistata dal romano Ennio Cassio.
La notte in cui, a Cesarea Marittima, il padrone l’avrebbe “iniziata” alle sue orge, Gesù – tramite Claudia, la moglie di Pilato – riesce a farla liberare e a farla riparare fra le braccia di Maria, a Nazaret, dove diventa Cristiana di nome e di fede.
Storie simili sono quelle di Marziam, un bambino orfano, di altri due bimbi orfani, Maria e Mattia, cacciati dal feroce padrone dei loro genitori e raccolti per strada da Gesù che li porta da Maria, dove ritrovano l’amore (sono infine adottati, anch’essi dai discepoli).
O il caso di Sintica, una schiava greca, molto colta e di nobili origini, che, fuggita dal padrone, viene nascosta da Gesù e dagli apostoli e poi – anch’essa – ripara fra le braccia di Maria a Nazaret.
Come pure Giovanni di Endor, che fu maestro a Cintium, poi, per un crimine di sangue, fu ergastolano, evase e visse sotto anonimato, finché incontrò Gesù e si convertì: nella casa di Maria trovò la pace che sempre, nella vita, aveva cercato.
Ce ne sono molte altre di storie così. Per tutti costoro poi il distacco da Maria, dalla sua piccola casa di Nazaret, sarà dolorosissimo perché nessuno vuole allontanarsi da una simile madre.
E’ proprio a Maria, nella sua casa di Nazaret, che Gesù affida i suoi gioielli più preziosi, alcune giovani ragazze (come le figlie di Filippo) che vogliono fare voto di verginità come lei e che rappresentano il primo albore di quell’esercito di giovani che, nel corso dei secoli, doneranno tutta la loro vita a Gesù.
Ma da Maria, a Nazaret, inevitabilmente vanno anche tutti coloro che, colpiti o affascinati da Gesù, non sanno come raggiungerlo o temono di non esserne degni.
Come Maria Maddalena – bellissima, ricca e dissoluta (perfino drogata) – che, incontrando Gesù vede capovolgere la sua vita, abbandona i piaceri del mondo e prima di gettarsi ai suoi piedi cammina nella notte fino a Nazaret, da Maria, che l’abbraccerà e l’accompagnerà dal Figlio.
Nell’Opera della Valtorta si nota come tutti coloro che incontrano e seguono Gesù sono poi affascinati dalla Madre che, a sua volta, li riporta a scoprire e amare di più il Figlio.
A Nazaret, Maria, fa una vita semplice, presa dalla cura della piccola e povera casupola (le cui mura sono veramente quelle che oggi si trovano a Loreto) e dalle rose e dai fiori del piccolo orto.
Sembra ancora una ragazza, è bellissima, dolce, silenziosa, generosissima, sempre disponibile e misericordiosa con tutti, anche con i parenti più ostili, e – quando occorre – mostra un coraggio intrepido.
Vive sempre col pensiero a Gesù, si sente una sua discepola, pronta ad accoglierlo ogni volta che torna con i suoi amici e ad accogliere chiunque altro. Soprattutto chi è ferito dalla vita e cerca sollievo e guarigione, anche fisica.
La piccola casa di Maria, che poi è il suo stesso cuore, è il luogo del mondo dove chiunque può trovare rifugio e salvezza. E’ il luogo più sicuro e più facile per trovare Gesù.
Questo sanno i novantamila giovani che, questa notte, come già fece la Maddalena, in una notte di duemila anni fa, hanno camminato per ore verso la casa di Maria: “O regina, è qui che ogni anima viene/ come un giovane guerriero caduto nella corsa” (Pèguy).

Oggi come allora. Oggi che tutti brancolano nel buio. Oggi che nessuno più, nel mondo, sa dove andare. Oggi che abbiamo sperimentato i fallimenti di tutti coloro che pretendevano di saper guidare l’umanità, con le loro vuote e presuntuose chiacchiere, le loro ideologie e il loro potere.
Come ha scritto Charles Péguy, un grande poeta, convertito, per il suo pellegrinaggio a Notre Dame di Chartres:

“Ce ne han dette tante,
o regina degli apostoli.
Abbiamo perso il gusto dei discorsi
Non abbiamo più altari se non i vostri,
non sappiamo nient’altro
che una preghiera semplice”.

di Antonio Socci – Libero

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Se alla Santa Messa si canta Ligabue: “quando questa merda intorno/ sempre merda resterà/ riconoscerai l’odore/ perché questa è la realtà”…

Posté par atempodiblog le 21 avril 2012

 dans Antonio Socci

Ma i vescovi e i preti credono ancora alla vita eterna? Spero di sì, ma dovrebbero farcelo capire. Specie nei funerali, in particolare quelli di personaggi famosi.
Ho letto, per esempio, le cronache sul rito funebre del giovane calciatore Piermario Morosini che pure “Avvenire” ha messo in prima pagina con una grande foto notizia e questo titolo: “L’ultimo gol di Morosini. Folla ed emozione ai funerali a Bergamo”. Un altro sommario del giornale dei vescovi diceva: “Lacrime, canzoni e applausi. Commovente il ricordo del suo parroco”.
E’ sicuro “Avvenire” che non ci sia nulla de eccepire proprio su quelle canzoni e sul resto?
Scrivono i giornali che durante la santa liturgia – invece degli inni sacri che accompagnano un nostro fratello davanti al giudizio di Dio – sono state cantate le canzoni di Ligabue.

Dunque in chiesa, mentre davanti all’altare c’era la bara di quel povero giovane, con il dolore dei suoi cari, e si distribuiva la comunione, venivano schitarrate cose  del genere:“quando questa merda intorno/ sempre merda resterà/ riconoscerai l’odore/ perché questa è la realtà”.
Parole di grande spiritualità? Di evidente connotazione cristiana? Altri “immortali capolavori” dello stornellatore emiliano eseguiti durante la liturgia, dicono le cronache, sono stati “Urlando contro il cielo” (che è tutto un programma) e “Non è tempo per noi” il cui messaggio è espresso da queste parole: “certi giorni ci chiediamo è tutti qui?/ E la risposta è sempre sì”.

Tutto questo è accaduto all’interno di un rito liturgico, ciò che la Chiesa ha di più sacro. E mentre l’attuale papa Benedetto XVI si erge (è un caposaldo del suo pontificato) in difesa della sacralità della liturgia, contro invenzioni e contro ogni tipo di abuso.
Ma i vescovi – che in buona parte hanno opposto un muro alla decisione del papa di ridare cittadinanza all’antico rito della Chiesa – non hanno poi nulla da eccepire di fronte a trovate simili nella liturgia.
Del resto non sconcerta solo la scelta canora, tanto più in presenza di un rito funebre. A suscitare interrogativi e perplessità sono anche le parole del parroco e quelle dello stesso vescovo di Bergamo.
Del parroco agenzie e giornali hanno riferito solo lo smisurato panegirico del defunto. Ieri un giornale online aveva addirittura questo sottotitolo: “Il parroco: ‘è stato l’immagine di Dio’ ”. Le testuali parole erano un po’ meno esagerate, ma non troppo: “In questi giorni Piermario è stata l’immagine più bella di Dio perché è stata creatura di pace”. 
A dire il vero la Chiesa prescrive che le messe funebri non siano spettacoli e le omelie non siano elogi biografici del morto, ma una meditazione sull’estrema fragilità della vita, sulla necessità di convertirsi e un’esortazione a pregare per la salvezza dell’anima di quel fratello, perché tutti siamo peccatori e, davanti al giudizio di Dio, come poveri e umili mendicanti, abbiamo bisogno solo delle preghiere dei fratelli e della misericordia del Signore.
Non so se il parroco abbia accennato a queste cose, ben più importanti dell’apologia. Di fatto agenzie e giornali non ne hanno fatto menzione e, soprattutto, neanche il vescovo ha sentito il bisogno di richiamare quei fondamentali.
Il suo messaggio – perché quando ci sono i media è difficile che i prelati facciano mancare la loro voce – è stato anch’esso un panegirico (è riportato nel sito del giornale della diocesi).
Solo alla fine del lungo discorso, composto di 290 parole, ha fatto capolino una volta – e molto formalmente – un fugace accenno alla resurrezione (“vivere nella speranza della resurrezione” per “rendere migliore questo povero mondo”).
Da nessuna parte il prelato spiega che la vita sulla terra è fuggevole, che è una lotta per guadagnarsi la vita eterna, l’unica che vale, che il senso dell’esistenza terrena è questo.
Da nessuna parte ha ammonito sulla serietà delle nostre scelte di fronte alla possibilità della dannazione eterna o della beatitudine.
Da nessuna parte il vescovo ha ricordato a parenti e amici del giovane quella verità, così bella e confortante, proclamata dalla Chiesa nella liturgia, che recita: “ai tuoi fedeli, Signore, la vita non è tolta, ma trasformata”.
E’ questa verità che abbiamo bisogno di sentirci annunciare quando siamo sopraffatti dalla morte di una persona amata. Perché significa che abbiamo un’anima immortale e che rivedremo – dopo una breve pausa – coloro che amiamo e addirittura ci sarà restituito il nostro corpo, senza più limiti, lacrime e sofferenze.
Questa impareggiabile consolazione la Chiesa dovrebbe gridarla. Invece i pastori la tacciono.
Così come tacciono il fatto che i nostri cari, proprio perché continuano a esistere e sono davanti al giudizio di Dio e nella purificazione dei propri peccati, hanno bisogno delle nostre preghiere e sacrifici (per esempio hanno bisogno della pia pratica delle indulgenze).
E’ la bellezza della comunione dei santi. Infatti, dopo Cristo, la morte non è più un abisso di lontananza, ma la nostra unione rimane e possiamo continuare ad aiutarci. Dal cielo possono aiutare noi e noi possiamo aiutare loro.

Almeno di fronte alla morte vescovi e preti potrebbero dire una parola cristiana?
Pregare per le anime del purgatorio è addirittura una delle opere di misericordia spirituale (insieme a un’altra: “consolare gli afflitti”).

Forse la vera teologia della liberazione è proprio questa perché la preghiera di suffragio può davvero liberare delle creature, può donare la felicità totale e definitiva a chi ancora soffre in purgatorio.
Questa almeno è la dottrina della Chiesa e si desidererebbe sentirla annunciare e insegnare da vescovi e parroci. Che però, invece di parlare di Dio e della vita eterna, preferiscono spesso strologare delle cose del mondo.
E non secondo l’ottica della dottrina sociale cristiana. In genere vanno dietro alle mode del politically correct.
Quella stessa diocesi di Bergamo di cui si è detto, ad esempio, ha fondato un “Centro di etica ambientale” che di recente ha realizzato un corso per i giovani in cui è stato chiamato a pontificare, sull’educazione ambientale, con il climatologo Luca Mercalli, il cantante Roberto Vecchioni.
E, a riprova che nella Curia di Bergamo si frequentano più le canzonette che la teologia dei Novissimi, il presidente di quel Centro diocesano, don Francesco Poli, come riporta un articolo di Avvenire, ha testualmente affermato: “Immagina un mondo nuovo, cantavano i Beatles. Sono passati 40 anni e me lo ripeto ancora”.
Purtroppo pure sulla cultura canzonettistica questi ecclesiastici lasciano a desiderare, perché quella canzone non era cantata dai Beatles, ma fu scritta (ed eseguita) dopo il loro scioglimento da John Lennon.
E quel brano diventò l’inno del fricchettonismo planetario e del Lennon-pensiero, perché era un colossale sberleffo contro la religione.
Infatti cominciava così: “Imagine there’s no heaven”, cioè “immagina che non ci sia il paradiso”, e continuava “and no religion too”, cioè “e nessuna religione”.

Questo era il sogno celebrato da Lennon in quella canzone. Di certo non avrebbe immaginato di vederlo celebrare pure da curie ed ecclesiastici.
Il povero Piermario Morosini era ed è un caro ragazzo, buono e forte, che merita ben altro e sono grato alla silenziosa suora francescana che nei giorni scorsi, alla Porziuncola, ha lucrato per la sua anima l’indulgenza. Così da regalargli la felicità.
Questa è la pietà cristiana che la Chiesa insegna.

Antonio Socci – Libero

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Sindone: le prove della resurrezione

Posté par atempodiblog le 1 avril 2012

Sindone: le prove della resurrezione dans Antonio Socci

“Tutta la terra desidera il tuo volto”. In questa frase della liturgia sta il segreto della Sindone che continua ad attrarre milioni di persone. E’ l’attrazione per colui che la Bibbia definiva “il più bello tra i figli dell’uomo”. E che qui è “fotografato” come un uomo macellato con ferocia.
La Sindone non è solo “una” notizia oggi, perché inizia la sua ostensione. E’ “la” notizia sempre. Perché documenta – direi scientificamente – la sola notizia che – dalla notte dei tempi alla fine del mondo – sia veramente importante: la morte del Figlio di Dio e la sua resurrezione cioè la sconfitta della morte stessa.
Sì, avete letto bene. Perché la sindone non illustra soltanto la feroce macellazione che Gesù subì, quel 7 aprile dell’anno 30, con tutti i minimi dettagli perfettamente coincidenti con il resoconto dei vangeli, ma documenta anche la sua resurrezione: il fatto storico più importante di tutti i tempi, avvenuta la mattina del 9 aprile dell’anno 30 in quel sepolcro appena fuori le mura di Gerusalemme.
Che Gesù sia veramente vivo lo si può sperimentare – da duemila anni – nell’esperienza cristiana. Attraverso mille segni e una vita nuova. Ma la sindone porta traccia proprio dell’evento della sua resurrezione.
Ce lo dicono la medicina legale e le scoperte scientifiche fatte con lo studio dettagliato del lenzuolo per mezzo di sofisticate apparecchiature. Cosicché questo misterioso lino diventa una speciale “lettera” inviata soprattutto agli uomini della nostra generazione, perché è per la prima volta oggi, grazie alla moderna tecnologia, che è possibile scoprire le prove di tutto questo.
Cosa hanno potuto appurare infatti gli specialisti? In sintesi tre cose.
Primo. Che questo lenzuolo – la cui fattura rimanda al Medio oriente del I secolo e in particolare a tessitori ebrei (perché non c’è commistione del lino con tessuti di origine animale, secondo i dettami del Deuteronomio) – ha sicuramente avvolto il corpo di un trentenne ucciso (morto tramite il supplizio della crocifissione con un supplemento di tormenti che è documentato solo per Gesù di Nazaret).
Che ha avvolto un cadavere ce lo dicono con certezza il “rigor mortis” del corpo, le tracce di sangue del costato (sangue di morto) e la ferita stessa del costato che ha aperto il cuore.
Secondo. Sappiamo con eguale certezza che questo corpo morto non è stato avvolto nel lenzuolo per più di 36-40 ore perché, al microscopio, non risulta vi sia, sulla sindone, alcuna traccia di putrefazione (la quale comincia appunto dopo quel termine): in effetti Gesù – secondo i Vangeli – è rimasto nel sepolcro dalle 18 circa del venerdì, all’aurora della domenica. Circa 35 ore.
Terza acquisizione certa, la più impressionante. Quel corpo – dopo quelle 36 ore – si è sottratto alla fasciatura della sindone, ma questo è avvenuto senza alcun movimento fisico del corpo stesso, che non è stato mosso da alcuno né si è mosso: è come se fosse letteralmente passato attraverso il lenzuolo.
Come fa la sindone a provare questo? Semplice. Lo dice l’osservazione al microscopio dei coaguli di sangue.
Scrive Barbara Frale in un suo libro recente: “enormi fiotti di sangue erano penetrati nelle fibre del lino in vari punti, formando tanti grossi coaguli, e una volta secchi tutti questi coaguli erano diventati grossi grumi di un materiale duro, ma anche molto fragile, che incollava la carne al tessuto proprio come farebbero dei sigilli di ceralacca. Nessuno di questi coaguli risulta spezzato e la loro forma è integra proprio come se la carne incollata al lino fosse rimasta esattamente al suo posto”.
Lo studio dei coaguli al microscopio rivela che quel corpo si è sottratto al lenzuolo senza alcun movimento, come passandogli attraverso. Ma questa non è una qualità fisica dei corpi naturali: corrisponde alle caratteristiche fisiche di un solo caso storico, ancora una volta quello documentato nei Vangeli.
In essi infatti si riferisce che il corpo di Gesù che appare dopo la resurrezione è il suo stesso corpo, che ha ancora le ferite delle mani e dei piedi, è un corpo di carne tanto che Gesù, per convincere i suoi che non è un fantasma, mangia con loro del pesce, solo che il suo corpo ha acquisito qualità fisiche nuove, non più definite dal tempo e dallo spazio.
Può apparire e scomparire quando e dove vuole, può passare attraverso i muri: è il corpo glorificato, come saranno anche i nostri corpi divinizzati dopo la resurrezione.
Si tratta quindi di un caso molto diverso dalla resurrezione di Lazzaro che Gesù semplicemente riportò in vita. La resurrezione di Gesù – com’è riferita dai Vangeli e documentata dalla sindone – è la glorificazione della carne non più sottoposta ai limiti fisici delle tre dimensioni, l’inizio di “cieli nuovi e terra nuova”.
La “prova” sperimentale di questa presenza misteriosa di Gesù è propriamente l’esperienza cristiana: Gesù continua a manifestare la sua presenza fra i  suoi continuando a compiere i prodigi che compiva duemila anni fa e facendone pure di più grandi.
Ma la sindone documenta in modo scientificamente accertabile l’unico caso di morto che – anziché andare in putrefazione – torna in vita sottraendosi alla fasciatura senza movimento, grazie all’acquisizione di qualità fisiche nuove e misteriose, che gli permettono di smaterializzarsi improvvisamente e oltrepassare le barriere fisiche (come quella del lenzuolo stesso).
E’ esattamente ciò che si riferisce nel vangelo di Giovanni: quando Pietro e Giovanni entrano nel sepolcro dove erano corsi per le notizie arrivate dalle donne, si rendono conto che è accaduto qualcosa di enorme proprio perché trovano il lenzuolo esattamente com’era, legato attorno al corpo, ma come afflosciato su di sé perché il corpo dentro non c’era più.
Più tardi, aprendo quel lenzuolo, scopriranno un’altra cosa misteriosa: quell’immagine. Ancora oggi, dopo duemila anni, la scienza e la tecnica non sanno dirci come abbia potuto formarsi. E non sanno riprodurla.
Infatti non c’è traccia di colore o pigmento, è la bruciatura superficiale del lino, ma sembra derivare dallo sprigionarsi istantaneo di una formidabile e sconosciuta fonte di luce proveniente dal corpo stesso, in ortogonale rispetto al lenzuolo (fatto anch’esso inspiegabile).
La “non direzionalità” dell’immagine esclude che si siano applicate sostanze con pennelli o altro che implichi un gesto direzionale. E ci svela che l’irradiazione è stata trasmessa da tutto il corpo (tuttavia il volto ha valori più alti di luminanza, come se avesse sprigionato più energia o più luce).
Quello che è successo non è un fenomeno naturale e non è riproducibile. Non deriva dal contatto perché altrimenti non sarebbe tridimensionale e non si sarebbe formata l’immagine anche in zone del corpo che sicuramente non erano in contatto col telo (come la zona fra la guancia e il naso).
Oggi poi i computer hanno permesso di rintracciare altri dettagli racchiusi nella sindone che tutti portano a lui: Gesù di Nazaret.
Dai 77 pollini, alcuni dei quali tipici dell’area di Gerusalemme (quello dello Zygophillum dumosum, si trova esclusivamente nei dintorni di Gerusalemme e al Sinai), alle tracce (sul ginocchio, il calcagno e il naso) di un terriccio tipico anch’esso di Gerusalemme. Ai segni di aloe e mirra usate dagli ebrei per le sepolture.
Infine le tracce di scritte in greco, latino ed ebraico impresse per sovrapposizione sul lenzuolo.
Barbara Frale ha dedicato un libro al loro studio, “La sindone di Gesù Nazareno”. Da quelle lettere emerge il nome di Gesù, la parola Nazareno, l’espressione latina “innecem” relativa ai condannati a morte e pure il mese in cui il corpo poteva essere restituito alla famiglia.
La Frale, dopo accuratissimi esami, mostra che doveva trattarsi dei documenti burocratici dell’esecuzione e della sepoltura di Gesù di Nazaret. Un fatto storico. Un avvenimento accaduto che ha cambiato tutto.

Antonio Socci – Libero
Tratto da: Don Bosco Land

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Per la crescita del Pil non bisogna imitare la Cina, ma tornare alle radici cristiane

Posté par atempodiblog le 19 mars 2012

Per la crescita del Pil non bisogna imitare la Cina, ma tornare alle radici cristiane (quando l’Italia cresceva al 6 per cento annuo)
di Antonio Socci – Libero

Per la crescita del Pil non bisogna imitare la Cina, ma tornare alle radici cristiane dans Antonio Socci antoniosocci

Monopolizzano la scena ormai da mesi: la “signora crescita” e il “signor pil”. E inseguiamo tutti drammaticamente il loro matrimonio. Anche in queste ore sono al centro delle trattative fra partiti, governo e sindacati.
La politica italiana si è perfino suicidata sull’altare di questa nuova divinità statistica da cui sembra dipendere il nostro futuro. Se però alzassimo lo sguardo dalla cronaca dovremmo chiederci: chi è questo “signor Pil”?
I manuali dicono che è il “valore di beni e servizi finali prodotti all’interno di un certo Paese in un intervallo di tempo”. Ma fu proprio l’inventore del Pil, Simon Kuznets, ad affermare che “il benessere di un Paese non può essere facilmente desunto da un indice del reddito nazionale”.
Lo ha ricordato ieri Marco Girardo, in un bell’articolo su “Avvenire”, aggiungendo che ormai da decenni economisti e pensatori mettono in discussione questo parametro: da Nordhaus a Tobin, da Amartya Sen a Stiglitz e Fitoussi.

KENNEDY LO SAPEVA
Girardo ha riproposto anche un bell’intervento di Bob Kennedy, che già nel 1968, tre mesi prima di essere ammazzato nella campagna presidenziale che lo avrebbe portato alla Casa Bianca, formulò così il nuovo sogno americano:
“Il Pil non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né la nostra conoscenza, né la nostra compassione né la devozione al nostro paese. Misura tutto, in breve, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta. Può dirci tutto sull’America, ma non se possiamo essere orgogliosi di essere americani”.
Non è una discussione astratta. Infatti con l’esplosione e lo strapotere della finanza – che nei primi anni Ottanta valeva l’80 per cento del Pil mondiale e oggi è il 400 per cento di esso – questo “erroneo” Pil è diventata la forca a cui si impiccano i sistemi economici, il benessere dei popoli e la sovranità degli stati.
Oggi la ricchezza finanziaria non è più al servizio dell’economia reale e del benessere generale, ma conta più dell’economia reale e se la divora, la determina e la sconvolge (e con essa la vita di masse enormi di persone).
Anche perché ha imposto una globalizzazione selvaggia che ha messo ko la politica e gli stati e che sta terremotando tutto.

PRIGIONIERI DELLA FINANZA
La crescita del Pil o la sua decrescita decide il destino dei popoli, è diventata quasi questione di vita o di morte e tutti – a cominciare dalla politica, ridotta a vassalla dei mercati finanziari – stanno appesi a quei numerini.
Dunque le distorsioni e gli errori che erano insiti nell’originaria definizione del Pil rischiano di diventare giudizi sommari e sentenze di condanna per i popoli.
Per questo, l’estate scorsa, nel pieno della tempesta finanziaria che ha investito l’Italia, un grande pensatore come Zygmunt Bauman, denunciando “un potere, quello finanziario, totalmente fuori controllo”, descriveva così l’assurdità della situazione: “C’è una crisi di valori fondamentali. L’unica cosa che conta è la crescita del pil. E quando il mercato si ferma la società si blocca”.
Nessuno ovviamente può pensare che non si debba cercare la crescita del Pil (l’idea della decrescita è un suicidio). Il problema è cosa vuol dire questa “crescita” e come viene calcolata oggi. Qui sta l’assurdo.
Bauman faceva un esempio:
se lei fa un incidente in macchina l’economia ci guadagna. I medici lavorano. I fornitori di medicinali incassano e così il suo meccanico. Se lei invece entra nel cortile del vicino e gli dà una mano a tagliare la siepe compie un gesto antipatriottico perché il pil non cresce. Questo è il tipo di economia che abbiamo rilanciato all’infinito. Se un bene passa da una mano all’altra senza scambio di denaro è uno scandalo. Dobbiamo parlare con gli istituti di credito”.
Con questa assurda logica – per esempio – fare una guerra diventa una scelta salutare perché incrementa il pil, mentre avere in un Paese cento Madre Teresa di Calcutta che soccorrono i diseredati è irrilevante.
Un esempio italiano: avere una solidità delle famiglie o una rete di volontariato che permettano di far fronte alla crisi non è minimamente calcolato nel Pil.
Eppure proprio noi, in questi anni, abbiamo visto che una simile ricchezza, non misurabile con passaggio di denaro, ha attutito dei drammi sociali che potevano essere dirompenti.

IL PAPA CI ILLUMINA
Ciò significa che ci sono fattori umani, non calcolabili nel Pil, che hanno un enorme peso nelle condizioni di vita di una società e anche nel rilancio della stessa economia.
Perché danno una coesione sociale che il mercato non può produrre, ma senza la quale non c’è neppure il mercato.
Ecco perché Benedetto XVI nella sua straordinaria enciclica sociale, “Caritas in Veritate”, uscita nel 2009, nel pieno della crisi mondiale, ha spiegato che “lo sviluppo economico, sociale e politico, ha bisogno, se vuole essere autenticamente umano di fare spazio al principio di gratuità”, alla “logica del dono”.
Ovviamente il Papa non prospetta “l’economia del regalo”. Il “dono” è tutto ciò che è “gratuito”, non calcolabile e che non si può produrre: l’intelligenza dell’uomo, l’amore, la fraternità, l’etica, l’arte, l’unità di una famiglia, la carità, l’educazione, la creatività, la lealtà e la fiducia, l’inventiva, la storia e la cultura di un popolo, la sua fede religiosa, la sua laboriosità, la sua speranza.

MIRACOLO ITALIANO
Se vogliamo guardare alla nostra storia, sono proprio questi fattori che spiegano come poté verificarsi, nel dopoguerra, quel “miracolo economico” italiano che stupì il mondo.
Tutti oggi parlano di crescita (e siamo sotto lo zero), ma come fu possibile in Italia, dal 1951 al 1958, avere una crescita media del 5,5 per cento annuo e dal 1958 al 1963 addirittura del 6,3 per cento annuo?
Non c’erano né Monti, né la Fornero al governo. Chiediamoci come fu possibile che un Paese sottosviluppato e devastato dalla guerra balzasse, in pochi anni, alla vetta dei Paesi più sviluppati del mondo.
Dal 1952 al 1970 il reddito medio degli italiani crebbe più del 130 per cento, quattro volte più di Francia e Inghilterra, rispettivamente al 30 e al 32 per cento (se assumiamo che fosse 100 il reddito medio del 1952, nel 1970  noi eravamo a 234,1).
E’ vero che avemmo il Piano Marshall, ma anche gli altri lo ebbero. Inoltre noi non avevamo né materie prime, né capitali, né fonti energetiche. Eravamo usciti distrutti e perdenti da una dittatura e da una guerra e avevamo il più forte Pc d’occidente che ci rendeva molto fragili.
Quale fu dunque la nostra forza?
E’ – in forme storiche diverse – la stessa che produsse i momenti più alti della nostra storia, la Firenze di Dante o il Rinascimento che ha illuminato il mondo, l’Europa dei monaci, degli ospedali e delle università: il cristianesimo. Pure la moderna scienza economica ha le fondamenta nel pensiero cristiano, dalla scuola francescana del XIV secolo alla scuola di Salamanca del XVI.
Noi c’illudiamo che il nostro Pil torni a crescere se imiteremo la Cina. Ma la Cina – anzi la Cindia – non fa che fabbricare, in un sistema semi-schiavistico (quindi a prezzi stracciati), secondo un “know how” del capitalismo che è occidentale. Scienza, tecnologia ed economia sono occidentali. L’Oriente copia.

ECCO IL SEGRETO
Proprio l’Accademia delle scienze sociali di Pechino, richiesta dal regime di “spiegare il successo, anzi la superiorità dell’Occidente su tutto il mondo”, nel 2002, scrisse nel suo rapporto: “Abbiamo studiato tutto ciò che è stato possibile dal punto di vista storico, politico, economico e culturale”.
Scartate la superiorità delle armi, poi del sistema politico, si concentrarono sul sistema economico: “negli ultimi venti anni” scrissero “abbiamo compreso che il cuore della vostra cultura è la vostra religione: il cristianesimo. Questa è la ragione per cui l’Occidente è stato così potente. Il fondamento morale cristiano della vita sociale e culturale è ciò che ha reso possibile la comparsa del capitalismo e poi la riuscita transizione alla vita democratica. Non abbiamo alcun dubbio”.
Loro lo sanno. Noi non più.

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Qualcuno che sta arrivando

Posté par atempodiblog le 18 mars 2012

Qualcuno che sta arrivando dans Antonio Socci

Una volta qualcuno stava cantando la Sevillanas del adios: “Algo se muere en el alma/ cuando un amigo se va…”. E un uomo saggio e col cuore grande osservò: “per ogni uomo la vita è così. Tutto si allontana all’orizzonte del tempo e lui se ne sta sulla riva del mare a guardare le cose finché diventano un punto all’orizzonte e spariscono. Ma può accadere il contrario, cosicché dalla riva del mare scorgi un punto lontano, è una barca che si avvicina, arriva, scende un uomo e viene ad abbracciare te. Ecco, per i cristiani la vita non è più le cose che se ne vanno, ma Qualcuno che sta arrivando”.

di Antonio Socci
Tratto da: Il Foglio (2004)

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Monti vuole “abolire” Dio? E i cosiddetti “ministri cattolici” approvano…

Posté par atempodiblog le 5 mars 2012

“Vi ho dato sei giorni per lavorare, mi sono riservato il settimo e non me lo volete concedere. E’ questo che appesantisce tanto il braccio di mio Figlio!”. (La Madonna a La Salette)

Monti vuole “abolire” Dio? E i cosiddetti “ministri cattolici” approvano… dans Antonio Socci

Monte Mario è una collinetta che sovrasta il Vaticano. Non vorrei che Monti Mario pretendesse di sovrastare Dio stesso, spazzando via, con un codicillo, quattromila anni di civiltà giudaico-cristiana (e pure islamica) imperniata sul giorno del Signore, “Dies Dominicus”.
Comandamento divino, nel Decalogo di Mosè, che è diventato il ritmo della civiltà anche laica, dappertutto. Perfino in Cina.
Il codicillo del governo che “abolisce” Dio (o meglio abolisce il diritto di Dio che è stato il primo embrione dei diritti dell’uomo, come vedremo) è l’articolo 31 del “decreto salva Italia”.
Dove praticamente si decide che dovunque si possono aprire tutti gli esercizi commerciali 7 giorni su 7 e 24 ore al giorno. Norma che finirà per allargarsi anche all’industria nella quale già è presente questa spinta.
Dunque produrre, vendere e comprare a ciclo continuo. Senza più distinzione fra giorni feriali e festivi (Natale compreso), fra giorno e notte, fra mattina e sera.
Sembra una banale norma amministrativa, invece è una svolta di (in)civiltà perché abolendo la festa comune – e i momenti comuni della giornata – distrugge non solo il fondamento della comunità religiosa, ma l’esperienza stessa della comunità, qualunque comunità, dalla famiglia a quella amicale e ricreativa dello stadio.
Distrugge la sincronia sociale dei tempi comuni e quindi l’appartenenza a un gruppo, a un popolo. Per questo c’è l’opposizione indignata della Chiesa e dei sindacati (pure di associazioni di commercianti).
La cosa infatti non riguarda solo chi – per motivi religiosi – vede praticamente abolita la domenica, il giorno del Signore (per i cristiani è memoria della Resurrezione di Cristo e simbolo dell’Eterno in cui sfocerà il tempo).
Riguarda tutti, ci riguarda come famiglie, come comunità locali o particolari. Infatti è vero che ci sono lavori di necessità sociale che sempre sono stati fatti anche la domenica (pure il commercio in località turistiche e in tempi di vacanza). Ma è proprio l’eccezione che conferma la regola.
La regola di un giorno di festa comune, non individuale, ma comune (sia per la liturgia religiosa che per le liturgie laiche), è infatti ciò che ci permette di riconoscerci.
Ciò che consente di stare insieme ai figli, di vedere gli amici (allo stadio, al mare, in campagna, in bici, a caccia), di ritrovarsi con i parenti, di dar vita ai tanti momenti comuni o associativi.
Se ai ritmi individuali già forsennati della vita si toglie anche l’unico momento comune della festa settimanale (o, per esempio, del “dopocena”), le famiglie ne escono veramente a pezzi. Tutti diventano conviventi notturni casuali come i clienti di un albergo.
E si dissolvono i “corpi intermedi”, i gruppi e le associazioni in cui l’individuo si realizza.

Il giorno di festa comune ci ricorda infatti che non siamo solo individui, ma persone con relazioni e rapporti affettivi. Non siamo solo produttori/consumatori, ma siamo padri, madri, figli, fidanzati, siamo amici, siamo appassionati di questo o di quello, apparteniamo a gruppi, comunità, a un popolo.
Il “giorno del Signore” nasce quattromila anni fa per affermare che tutto appartiene a Dio. Ed è significativo che il comandamento del riposo che fu dato da Dio nella Sacra Scrittura riguardasse – in quell’antichissima civiltà – anche servi, schiavi e animali: era il primo embrione in forma di legge di una liberazione, di un riconoscimento della dignità di tutti, che poi si sarebbe affermato col cristianesimo.
Proclamare il diritto di Dio come diritto al riposo per tutti (e addirittura riposo comune) significava cominciare a far capire che niente e nessuno può arrogarsi un potere assoluto sulle creature.

Perché tutti hanno una dignità e perfino gli animali vanno rispettati. Come pure la terra (i ritmi della terra) che non può essere sfruttata senza riguardo.
Non a caso, proprio sul ritmo settenario della settimana, Dio, nella Sacra Scrittura, comanda al suo popolo quegli anni “sabbatici”, che corrispondevano al “giorno del Signore”, per cui ogni sette, c’era un anno in cui si liberavano gli schiavi, si condonavano i debiti e si faceva riposare la terra.
Questo è il retroterra storico della “Giornata europea per le domeniche libere dal lavoro” che è stata indetta oggi, in dodici paesi europei.
E’ promossa dalla “European Sunday alliance” a cui aderiscono 80 organizzazioni, non solo chiese e comunità religiose (in qualche paese pure ebraica e musulmana), ma anche – e soprattutto – sindacati dei lavoratori e associazioni dei commercianti.
Un’inedita coalizione impegnata in una battaglia anche laica. Battaglia di civiltà come fu quella per la giornata otto ore all’albore del movimento sindacale: infatti si cita come esemplare il caso delle lavoratrici rumene di una catena di supermercati tedeschi che a Natale e Capodanno scorsi si sono ribellate al lavoro festivo e hanno vinto.

Fra l’altro la Corte Costituzionale tedesca ha dichiarato anticostituzionale l’apertura festiva perché lede la libertà religiosa e il diritto al riposo: la vita dell’uomo non è solo comprare e vendere. Perché non siamo schiavi.
La situazione italiana si annuncia come la più dura. Infatti “in nessun Paese europeo esiste che i negozi stanno aperti 24 ore al giorno  e sette giorni su sette”, dichiara ad “Avvenire” il sindacalista della Cisl Raineri. Oltretutto con una decisione piombata dall’alto.
Cgil, Cisl e Uil stamattina distribuiscono un volantino dove si legge: “Oggi non fare shopping! La domenica non ha prezzo”.
I sindacati dicono che sarebbero soprattutto le donne a pagare il prezzo più duro perché sono quasi il 70 per cento del personale nel commercio e sono quelle che già oggi soffrono di più la difficile armonizzazione dei “tempi di lavoro” con la famiglia.
E’ anche provato, dagli esperimenti fatti finora, che questa devastante trovata non avrebbe alcun beneficio né sull’occupazione, né sui consumi, infatti la gente non compra perché è tartassata dallo stato e dalla recessione, non perché il supermercato è chiuso alla domenica.
Infatti la Regione Lombardia ha già annunciato ricorso alla Corte Costituzionale contro la norma “ammazza domeniche”. E la seguono a ruota Toscana e Veneto.
Il mondo cattolico giudica inaccettabile quella norma ed è in subbuglio.

Ora agli italiani, oltre ai soldi, pretendono di sottrarre pure Dio e la domenica. La Chiesa si sente “derubata” di una cosa assai più preziosa dei soldi che dovrà pagare per l’Imu (a proposito della quale non è affatto chiaro se e come le scuole cattoliche si salveranno).
Già la presunzione di Monti nel chiamare “salva Italia” il suo decreto tartassatorio, oltreché irridente è quasi blasfema. Per i cristiani infatti a “salvare” è solo Dio.
Non imperatori, tecnocrati, partiti, condottieri, duci o idoli vari. Al sedicente “salvatore” SuperMario si addice la battuta: “Dio esiste, ma non sei tu. Rilassati”.
Non è un caso se ieri questa decisione del “governo mari e Monti” è stata fulminata nell’editoriale di Avvenire come “emblematica di una deriva culturale, un nuovo ‘pensiero unico’ che maschera come una maggiore libertà e progresso, ciò che in realtà è un impoverimento e una restrizione della libertà stessa”.
“Avvenire” (che ieri, con una bella pagina, ha fornito tutte le informazioni sull’iniziativa di oggi) denuncia il “ribaltamento di valore” che spazza via l’uomo e il giorno del Signore e “mette al centro la merce”.

Sacrosanto. Ma allora perché sostenere entusiasti questo governo e far accreditare perfino l’idea che esso segni il “ritorno alla politica” dei cattolici?
Vorrei chiedere pure ai cosiddetti “ministri cattolici” Riccardi, Passera e Ornaghi: com’è stato possibile approvare entusiasticamente una tale assurdità?
Perché una poltroncina val bene una messa? Speriamo di no. Ma se non è così si oppongano a questa norma. Si facciano sentire.

di Antonio Socci – Libero

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Commento di Don Dolindo Ruotolo al Vangelo di oggi

Posté par atempodiblog le 9 février 2012

Commento di Don Dolindo Ruotolo al Vangelo di oggi dans Antonio Socci don-Dolindo

[…] C’è però un episodio del Vangelo – uno solo (Mt 15,21 – 28) – in cui Gesù sembra rispondere addirittura con durezza a una dolorosa implorazione dell’uomo. Una durezza che in Gesù è del tutto insolita. Come si spiega? Che cosa nasconde? E come finisce quell’episodio? E’ una pagina che in genere viene fraintesa. Invece è estremamente significativa. (Antonio Socci)

Cliccare per approfondire Freccia dans Commenti al Vangelo Non siamo degli abbandonati nel mondo

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San Silvestro

Posté par atempodiblog le 31 décembre 2011

San Silvestro
Non è stato padre della chiesa, né un martire, né un fondatore. È stato anche un papa ordinario. Ma sorprendentemente la tradizione romana lo ha esaltato. Per un semplice battesimo
di Antonio Socci - 30 Giorni

San Silvestro dans Antonio Socci 142a7wy

All’inizio del cristianesimo si trova una lunghissima serie di persecuzioni e di campagne diffamatorie. Da Crescente a Frontone, a Luciano, a Elio Aristide, a Marco Aurelio e Galeno, le accuse che ricorrono sono: ateismo, immoralità, odio del genere umano, disprezzo della religione tradizionale, atti turpi, affarismo e promiscuità, culti sanguinari e oscuri, infanticidio, antropofagia.In realtà i periodi di persecuzione di massa sono stati pochi. Nel III secolo, sotto la dinastia dei Severi, i cristiani sono tollerati (e si moltiplicano). Ma la Chiesa resta sempre fuorilegge e lo Stato può sempre procedere contro i singoli cristiani equiparandoli, solo per la loro fede, a criminali. È noto che ormai anche molte famiglie di patrizi e senatori sono state “contagiate”: in ciascuna ci sono dei cristiani, talora i figli, tal’altra le mogli, oppure i servi o qualche amico… Ma come e perché, attorno al 313, lo stesso imperatore abbracci il cristianesimo creando i presupposti per una delle più grandi rivoluzioni della storia, è ancora un affascinante enigma storico. Uno dei più straordinari.

Secondo lo Schulze, al tempo dell’Editto di Milano, promulgato da Costantino e Licinio, i cristiani ammontano a circa dieci milioni in un Impero popolato complessivamente da cento milioni di persone. Un decimo, quindi, della popolazione. Le comunità cristiane più fiorenti e più diffuse si trovano nelle province orientali (Asia, Siria, Egitto). Nell’Africa romana si contano circa centomila cristiani su nove milioni di abitanti e -più o meno- le stesse proporzioni valgono anche per l’Italia.

Nella città di Roma, per lo Schulze, vi sono circa diecimila cristiani su settecentomila abitanti. Sono cifre discutibili, ma comunque orientative. Al tempo dell’Editto di Milano il vescovo di Roma è Milziade. Ma muore in quello stesso anno. Nel gennaio del 314 si elegge il successore e viene scelto Silvestro, che vedrà identificato il suo pontificato con la grande rivoluzione di Costantino, perché, secondo la leggenda, fu lui che lo battezzò. Così, secondo la tradizione cattolica, il battesimo di un uomo, nella storia di Silvestro, si rivela più importante della sua stessa funzione ecclesiastica. È stato scritto: «Nel battesimo è l’unica sorgente di una personalità nuova, di protagonismo nuovo nella storia: tutto il resto sarà ruolo, mestiere, compito. Nel battesimo, l’“Uomo Nuovo” con cui incomincia l’eternità (l’eterno non è un lungo filo di tempo ma la verità delle cose), cioè Cristo, si comunica a chi sceglie. E chi è scelto è reso parte della creazione nuova, quella cui tutti sono destinati e che esploderà alla fine nell’evidenza universale. Chi è battezzato è chiamato da subito a far parte di un flusso, di una corrente contraria al grande movimento della palude mortale che urge le cose verso il nulla, l’insignificanza e la morte».

Silvestro era romano, figlio di un tal Rufino, che fu prete al tempo di papa Marcellino. Si può dire con una relativa certezza che al tempo dell’ultima persecuzione, quella di Diocleziano, si era dichiarato cristiano. Infatti, in tutte le regioni dove essa aveva imperversato, dopo non fu eletto vescovo se non chi aveva coraggiosamente affermato la sua fede in Cristo.

Il suo pontificato durerà più di venti anni (la morte lo coglierà infatti il 31 dicembre del 335), ma nulla di certo si conosce attorno alla sua persona e al suo ministero. Gli storici sono concordi nel ritenere il suo un pontificato di basso profilo, subissato dalla grandiosa azione di Costantino. Eppure è sotto di lui che si compie una delle svolte più importanti della storia della Chiesa. Forse per questo nei secoli successivi i cristiani riempiono di leggende quella storia che mancava. Secondo una di queste leggende, appena eletto, Silvestro dovette rifugiarsi sul monte Soratte per sfuggire a una persecuzione scatenata da Costantino dopo il suo editto. Costantino si sarebbe per questo ammalato di lebbra, perciò avrebbe fatto chiamare dal Soratte Silvestro che, battezzando l’imperatore, lo avrebbe miracolosamente guarito dal morbo.

Inoltre Silvestro avrebbe convertito la madre di Costantino, che aveva aderito al giudaismo, sostenendo pubblicamente una disputa con dodici scribi. Ma la leggenda più nota è quella riguardante la «Donatio Constantini», un falso probabilmente dell’VIII secolo con il quale si fece risalire alla volontà dell’imperatore -che aveva trasferito a Costantinopoli la capitale- il governo del Papa sulla città di Roma, ovvero il potere temporale della Chiesa.

Questo straordinario falso. contro cui inveì Dante e molti dopo di lui, ebbe una enorme importanza storica: il potere temporale è stato una garanzia di libertà per la Chiesa, durante i secoli (peraltro il documento può essere falso, ma è assolutamente vero che il popolo di Roma, abbandonato dagli imperatori, fin dalla calata dei barbari si pose nelle mani -anche politiche- del suo vescovo). La verità storica però è che Silvestro e Costantino si videro al massimo una o due volte e probabilmente non ebbero mai occasione di parlarsi.

Costantino, inoltre, fu battezzato solo nell’imminenza della sua morte, nel 337, e non da Silvestro, che era già morto, bensì dal vescovo Eusebio di Nicomedia. Ciononostante la Chiesa greca lo onora come santo e la tradizione lo definisce “il primo imperatore cristiano”.

Sicuramente non si può dire che il 28 ottobre del 312, quando sconfigge Massenzio riconquistando Roma, dopo aver fatto imprimere sugli scudi dei soldati il monogramma cristiano sognato la notte precedente, Costantino fosse o si definisse cristiano.

Era un grande condottiero e un grande riformatore. Ma le cronache dicono che, almeno inizialmente, Costantino non abiurò, pur parlandone con fastidio, la religione imperiale. Alcuni storici sostengono che Costantino fosse mosso esclusivamente da scaltrezza politica, per accattivarsi il sostegno dei cristiani. Ma, in mancanza di documenti, tutte le ipotesi sono possibili.

Quel che è certo è che, appena entrato in Roma, Costantino scrive a Massimino Daia chiedendo la fine delle persecuzioni contro i cristiani. Poi, dopo l’Editto di Milano, intima la restituzione alla Chiesa di tutti i beni confiscati sotto le persecuzioni e la riparazione dei danni. Dona inoltre alla Chiesa la sua residenza del Laterano – la residenza dei pontefici fino al XIV secolo -, gettando lì a fianco le fondamenta della grande Basilica Lateranense, che sarà la “madre di tutte le chiese”. È sotto il pontificato di Silvestro che si realizza il programma edilizio di Costantino con l’edificazione delle grandi basiliche romane. A poco a poco tutte le leggi vengono cristianizzate (si introduce anche il giorno festivo domenicale).

Soprattutto è gravida di conseguenze positive la decisione di Costantino di concedere l’immunità ecclesiastica, cioè l’esonero dei chierici dai «munera».

Costantino riconosce ufficialmente per questo solo la Chiesa “cattolica”, cioè quella che conserva la comunione con le altre chiese cristiane, la “grande Chiesa”, sanzionando così per autorità statale un diverso trattamento verso haeretici e scismatici (ad esempio i donatisti).

Le dispute teologiche che imperversano in questi anni fra le comunità cristiane diventano così un affare di Stato e in qualche modo Costantino vi si trova coinvolto in prima persona. Eccolo dunque alle prese con il conflitto fra i donatisti africani e le altre Chiese cattoliche: egli decreta, in base al pronunciamento del Vescovo di Roma, la distruzione delle chiese dei donatisti. Ma il Vescovo di Roma sembra quasi restare ai margini delle grandi scosse che agitano la cristianità. È Costantino a convocare i due importanti Concili di Arles, nel 314, e di Nicea, nel 325. Silvestro, che pure era stato invitato dall’imperatore, non vi partecipò e si fece rappresentare da alcuni legati (secondo la consuetudine era il vescovo della Chiesa ospite che presiedeva l’assemblea).

Silvestro dunque non prese parte nemmeno alla disputa lacerante aperta nella Chiesa dalle teorie di Ario, il presbitero di Alessandria che metteva in dubbio che Gesù fosse «vero Dio e vero uomo» e che pur avendo assunto in tutto la natura umana egli fosse Dio «della stessa sostanza del Padre».

Ario trovava filosoficamente inconcepibile ammettere questo paradosso. Com’è noto la sua terribile eresia devastò la Chiesa, la quale, però, proprio al Concilio di Nicea, lo condannò, definendo il Simbolo che professa e proclama ancora oggi nella liturgia.

«Il Concilio deliberò altresì sulla definitiva organizzazione episcopale della Chiesa, affidando ai supremi seggi metropoliti di Roma, Alessandria e Antiochia la giurisdizione sugli ecclesiastici rispettivamente di Occidente, di Egitto, della diocesi orientale escluso l’Egitto» (Mazzarino). Deliberò sui seggi episcopali, sul celibato dei chierici e proibì definitivamente le celebrazioni giudaizzanti della Pasqua (“protopaschite”). Solo quattro o cinque furono i vescovi occidentali che parteciparono a quel Concilio, che tuttavia assunse un’importanza straordinaria. Lo scarso rilievo che vi ebbe papa Silvestro non mette in dubbio la posizione di preminenza riconosciuta al Vescovo di Roma (emersa già con chiarezza sotto i pontificati di Vittore I e di Stefano I). Così non deve sorprendere la convocazione fatta da Costantino (il Concilio del 680, il sesto Concilio ecumenico, è il primo ad essere convocato insieme dal Papa e dall’imperatore).

Il primato del Vescovo di Roma, che siede sulla cattedra di Pietro, è sempre oggettivamente riconosciuto a prescindere dal fatto che sia un uomo straordinario come Callisto oppure uno ordinario come Silvestro.
La grandezza di Silvestro, in fondo, fu quella riconosciuta dalla tradizione cristiana, il battesimo di Costantino, l’accettare che un imperatore romano facesse per la Chiesa le cose grandi che fece Costantino, anche se -almeno nel 313, il momento della grande svolta- non si può certo dire che egli sapesse cosa era il cristianesimo, che professasse i suoi dogmi e che si fosse lasciato dietro le spalle il “mondo”.

Quel che è certo è che a Costantino «qualcosa di nuovo e di eccezionale era avvenuto in quell’anno» (Sordi). E su questo la testimonianza del biografo, Eusebio, concorda con quella di un pagano autore di un Panegirico su quegli eventi. Costantino, alla vigilia dello scontro con Massenzio, era molto preoccupato perché costui usava certe arti magiche in battaglia. Aveva anche capito che le divinità tradizionali, Giove o Ercole, invocate in precedenza da Severo e Galerio, contro Massenzio stesso nulla avevano potuto.

Egli decideva così di confidare nel summus deus che suo padre, Costanzo Cloro, aveva adorato per tutta la vita. Era il Sole, ma, dicono le cronache, Costantino si rivolse a questo unico signore «chiedendogli di rivelargli chi fosse e di stendergli la sua destra». E qui accade un fatto eccezionale. Eusebio dice: «Se non fosse stato lo stesso Costantino a riferirmi come andarono le cose, non ci avrei creduto». Al declinare del giorno nel cielo, davanti agli occhi esterrefatti di Costantino e di tutto il suo esercito, apparve un trofeo di luce, una croce, e una scritta: «Con questo segno vincerai». Arrivata la notte gli appare in sogno il Cristo di Dio con il segno visto nel cielo e lo esorta ad accettarlo come unica difesa contro i suoi nemici.
Costantino, svegliatosi, corse subito a discuterne con gli amici e decise «di non onorare nessun altro dio se non quello che aveva visto». Fu poi Osio, vescovo di Cordova, mandato subito a chiamare, che gli rivelò il nome di colui che aveva visto. Così, dopo la vittoria, per la prima volta un imperatore romano si rifiutava di salire il Campidoglio per ringraziare Giove.

Costantino non rinunciò al potere, anzi lo usò come nessun altro prima di lui. Si concepì come servo della Chiesa e ricevette il battesimo in punto di morte. Ma già Silvestro lo aveva accolto come cristiano (certo, un cristiano molto esuberante e… potente).

Per questo la tradizione cristiana ci ha consegnato la leggenda del battesimo di Silvestro. Il grande obelisco innalzato davanti la basilica di san Giovanni in Laterano ce lo ricorda. Il monolite fu scolpito in Egitto 3.500 anni fa. È un esemplare unico al mondo. Costantino decise di portare a Costantinopoli questo immenso monolite. Dopo la sua morte il figlio Costanzo cambiò la sua destinazione portandolo a Roma. Ma fu papa Sisto V, nel 1587, a recuperarlo ed erigerlo dove adesso si trova. Il 10 agosto del 1588, festa di San Lorenzo, fu benedetta la croce posta sulla sommità della stele. In una delle facciate della base Sisto fece scrivere: «Flavio Costantino Massimo Augusto / vindice ed assertore della fede cristiana / quest’obelisco, da un re egizio dedicato al Sole / con impuro voto, toltolo dalla sua sede, fece condurre attraverso il Nilo…». E nella quarta facciata: «Costantino, vincitore per intercessione della Croce / battezzato da san Silvestro in questo luogo / propagò la gloria della Croce».

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Il segreto del Natale in quei canti popolari

Posté par atempodiblog le 22 décembre 2011

Il segreto del Natale in quei canti popolari
di Antonio Socci – Libero, 24 dicembre 2008

Catechesi sul Natale dans Fede, morale e teologia Presepio

Chi ha fatto l’unità d’Italia, o meglio l’unità culturale e spirituale del popolo italiano? Cavour? Vittorio Emanuele II? La televisione? No. E’ stata fatta ben prima di loro. Per esempio da sant’Alfonso Maria de’ Liguori, autore della prima canzone popolare italiana che è “Tu scendi dalle stelle”. E’ una delle succose “rivelazioni” che riserva quello straordinario, esplosivo geniaccio che risponde al nome di Ambrogio Sparagna fondatore e direttore dell’Orchestra popolare italiana dell’Auditorium di Roma e grande esperto di musica popolare italiana.
Creando dei canti in dialetto napoletano, sant’Alfonso nel Settecento andava fra i poveri del Regno di Napoli col suo cristianesimo felice e profondamente umano, “insegnava ai ‘lazzari’ i fondamenti del cristianesimo e li rendeva protagonisti dei cerimoniali liturgici”. Una di queste sue canzoni legate alla liturgia del Natale che divenne “famosissima” è “Quanne nascette ninno”, in italiano “Tu scendi dalle stelle” composta nel 1754. Ebbe un tale successo che nel 1769 fu pubblicata in tutto il territorio italiano e cominciò a essere cantata dal popolo, dovunque, dalle Alpi alla Sicilia. Diventò “il primo esempio di canzone italiana”. E anche un modello che dette vita a un genere nuovo di musica popolare.
Grazie ai missionari redentoristi, ispirati a sant’Alfonso, analoghe espressioni musicali nacquero anche al Nord, nei dialetti locali. E infatti quest’anno, nel concerto di canti popolari natalizi che l’Orchestra di Sparagna eseguirà all’Auditorium di Roma dal 3 al 6 gennaio, ci sono molte “canzoni popolari” del Nord, soprattutto del Friuli.
L’anno scorso fu un successo strepitoso. Ogni serata fece il tutto esaurito. E c’era la coda all’ingresso. Si tratta di un fenomeno culturale di enorme interesse perché Sparagna non solo ha cercato in tutti gli angoli del Bel Paese le canzoni con cui il popolo italiano esprimeva, nei diversi dialetti, il suo amore al Dio bambino, non solo li ha fatti rinascere, ma addirittura ha ricostruito certi strumenti popolari antichi, per riprodurre quei suoni e quei ritmi e far rivivere la stessa anima del popolo. Infatti i concerti dell’Orchestra popolare avvengono sempre in un clima molto coinvolgente, di vera allegria, di festa popolare, anche grazie ai ritmi caldissimi di queste canzoni che mettono voglia di ballare, battere le mani, cantare. Nulla da invidiare alla musica popolare sudamericana che poi, in fondo, nasce dalla stessa radice, dalla stessa fede, dalla stessa cattolicissima e solare allegria suscitata dal Dio fatto carne, volto, abbraccio, fiato, sguardo.
Accadono cose sorprendenti attorno alla “musica sacra” di Sparagna. Nel concerto dell’anno scorso – appena uscito in Cd col titolo “La chiara stella” – si poteva vedere e sentire Simone Cristicchi che, con la sua bella voce, ma abituata a ben altri concetti, annunciava la nascita del Salvatore del mondo: “Fu dal Padre a noi mandato per divino decreto eterno/ per salvarci dall’inferno ed aprirci il cielo serrato”.
Un’interpretazione bellissima, la sua, nient’affatto scontata. Fatta non solo con arte, ma con intensità. Cantare “E’ nato il Re divino disse ognuno al proprio cuore” con quella partecipazione fa pensare. S’intuisce che Sparagna, col suo carisma trascinante, ha aiutato gli artisti a riflettere su ciò che stanno cantando. A meditarlo. A capirlo. A sentirlo.
E infatti lo sentono nelle vene pure gli ascoltatori. Comprendendo bene la differenza che c’è fra i cori di musica natalizia della tradizione anglosassone e protestante (sempre freddini e distaccati) e la festa di popolo che invece è la musica sacra nella tradizione cattolica.
“Gran parte di questa produzione di musica sacra popolare è andata perduta. Fa eccezione” dice Sparagna “il repertorio di canti per zampogne, che rappresentano, nei casi in cui hanno conservato il tratto originario autentico, uno straordinario esempio di misticismo musicale popolare”.
Il lavoro di Sparagna sarebbe piaciuto enormemente a Pier Paolo Pasolini che sentiva come un autentico “genocidio” la sparizione della millenaria identità popolare, cristiana e contadina, delle nostre terre. Pochi sanno che una delle sue ultime poesie, pubblicata nel marzo 1975, poco prima della morte, si intitolava “Saluto e augurio”. Era scritta in dialetto friulano ed era rivolta a un immaginario giovane di destra al quale il poeta confidava: “voglio farti un discorso che sembra un testamento”. E pur dicendo “non mi faccio illusioni su di te”, gli affidava questo immenso compito: “difendi i paletti di gelso, di ontano, muori di amore per le vigne. Per i fichi negli orti. I ceppi, gli stecchi. Difendi i campi tra il paese e la campagna, con le loro pannocchie, le vasche del letame abbandonate. Difendi il prato tra l’ultima casa del paese e la roggia. I casali assomigliano a Chiese: godi di questa idea, tienila nel cuore. La confidenza col sole e con la pioggia, lo sai, è sapienza santa. Difendi, conserva, prega!”. E infine: “Dentro il nostro mondo, dì di non essere borghese, ma un santo o un soldato: un santo senza ignoranza, un soldato senza violenza. Porta con mani di santo o soldato l’intimità col Re, Destra divina che è dentro di noi, nel sonno”.
Non so cosa possano pensare di questo programma “conservatore”, oggi, destra, sinistra o centro. Forse ci sarebbe un certo consenso trasversale (immagino che pure i leghisti, nella loro versione migliore, esprimano questo stesso amore alla nostra terra e alle nostre tradizioni).
Di fatto il lavoro di Sparagna – che sta salvando un patrimonio secolare e lo rappresenta, ad ogni Natale, all’Auditorium – è stato valorizzato sia dall’amministrazione di Veltroni che oggi da quella di Alemanno. Ed è un bene. E’ una gran cosa. Del resto la sua musica sacra popolare ci fa riscoprire che esisteva un popolo italiano molto prima che fosse costruito lo Stato italiano (che – purtroppo – fu fatto nel modo peggiore, cioè contro il popolo stesso e la sua cultura). E questo popolo sa che la sua storia, la sua fede e la sua anima sono le grandi risorse che gli hanno dato grandezza e che gli hanno permesso di sempre di risollevarsi e rinascere dopo ogni sciagura. La sua fede innanzitutto. Dov’è la speranza che non delude.
Infatti ciò che le musiche dell’Orchestra popolare di Sparagna lasciano nel cuore, alla fine, è l’antica e sempre nuova commozione di un popolo per il suo Dio che diventa bambino, che si fa uno di loro, che è venuto a riempire tutte le solitudini e a caricarsi di tutti i dolori e le colpe del mondo. Perciò il popolo fa festa vera. Un ritmo vorticoso di festa ci prende quando si sente: “Voglio cantare la mamma di Dio/ Maria bellezza che in cielo ci sta/ stella, regina di grande splendore/ che porta agliu munnu la felicità”.
Lui è la felicità, la positività, il senso della vita. Lui è la Bellezza di Dio, la musica del cielo. Giorni fa Oliver Sacks ha spiegato l’enorme potere terapeutico della musica, soprattutto per le patologie che riguardano il sistema nervoso, il cervello, come l’Alzheimer o l’ictus. Particolare consolazione danno i canti di Natale. Tanto che Sacks confida che trascorrerà la festa ascoltando l’Oratorio di Natale di Bach e andando a sentire “Il Messia” di Haendel alla Carnegie Hall.
Ogni anno accade un fatto strano ed enorme. Ogni anno il mondo si ferma di fronte alla dolcezza di Dio bambino, che nasce e ci tende le braccia. E’ lui la sinfonia più bella che davvero cura l’anima e la guarisce definitivamente. Il popolo dei poveri e dei semplici – che non aveva la Carnegie Hall, ma aveva le sue fantastiche Cattedrali mediterranee – per secoli ha fatto festa al Figlio di Dio che è venuto a salvarli. E la loro musica felice – secondo gli angeli – può ben stare insieme a quella di Bach.

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Difendessero la fede in Gesù Cristo (e i dogmi) con la stessa tenacia con cui si battono per Ici e 8 x 1000…

Posté par atempodiblog le 11 décembre 2011

DIFENDESSERO LA FEDE IN GESU’ CRISTO (E I DOGMI) CON LA STESSA TENACIA CON CUI SI BATTONO PER ICI E OTTO PER MILLE…
di Antonio Socci

Difendessero la fede in Gesù Cristo (e i dogmi) con la stessa tenacia con cui si battono per Ici e 8 x 1000... dans Antonio Socci antoniosocci

La campagna sull’ “Ici della Chiesa” è stata lanciata dai radicali per anticlericalismo, ma gli ecclesiastici hanno dato una risposta così disastrosa che alla fine la Chiesa – oltre a doversi piegare sull’Ici – ne ha ricavato pure un grande danno di immagine e di credibilità.
Parlavo di faziosità radicale. Scrive Marco Tarquinio, direttore di Avvenire, che la scorsa estate i radicali presentarono un emendamento alla manovra-bis che voleva colpire esclusivamente “gli enti religiosi cattolici”.
In modo da negare “soltanto ad essi i benefici stabiliti dalla legge” per le opere “senza fini di lucro. Neanche citati tutti gli altri soggetti (altre religioni, associazioni laiche, patronati, realtà politiche e sindacali)”.
Questo, dice Tarquinio, dimostra che i radicali sono mossi da ostilità discriminatoria contro la Chiesa.

ERRORI
Ma perché una campagna radicale che per mesi l’opinione pubblica ha snobbato, d’improvviso è stata abbracciata da tanti diventando una polemica di massa contro la Chiesa?
Perché il governo Monti ha usato l’Ici per realizzare gran parte della sua stangata sulle famiglie e sui pensionati e perché la Chiesa – basti vedere l’Avvenire – è stata una sfegatata sostenitrice di tale stangata.
D’improvviso dal giornale dei vescovi sono spariti gli appelli accorati per il “quoziente familiare” che erano stati ripetuti nei mesi precedenti.
Che “a pagare siano ancora le famiglie”, come ha denunciato il Forum delle associazioni familiari, è diventato irrilevante: gli italiani – per il giornale dei vescovi – devono pagare e zitti.
“Il governo sta facendo gli interventi giusti, quelli che devono essere fatti” recitava l’editoriale di mercoledì scorso. Sono provvedimenti “sostanzialmente equi” e tale manovra ora deve essere “sostenuta dai cittadini”.
Sulla stessa prima pagina di Avvenire, sempre mercoledì, c’era un altro editoriale, firmato dal direttore, il quale però si opponeva a qualunque sacrificio da parte della Chiesa sostenendo che i trattamenti di favore sull’Ici non esistono.

CONFUSIONE
Sennonché, proprio nelle stesse ore, il Segretario di Stato vaticano, cardinal Bertone, diceva cose sull’Ici e la Chiesa che suonavano come una smentita di Avvenire: “E’ un problema particolare: da studiare e da approfondire”.
Non solo. Giovedì c’è stata un’altra dichiarazione, stavolta di Andrea Riccardi, presidente della Comunità di S. Egidio, appena nominato ministro nel governo tecnico, che ha detto: “La Chiesa dovrebbe pagare l’Imu in caso di attività commerciali”.
Come “dovrebbe”? Non lo sta facendo già? Se il ministro – che si presenta come “supercattolico” – dice che “dovrebbe pagare” si evince che qualche problema c’è.
Il ministro ha poi aggiunto che bisogna vedere “caso per caso, se c’è stata mala fede si intervenga”.
Tutto questo ha alimentato la confusione e i sospetti della gente. Allora proviamo a fare chiarezza.

IL PROBLEMA
Nessuno discute l’esenzione dall’Ici per gli edifici usati per il culto, l’educazione o la carità. E nessuno discute che sugli edifici ad uso commerciale la Chiesa già paghi la tassa sugli immobili.
Il problema nasce dalle situazioni ibride. O meglio da come è stata scritta dallo Stato italiano la norma che esenta dal pagamento dell’Ici le attività della Chiesa che abbiano un carattere “non esclusivamente commerciale”.
La vaghezza ha legittimato diverse interpretazioni. Non si trattava di andare a caccia di eventuali abusi, quanto di correggere una norma confusa (che riguarda pure circoli ricreativi, sportivi, partiti, sindacati e enti no profit laici).
Il caos è alimentato pure dal fatto che la legge si rimette alla discrezionalità dei comuni. Cosicché ognuno fa come crede.
Come si vede non c’è niente di scandaloso e la Chiesa avrebbe evitato polemiche e avrebbe fatto un figurone se, subito (per quanto la riguarda) avesse dichiarato: lo Stato riscriva quella norma se – nella sua vaghezza – ha appurato che permette esenzioni immotivate dall’Ici o addirittura abusi.  
Purtroppo però questo messaggio dalla Chiesa non è arrivato. La Cei ha negato fino a ieri che esistesse il problema.
Inoltre Avvenire e il Segretario di Stato vaticano hanno dato pieno sostegno alla stangata del governo dicendo agli italiani vessati da tasse e Ici che “i sacrifici fanno parte della vita” e bisogna farli.
A questo punto è stato naturale per tanti aderire alla campagna radicale rispondendo: bene, allora fateli anche voi.

AUTOGOL
Solo ieri, dopo che Monti ha fatto capire che era in attesa dell’esito della procedura d’infrazione aperta dalla Ue (su quella norma) e poi il governo sarebbe intervenuto, anche il cardinal Bagnasco si è arreso e ha dichiarato la disponibilità della Cei “se ci sono punti della legge da rivedere o da discutere”.
Confermando così che il problema (prima negato) esisteva e dando l’impressione di cedere a pressioni ormai insostenibili.
O magari per timore che si apra un altro fronte. Infatti la manovra del governo che rivaluta le rendite catastali “grazia” gli edifici della Chiesa. Già ieri “Il Sole 24 ore” faceva su questo un titolo un po’ scandalistico.
In realtà la cosa ha un suo senso e la vera assurdità riguarda le banche, graziate da una rivalutazione di soli 20 punti, mentre per le abitazioni delle famiglie il moltiplicatore delle rivalutazioni va da 100 a 160.
Ma “Il Sole” preferisce puntare il dito contro la Chiesa anziché contro le banche.
Del resto se la Chiesa, invece di prendere la difesa delle famiglie tartassate, applaude alla stangata, alimenta un risentimento che la porta al centro delle polemiche e accende un anticlericalismo pericoloso e ingiusto che ne fa un capro espiatorio su cui tutti possono picchiare.
E’ un vero peccato che la Cei non abbia giocato d’anticipo come avrebbe potuto e dovuto.
Questo infatti è lo stile di una realtà come la Chiesa, che è al servizio dell’uomo e corre sempre in soccorso di tutti: degli alluvionati, dei disoccupati, delle famiglie indigenti, stanziando grandi fondi e costruendo opere di carità.
Perché dunque non ha difeso le famiglie dalla stangata, anche rifiutando alcune agevolazioni per dare il suo contributo ai sacrifici degli italiani?

IL TESORO
Il problema è che quando si parla di Ici e di otto per mille, si scatena una reazione furibonda nel mondo ecclesiastico.
Perché? Non si capisce.
Si può dire però che
se la stessa vivacissima reazione scattasse anche in difesa della fede in Gesù Cristo e dei dogmi (messi in discussione pure da tanti teologi), il cristianesimo sarebbe fiorentissimo.
In questi giorni perfino “Famiglia cristiana” – che di solito è pappa e ciccia con la sinistra – si è messa a scagliare anatemi contro la “provocazione laicista” sull’Ici allestita dai “soliti radicali, qualche politico socialista e qualche agit-prop di Rifondazione comunista, ampiamente seguiti dalla stampa laica e di sinistra”.
Com’è che “Famiglia cristiana” si scaglia contro i “laicisti”, la “stampa di sinistra” e perfino “i comunisti” solo quando si occupano dei soldi degli enti ecclesiastici?
Siamo sicuri che il “tesoro” della Chiesa sia nell’Ici e nell’otto per mille? Ovviamente no. L’unico vero “tesoro” della Chiesa è Gesù Cristo.
Tanti uomini e donne di Dio – in nome di Gesù – danno la vita per alleviare la sofferenza delle persone, nei corpi e nelle anime, nelle nostre città come nella giungla amazzonica.
E la loro santità è così affascinante che attira gli aiuti di tanta gente senza bisogno di leggi dello Stato.
Come Madre Teresa o come padre Pio, costoro, per costruire le loro opere di carità, confidano in Dio, non nella sicurezza data da una legge. E testimoniano che Dio non li delude. Cosa c’insegnano? Semplice. Che la Chiesa non deve preoccuparsi tanto dell’Ici quanto della sua santità, “il resto vi sarà dato in sovrappiù”.
Giovedì il Papa ha detto: “L’unica insidia di cui la Chiesa può e deve aver timore è il peccato dei suoi membri”. Per questo anche nelle persecuzioni vince se si rivolge “alla sua Madre celeste e chiede aiuto”.

Ma occorre la fede.

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L’8 x 1000 e la Chiesa

Posté par atempodiblog le 10 décembre 2011

Un punto che ha costituito per molti anni un elemento di polemica nei confronti della Chiesa

L'8 x 1000 e la Chiesa dans Antonio Socci antoniosocci

L’8 x 1000 che oggi, peraltro, è assolutamente volontario per cui se uno decide di dare l’ 8 x 1000 allo Stato, oppure ai Valdesi o alla Comunità Ebraica può farlo benissimo, quindi non c’è nulla di obbligatorio. Questo famoso 8 x 1000 è l’eredità, diciamo, di quello che dopo i Patti Lateranensi del 1929 lo stato italiano versava alla Chiesa Cattolica, ma attenzione, non come regalia come per tanti anni è stato presentato, ma esattamente come parziale remunerazione di tutto ciò che lo Stato italiano in discendenza dei fatti che abbiamo illustrato aveva derubato alla Chiesa. Perché la Chiesa non aveva assolutamente nessun bisogno di avere l’8 x 1000, di avere la congrua, ecc… ecc… perché grazie alla carità dei cristiani aveva vissuto e viveva da secoli da sola. Sennonché la Chiesa è stata letteralmente saccheggiata e derubata, spogliata e ridotta (perfino il Papato) veramente in totale povertà. Per cui quando nel 1929 dopo molti decenni quindi è intervenuto l’accordo, la conciliazione fra Stato e Chiesa, lo Stato ha accettato in qualche modo di farsi carico di sostenere, come dire, la Chiesa laddove l’aveva prima espropriata e spogliata.
Innanzitutto, oggi, con il sistema del nuovo concordato dopo il 1984 si tratta di contributi volontari quindi sono comunque soldi che i cittadini liberamente danno alla Chiesa, ma anche per quanto riguarda i soldi che alla Chiesa venivano dati dallo Stato prima del 1984 si ricordi bene che era soltanto una parziale riparazione di un immane saccheggio.

Tratto da un intervento su Radio Maria del dott. Antonio Socci

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30° anniversario delle apparizioni della Vergine a Kibeho

Posté par atempodiblog le 28 novembre 2011

30° anniversario delle apparizioni della Vergine a Kibeho dans Antonio Socci Madonna-di-Kibeho

Le apparizioni della Madonna, il località Kibeho, a tre ragazze di un collegio, Alphonsine Mumureke, Nathalie Mukamazimpaka e Marie-Claire Mukangango, dal 28 novembre 1981 al 28 novembre 1989, dopo una lunga e accurata inchiesta canonica, sono state riconosciute autentiche dalla Chiesa con un decreto del vescovo datato 29 giugno 2001 in accordo con la Congregazione per la dottrina della fede.
Nell’apparizione del 18 agosto 1982, davanti a 20 mila persone, le tre veggenti poterono vedere le orrede immagini del genocidio che effettivamente si sarebbe verificato in Ruanda (e anche a Kibeho) nel 1994, un genocidio immane e feroce. Il carattere profetico di quella visione dettagliata fu evidente. Va però sottolineato che la Madonna ha dato alle tre ragazze un simile allarme anche per il mondo intero. Nathalie, per esempio, ricorda queste sue severe e terribili parole pronunciate nell’apparizione del 15 agosto 1982: « Il mondo va male… Il mondo corre verso la sua rovina, sta per cadere in un baratro… Il mondo è in ribellione contro Dio, vi si commettono troppi peccati. non c’è più né amore né pace… Se voi non vi pentite e non convertite i vostri cuori, voi cadrete tutti in un baratro » (Vedi padre Gianni Sgreva, Le apparizioni della Madonna in Africa: Kibeho, Shalom 2002, p.17).

Tratto da: Antonio Socci – I segreti di Karol Wojtyla

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Cosa fare di fronte al disastro

Posté par atempodiblog le 6 novembre 2011

Cosa fare di fronte al disastro dans Antonio Socci santorosario

Alluvioni e disastri materiali (due in dieci giorni) si sommano a alluvioni e disastri economici e finanziari e tutti insieme, proprio nelle stesse ore, sconvolgono questa povera Italia, “nave senza nocchiero in gran tempesta”, facendo dilagare insicurezza, angoscia, paura del futuro, smarrimento.
Possibile che proprio nel 150° anniversario della costruzione dello stato unitario degli italiani si debba rischiare il baratro quando tutti sanno, nel mondo, che la nostra è un’economia forte? I disastri naturali arrivano esattamente nei giorni più cupi ad alimentare smarrimento e depressione.
Fra i flutti minacciosi del mare in tempesta, tutti cerchiamo la stella polare per ritrovare la rotta e tutti guardiamo al timone, che sembra abbandonato a se stesso. Ma soprattutto tutti ci chiediamo cosa ognuno di noi possa fare, perché di certo ognuno di noi può fare qualcosa, anche senza rimetterci un euro.
Questa, fra l’altro, è la felice intuizione del signor Giuliano Melani che ha invitato tutti gli italiani a comprare, lunedì prossimo, i titoli pubblici dello Stato (il risparmio degli italiani è fra i più alti nel mondo).
Una strada semplice e facile, ma geniale (e pure conveniente) per una prima uscita dal rischio fallimento. E’ noto infatti che il Giappone è enormemente più indebitato di noi: lì il rapporto debito/pil è addirittura al 223 % e quello fra deficit e pil è al 7,50 %.
Ma il Giappone non incorre nelle punitive speculazioni del mercato e nelle umiliazioni di altre potenze proprio perché tutto il debito pubblico è allocato nelle mani dei risparmiatori giapponesi.
Dunque il “teorema Melani” dovrebbe farci aprire gli occhi. Più in generale dovremmo capire che impegnarsi (utilmente) invece che (inutilmente) indignarsi è il primo passo di una riscossa civile e di un soprassalto di dignità nazionale.
Anche perché è ben difficile confidare nei politici e nelle élite (considerata pure la disastrosa prova che stanno dando oggi, come nel passato).
Costoro dovranno cambiare radicalmente per riguadagnarsi la nostra fiducia. Ma anche noi dovremo cambiare.
La “malattia” italiana attuale è anzitutto una malattia spirituale e morale, perché il Paese ha tutte le risorse materiali per tappare le falle apertesi nella nave e riprendere la navigazione.
Occorrono qualità umane (disinteresse, dedizione al bene comune, sapienza, dignità, senso di responsabilità, spirito di sacrificio, onestà e solidarietà) più ancora che risorse finanziarie.
Lo ha sottolineato ieri lo stesso presidente della Repubblica quando ha detto che per uscire dalla crisi bisogna “ritrovare la strada della coesione sociale e nazionale”.
Ha aggiunto: “Bisognerà cambiare molte cose nel modo di governare, produrre e lavorare, vivere e comportarsi di tutti noi”, “indispensabile sarà lo spirito di sacrificio e lo slancio innovativo, affrontando anche decisioni dolorose che potranno apparire impopolari”.
Napolitano ha concluso: “L’Italia non può trovare la sua strada in un clima di guerra politica. È indispensabile riavviare il dialogo tra campi politici contrapposti”.
Quello che serve è una rinascita spirituale e morale, perché le risorse economiche per far fronte ai problemi ce le abbiamo già. Ma allora a chi rivolgersi per ritrovare energie morali che possano far cambiare la mentalità di una classe dirigente e di un popolo? A chi guardare?
Anche la Chiesa è chiamata a dare il suo prezioso contributo per il suo millenario rapporto di maternità col nostro popolo. Ma qual è il primo contributo che i cattolici possono dare al bene comune?
C’è anzitutto la loro operosità (la si vede in atto anche a Genova in queste ore), c’è la carità, che sostiene tante situazioni di sofferenza e di bisogno. La loro è una presenza preziosa e indispensabile anche fra i giovani.
Ma il primo contributo dei cristiani al bene di tutti – ci ha spiegato il papa – è la fede, che si esprime anzitutto con la preghiera e che sta alla base anche della carità.
Il popolo cristiano lo sa. Vorrei dunque girare al cardinale Bagnasco, presidente della Cei, e a tutta la Chiesa italiana, l’appello che mi è stato rivolto da tanti lettori che mi hanno scritto, perché venga indetta in tutte le chiese del paese una grande giornata di preghiera per l’Italia.
Magari con qualche gesto solenne alla santa casa di Loreto (perché l’Italia è la seconda patria della Regina del Cielo) e presso i nostri santi protettori, ad Assisi, alla tomba di san Francesco, e a Santa Maria sopra Minerva, a Roma, dove è sepolta santa Caterina.
So che ad alcuni sembrerà illusorio l’appello alla preghiera, ma il problema è che sembrerà fuori luogo anche a tanti ecclesiastici e a tanti “cattolici impegnati”, i quali credono che il contributo che i credenti possono dare al bene comune sia anzitutto un discorsetto sociologico (o magari qualche convegno che permetta a certuni di mettersi in luce per prenotarsi poltrone o ricollocarsi per salvare posizioni di potere).
Invece il vero e più prezioso tesoro che i cristiani portano al bene comune è anzitutto la preghiera e la conversione. Perché la benedizione di Dio – come disse il Papa quando esplose la crisi finanziaria negli Stati Uniti e crollarono imperi finanziari – è l’unica certezza che non viene meno, che non tradisce, che protegge, che illumina e porta pace e bene per tutti.
L’antico popolo d’Israele vinceva le sue battaglie contro i nemici quando Mosè teneva le mani alzate in preghiera. Così anche la Chiesa sa, da sempre, che la preghiera è una forza potentissima. Basti dire che Benedetto XVI – sulla scia di Giovanni Paolo II – nei giorni scorsi ha di nuovo messo in relazione il crollo incruento delle dittature comuniste del 1989 con la preghiera dei cristiani e dei martiri.
E la Madonna – a Fatima e a Medjugorije – ha ripetuto che la preghiera ha perfino il potere di fermare o allontanare le guerre (anche se certe élite cattoliche sembrano ignorarlo).
Infatti nel Motu proprio con cui indice l’ “Anno della fede”, Benedetto XVI scrive: “Capita non di rado che i cristiani si diano maggior preoccupazione per le conseguenze sociali, culturali e politiche del loro impegno, continuando a pensare alla fede come un presupposto ovvio del vivere comune”.
Mentre “questo presupposto non è più tale”. Se qualche cattolico non crede nell’immensa forza della preghiera la fede manca anzitutto a lui.
Chi aveva molto chiaro tutto questo era un uomo, don Luigi Giussani, che pure aveva insegnato a una generazione di cattolici a impegnarsi negli ambiti sociali, culturali, civili e politici.
Quindici anni fa, nel 1996, quando l’Italia attraversò un’altra crisi – ma molto meno grave di quella attuale – don Giussani lanciò, come iniziativa pubblica, proprio un gesto di preghiera alla Madonna di Loreto e ai Santi Patroni per la salvezza del nostro Paese.
Si spiegò con queste parole in un’intervista alla Stampa:

“la situazione è grave per lo smarrimento totale di un punto di riferimento naturale oggettivo per la coscienza del popolo, per cui il popolo stesso venga spinto a ricercare le cause reali del malessere e a salvarsi così dagli idoli. Questo smarrimento comporta una inevitabile, se non progettata, distruzione dello stato di benessere, che risulta così totalmente minato nella tranquillità del suo farsi. Perché riprendere, bisogna pur riprendere!”.

Sembrano parole pronunciate oggi. Nei grandi cristiani il realismo fa a braccetto con il totale affidamento a Dio (non con le chiacchiere sociologiche).
Del resto nella storia delle nostre città e del nostro popolo, per secoli, l’incombere delle avversità (epidemie, guerre, terremoti, alluvioni, carestie) ha sempre indotto la nostra gente a raccogliersi nelle chiese e affidarsi alla Madonna e ai santi della nostra terra.
E gli innumerevoli santuari e le tante immagini votive ricordano quante volte il popolo è stato soccorso, quante volte sono state scongiurate tragedie e quante volte sono stati illuminati coloro che potevano determinare il bene o il male di tutti.

Antonio Socci – Libero

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Medjugorje e l’aborto

Posté par atempodiblog le 4 novembre 2011

Medjugorje e l'aborto dans Aborto abortoz

P. Livio - [...] Senti, Antonio, tu finisci con un riferimento a Medjugorje, dove la Madonna, che come sappiamo, non ha mai fatto riferimento preciso a dei peccati concreti, però dell’aborto ha detto che è un grave peccato. Che i bambini abortiti sono come angeli in cielo. E poi ha anche detto che chi pratica l’aborto ne risponderà a Dio. Ma nel medesimo tempo c’è anche un episodio bellissimo che desidererei che tu leggessi e che vogliamo dedicare a tutte quelle donne – e sono tantissime – che hanno abortito, e che sanno quale ferita lancinante sia rimasta nella loro anima, perché sia di grande consolazione per loro.

Socci – Si, è tratta da uno dei libri di P. Laurentin, dedicato a Medjugorje, e che dice così: «Una donna profondamente ferita venne a trovare Marija Pavloviç, e le dice: « Vengo da te perché non ho il coraggio di andare da un prete. Non oso confessarmi. Ho abortito otto volte, e ho paura che il prete si arrabbi con me e mi cacci dal confessionale, ma penso che tu possa fare qualcosa. Puoi chiedere alla Santa Vergine di aiutarmi. Non riesco più a dormire. Sono depressa. Ho tanti disturbi e soffro terribilmente. Tu capisci, mio marito era talmente contrario alla vita… avevamo molti mezzi, ma ora non posso più avere figli. Puoi confidare tutto questo alla Madonna? »».

Marija, che si è sempre mostrata attiva nel fare amare e proteggere la vita – fra l’altro a quel tempo Marija era incinta – Marija ascolta quella donna con amore, e la sera stessa la affida alla Vergine. «Allora la Madonna ci ha sconvolto ancora una volta con la straordinaria speranza che sa infondere in noi suoi figli, soprattutto quando tutto sembra umanamente impossibile». Infatti la Madonna rispose a Marija: «Ora sarà lei a portare la vita per aiutare gli altri». Infatti la donna si riconciliò con Dio, si confessò, e il suo cuore venne così trasformato, che oggi testimonia con forza la guarigione di tutta se stessa, ottenuta per la misericordia di Dio. Ora prova una gran gioia di vivere e fa un gran bene con la sua testimonianza che ha già incoraggiato molte madri a tenere il bambino che aspettano. È in questo modo che Maria desidera agire in ognuno di noi. Delle nostre ferite di morte vuole fare fonti di vita. Se solo noi offriremo a Gesù tutto il male che ci si è accumulato dentro, Lui ci guarirà attraverso le sue piaghe eternamente gloriose».

P. Livio – Molto bello! E così, solo così, il mondo sarà salvo! Quindi è una luce di speranza davanti a noi!

Socci – Posso dire che sono rimasto impressionato nel vedere come queste parole della Madonna sono praticamente le stesse papa Giovanni Paolo II aveva usato nell’Evengelium vitae? Ed egli si rivolgeva alle donne che avevano abortito. È impressionante la tenerezza con cui il Papa parla loro. Anche la consolazione che dà loro dicendo che « i vostri bambini sono accanto al Signore ». E poi dice: «Non lasciatevi prendere dallo scoraggiamento e non abbandonate la speranza. Sappiate comprendere piuttosto ciò che si è verificato e interpretatelo nella sua giusta verità. Se ancora non l’avete fatto, apriteli con umiltà e fiducia al pentimento. Il Padre di ogni misericordia vi aspetta per offrirvi il suo perdono e la sua pace nel sacramento della Riconciliazione. Vi accorgerete che nulla è perduto. E potrete chiedere perdono anche al vostro bambino, che ora vive nel Signore. Aiutate dal consiglio e dalla vicinanza di persone amiche e competenti, potrete essere, con la vostra sofferta testimonianza, tra i più eloquenti difensori del diritto alla vita di tutti!». Esattamente le stesse parole che ha detto la Madonna!

P. Livio – Si, normalmente, anche oggi, il Papa e la Madonna dicono le medesime cose, e questo per noi è un grande segno.

Il genocidio censurato – Conversazione di Padre Livio con Antonio Socci
Presentazione del libro « Il genocidio censurato. Aborto: un miliardo di vittime innocenti ».

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Gesù chiede il cuore

Posté par atempodiblog le 30 octobre 2011

Gesù chiede il cuore dans Antonio Socci antoniosocci

[...] Era abituale a quel tempo l’esecrazione moralistica dei pubblici peccatori da parte soprattutto di un’élite e di movimenti spirituali molto ossessionati dal tema della purità e che ritenevano se stessi giusti, retti, onesti, pii (e abilitati a giudicare i peccati altrui). Ma a chi sbandiera la propria rettitudine, le proprie pratiche di pietà e giudica con disprezzo il peccatore, Gesù racconta una parabola scomoda. La storia di un pio fariseo che «stando in piedi, pregava così tra sé: O Dio, ti ringrazio che non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte la settimana e pago le decime di quanto possiedo. Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: O Dio, abbi pietà di me peccatore». Gesù conclude così: «Io vi dico: questi (il pubblicano, nda) tornò a casa sua giustificato, a differenza dell’altro (il fariseo, nda), perché chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato» (Lc. 18,10-14).
Eppure l’«uomo onesto» era veramente una persona perbene, osservante della Legge, anche sinceramente impegnato. In alcuni episodi troviamo le scandalizzate invettive di alcuni (non tutti) scribi e farisei contro Gesù reo di parlare con pubblicani e prostitute. La purezza interiore di Gesù è assoluta («se il tuo occhio ti scandalizza, toglilo» Mt. 18,9), la santità della sua vita è sotto gli occhi di tutti, è inarrivabile (solo lui può proclamare: «Chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore») tanto che sfida tutti a rimproverargli un solo peccato (mai nelle sue preghiere al Padre c’è una richiesta di perdono). Passa tante notti immerso in preghiera, eppure questo Gesù accetta con simpatia umana l’invito a pranzo di pubblici peccatori, ha affetto per ciascuno di loro, e – con somma indignazione dei benpensanti – lascia che una povera donna di pessima fama gli baci i piedi bagnandoli con le sue lacrime di dolore.
Erano in tanti a scandalizzarsi di questa totale libertà di Gesù dalle loro regole. Eppure a questi tali, a questa gente perbene, onesta e osservante della Legge, Gesù non risponde giustificandosi o arrampicandosi sui vetri, ma con un colpo da ko: «I pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel Regno di Dio» (Mt. 21,31). Doveva essere per loro come un pugno nello stomaco. E quando, secondo la Legge, pretendono di lapidare l’adultera e di avere il suo consenso, dice loro: «Chi di voi è senza peccato, scagli la prima pietra» (Gv. 8,7).
Silenzio generale, imbarazzo e poi, uno a uno, se ne vanno. Un giorno fissando negli occhi questa gente perbene (che giudicava gli altri e li disprezzava come peccatori) scandisce queste parole: «Guai a voi, scribi e farisei ipocriti che rassomigliate a sepolcri imbiancati: essi all’esterno son belli a vedersi, ma dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni putridume. Così anche voi apparite giusti all’esterno davanti agli uomini, ma dentro siete pieni d’ipocrisia e d’iniquità. [...] Serpenti, razza di vipere, come potrete scampare dalla condanna della Geenna?» (Mt. 23,27-28 e 33).
Si resta sinceramente sconcertati davanti a queste parole di fuoco che Gesù pronuncia contro delle persone perbene, mentre è dolce con i peccatori che, in fin dei conti, sono davvero gente discutibile (anche noi, oggi, detestiamo i disonesti, i profittatori, gli opportunisti e certi sfrenati gaudenti e normalmente vediamo tutti questi vizi negli «altri»: ognuno di noi istintivamente si mette nel novero delle persone che fanno il proprio dovere, le persone perbene). Non è che Gesù invitasse a essere peccatori, ma a essere umili e a non giudicare gli altri, a non vantare la propria rettitudine. Perché questo rende superbi, fa presumere di se stessi e delle proprie capacità. Gesù invece è drastico: «Senza di me non potete far nulla». Nulla. Non dice «potete fare ben poco». Dice «non potete fare nulla». E’ un’espressione pesantissima, sconcertante. Chi è mai costui che avanza una simile «pretesa»?
In effetti dai Vangeli risulta che sono più pronti ad accoglierlo i «peccatori» (talvolta criminali) che i «giusti». Anche quando Gesù è in croce, viene dileggiato dai notabili, osservanti della Legge, e viene implorato dal «ladrone», che certo non era uno stinco di santo. Gesù arriva al suo cuore attraverso le ferite della sua vita, ed è il cuore di uno che sta morendo come criminale, non il cuore di uno corazzato con la sua superba moralità.
Gesù chiede di essere amato da tutti così come ciascuno è. Sembra dire a peccatori, incoerenti, poveracci: «Né i limiti e i peccati vostri, né quelli altrui possono comunque impedirvi di volermi bene e rimanere con me. Io farò il resto. Vi cambierò io».
Questo atteggiamento di Gesù è particolarmente evidente nel caso di Pietro, il più emblematico. Dopo tutto quello che aveva ricevuto e visto, nel momento dell’arresto di Gesù e dell’interrogatorio lo rinnegò ben tre volte per paura. Con le labbra, non con il cuore, dice sant’Ambrogio, cioè lo rinnegò per vergognosa viltà e ne pianse amaramente, ma continuava a volergli bene. Neanche lui sapeva spiegarsi questa cosa, ma gli voleva bene. Questo gli era chiaro. Di certo voleva sprofondare mentre lo diceva a se stesso, sentendosi ormai indegno dell’amicizia di Gesù, ma era innegabile quanto fosse attaccato al suo Maestro. Lo cercava sempre con gli occhi. E lo sguardo di Gesù, mentre cantò il gallo, fu il suo ultimo incontro con lui prima dell’esecuzione capitale sulla croce.
Poi accade l’inaudita, imprevedibile resurrezione di Gesù e una serie di eventi convulsi. Gesù appare più volte, vivo, fra i suoi. Una di queste volte, il Maestro, era sulla riva del lago di Tiberiade – con la tenerezza che lo caratterizzava – aveva preparato del pesce per i suoi amici stanchi che con la barca tornavano dalla pesca. A un certo punto di quello stupefacente pasto insieme, Gesù fissa Pietro, che si sarà sentito morire. Ma, diversamente da quanto temeva, Gesù non gli chiede affatto conto del tradimento, non si mette a rimproverarlo per la sua viltà, non gli dice «non peccare, non tradire, non essere incoerente». Ma gli dice: «Simone, tu mi ami?». E addirittura glielo ripete tre volte e per tre volte gli consegna il suo piccolo gregge di amici e lo chiama alla sua grande missione.
Così Gesù fa capire la sola cosa che chiede: il cuore, che si voglia bene a lui. Al resto penserà lui. Trasformerà lui quel focoso e rozzo pescatore, quel codardo nel momento del pericolo, nel pilastro della sua Chiesa, in un padre forte e buono, disposto un giorno a dare anche lui, con eccezionale eroismo, la sua vita su una croce. Gesù si compiace di gente così: l’amico che lo ha rinnegato, la Maddalena, Zaccheo, la Samaritana, il ladrone del Golgota. Li ama così come sono e li perdona. Così li trasforma. Li cambia lui stesso.

Antonio Socci – Indagine su Gesù

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