Lettera di un peccatore agli anti-Papa: “basta attaccare Bergoglio”

Posté par atempodiblog le 1 décembre 2014

Lettera di un peccatore agli anti-Papa
Farrell a Socci:  “caro Antonio, basta attaccare Bergoglio”
di Nick Farrell – Libero Quotidiano

Lettera di un peccatore agli anti-Papa: “basta attaccare Bergoglio” dans Antonio Socci jry1b8

Caro Socci, sono Nicholas, Nick Farrell da Forlì detto “l’inglese”, e ho letto i tuoi ultimi articoli in cui sostieni che l’elezione di Papa Francesco non sia valida e critichi le sue omelie e il suo pontificato perché troppo “comunista”. Invece a me, che non sono uno studioso della Chiesa e non mi appassiono delle dispute tra teologi ed esegeti vaticani, Papa Francesco è sempre piaciuto, sebbene tu stesso sappia quanto io sia anti-comunista. Mi è piaciuto dal primo momento, da quando si è affacciato al balcone e ci ha chiesto con umiltà di pregare per lui. Un tale carisma l’ho visto solo in Giovanni Paolo II. Non pensare che da ex anglicano – di recente convertito al cattolicesimo – non mi sia mai interessato al Papa o al Vaticano o alla Chiesa. Quando nel 1998 sono venuto in Italia, annotavo sempre le sante parole di Giovanni Paolo II in un taccuino che portavo sempre con me. Questo, col senno di poi, mi ha aiutato. Qui in Italia ho incontrato una donna molto cattolica – romagnola – che ho sposato e che, contro ogni mia previsione, mi ha dato cinque figli (dagli 11 ai 2 anni).

E insomma, un inglese doc come me non critica mai la sua regina. Ora, mi chiedo: perché tu, un cattolico doc, critichi così duramente Papa Francesco? Il Papa è “eletto” dallo Spirito Santo: chi sono io per giudicare la sapienza e lo spirito di Dio? Tu parli di irregolarità durante il conclave dei cardinali: avrebbero dovuto votare solo quattro volte in un sol giorno – sostieni – e invece hanno votato cinque volte, e così via. Ma, in fin dei conti, chi se ne frega? Dove vorresti arrivare? Un nuovo conclave? Un nuovo Papa? Dài, su.

Io credo che Papa Francesco, a dispetto di tutti coloro che lo criticano, stia facendo un grande pontificato. Non è per niente “comunista”: vuole, per quanto mi risulta, più misericordia verso gli esclusi e basta. [...] Tu, Socci, critichi il Papa – che secondo te non è infallibile in quanto irregolarmente eletto – anche perché non fa il guerrafondaio nei confronti dei cristiani perseguiti nei Paesi musulmani. Che cosa dovrebbe, che cosa potrebbe dire, per accontentarti? Che per salvare i poveri cristiani perseguitati bisognerebbe ammazzare tutti i tagliagole dell’Isis? Questo dovrebbe dire un Papa a capo di una Chiesa che predica la pace? I martiri nella Chiesa ci sono sempre stati, assieme alle persecuzioni. Non vedo che cosa possa fare il Papa di realmente concreto per fermare il martirio dei cristiani. Un cristiano, se segue Gesù e la sua parola, non ha paura del martirio.

Papa Francesco sta costruendo ponti dove ci sono muri per far amare Cristo da tutti. Sta preparando, guidato dallo spirito di Dio e dalla mano materna di Maria, un terreno fertile affinché tutti si convertano, anche Scalfari e Pannella, i lontani e i mangiapreti come quelli del Leoncavallo e i comunisti tutti. Sta cercando di portare più anime possibili a Dio, perché è questo ciò che conta ora: i martiri sono già tra le braccia di Dio, ma non gli Scalfari, i Pannella, gli autonomi, i comunisti. Lui dialoga con tutti per far conoscere Gesù a tutti. Sta seminando affinché un giorno il maggior numero di persone siano anch’esse pronte al martirio – perché tu sai, questa vita è un battito di ciglia. Per cui, credo che non si debba studiare il Papa in ogni sua minima parola o gesto, e aspettare la minima virgola considerata fuori posto per puntare il dito e accusarlo come facevano (e tu lo sai meglio di me) i farisei con Gesù. Noi vedremo solo dopo la sua morte tutto il bene che lui sta facendo alla Chiesa intera. E tutte le persone che, grazie a lui, sono arrivate a Cristo e si sono salvate. Preghiamo per lui e per le conversioni che grazie a lui avvengono. Non possiamo giudicare l’opera che Dio compie tramite un pontefice, non possiamo perché non siamo in possesso dello Spirito di Dio che Papa Francesco invece possiede in grande quantità. Fidiamoci, capiremo poi.

Questo è ciò che Gesù vuole. Noi cattolici siamo già con Dio, non abbiamo bisogno delle «coccole» del Papa. Ma i non credenti sì, devono capire la grandezza di Cristo per arrivare a lui e non lasciarlo mai più al costo della vita. Non comportiamoci quindi da figli unici gelosi dei fratelli non credenti: dobbiamo invece, proprio come i martiri, esultare per la conversione dei nostri carnefici, o per quella dei non credenti – leoncavallini o scalfariani che siano. Per cui ti do un consiglio: fidati di Francesco. Affidati a lui, sapendo che Dio, proprio tramite lui, ha già pianificato tutto. Non era forse criticato anche Gesù, come Francesco, perché col suo ardore di voler portare più anime possibili al Padre si intratteneva con pubblicani, prostitute e adultere e cacciava i demoni?

Poi, riguardo ai tuoi dubbi sulle conversioni di Scalfari e Pannella, nel 4° volume della Valtorta che sto leggendo Gesù dice: «Vedete come è misurato il Signore nel volere. Non esige conversioni fulminee. Non pretende l’assoluto da un cuore. Sa attendere. Diversamente non dovremo credere alla conversione della Maria di Magdala o di S. Francesco o di S. Agostino avvenute dopo anni di vita mondana, o non dovremo nemmeno credere alla conversione di un delinquente come Bruno Cornacchiola o lo stesso buon ladrone». Lo stesso Gesù, sempre nello stesso volume, aggiunge che lui non fa nessuna distinzione tra coloro che l’hanno sempre seguito e i grandi peccatori che si sono in seguito convertiti. Nessuna distinzione! Incredibile. Che misericordia!

Pubblicani e prostitute vi passeranno avanti nel regno dei cieli. Chissà se un giorno ti vedrai passare avanti Scalfari e Pannella o magari me, peccatore incallito.

Publié dans Antonio Socci, Articoli di Giornali e News, Papa Francesco I, Riflessioni | Pas de Commentaire »

Socci, anche le intelligenze migliori toppano

Posté par atempodiblog le 8 octobre 2014

Anche le intelligenze migliori toppano
«Bergoglio non è Papa». La teoria-thriller di Socci agita il mondo cattolico
Nel nuovo libro, lo scrittore nega la validità dell’elezione di Francesco. Per questo il suo magistero è una delusione
di Maurizio Caverzan – Il Giornale

Socci, anche le intelligenze migliori toppano dans Antonio Socci 2njf4w6
Ratzinger: «Io sono grato di poter essere legato da una grande identità di vedute e da un’amicizia di cuore a Papa Francesco. Io oggi vedo come mio unico e ultimo compito sostenere il suo Pontificato nella preghiera».

Il thriller vaticano è un genere che tira. Una nuova vena letteraria. Un filone di successo. Basta azzeccare gli ingredienti giusti e il caso è creato. Un buon titolo. Uno stimato autore con buon seguito di lettori. Una potente casa editrice. Caso letterario? Caso teologico? Caso ecclesiastico? Forse tutti e tre insieme, bingo. Oppure nessuno: a volte mettere troppa carne al fuoco serve a non cuocerla bene e a tenersi la fame.

Non è Francesco è l’indovinato titolo del nuovo saggio di Antonio Socci, da oggi in vendita per Mondadori. Prima ancora del suo sbarco nelle librerie ha scatenato un putiferio di polemiche e, assicura Libero che ne ha anticipato stralci per due giorni di fila, già «agita il Vaticano». Di sicuro fa discutere i vaticanisti e gli osservatori più attenti del nuovo papato. [...] sul Foglio , solitamente critico con Francesco, il vicedirettore Maurizio Crippa ha seccamente stroncato la nuova opera di Socci, archiviandola alla voce «ciarpame senza pudore», già coniata per tutt’altre vicende. Ce n’è abbastanza per alimentare nuovi fiumi di parole. Trame di corvi e complotti nei sacri palazzi hanno predisposto quote crescenti di cattolici, devoti, militanti, prelati e papa-boys ad appassionarsi all’ultimo giallo sotto il cupolone. I polpettoni di Dan Brown hanno fatto il resto.

Antonio Socci ha scritto in passato libri memorabili, in particolare raccontando la vicenda di «un padre nella tempesta» dopo l’improvvisa malattia che cinque anni fa ha colpito sua figlia Caterina. Oltre che una testimonianza di provata fede, è certamente una delle intelligenze più colte e raffinate della scena cattolica contemporanea. Ma mischiando dottrina e fantascienza complottarda, teologia e atmosfere thriller, se procedono in splendida solitudine anche le intelligenze migliori rischiano di toppare. Già nel precedente I giorni della tempesta , Socci aveva sostenuto, ricorrendo alle rivelazione di Maria Valtorta, che la salma di San Pietro non si trovasse sotto la tomba in Basilica, ma nella periferia romana dove ipotizzava che un futuro Papa avrebbe trasferito la sua residenza per stare più vicino alla gente comune. Ora in questo nuovo lavoro condensa le convinzioni che lo accompagnano da prima delle clamorose dimissioni di Benedetto XVI che, gli va dato atto, aveva anticipato sulle pagine di Libero . Purtroppo Socci non si è mai rassegnato ad accettarle per ciò che erano: il riconoscimento che le «forze, per l’età avanzata ( ingravescente aetate ) non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero petrino» (Benedetto XVI, 11 febbraio 2013 al termine del Concistoro). Ci ha intravisto sempre qualcos’altro e qualcosa di più che non si è mai ben capito cosa fosse. Forse, viziato da quel sospetto, Socci ha presto iniziato a prendere contropelo quasi tutto ciò che ha detto e fatto il successore di Ratzinger. A dire il vero, citando Elisabette Piqué, «una brava giornalista argentina», ha messo in discussione la validità stessa della elezione di Bergoglio al Soglio pontificio. Secondo la ricostruzione della Piqué contenuta in Francesco. Vita e rivoluzione , alla quinta votazione il cardinale scrutatore contò 116 foglietti anziché 115 come dovevano essere. «Sembra che, per errore, un porporato abbia deposto due foglietti nell’urna: uno con il nome del suo prescelto e uno in bianco, rimasto attaccato al primo». La votazione viene annullata «e si procede a una sesta votazione». Secondo Socci, che si appella all’articolo 69 del Regolamento per la elezione dei Papi, la votazione successiva doveva slittare al giorno dopo perché le votazioni possono essere solo quattro al giorno. E in una notte Bergoglio, che già nel Conclave dell’aprile 2005 risultò il secondo più votato dopo Ratzinger, avrebbe potuto essere giubilato. Così, appellandosi a queste norme, conclude «che l’elezione al papato di Bergoglio semplicemente non è mai esistita». Né più né meno.

E se l’elezione è nulla Bergoglio potrebbe «tornare nella pampa». Socci ne parla come di «una tentazione forse cresciuta di fronte agli enormi problemi di governo della Chiesa per i quali l’ex arcivescovo di Buenos Aires si scopre inadeguato, inadatto». Suffragata da una serie di lacune elencate dopo una breve premessa, la sentenza è senz’appello. «Ho sostenuto papa Francesco come potevo, per mesi, sulla stampa», scrive l’autore nel primo capitolo. Ma a un certo punto non ce l’ha più fatta. Troppe cose non lo convincono. A cominciare dal mancato «soccorso dei cristiani massacrati nel Califfato islamico del nord Iraq». Per proseguire con l’espressione «chi sono io per giudicare una persona» usata da Francesco per rispondere a chi lo interrogava in materia di rapporti e comportamenti omosessuali. Poi la consuetudine con Eugenio Scalfari, forse dimentico che anche Gesù si auto-invitava a casa di Zaccheo. Infine, la dichiarazione di Bergoglio di non voler «fare proselitismo», consapevole che il cristianesimo si comunica «per attrazione». Per tutto questo, Bergoglio non è Francesco. Non è Papa. Mentre lo è Benedetto XVI, che dopo le dimissioni non è tornato al precedente stato di cardinale. Il thriller apocalittico è servito.

La realtà invece è nelle parole dello stesso Ratzinger che in una lettera autografa al teologo svizzero Hans Kung ha confidato: «Io sono grato di poter essere legato da una grande identità di vedute e da un’amicizia di cuore a Papa Francesco. Io oggi vedo come mio unico e ultimo compito sostenere il suo Pontificato nella preghiera».

Publié dans Antonio Socci, Articoli di Giornali e News, Libri, Papa Francesco I | Pas de Commentaire »

L’eroismo e la fede dei padri e delle madri è la speranza del nostro paese

Posté par atempodiblog le 29 juin 2014

Sembrano così lontani il nostro Meridione e il nostro Settentrione. Invece nel profondo sud di Scampia e nel profondo nord di Brembate Sopra, ci sono padri e madri che hanno lo stesso cuore, che condividono lo stesso dolore per lo strazio di un figlio ucciso e sanno dire parole cristiane, parole di amore, dove tutto griderebbe rabbia e vendetta.
di Antonio Socci – Libero

L'eroismo e la fede dei padri e delle madri è la speranza del nostro paese dans Antonio Socci 2a93z4h
I primi passi, di Vincent Van Gogh

LUCE A SCAMPIA
Ventimila persone erano presenti ai funerali di Ciro Esposito, il giovane napoletano che il 3 maggio era andato a Roma per vedere una partita di calcio ed è stato assurdamente ammazzato senza motivo (è stato in agonia per cinquanta giorni).
La madre Antonella si è espressa così davanti a tutti:
“Noi abbiamo tanto pregato, abbiamo pregato da prima che sapessimo che Ciro era il ferito grave. Quando l’ho saputo non ho perso la pace che ho trovato con la preghiera. Questo ragazzo aveva mille motivi per bestemmiare e invece ringraziava e onorava il Signore. Ed anche io oggi ringrazio Dio per la forza che ha dato a me e alla mia famiglia. Voglio ringraziare le migliaia di persone che ci sono state vicine lì al Gemelli, dalle più umili alle più importanti. La memoria di Ciro porti gioia, pace ed amore. Grazie a tutti, mantenete alta la bandiera dello Sport e dell’Amore”.
Anche la fidanzata, Simona, ha fatto appello alla tifoseria napoletana – “Sotterrate la violenza!” – perché non ci si abbandoni a una spirale di odio e vendette per la morte di Ciro (e speriamo che queste testimonianze di pace facciano breccia nel cuore di tutti).

LUCE A BREMBATE
In circostanze e luoghi del tutto diversi – nella bergamasca – il giorno dell’arresto di Massimo Giuseppe Bossetti, per l’uccisione di Yara Gambirasio, il papà della ragazzina, Fulvio, ha detto a don Corinno, il parroco di Brembate Sopra: “prega per tutti, anche per la famiglia della persona fermata, anche per lui, c’è bisogno di preghiera”.
Pochissime parole, confidate al suo parroco, ma sconvolgenti sulle labbra di un padre che ha vissuto una tragedia così crudele.

Non hanno nemmeno bisogno di essere spiegate e commentate. Sono parole semplici e vertiginose, da rileggere e custodire nel cuore.
Ricordano quelle scritte da uno scultore trecentesco su una piccola pergamena nascosta poi dentro un crocifisso ligneo che egli aveva scolpito: “abbi pietà di tutta l’umana generazione”.
Nel primo caso, la madre di Ciro ha dovuto e voluto parlare pubblicamente per prevenire e scongiurare qualunque tipo di violenza e vendetta fosse progettata da certi ambienti nel nome del ragazzo napoletano.
Nel secondo caso, in cui non c’era da calmare bollenti tifoserie calcistiche, i genitori di Yara si sono negati totalmente ai riflettori. Ma in entrambi i casi si è manifestata la stessa pietà.
Lo stesso desiderio di sottrarre i propri figli al circo della violenza o al circo mediatico della chiacchiera e del rimestare nel fango.
Infatti ore e ore di trasmissioni televisive sono state dedicate al caso di Yara Gambirasio (di nuovo in questi giorni, per l’arresto di Bossetti e la svolta delle indagini), ma mai, nemmeno per un nanosecondo, il padre e la madre di Yara si sono concessi ai microfoni e alle telecamere.
Fiumi di inchiostro sono corsi sulle pagine dei giornali in questi anni sulla ragazzina di Brembate, scomparsa e poi ritrovata crudelmente uccisa, ma nemmeno una parola si è potuta attribuire fra virgolette alla povera e dolente famiglia della vittima.
Dei due genitori si hanno solo pochissime immagini catturate durante i loro fugaci e silenziosi passaggi nei giorni in cui entravano nella caserma dei carabinieri o in procura.
Quel papà e quella mamma, sempre gentili nei modi (mai irritati o infastiditi), hanno costantemente rifiutato con ferma decisione di rilasciare dichiarazioni.
Con un passo svelto e con un mesto sorriso di cortesia che impedisce alle telecamere di “rubare” loro perfino un’espressione del volto da cui traspaia l’immensità del dolore che hanno nel cuore e che hanno sofferto fino ad ora.
Nella società del frastuono mediatico e della spettacolarizzazione del crimine, il loro silenzio è stato rivoluzionario. Non voglio certo puntare il dito moralisticamente sui media o sui colleghi che fanno il loro lavoro.
Ma – almeno per un momento – bisognerebbe riuscire a soffermarsi su quel silenzio e sulla scelta dei genitori di Yara.
Soprattutto quando poi – per interposta persona – veniamo a conoscere parole immense come quelle che papà Fulvio ha detto al suo parroco.
Antonella, la madre di Ciro, Fulvio, il padre di Yara, con le loro famiglie, sono persone meravigliose. Altri come loro – andando a ritroso in questi anni – ci hanno commosso per lo stesso amore, la stessa pace interiore e la stessa pietà. Penso al signor Carlo Castagna o alla signora Margherita Coletta.

LUCE A ERBA E A NAPOLI
Ricordate? Il signor Castagna nel delitto di Erba, l’11 dicembre 2006, aveva perduto la figlia, la moglie e il nipotino.
Ma, pur dentro il suo immenso dolore, quest’uomo buono e profondamente cristiano, disse: “Li perdono e li affido al Signore. Bisogna perdonare in questi momenti. Bisogna finirla con l’odio”.
Commosse tutto il Paese anche la testimonianza di Margherita Coletta, vedova del brigadiere dei Carabinieri Giuseppe Coletta, ucciso il 12 novembre 2003 nella strage di Nasiriyah con altri diciotto colleghi: “Se amate quelli che vi amano che merito avete? Amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori”.
Era il giorno della strage e a ricordare a tutti queste parole di Gesù davanti alle telecamere era una giovane sposa e madre, di 33 anni, che già aveva perso un bambino per leucemia e che aveva appena appreso dell’uccisione del suo uomo in missione di pace.
La signora Margherita, davanti ai giornalisti che avevano invaso la sua casa di Napoli, quel giorno, con una figlia di due anni in braccio, pur soffrendo in modo spaventoso, volle ricordare quelle parole e indicando il Vangelo aggiunse: “La nostra vita è tutta qua dentro”.
Poco tempo dopo ha spiegato: “E’ Gesù che ha fatto sì che io potessi rispondere con l’amore all’odio. Non mi sono domandata chi avesse ucciso mio marito. Senza perdono non siamo cristiani”.
Certamente sono parole così immense che non vanno considerate per nulla ovvie o automatiche. Non c’è nulla di automatico in esse, sono un miracolo, sono un dono di grazia. Noi uomini da soli non ne saremmo capaci.
Infatti ricordando poi la morte del figlio Paolo, a sei anni, per leucemia, Margherita aggiunse:
“Dio mi ha sorretto in questi dolori; davanti a mio figlio con grossi aghi sulla schiena per la chemioterapia, davanti a mio marito che non c’è più. Le difficoltà sono tante, forse ce ne saranno anche altre, ma io mi sono aggrappata a Cristo e alla sua Croce, unica salvezza per tutti”.

Periodicamente la cronaca ci spalanca davanti agli occhi questa Italia profonda, forte e buona, piena di fede e capace di perdono e di compassione. Un’Italia commovente e veramente eroica nella vita quotidiana.
Un’Italia che normalmente sembra non esistere nelle nostre cronache. E invece è quella che resiste. E’ un immenso tesoro di sapienza e di amore. Spesso bistrattata con disprezzo certe élite intellettuali e politiche. E’ lì la speranza per tutti.

Publié dans Antonio Socci, Articoli di Giornali e News, Misericordia, Perdono, Riflessioni, Stile di vita | Pas de Commentaire »

La lettera d’amore per te, scritta col sangue

Posté par atempodiblog le 23 avril 2014

La lettera d'amore per te, scritta col sangue dans Antonio Socci qrwx2e

Il 9 aprile scorso, durante l’Udienza generale in Piazza San Pietro, una persona dalla folla ha gridato verso il Pontefice: “Papa Francesco, sei unico!”. Il Santo Padre gli ha risposto: “Anche tu, anche tu sei unico. Non ci sono due come te”.
Con quella semplice battuta ha espresso una verità immensa, che caratterizza il cristianesimo. Infatti per il mondo il singolo è solo un numero, sostituibile con tanti altri, cioè sacrificabile al potere.
Le ideologie moderne poi considerano come protagonisti della storia dei soggetti collettivi (la Razza, la Classe, la Nazione, l’Umanità) o entità astratte come il Mercato, il Capitale, il Partito e lo Stato. 

RIVOLUZIONE
Invece con l’avvenimento cristiano accade qualcosa di rivoluzionario: l’unico Dio che scende sulla terra e ha pietà di ogni singola persona, specie del miserabile, del peccatore incallito, del malato, di ciascun uomo.
Per compassione il Figlio di Dio lo abbraccia, lo risana, lo perdona, addirittura si inginocchia davanti a lui e gli lava i piedi (ovvero fa quello che facevano gli schiavi agli ospiti). Fino a morire per lui, per quel singolo essere (insignificante per il mondo).
Davvero una rivoluzione, un totale capovolgimento dell’ordine costituito da millenni, da sempre basato sui sacrifici umani, in molte forme (a partire dallo schiavismo, fondamento delle economie antiche).
Lo colse bene il più fiero avversario moderno del Nazareno, ovvero Friedrich Nietzsche che scrisse: “L’individuo fu tenuto dal cristianesimo così importante, posto in modo così assoluto, che non lo si poté più sacrificare, ma la specie sussiste solo grazie a sacrifici umani… La vera filantropia vuole il sacrificio per il bene della specie – è dura, è piena di autosuperamento, perché abbisogna del sacrificio dell’uomo. E questo pseudoumanesimo che si chiama cristianesimo, vuole giungere appunto a far sì che nessuno venga sacrificato”.
Noi neanche più ce ne rendiamo conto. Ma il cristianesimo è entrato nel mondo proclamando la fine di tutti i sacrifici umani.
In quale modo lo ha fatto? Col sacrificio del Figlio di Dio. L’editto di liberazione è scritto sulla sua stessa carne.
Lo ha spiegato il filosofo René Girard: Gesù è letteralmente “l’Agnello di Dio” (il capro espiatorio) che si offre in olocausto affinché tutti vengano liberati dalla schiavitù del male e nessun essere umano venga più sacrificato agli dèi della menzogna e della morte.
Ma – attenzione – ancora una volta Gesù non si offre a quella morte orrenda per un’astratta Umanità, bensì per ogni singolo, per me che scrivo questo articolo, per te che leggi.
La dottrina cattolica è arrivata ad affermare che, agli occhi di Dio, la salvezza di un singolo essere umano vale più dell’intero creato.
E la mistica ci ha fatto scoprire che – in un modo misterioso – in quelle ore di atroci sofferenze Gesù pensò proprio a ognuno di noi, nome per nome, ai nostri volti. Uno per uno.
Fa impressione accostare questa rivelazione dei mistici alle fasi del supplizio di Gesù.
La Sindone ci dà la perfetta immagine fisica di quelle atroci torture che il Vangelo elenca in modo scarno, quasi freddo. Vediamole. 

LETTERA DI SANGUE
Le tante tumefazioni sul volto sono i segni dei pugni sopportati (con gli sputi e gli insulti) nelle fasi concitate dell’arresto. Però il naso rotto, l’occhio gonfio e i sopraccigli feriti (evidenti sulla Sindone) sono anche la traccia della bastonata in faccia subita da Gesù durante l’interrogatorio del Sinedrio (Gv 18, 22-23).
Poi c’è quell’inedita macellazione dei 120 colpi di flagello romano (a tre punte) che gli hanno devastato tutto il corpo strappandogli la carne in più di trecento punti (un supplizio del tutto anomalo anche per i crocifissi).
Ma una delle cose più dolorose per Gesù è il peso ruvido della traversa della croce che, lungo il tragitto del Calvario, letteralmente gli scopre le ossa delle spalle provocando sofferenze indicibili.
Poi Gesù avrà la testa trafitta da circa 50 lunghe spine (la corona beffarda dei soldati romani), qualcosa che non è umanamente sopportabile.
Ma la Sindone mostra anche ferite al volto e alle ginocchia dovute alle cadute mentre andava al Calvario (avendo le braccia legate alla traversa della Croce, non poteva ripararsi la faccia).
Infine le ferite dei chiodi, per la crocifissione, e le ore trascorse a respirare dovendosi appoggiare proprio sugli arti inchiodati.
Bisognerebbe fissare una per una queste atroci sofferenze ricordando che in quel momento Gesù pensava a me e a te, sopportava tutto per me e te, al posto mio e tuo, perché non fossimo sacrificati alle crudeli divinità delle tenebre. 

SCOPERTE RECENTI
In questi giorni si è saputo che un’équipe di studiosi veneti, lavorando sulla Sindone, ha scoperto altri particolari impressionanti.
I ricercatori Matteo Bevilacqua, direttore del reparto di Fisiopatologia Respiratoria dell’Ospedale di Padova e Raffaele De Caro, direttore dell’Istituto di Anatomia Normale dell’Università di Padova, hanno lavorato insieme con Giulio Fanti, professore del Dipartimento di Ingegneria Industriale dell’Ateneo padovano che già in passato ha pubblicato studi sulla Sindone che ne accreditano l’antichità.
Dunque questi specialisti hanno provato a riprodurre ciò che fu inflitto all’uomo della Sindone: la simulazione ha comportato due anni di lavoro.
Hanno concluso che le mani del crocifisso probabilmente furono bucate dai chiodi due volte, evidentemente perché non si riusciva a fissarle ai solchi già prefissati sulla croce.
“Per i piedi invece la situazione cambia”, spiega Bevilacqua (le sue dichiarazioni sono riportate dal Mattino di Padova). “Il piede di destra aveva sia due chiodi che due inchiodature: era stato infilato un chiodo a metà piede per assicurare l’arto sulla trave, poi è stato infilato un altro chiodo lungo due centimetri per riuscire ad accavallare il calcagno del piede sinistro sulla caviglia del piede destro”.
Atrocità che si aggiungono a quelle già note, riferite dai Vangeli. Del resto la crocifissione, nel caso di Gesù, “è stata particolarmente brutale” affermano questi specialisti “perché fatta su un soggetto paralizzato che aveva perso molto sangue e che era stato abbondantemente flagellato”.
Ma perché l’uomo della Sindone era in parte “paralizzato”?
Questi specialisti spiegano che la traversa della croce, di una cinquantina di chili, in una delle cadute avrebbe provocato un grave trauma al collo, con una lesione dell’innervazione e una conseguenze paralisi del braccio destro.
Per questo i soldati romani costrinsero Simone di Cirene a portare la croce che Gesù non poteva più sostenere. I ricercatori padovani – i quali aggiungono che l’uomo della Sindone aveva pure una lussazione della spalla – spiegano anche le cause cardiache della morte.

PROVA DELLA RESURREZIONE
Tutti dati reperibili sulla Sindone che però porta anche le tracce della resurrezione. Per la connessione di questi tre dati.
Primo: i medici legali che hanno lavorato in passato su quel lenzuolo hanno appurato che esso ha sicuramente avvolto il cadavere di un uomo morto per crocifissione.
Secondo: gli scienziati americani dello Sturp che analizzò la Sindone, con strumenti assai sofisticati, conclusero che quel corpo morto non rimase dentro al lenzuolo più di 40 ore perché non vi è alcuna traccia di putrefazione.
Terzo. Costoro accertarono che i contorni della macchie di sangue provano che non vi fu alcun movimento fra il corpo e il lenzuolo. Il mancato strappo dei coaguli ematici rivela che il corpo non si spostò, né fu spostato, ma uscì dal lenzuolo come passandovi attraverso.
E con il misterioso sprigionarsi, dal corpo stesso, di una energia sconosciuta che ha fissato quell’immagine (tuttora senza spiegazione scientifica).
Arnaud-Aaron Upinsky osservò che “la Sindone porta la prova di un fatto metafisico”. In effetti è la resurrezione di Gesù. Che ha sconfitto il male e la morte per ciascuno di noi. Uno per uno. E ci regala l’immortalità.

di Antonio Socci – Libero

Publié dans Antonio Socci, Articoli di Giornali e News, Fede, morale e teologia, Quaresima, René Girard, Santa Pasqua | Pas de Commentaire »

Il teologo non vede e non tocca: Drewermann e la storicità della risurrezione (1992)

Posté par atempodiblog le 14 avril 2014

Il teologo non vede e non tocca
Drewermann e la storicità della risurrezione
Il caso Drewermann è solo la punta dell’iceberg. Così libri e giornali stanno andando all’attacco delle prove storiche della resurrezione.
di Antonio Socci - Il Sabato, 16.5.1992, n. 20, p. 50-53.
Fonte: Storia Libera

Il teologo non vede e non tocca: Drewermann e la storicità della risurrezione (1992) dans Antonio Socci 2qtfj1y

E’ il 1970. Paolo VI, dopo la grande testimonianza data alla Chiesa e al mondo con il ‘Credo del popolo di Dio’ del 30 giugno ’68, in parecchi drammatici discorsi parla dell’«ora inquieta della Chiesa», vede su di essa «nuvole, tempesta, buio», denuncia la penetrazione dentro le sue volte del «fumo di Satana». Proprio in questi mesi Paolo VI riesce a realizzare un suo grande desiderio per confermare il fondamento della fede: «Et resurrexit tertia die», un grande simposio internazionale sulla resurrezione di Gesù. Il titolo fu proprio «Resurrexit». Alla fine gli studiosi furono ricevuti dal Papa. «Ricordo che Paolo VI parlava in francese» dice il padre Ignace de la Potterie «e sottolineò i due capisaldi storici della testimonianza degli apostoli: la tomba vuota e le apparizioni di Gesù risorto. Il come e il quando della resurrezione è un mistero, ma resta il ‘fatto’ e qui Paolo VI scandì bene queste parole: “Il fatto empirico e sensibile delle apparizioni pasquali”. Ed aggiunse un monito che colpì molti di noi: “.
Era anche un grido di allarme… Poi accadde un piccolo incidente. Racconta padre De La Potterie: «Quando, nel 1974, uscirono gli Atti del simposio con l’allocuzione pontificia, pubblicati dalla Libreria editrice vaticana, quella frase -essendo stata pronunciata a braccio non c’era». Una metafora di ciò che doveva avvenire nella Chiesa. Nelle scorse settimane alcuni giornali hanno avanzato delle conclusioni: nella Chiesa si è tacitamente smesso di credere al fatto storico della resurrezione e alla prova costituita dalle apparizioni «empiriche e sensibili» di Gesù.

Nuovi Lutero?
A Pasqua il settimanale francese L’Express dedica la copertina a Eugen Drewermann. Il teologo tedesco, autore di veri best seller, che vuol trasformare Gesù Cristo in una favola/terapia psicanalitica, è al centro di un grande battage giornalistico in tutta Europa. All’Express rivela che i Vangeli non vanno presi alla lettera, il loro carattere infatti è «simbolico». La resurrezione di Gesù? «E’ la sua persona che è resuscitata, non il suo corpo». Infatti «la sua resurrezione ha avuto luogo nel corso della sua vita». In che consiste questa strana resurrezione? «Egli si è liberato da un “io” che trae i suoi strumenti dal dominio, dal potere, dal denaro, dalla pretesa di possedere la verità». Così, ridotto a simbolo, l’avvenimento di Gesù Cristo non ha più niente di «unico»: «Anche altre religioni, per esempio l’antica religione egiziana, conoscono l’idea della divinità che, in forma umana, muore e risorge». Ad un’agenzia cattolica (la vecchia Informations catholiques) dice: «Bisogna innanzitutto comprendere che la resurrezione non si applica in particolare alla persona di Cristo. Gesù stesso è cresciuto in questa credenza che ha almeno duemila anni più del cristianesimo».
Grazie alle edizioni du Cerf, dei padri domenicani, che hanno invitato il teologo tedesco a Parigi alla veglia di Pasqua, adesso i francesi potranno trovare in libreria tre delle maggiori opere di Drewermann.
Ma c’è di più. L’Express pubblica anche un sondaggio sulla fede dei cattolici francesi. Ne viene fuori che il 25% dei praticanti non crede alla resurrezione di Gesù ed il 48% non crede alla resurrezione dei morti che professa nel Credo. Per i teologi le cose vanno anche peggio. Drewermann in una precedente intervista a Der Spiegel aveva dichiarato: «Quello che dico, lo dice la maggior parte dei teologi che trattano la medesima questione. Solo che non lo fanno se non servendosi di proposizioni subordinate limitative che dovrebbero garantire da una eventuale persecuzione dall’alto».
Un’accusa sconcertante? E’ vero che gran parte dei teologi contemporanei -come Drewermann- non credono che i resoconti evangelici sulla resurrezione vadano presi alla lettera? E’ vero che non credono alla presenza «empirica e sensibile» di Gesù quando tornò fra i suoi dopo la resurrezione? Ed è vero che nei loro libri dicono con complicate perifrasi ciò che Drewermann scrive apertamente?
«Purtroppo penso di sì» risponde amaramente padre De la Potterie, «e mi sembra che la tendenza a negare la storicità dei Vangeli sia oggi molto diffusa». Sul fronte opposto sentiamo Rosino Gibellini, che ha appena pubblicato il volume La teologia del XX secolo (Queriniana): «Drewermann vuole sottolineare soprattutto il valore simbolico della resurrezione. E’ la sua idea. Ma è vero che la maggior parte dei teologi cattolici oggi afferma la ‘realtà’ della resurrezione, non la ‘storicità’». Sofismi o necessarie distinzioni, ricerca teologica o eresie travestite da astrusi giochi di parole?
Per la verità lo stesso presidente della Conferenza episcopale tedesca, il vescovo Karl Lehmann, uno dei vicepresidenti del Sinodo sull’Europa, ha usato questa distinzione in un’intervista rilasciata il 16 aprile all’agenzia Kna: «Quanto alla ‘fattualità storica’ della resurrezione di Gesù Cristo, la cosa è complessa. Comunque è un evento reale. La resurrezione di Gesù Cristo da parte di Dio Padre è, strettamente intesa, un avvenimento nella sfera di Dio, che nel suo nucleo non appartiene alla nostra storia. Ma essa si ripercuote in quanto evento nello spazio e nel tempo». Lehmann, che è stato l’assistente di Karl Rahner, parla difficile per i semplici cristiani. Non così il cardinale Camillo Ruini che, negli stessi giorni, nell’articolo di Pasqua, comparso sul Messaggero, usava la semplicità di san Pietro e san Paolo: «E’ anzitutto una questione di fatto: Gesù è o no risorto? Le testimonianze sono molte, ed alcune sono arrivate a noi in forma diretta e personale da parte dei protagonisti, come ad esempio, e incontestabilmente, quella dell’apostolo Paolo nelle sue lettere. Su questo piano dei dati di fatto nulla di altrettanto attendibile, o anche solo di paragonabile, può essere addotto per negare la resurrezione di Gesù».

Le prove
Perché la teologia è oggi così fumosa e astrusa sulla resurrezione? Ha forse ragione Drewermann? Come vengono trattati i due capisaldi storici della testimonianza degli apostoli indicati da Paolo VI: il sepolcro vuoto e le apparizioni del Risorto?
«Sì» ammette Gibellini «è vero che i racconti delle apparizioni di Gesù sono contestati. Ma è chiarissimo, è ormai assodato che le apparizioni sono racconti credenti della comunità cristiana che presuppongono la fede e non resoconti cronachistici. Perciò hanno tutto un tessuto simbolico».
La prova? «Non sono concordabili fra loro: i racconti delle tre donne, poi la Maddalena, poi Pietro, Giacomo, Gesù in Galilea o a Gerusalemme…» Ma è corretta questa liquidazione?
Erich Stier, uno storico tedesco dell’antichità, risponde così ai teologi: «Come esperto in storia antica devo dichiarare che le fonti sulla resurrezione di Gesù, con la loro notevole relativa contraddittorietà nel dettaglio, rappresentano per lo storico addirittura un criterio di straordinaria credibilità. Perché se fossero state costruite ad arte da una comunità o da un qualsiasi altro gruppo, formerebbero un blocco completo, chiaro e privo di lacune. Qualsiasi storico, infatti, è particolarmente scettico proprio quando un evento straordinario viene riferito mediante resoconti assolutamente privi di contraddizioni». Ma Gibellini, e con lui i teologi, è irremovibile: «Con il progresso degli studi biblici questi resoconti non si possono più accogliere come racconti cronachistici: presuppongono la fede». Ed è questo che si trova scritto nei testi di teologia?
Facciamo una rapida carrellata. Karl Rahner scrive: «Possiamo ammettere tranquillamente che i resoconti, che ci si presentano a prima vista come dettagli storici (historische) degli eventi della resurrezione e rispettivamente degli eventi delle apparizioni, non si lasciano totalmente armonizzare: quindi vanno interpretati piuttosto come rivestimenti plastici e drammatizzanti (di tipo secondario) dell’esperienza originaria “Gesù vive”, e non come descrizione di questa stessa nella sua autentica essenza originaria», insomma non vanno interpretati «come esperienza quasi grossolanamente sensibile». Gli apostoli vedrebbero la resurrezione soprattutto in riferimento al destino di Cristo, «questo destino (e non semplice mente una persona esistente cui in antecedenza è capitato questo e quello) viene spe rimentato come valido e salvato» (Corso fondamentale sulla fede, Edizioni Paoline, pag. 357). Rahner è un simbolo. Quando fu sottoposta ai 1007 studenti della Gregoriana -la più prestigiosa università pontificia- la domanda «quale teologo antico o moderno ha avuto o ha maggiore influenza?» quasi la metà (501) rispose: Karl Rahner (a san Tommaso andarono 203 voti, a sant’Agostino ancora meno).
«Gli antichi, non noi, potevano accettare sic et simpliciter quei racconti» ci spiega ancora Gibellini. «E’ ciò che va sotto il nome di “innocenza narrativa”. Oggi sappiamo come sono nati quei testi, dove sono nati -nella comunità- e ci guardiamo bene dal prenderli alla lettera come resoconti storici: così salviamo quel nocciolo di realtà che pur vi è dietro. Chiamiamo la nostra “seconda innocenza narrativa”».
Ma quando Paolo VI parlava di presenza «empirica e sensibile» di Gesù risorto non prendeva alla lettera quei resoconti? Lo stesso Giovanni Paolo II, in un memorabile discorso nel mercoledì, il 25 gennaio 1989, affermava: «Il Risorto “in persona” apparve in mezzo a loro e disse: “Pace a voi!” Essi infatti “credevano di vedere un fantasma”. In quella occasione Gesù stesso dovette vincere i loro dubbi e il loro timore e convincerli che “era lui”: “Toccatemi e convincetevi: un fantasma non ha carne e ossa come vedete che io ho”. E poiché loro “ancora non credevano ed erano stupefatti”, Gesù chiese loro di dargli qualcosa da mangiare e “lo mangiò davanti a loro”». Insomma «egli stabilisce con loro rapporti diretti, proprio mediante il tatto. Così nel caso di Tommaso… Li invita a constatare che il corpo risorto, col quale si presenta a loro, è lo stesso che è stato martoriato e crocifisso».
C’è dunque un insegnamento pubblico, ufficiale della Chiesa per il popolo ed un altro, una sapienza nascosta per i dotti, che disprezza la «rozza grossolanità» dei resoconti apostolici? E c’è ancora qualcuno che prende alla lettera la testimonianza oculare degli apostoli?
«Sì, la manualistica cattolica, ufficiale e scolastica, è la vecchia apologetica. Ma questa posizione che direi “massimalista” oggi non ha più nessun seguito fra i teologi» risponde Gibellini. «Vi è poi l’estremo opposto, rappresentato da Schillebeeckx, per cui la resurrezione sarebbe il prodotto dell’esperienza di commozione profonda che hanno avuto gli apostoli. E infine vi è una via media che si può identificare con Walter Kasper».

La vita media, cioé i moderati
Su questa via media conviene gran parte della teologia cattolica? «Sì, la cristologia di Kasper (Gesù il Cristo, Queriniana) ha avuto enorme circolazione, è un testo tradotto in tutte le lingue, che raggiunge una sintesi eccezionale. Direi è un’opera che fa testo, che rappresenta il modo in cui la teologia cattolica oggi riflette sulla resurrezione».
Gibellini si riconosce anche lui nella «via media». Cosa dice Kasper? Sui racconti del sepolcro vuoto, per esempio: che non sono «racconti storici», ma «testimonianze della fede». Inoltre: «Gli enunciati della tradizione neotestamentaria della resurrezione di Gesù non sono affatto neutrali: sono confessioni e testimonianze prodotte da gente che crede». «Le testimonianze sulla resurrezione parlano di un avvenimento che trascende la sfera di tutto ciò che si può storicamente constatare… ciò che è storicamente accertabile non è la resurrezione, ma soltanto la fede che i primi testimoni ebbero in essa». E Gesù che appare fisicamente ai suoi? «Questi racconti vanno dunque interpretati alla luce di quanto essi vogliono esprimere, nel loro carattere cioè di legittimazione della fede pasquale… Le apparizioni non sono eventi riducibili ad un piano puramente oggettivo. Chi ne fa esperienza non è l’osservatore distaccato e neutrale… questo loro “vedere” è stato reso possibile dalla fede».
C’è anche in Kasper un’istintiva ripugnanza al materialismo dei racconti evangelici «dove si parla di un Risorto che viene toccato con le mani e che consuma pasti coi discepoli… A prima vista potrebbero sembrare affermazioni piuttosto grossolane, che rasentano il limite delle possibilità teologiche e che corrono il pericolo di giustificare una fede pasquale troppo “rozza”». Sono accettabili solo se si va oltre la lettera, per ciò che i loro autori volevano esprimere… Anche nel Catechismo per adulti dei vescovi tedeschi, redatto appunto da Kasper, si legge: «Ogni racconto testimonia la comune fede pasquale delle comunità… Sia le narrazioni, talvolta un pò drastiche, dei pasti consumati con il Risorto, sia i racconti a riguardo della tomba vuota, intendono esprimere simbolicamente la corporeità della resurrezione di Gesù».
E’ questa la «seconda innocenza» sopravvenuta dopo venti secoli cristiani. Ma c’è chi parla di truffa intellettuale. Padre Daniel Ols, dell’Angelicum, segretario della Società San Tommaso, ci dice: «Non ha senso dire che la resurrezione non è un fatto storico. Un fatto che non sia storico non è un fatto (anche se, chiaramente, la resurrezione è un mistero che oltrepassa la storia)».
Con un pò d’ironia e un pò di amarezza conclude: «E poi non c’è niente di nuovo: i protestanti-liberali già un secolo fa sostenevano queste idee. E merce trita e ritrita. Deriva dall’errore idealista per cui il cristianesimo è una dottrina: tutto il resto è solo un rivestimento mitico che ha per scopo di far capire verità intemporali o norme di azione. L’importante sarebbe comprendere i significati. Dei fatti che ne sono veicoli possiamo anche fare a meno». Infatti per Drewermann la resurrezione è un’immagine che c’insegna a confidare «nell’amore di Dio più forte della morte». «Ma sono i fatti che sono opera di Dio!» ribatte Ols.
Lo smarrimento dei cristiani semplici è grande, perché purtroppo anche ai preti nei seminari e nei corsi di aggiornamento vengono insegnate tali teorie e quindi la predicazione domenicale ne risente. Peggio però se si tratta di cattolici impegnati, più a contatto con i dottori. Qualche tempo fa su una rivista dei padri passionisti del santuario di San Gabriele fu pubblicata una lettera firmata B.Z., da Napoli: «Sto frequentando un corso di teologia per laici» diceva il lettore. «Arrivati a studiare la resurrezione di Cristo, mi si sono confuse le idee. Il professore, un teologo abbastanza noto tra noi, ha cominciato a distinguere tra fatti storici e fatti di fede, tra dati oggettivi ed esperienza personale degli apostoli. Non ci capisco più niente e sento distrutta la mia fede… Insomma, è vero o non è vero che Gesù è risorto?».

Publié dans Antonio Socci, Fede, morale e teologia, Padre Ignace de la Potterie, Sacramento dell’Ordine, Santa Pasqua | Pas de Commentaire »

Cari amici preti, non siamo noi, ma è Dio che esagera con i regali…

Posté par atempodiblog le 24 décembre 2013

“Pregate per i vostri pastori, affinché abbiano sempre amore per voi, come l’ha avuto e l’ha mostrato mio Figlio dando la sua vita per la vostra salvezza”. (Messaggio della Madonna di Medjugorje a Mirjana del 2/11/2013)

Regali-e-doni-natalizi dans Articoli di Giornali e News

Cari amici preti, non siamo noi, ma è Dio che esagera con i regali…
di Antonio Socci – Libero
Tratto da: lo Straniero

“Per molta gente l’oppio non è tanto stupefacente quanto un sermone pomeridiano”. Così Jonathan Swift – autore dei “Viaggi di Gulliver”, ma anche pastore protestante irlandese – iniziava una sua esilarante predica “Sul dormire in chiesa”.
Ma il libro che anni fa l’ha riproposta col titolo “La predica tormento dei fedeli”, più che castigare la distratta indolenza dei cristiani, incenerisce la pochezza dei predicatori.

OVVIO DEI POPOLI
Nel giorno di Natale, quando le chiese si riempiono di persone, i celebranti danno il meglio, o peggio, di sé. Sarebbe quella una grande occasione di annuncio (come ha ricordato di recente papa Francesco nella sua esortazione “Evangelium gaudium”). Ma come viene usata?

Joseph Ratzinger, anni fa, se ne uscì con una battuta che più o meno diceva: una prova della divinità della Chiesa sta nel fatto che la fede dei popoli sopravvive a milioni di omelie domenicali.
Certo, a scorrere i diversi autori che dicono la loro, nel libretto sopra citato, si scopre che la “predica” è da tempo vissuta come anticipo delle penitenze del Purgatorio. Già don Giuseppe De Luca scriveva: “abbiamo annoiato il mondo, noi che dovevamo svegliarlo e salvarlo”.
E lo scrittore cattolico Georges Bernanos: “Un prete che scende dal pulpito della verità con la bocca a culo di gallina, un po’ riscaldato, ma contento, non ha predicato, ma ha fatto tutt’al più le fusa”.
E François Mauriac: “Non c’è nessun posto in cui i volti sono così inespressivi come in chiesa durante le prediche”.
Ricordo che Bernanos nel “Diario di un curato di campagna” scrive: “Una cristianità non si nutre di marmellata più di quanto se ne nutra un uomo. Il buon Dio non ha scritto che noi fossimo il miele della terra, ragazzo mio, ma il sale. Ora, il nostro povero mondo rassomiglia al vecchio padre Giobbe, pieno di piaghe e di ulcere, sul suo letame. Il sale, su una pelle a vivo, è una cosa che brucia. Ma le impedisce anche di marcire.”
Tuttavia, se in tanti casi prevale la noia di un disincarnato perbenismo “politically correct”, in altri c’è un eccesso di sale che rende il piatto immangiabile. E finisce per aggiungere ustioni e dolori al povero Giobbe, già assai provato di suo.

REGALI
Accade quando i fedeli vengono investiti da invettive infuocate di improvvisati Savonarola che si sentono impegnati a castigare il mondo infame.
Questo moralismo ha una versione “progressista” e una “tradizionalista”. Nel primo caso l’uditorio sarà messo sul banco degli accusati per le sue (presunte) colpe sociali, nel secondo per le sue (presunte) colpe spirituali. Comunque sono sempre ceffoni.
In genere poi sotto Natale i predicatori moralisti di entrambe le obbedienze si trovano concordi nel martellare il povero, silente uditorio per il suo ripugnante consumismo.
Tanti buoni parroci infatti si rivolgono a noi come se fossimo nababbi spendaccioni, ribaldi che vivono di lussi superflui e viziosi che trascorrono le feste in orge e gozzoviglie.
L’invettiva “contro i regali” (ignara peraltro di quanto ha scritto Benedetto XVI sulla “cultura del dono”) è così abituale che viene ripetuta pigramente anche in anni come questo, che in realtà vede tutti al verde, alle prese con le bollette e le tasse. Altro che regali.
Se questi predicatori – che peraltro non si vestono di peli di cammello e non si nutrono di locuste come il Battista – avessero un minimo di realismo capirebbero.
Del resto, se nemmeno a Natale crescono i consumi, la crisi si aggrava. Allora serve a poco tuonare dal pulpito che tutti hanno diritto a una casa e a un lavoro…
Temi utili però per continuare a recriminare anche dopo Natale. Ma perché inveire sempre verso quei poveri cristiani che vanno a messa e già devono sudare per far quadrare i bilanci familiari? Perché metterli sul banco degli accusati quando ci pensano già lo stato e il fisco a spolparli e vessarli in mille modi?
Perché strapazzarli così anche là dove pensavano di incontrare e ascoltare un Dio che aspetta a braccia aperte i suoi figli, come un Padre pieno d’amore?
Che triste e misera cosa un simile cristianesimo. Predicatori del genere – diceva Charles Péguy – sanno solo “lamentarsi e blaterare”, sono “medici ingiuriosi che se la prendono con il malato, avvocati ingiuriosi che se la prendono con il cliente; pastori ingiuriosi che se la prendono con il gregge”.
E dire che avrebbero da dare al mondo la notizia più grande ed entusiasmante. La più consolante. Ma non se ne accorgono. O se la sono dimenticata: è il regalo che Dio ha fatto agli uomini.
Lui sì che esagera con i regali. Lui sì che sciala e ci vizia, riempiendoci di beni. Infatti il Creatore non si è accontentato di darci l’esistenza, la terra, il cielo, i mari, le montagne, le stelle, i campi di grano, l’acqua, il fuoco, la luna e il sole. Ha fatto la follia di donarci il suo stesso cuore: suo figlio Gesù. Colui che paga per tutti noi.
E’ per questo regalo impareggiabile che la gente semplice anche quest’anno varcherà la soglia della Chiesa. Per vedere il Dio bambino. Il Re che si è spogliato di tutte le sue ricchezze per fare ricchi noi. Cercano “la carezza del Nazareno”. Cercano il Bel Pastore che ha promesso consolazione a tutti gli affaticati e gli oppressi.
E’ quel Gesù che, nel villaggio di Naim, pieno di compassione per la madre che aveva perso il figlio, prima di resuscitarglielo le sussurrò: “donna, non piangere!”. Per questo è venuto sulla terra, per dire a tutti: “amico, fratello, sorella, non piangere più. E non temere. Perché io sono qui con te”.

CONSOLAZIONE
Ecco come lo annunciava papa san Leone Magno:
“Il nostro Salvatore, carissimi, oggi è nato: rallegriamoci! Non c’è spazio per la tristezza nel giorno in cui nasce la vita, una vita che distrugge la paura della morte e dona la gioia delle promesse eterne. Nessuno è escluso da questa felicità: la causa della gioia è comune a tutti perché il nostro Signore, vincitore del peccato e della morte, non avendo trovato nessuno libero dalla colpa, è venuto per la liberazione di tutti. Esulti il santo, perché si avvicina al premio; gioisca il peccatore, perché gli è offerto il perdono; riprenda coraggio il pagano, perché è chiamato alla vita”.
Come ha scritto don Julian Carron, se si è verificato l’impossibile – cioè Dio che si è fatto uomo – più “nessuno può dirsi abbandonato, dimenticato o condannato… il Signore vuole farci capire che a Lui tutto è possibile”.

Il cambiamento della nostra vita, il cambiamento del mondo e qualunque altro miracolo.
Un maestro di fede come don Divo Barsotti diceva:
“Noi offendiamo Dio quando non chiediamo i miracoli! Noi non ci crediamo! Per questo non chiediamo. Parlo schiettamente. Guardate i santi: insistevano. Pensate a quello che diceva san Filippo Neri: ‘Noi dobbiamo costringere Dio a venire a compiere questo miracolo’. Aveva una forza che non si lasciava vincere dal fatto del silenzio di Dio, dal fatto che sembrava che Dio non ascoltasse la preghiera; insistevano fintanto che Dio non doveva piegarsi alla volontà dell’uomo”.
Poi don Divo spiegava:

“No, non è che Dio si pieghi alla volontà dell’uomo, ma Dio risponde alla preghiera dell’uomo. Noi manchiamo contro il Signore quando non chiediamo i miracoli. Dobbiamo chiedere a Dio e non dobbiamo vergognarci di chiedergli tanto…Facciamo poche storie: non crediamo, non crediamo. Bene, non devo turbarmi, perché anche se anche avessi ammazzato, perché se anche avessi commesso un adulterio… se veramente io fossi il peggiore dei peccatori, posso io pensare che il mio peccato sia un limite alla Onnipotenza e alla Misericordia Divina?”.
Infine don Barsotti aggiungeva:

“Perché si stanca la pazienza di Dio? Perché non gli si chiede quello che noi possiamo desiderare. Se tu chiedi meno della creazione, tu vai all’Inferno, perché non chiedi quello che Lui ti dona. Lui ti dona Se Stesso. I santi chiedevano e chiedevano, fintanto che non avevano ottenuto”.

Questa sì è una Buona Notizia. L’unica grande Notizia.

Publié dans Antonio Socci, Articoli di Giornali e News, Fede, morale e teologia, François Mauriac, Georges Bernanos, Misericordia, Riflessioni, Sacramento dell’Ordine, San Filippo Neri, Santo Natale | Pas de Commentaire »

Elogio cristiano del Natale consumistico

Posté par atempodiblog le 5 décembre 2013

E’ lecito essere felici, quando il mondo è pieno di sofferenza?

Elogio cristiano del Natale consumistico dans Antonio Socci Regali-di-Natale

“Ora, qualcuno potrebbe dire: ma sarà lecito essere tanto felici, quando il mondo è così pieno di sofferenza, quando esiste tanta oscurità e tanto male? E’ lecito essere così spavaldi e gioiosi? La risposta può essere soltanto: «sì»! Perché dicendo «no» alla gioia non rendiamo servizio ad alcuno, rendiamo il mondo solamente più oscuro. E chi non ama se stesso non può dare nulla al prossimo, non può aiutarlo, non può essere messaggero di pace. Noi questo lo sappiamo dalla fede, e lo vediamo ogni giorno: il mondo è bello e Dio è buono. E per il fatto che Egli si è fatto uomo ed è venuto in mezzo a noi, che Egli soffre e vive con noi, noi lo sappiamo definitivamente e concretamente: sì, Dio è buono ed è bene essere persona. Noi viviamo di questa gioia, e partendo da questa gioia cerchiamo anche di portare gioia agli altri, di respingere il male e di essere servitori della pace e della riconciliazione”.

Benedetto XVI

Botti di Capodanno, l'appello dei medici degli ospedali: “E' una tradizione negativa e pericolosa” dans Articoli di Giornali e News Santo-Natale

Elogio cristiano del Natale consumistico
di Antonio Socci – Libero

Regali-e-doni-natalizi dans Articoli di Giornali e News

Natale è alle porte. E ci toccherà sorbirci le solite lagnose recriminazioni moralistiche contro il “Natale consumistico”.
E’ un uggioso “refrain” in cui si sono specializzati molti ecclesiastici, ma anche tanti laici, non credenti, che – per esempio dalle pagine di Repubblica, del Corriere della sera o della Stampa – biasimano il presunto paganesimo della “corsa ai regali” (e lo fanno, ovviamente, mentre i loro stessi giornali vivono di pubblicità e i loro editori prosperano sui consumi).
Oltretutto i “consumi natalizi” sono pure un beneficio per la nostra economia che soffre di un Pil stentato, per cui è irritante vedere gli stessi che scagliano anatemi sul consumismo, strillare poi – il mese dopo – per le aziende che chiudono, per l’economia che ristagna e il deficit che cresce (come pure il debito essendo rapportati al pil).
Dunque mi appello ai parroci: per favore, quest’anno, evitateci queste geremiadi anticonsumistiche.
Perché non c’è cosa più insopportabile (e acristiana) del sentire sacerdoti alla Messa di Natale che – proprio mentre nasce Gesù, il nostro salvatore, la gioia della vita – invece di parlarci di lui, invece di invitarci a rallegrarci, invece di consolare le nostre sofferenze, si mettono a strapazzare i fedeli che si sono scambiati dei doni.
A volte si ha quasi la sgradevole sensazione che a Natale tuonino contro il consumismo perché non hanno nulla da dire su Gesù, perché non si stupiscono più del suo venire al mondo, perché non ne conoscono la meraviglia.
“Expertus potest credere quid sit Jesum diligere”.
Come si può – quando si è sperimentata l’amicizia del Salvatore e se n’è scorta la bellezza ineffabile – mettersi a tuonare contro le luminarie, i pranzi e i regali, invece di parlare di lui?
Non somigliamo a quei farisei che – davanti a ll’uomo misterioso che con un solo gesto guariva un paralitico – si mettevano a polemizzare perché lo aveva fatto di sabato?
Quasi che fosse ovvio e normale che uno potesse stendere la mano e guarire un uomo paralizzato. Si facevano a tal punto violenza da non restare stupiti neanche da un fatto del genere.
E voi sacerdoti di oggi avete da dare la notizia più grande di tutti i tempi, la più commovente, inimmaginabile, consolante, cioè che Dio si fa uomo e viene ad abitare fra noi, che viene a guarirci, a salvarci, avete la notizia che nulla sarà più triste e disperato come prima, e invece di gridarcela, di scoppiare voi stessi in lacrime di letizia e di commozione (perché davvero se non fossimo così tragicamente distratti dovremmo piangerne di gioia), invece di gridarla dai tetti, vi mettete a rompere le scatole sui regali? Quasi indispettiti dalla gioia della gente?
Questa sì che è un’empietà! Oltretutto, se proprio vogliamo essere evangelici, dobbiamo riconoscere che il primo Natale dei regali è stato precisamente quello di duemila anni fa: sono stati i pastori e i Magi a viverlo così.
E il Vangelo li esalta per questa spontanea gratuità. Del resto era un’umile risposta a un immenso dono.
Perché in realtà è Dio stesso che inaugura il “Natale dei regali”. Il “Grande Consumista” è Colui che ci ha regalato il cielo e la terra, l’universo intero, con tutto quello che contiene.
Nessuno ha dissipato e regalato così tanto i suoi beni come quel Dio che ha voluto letteralmente svenarsi per noi.
Natale non è altro che questo: la follia di Dio.
E’ la sua irraggiungibile umiltà, avendo voluto spogliarsi della sua maestà e della sua gloria per abbassarsi fino a farsi un piccolo bambino povero e potersi donare a noi senza umiliarci, ma anzi mendicando il nostro amore.
Si può immaginare una follia d’amore pari a questa?
Riflettiamoci. C’è un Re così grande, ricco e potente che possiede tutto. E dunque ti regala non solo pietre preziose e perle, ma il mondo intero con  tutte le sue meraviglie. Però non gli basta, perché noi siamo insoddisfatti e infelici, e allora vuole donarti di più.
Potrebbe regalarti la felicità (per cos’altro tutti ci agitiamo se non per la felicità?) oppure potrebbe regalarti la bellezza, o la pace del cuore o l’amore o il calore dell’amicizia e potrebbe perfino regalarti tutto questo per l’eternità, senza più la tristezza della fine e della morte.
Ma ha deciso di farti un dono ancora più grande dove tutto questo è contenuto: se stesso, il suo unico e meraviglioso Figlio che letteralmente “è” tutto questo. Infatti Gesù è la vera felicità, la pace, l’amore, la gioia, la vita e lo è per sempre.
E allora come si fa – davanti a un tale Re che ti dona se stesso e tutto il suo regno, senza che tu lo meriti neanche lontanamente – come si fa a non essere strafelici e a non essere mossi spontaneamente, anche noi, a donare?
Ci sono passi bellissimi di Benedetto XVI sul “dono” nell’enciclica “Caritas in veritate”. Egli vede nella cultura del dono addirittura una immensa risorsa sociale.
Ma allora i sacerdoti dall’altare di Natale dovrebbero dire esattamente l’opposto della geremiade contro il consumismo: dovrebbero anzi esortare a donare ancora di più, a donare non solo ad amici, figli o parenti, ma a riempire di doni e di amore anche tutti coloro che sono stati più sfortunati, coloro che vivono in povertà, coloro che soffrono, perché anche loro possano rallegrarsi nel giorno della gioia.
Il papa san Leone Magno, nella sua celebre omelia natalizia, secoli fa, annunciava e quasi gridava: “Il nostro Salvatore, carissimi, oggi è nato: rallegriamoci! Non c’è spazio per la tristezza nel giorno in cui nasce la vita, una vita che distrugge la paura della morte e dona la gioia delle promesse eterne”.
Vorremmo sentire i parroci o i vescovi che ci ripetono queste parole, che incitano a non fermarsi a pochi regali, a Natale, ma a donare più possibile. A donare perfino se stessi.

E soprattutto a fare a se stessi il regalo più bello: l’amicizia di Cristo.
Mi sembra di sentire qualche amico prete che obietta: “va bene, dici belle cose, ma come si può tacere davanti a chi pensa solo ai regali, alla settimana bianca o alla vacanza alle Maldive o sul Mar Rosso e neanche va alla messa di Natale?”.
Amico sacerdote, perché tu, come loro, pensi che la settimana bianca o le Maldive o il Mar Rosso siano in competizione con il Figlio di Dio che si fa uomo?
Chi ha fatto le maestose montagne e il loro cielo di azzurro purissimo? E chi dà consistenza ai miliardi di cristalli di neve che accecano di luce? E i fondali o i coralli del Mar Rosso? E la luna e le stelle?
“Tutto è stato creato per mezzo di Lui e in vista di Lui e tutto in Lui consiste”. E allora come privarsi di lui? Dovresti dire a coloro che si contentano di così poco (una settimana alle Maldive), a coloro che si rassegnano alla settimana bianca, che possono avere molto di più.
Perché a Natale ci si dona colui in cui c’è la bellezza degli oceani e delle montagne innevate, il refrigerio della brezza d’estate, i colori dei boschi d’autunno, la dolcezza dell’amicizia, lo struggimento dell’amore dei figli, l’ardore dell’amore delle madri e perfino il gusto dei frutti succulenti della terra, la purezza dell’acqua e il sapore del vino. In lui c’è il gusto stesso della vita, il senso dell’esistenza.
Così nella Messa ci sono tutte le montagne innevate e i mari più azzurri, tutte le bellezze dell’universo. Non a caso la liturgia coinvolge tutti i cinque sensi nell’adorazione, perché Dio si è fatto carne ed è venuto a salvare tutto l’uomo, è venuto a portargli una felicità che passa anche attraverso i sensi umani, i sentimenti umani. E’ venuto a divinizzare tutto l’uomo.
“Infatti il Figlio di Dio si è fatto uomo per farci Dio” afferma sant’Atanasio di Alessandria (De Incarnatione, 54, 3: PG 25, 192).
E chi – ditemi – chi, sapendo tuttociò, può essere così masochista da rifiutare questo stupefacente regalo: essere trasformati in dèi, essere divinizzati, partecipare alla signoria di Dio sull’universo, partecipare alla gioia di Dio?

Publié dans Antonio Socci, Articoli di Giornali e News, Riflessioni, Santo Natale | Pas de Commentaire »

La coscienza non è un’opinione

Posté par atempodiblog le 19 novembre 2013

La coscienza non è un’opinione

La coscienza non è un'opinione dans Antonio Socci wck60n

di Antonio Socci – Libero, 19 novembre 2013

Eugenio Scalfari non deve aver digerito la cancellazione dal sito del Vaticano della sua « intervista » al Papa. E nella sua interminabile omelia domenicale ha ribadito che « Francesco ha teorizzato in varie occasioni la libertà di coscienza dei cristiani come di tutti gli altri uomini e la loro libera scelta tra quello che ciascuno di loro ritiene sia il Bene e quello che ritiene sia il Male. E portando avanti il Vaticano II (Francesco) ha deciso di dialogare con la cultura moderna ». La sommarietà di queste frasi mostra che Scalfari non ha le idee chiare. Ma con l’espressione « in varie occasioni » cerca di dire che anche nella lettera scritta dal Papa il 4 settembre, in risposta a un suo articolo del 7 agosto, Francesco diceva sulla coscienza la stessa cosa che lui gli ha attribuito nell’intervista del 1° ottobre (quella cancellata dal sito vaticano). Invece si sbaglia. La domanda posta da Scalfari nel suo articolo agostano era infatti la seguente: « se una persona non ha fede né la cerca, ma commette quello che per la Chiesa è un peccato, sarà perdonato dal Dio cristiano? ». La risposta è « no », ma Scalfari ha creduto invece di sentire « sì ». Perché un tale malinteso? Per due ragioni. La prima. Scalfari equivoca sull’atteggiamento del Papa che invece di freddarlo con un secco « no », lo prende per mano e fraternamente gli mostra la verità e la via del perdono. Infatti Francesco gli risponde dicendo che « la cosa fondamentale » è « che la misericordia di Dio non ha limiti se ci si rivolge a lui con cuore sincero e contrito ». Già questo è eloquente. Poi il Papa aggiunge che « per chi non crede in Dio la questione sta nell’obbedire alla propria coscienza. Il peccato, anche per chi non ha fede, c’è quando si va contro la coscienza » che bisogna « ascoltare e obbedire ». Qui scopriamo la seconda ragione dell’equivoco. Scalfari non ha compreso la complessa e delicata dottrina cattolica sulla coscienza e la confonde con « l’opinione », ovvero ciò che uno decide che sia Bene o Male. Ma quando il Papa parla di « coscienza » intende tutt’altra cosa, ovvero « la legge scritta da Dio nell’intimo » dell’uomo, « una legge che non è lui a darsi, ma alla quale deve obbedire » (sto citando il Concilio Vaticano II che Scalfari evoca, ma senza conoscerlo). In sostanza papa Francesco con quella risposta rimandava al n. 1864 del Catechismo della Chiesa Cattolica, laddove parla del « peccato contro lo Spirito Santo », cioè l’unico che non può essere perdonato. Il Catechismo recita infatti: « La misericordia di Dio non conosce limiti, ma chi deliberatamente rifiuta di accoglierla attraverso il pentimento, respinge il perdono dei propri peccati e la salvezza offerta dallo Spirito Santo. Un tale indurimento può portare alla impenitenza finale e alla rovina eterna ». Scalfari dunque equivoca. Ma a me stupisce pure che egli possa coltivare quell’idea la quale, di per sé, spazza via anche ogni tipo di etica laica. Se infatti il Bene e il Male non sono oggettivi, ma sono definiti da ciascuno a proprio arbitrio, non si vede in base a cosa si possano condannare certe infamie o grandi criminali come Hitler e Stalin, perché costoro potrebbero sempre giustificarsi sostenendo di aver seguito la propria idea di Bene. L’equivoco di Scalfari ha tratto molti in inganno. Qualcuno, nel mondo cattolico, ha storto il naso perché il Papa ha dialogato con un potente intellettuale che ha sempre manifestato la sua avversità alla Chiesa.

Ma Francesco aveva colto due spiragli importanti nell’articolo di Scalfari. Il primo laddove scrive: « sono un non credente che è da molti anni interessato e affascinato dalla predicazione di Gesù di Nazaret ». Il secondo spiraglio sta proprio nella domanda – sopra citata – sulla possibilità di avere il perdono di Dio per « una persona che non ha fede né la cerca » e che « commette quello che per la Chiesa è un peccato ». In riferimento al primo tema Francesco ha testimoniato accoratamente il suo personale incontro con Cristo che non è solo uomo, ma si proclama e si dimostra tangibilmente Dio, dunque il Salvatore. Sulla seconda domanda il Papa ha colto un’ansia sulla sorte eterna che vive anche chi si proclama ateo. Scalfari sembra sincero in entrambi i casi. Rischia però di cadere in un autoinganno, quello di cercare risposte compiacenti con le sue opinioni. Sembra che cerchi una qualche rassicurazione, dal Vicario di Cristo, perché – in fin dei conti – se c’è poi qualcosa la prospettiva dell’inferno, cioè di un tormento senza fine e senza scampo, non è proprio simpatica. Nemmeno per chi si dice ateo. All’intellettuale ateo papa Francesco ha teso fraternamente la mano e con umiltà lo ha esortato a lasciarsi abbracciare dalla Misericordia di Dio. Perché, come ha detto Gesù a santa Faustina Kowalska (evocata dal Papa all’Angelus di domenica): « Chi non vuole passare attraverso la porta della misericordia, deve passare attraverso la porta della Mia giustizia ». E con la giustizia di Dio non si scherza. Certo, Scalfari è un navigatore di lungo corso, un uomo che si è dimostrato abilissimo a destreggiarsi in tutte le epoche. Solo che con il Padreterno la scaltrezza umana non funziona. Il Concilio Vaticano II – si badi bene, proprio il Concilio che Scalfari evoca – afferma che per salvarsi occorre entrare nella Chiesa: « questa Chiesa peregrinante è necessaria alla salvezza. Solo il Cristo, infatti, presente in mezzo a noi nel suo corpo che è la Chiesa, è il mediatore e la via della salvezza; ora egli stesso, inculcando espressamente la necessità della fede e del battesimo (cfr. Gv 3,5), ha nello stesso tempo confermato la necessità della Chiesa, nella quale gli uomini entrano per il battesimo come per una porta ». A questo punto il Concilio proclama: « Perciò non possono salvarsi quegli uomini, i quali, pur non ignorando che la Chiesa cattolica è stata fondata da Dio per mezzo di Gesù Cristo come necessaria, non vorranno entrare in essa o in essa perseverare » (Lumen Gentium n. 14). Naturalmente ciò non riguarda chi non ha potuto conoscere il Vangelo: « Infatti, quelli che senza colpa ignorano il Vangelo di Cristo e la sua Chiesa ma che tuttavia cercano sinceramente Dio e coll’aiuto della grazia si sforzano di compiere con le opere la volontà di lui, conosciuta attraverso il dettame della coscienza, possono conseguire la salvezza eterna. Né la divina Provvidenza nega gli aiuti necessari alla salvezza a coloro che non sono ancora arrivati alla chiara cognizione e riconoscimento di Dio, ma si sforzano (…) di condurre una vita retta » (Lumen Gentium, n. 16). Per chi invece ha conosciuto l’annuncio cristiano e lo rifiuta o lo tradisce il Concilio cita un passo di san Paolo che giudica e condanna i costumi del suo tempo, così simili a quelli di oggi: « l’ira di Dio si rivela dal cielo contro ogni empietà e ogni ingiustizia (…) poiché ciò che di Dio si può conoscere è loro manifesto; Dio stesso lo ha loro manifestato (…); essi sono dunque inescusabili, perché, pur conoscendo Dio, non gli hanno dato gloria né gli hanno reso grazie come a Dio, ma hanno vaneggiato nei loro ragionamenti e così non hanno capito più nulla. Mentre si dichiaravano sapienti, sono diventati stolti e hanno cambiato la gloria dell’incorruttibile Dio con l’immagine e la figura dell’uomo corruttibile, di uccelli, di quadrupedi e di rettili ».

L’Apostolo aggiunge: « Perciò Dio li ha abbandonati all’impurità secondo i desideri del loro cuore, sì da disonorare fra di loro i propri corpi, poiché essi hanno cambiato la verità di Dio con la menzogna e hanno venerato e adorato la creatura al posto del creatore ». Infine conclude: « poiché hanno disprezzato la conoscenza di Dio, Dio li ha abbandonati in balìa d’una intelligenza depravata, sicché commettono ciò che è indegno… pur conoscendo il giudizio di Dio, che cioè gli autori di tali cose meritano la morte, non solo continuano a farle, ma anche approvano chi le fa » (Rm, 1, 18-32). C’è di che tremare e meditare. Per tutti.

Publié dans Antonio Socci, Articoli di Giornali e News, Papa Francesco I | Pas de Commentaire »

Il diritto (e il dovere) del Logos. “La fede è una festa della ragione”. L’errore di quelli che attaccano il Papa e l’errore di ‘Avvenire’ nella risposta

Posté par atempodiblog le 25 octobre 2013

Il diritto al Logos
Da un cattolico la cui fede è “festa della ragione” prima che dei sentimenti. Il giornale dei vescovi ha sbagliato nella polemica con i tradizionalisti

Il diritto (e il dovere) del Logos. “La fede è una festa della ragione”. L'errore di quelli che attaccano il Papa e l'errore di 'Avvenire' nella risposta dans Alessandro Gnocchi ncwaAl direttore - Mi spiace per Gnocchi e Palmaro, ma un cattolico non può irridere il Papa o accusarlo di eresia con la leggerezza di un articoletto di giornale. Certo, la chiesa non è una caserma e – nella libertà dei figli di Dio – si può dire tutto, ma con rispetto e responsabilità. Magari anche con dolore. Si può e si deve brindare prima alla propria coscienza e poi al Papa, come insegnava il cardinale Newman. Ma trasformando la propria “Opinione” nel magistero supremo si rischia di mettersi da soli fuori dalla chiesa (non solo fuori da Radio Maria).

Quanto all’ormai famosa omelia di Francesco del 17 ottobre, contro il cristiano che trasforma la fede in ideologia, penso si tratti anzitutto di una messa in guardia da una certa mentalità lefebvriana, la quale sostituisce il Vangelo con il Denzinger (“Enchiridion symbolorum, definitionum et declarationum de rebus fidei et morum”, pubblicato nel 1854, ndr). E ritengo sia un richiamo prezioso. Perché la salvezza è una persona: Gesù Cristo. Non una formula. Ma ciò non significa affatto che il Papa insegni una fede che fa a meno dell’ortodossia. Lo dimostra il suo magistero. Dunque non si può liquidare spensieratamente il tema della dottrina come sembra fare l’editoriale di Avvenire di venerdì scorso.

In quell’articolo, Stefania Falasca, presentata come esegeta del Papa, con un’impropria citazione di De Lubac squalifica come “specialisti del Logos” coloro che si richiamano all’ortodossia dottrinale (che comprende la morale), contrapponendo a essi una generica “tenerezza”, come se Gesù Cristo, che è la misericordia fatta carne, non avesse affermato la sua pretesa divina davanti al mondo: “Io sono la verità” (Gv 14,6). Il documento di ieri sui divorziati risposati del prefetto della Dottrina della fede Müller (chiaramente voluto dal Papa) è esemplare su questo. E mette in guardia da “un falso richiamo alla misericordia”, dimostrando che la contrapposizione di “tenerezza” e dottrina, fatta da Avvenire, non corrisponde al magistero di Francesco. Né al magistero costante della chiesa e dei papi. Infatti lei, direttore, aveva giustamente risposto ad Avvenire che “uno specialista universalmente riconosciuto del Logos abita orante le emerite stanze del Vaticano” (è Joseph Ratzinger).

Il Papa del Concilio Vaticano II, Paolo VI (che è anche il papa dell’Humanae vitae) nel discorso del 19 gennaio 1972, mettendo in guardia da “errori che hanno circolato e tuttora affiorano nella cultura del nostro tempo, e che potrebbero rovinare totalmente la nostra concezione cristiana della vita e della storia”, spiegava: “Il modernismo rappresentò l’espressione caratteristica di questi errori, e sotto altri nomi è ancora d’attualità. Noi possiamo allora comprendere perché la chiesa cattolica, ieri e oggi, dia tanta importanza alla rigorosa conservazione della Rivelazione autentica, e la consideri come tesoro inviolabile, e abbia una coscienza così severa del suo fondamentale dovere di difendere e di trasmettere in termini inequivocabili la dottrina della fede; l’ortodossia è la sua prima preoccupazione; il magistero pastorale la sua funzione primaria e provvidenziale; l’insegnamento apostolico fissa infatti i canoni della sua predicazione; e la consegna dell’Apostolo Paolo: Depositum custodi (1 Tim. 6, 20; 2 Tim. 1, 14) costituisce per essa un tale impegno, che sarebbe tradimento violare. La chiesa maestra non inventa la sua dottrina; ella è teste, è custode, è interprete, è tramite; e, per quanto riguarda le verità proprie del messaggio cristiano, essa si può dire conservatrice, intransigente; e a chi la sollecita di rendere più facile, più relativa ai gusti della mutevole mentalità dei tempi la sua fede, risponde con gli Apostoli: Non possumus, non possiamo (Act. 4, 20)”. Già prima, in un discorso del 20 maggio 1970, aveva mostrato che la drammatica crisi della fede era provocata non solo da cattiva teologia, ma da cattiva filosofia, cioè da un relativismo che distrugge la razionalità: “Oggi la verità è in crisi. Alla verità oggettiva, che ci dà il possesso conoscitivo della realtà, si sostituisce quella soggettiva: l’esperienza, la coscienza, la libera opinione personale, quando non sia la critica della nostra capacità di conoscere, di pensare validamente. La verità filosofica cede all’agnosticismo, allo scetticismo, allo ‘snobismo’ del dubbio sistematico e negativo. Si studia, si cerca per demolire, per non trovare. Si preferisce il vuoto. Ce ne avverte il Vangelo: ‘Gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce’ (Io. 3, 19). E con la crisi della verità filosofica (oh! dov’è svanita la nostra sana razionalità, la nostra philosophia perennis?) la verità religiosa è crollata in molti animi, che non hanno più saputo sostenere le grandi e solari affermazioni della scienza di Dio, della teologia naturale, e tanto meno quelle della teologia della rivelazione; gli occhi si sono annebbiati, poi accecati; e si è osato scambiare la propria cecità con la morte di Dio”.

Paolo VI proseguiva: “Così la verità cristiana subisce oggi scosse e crisi paurose. Insofferenti dell’insegnamento del magistero, posto da Cristo a tutela e a logico sviluppo della sua dottrina, ch’è quella di Dio (Io. 7. 12; Luc. 10, 16; Marc. 16, 16), v’è chi cerca una fede facile vuotandola, la fede integra e vera, di quelle verità, che non sembrano accettabili dalla mentalità moderna, e scegliendo a proprio talento una qualche verità ritenuta ammissibile (selected faith); altri cerca una fede nuova, specialmente circa la chiesa, tentando di conformarla alle idee della sociologia moderna e della storia profana (ripetendo l’errore d’altri tempi, modellando la struttura canonica della chiesa secondo le istituzioni storiche vigenti); altri vorrebbero fidarsi d’una fede puramente naturalista e filantropica, d’una fede utile, anche se fondata su valori autentici della fede stessa, quelli della carità, erigendola a culto dell’uomo, e trascurandone il valore primo, l’amore e il culto di Dio; ed altri finalmente, con una certa diffidenza verso le esigenze dogmatiche della fede, col pretesto del pluralismo, che consente di studiare le inesauribili ricchezze delle verità divine e di esprimerle in diversità di linguaggio e di mentalità, vorrebbero legittimare espressioni ambigue ed incerte della fede, accontentarsi della sua ricerca per sottrarsi alla sua affermazione, domandare all’opinione dei fedeli che cosa vogliono credere, attribuendo loro un discutibile carisma di competenza e di esperienza, che mette la verità della fede a repentaglio degli arbitri più strani e più volubili. Tutto questo avviene quando non si presta l’ossequio al magistero della Chiesa, con cui il Signore ha voluto proteggere le verità della fede (Cfr. Hebr. 13, 7; 9, 17)”. Concludeva richiamando al coraggio della testimonianza: “Ma per noi che, per divina misericordia, possediamo questo scutum fidei, lo scudo della fede (Eph. 6, 16), cioè una verità difesa, sicura e capace di sostenere l’urto delle opinioni impetuose del mondo moderno (Cfr. Eph. 4, 14), una seconda questione si pone, quella del coraggio: dobbiamo avere, dicevamo, il coraggio della verità. (…) E aggiungeremo che questo coraggio della verità è domandato principalmente a chi della verità è maestro e vindice, esso riguarda anche tutti i cristiani, battezzati e cresimati; e non è un esercizio sportivo e piacevole, ma è una professione di fedeltà doverosa a Cristo e alla sua chiesa, ed è oggi servizio grande al mondo moderno, che forse, più che noi non supponiamo, attende da ciascuno di noi questa benefica e tonificante testimonianza”.

C’è un’ultima illuminante pagina di Paolo VI, dove faceva un amaro bilancio del Concilio, conclusosi da cinque anni, constatando che le attese erano state deluse. Scrisse: “Ecco che molti fedeli sono turbati nella loro fede da un cumulo di ambiguità, d’incertezze e di dubbi che la toccano in quel che essa ha di essenziale. Tali sono i dogmi trinitario e cristologico, il mistero dell’Eucaristia e della presenza reale, la Chiesa come istituzione di salvezza, il ministero sacerdotale in mezzo al popolo di Dio, il valore della preghiera e dei sacramenti, le esigenze morali riguardanti, ad esempio, l’indissolubilità del matrimonio o il rispetto della vita umana. Anzi, si arriva a tal punto da mettere in discussione anche l’autorità divina della Scrittura, in nome di una radicale demitizzazione. Mentre il silenzio avvolge a poco a poco alcuni misteri fondamentali del cristianesimo, vediamo delinearsi una tendenza a ricostruire, partendo dai dati psicologici e sociologici, un cristianesimo avulso dalla Tradizione ininterrotta che lo ricollega alla fede degli Apostoli, e ad esaltare una vita cristiana priva di elementi religiosi”.

Condividendo questo giudizio storico di Paolo VI, due uomini del Concilio come Wojtyla e Ratzinger hanno improntato i loro pontificati al ritrovamento del vero Concilio, sulla linea della ininterrotta tradizione della Chiesa. E la rinascita cristiana che è iniziata dagli anni Settanta mostra che la fedeltà all’ortodossia è tutt’altro che chiusura. Chi ci è stato maestro nella fede – penso a don Giussani – non è stato un “paladino del picchetto” (per usare una formula della Falasca). Ma l’esatto contrario. Proprio perché radicato nell’ortodossia cattolica ha potuto insegnarci un’apertura totale a ciò che è umano, permettendo a migliaia di giovani post ’68 di scoprire e amare Cristo. Con una fede piena di ragioni che sa parlare al nostro tempo. Non a caso don Giussani è stato amico di altri maestri del Logos come Ratzinger, De Lubac e Balthasar, ai cui scritti ci siamo poi abbeverati.

C’è un piccolo episodio rivelatore nella monumentale biografia del Gius, appena pubblicata da Alberto Savorana. Giussani un giorno raccontò che aveva in una sua classe del liceo il figlio dello scultore Pio Manzù. Il giovanotto tornava a casa con pagine e pagine di appunti delle vertiginose lezioni del Gius, che faceva battere i loro cuori con le grandi domande dell’umano, da Pavese a Leopardi a Beethoven, che parlava di Gesù (l’unico ad aver detto: Io sono la risposta) a quei ragazzi alla ricerca del senso delle cose. Il suddetto figlio di Manzù era però amico di un altro prete il quale vedendo quegli appunti prese ad aizzarlo contro il Gius dicendogli: “Vedi quanto complica (questo Giussani)… invece la religione è semplice”. Egli sosteneva che “le ragioni complicano”. E “quanti direbbero così!”, commentava il Gius, che poi aggiungeva con forza: “Invece no, la ricerca delle ragioni non complica, ma illumina!”. Quel prete antagonista del Gius, che già allora ce l’aveva con i maestri del Logos, degradava il cristianesimo a banale sentimentalismo, incapace di rispondere alla sete di verità degli uomini. Giussani commentava: “E’ per quella impostazione che Cristo non è più autorità, ma un oggetto sentimentale e Dio è uno spauracchio e non un amico”. E per questo “la fede diventa arida e difficile, perché diventa un peso e un condizionamento invece che una strada su cui correre”. E qui Giussani se ne uscì con un’immagine bellissima: “La fede è una festa della ragione”. Ovvero, una festa del Logos. In perfetta consonanza con Paolo VI, Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e tutto il magistero. Compreso Francesco.

Bergoglio del resto ha scoperto don Giussani negli anni Novanta e ha dichiarato di averlo sentito subito come una ventata di aria fresca. Perché quella tracciata da Giussani, come ebbe a dire Papa Wojtyla, è la strada.
Anche la storia della cristianità dimostra che sa aprirsi e sa andare verso le periferie esistenziali chi è davvero radicato nella fede ortodossa della chiesa. Per esempio uno come san Vincenzo de’ Paoli, il grande padre dei più poveri e delle “periferie”, diceva: “Ho temuto tutta la vita di veder nascere qualche eresia. Consideravo la devastazione che aveva fatto quella di Lutero e Calvino e quante persone di ogni condizione ne avevano succhiato il pernicioso veleno, volendo gustare le false dolcezze della loro pretesa riforma. Ho avuto sempre timore di vedermi circuito dagli errori di qualche nuova dottrina, prima di accorgermene. Sì, l’ho temuto per tutta la vita”. Oggi però c’è chi ha in mente un “nuovo cristianesimo” che – dopo duemila anni – accantona il Logos, il dogma e la dottrina.

Secondo il professore Pietro L. Di Giorni – redattore di Testimonianze – si tratta di “un fenomeno che coinvolge ormai anche il cattolicesimo, specie in America latina, ove si manifestano e prendono sempre più forza movimenti carismatici, comunitari, de-istituzionalizzati, con forme di culto mistico-emozionali, che non sopportano dogmi, apparati, liturgie ordinate, nel nome di un esplicito rifiuto di un cristianesimo europeo-occidentale eccessivamente snervato dal razionalismo post illuministico, e che sembrano ripetere, in modo quasi concorrenziale, il pentecostalismo carismatico americano che si avvia a divenire nuova religione globale proprio perché culturalmente sempre più neutra”.

Ecco. Con la polemica di Avvenire contro il Logos si rischia di sprofondare in queste paludi. Sarebbe l’ultimo atto di quella che Paolo VI chiamava “autodemolizione dall’interno” della chiesa. E della fede cristiana. Perché – come ha spiegato Ratzinger a Ratisbona – Dio “agisce mediante il Logos, che è insieme ragione e parola, una ragione che è creatrice e capace di comunicarsi, appunto, come ragione”. Quindi anche come dottrina della fede. Sconcerta che Avvenire pretenda di arruolare per quell’impresa anti Logos una grande mente cattolica come il padre Henri De Lubac, il quale, con Ratzinger, Giussani, Wojtyla, Balthasar, Guardini, dalla fede ha saputo trarre ricchezza di ragioni e cultura.

De Lubac, con la formula “specialisti del Logos” citata dalla Falasca, non fulminava affatto i cattolici su cui si scaglia l’editoriale di Avvenire, ma – al contrario – proprio certi intellettuali laici – nuovi gnostici – simili a quelli che oggi piacciono tanto nelle sacrestie progressiste del Cortile dei gentili. Ecco la citazione che si trova in “Meditazioni sulla chiesa” del gesuita francese (e ditemi voi se questo ritratto non ricorda i Cacciari, gli Scalfari e i Mancuso):  “Da quando esiste, la chiesa si è sempre attirata il disprezzo di una élite. Filosofi o spirituali, molti spiriti superiori, preoccupati d’una vita profonda, le rifiutano la loro adesione. Alcuni le sono apertamente ostili. Come Celso essi sono disgustati da ‘questa accozzaglia di gente semplice’. […] Molti altri, invece, tra questi saggi, sono convinti di rendere giustizia alla chiesa e protestano quando si sentono definire suoi avversari. Sarebbero disposti a proteggerla all’occorrenza! […] Ma conservano le distanze. Non sanno che farsene di una fede che li accomunerebbe a tutti i miserabili, di fronte ai quali si sentono senz’altro superiori per la loro cultura estetica per la loro capacità di ragionamento, o per la loro preoccupazione d’interiorità. Sono ‘aristocratici’ che non intendono affatto mescolarsi con il gregge. La chiesa, secondo loro, conduce gli uomini per vie troppo comuni. (…) La trattano con molta degnazione, si attribuiscono il potere di enucleare, senza il suo consenso, mediante una ‘trasposizione metafisica’, il senso profondo delle sue dottrine e dei suoi atti sacri”.

E ancora: “Al di sopra della sua fede essi mettono la loro intuizione… Si potrebbero chiamare degli ‘specialisti del Logos’, che però non hanno letto in san Paolo che il Logos ‘respinge ogni altezza che si levi contro la conoscenza di Dio’. Sono dei saggi, ma chi è che non vede realizzarsi dopo venti secoli la profezia: ‘Perderò la sapienza dei sapienti’? Sono dei ricchi che hanno ancora da sentire la voce della prima Beatitudine”. Qualcuno di loro – conclude De Lubac – si trasforma “in capo-scuola o capo-setta”. Pure in fondatore e direttore di giornali-partito.

Da padre De Lubac s’impara dunque a non fare concessioni a questi salotti gnostici. Che poi sono l’opposto delle “periferie” verso cui vuole portarci Papa Francesco con un grande slancio missionario. Un appello il suo da accogliere con tutto il cuore. Del resto il Papa è un figlio spirituale di sant’Ignazio e nessuno come Ignazio è stato un maestro del Logos e dell’ortodossia, paladino della retta dottrina, lui che arrivava a scrivere a san Pietro Canisio, il 13 agosto 1554: “Non si dovrebbe tollerare nessun curato, nessun confessore sospetto di eresia: e se li si riconosce colpevoli dovrebbero esser privati immediatamente di tutte le rendite ecclesiastiche. E’ meglio per un gregge essere senza pastore che avere per pastore un lupo”.

di Antonio Socci – Il Foglio

Publié dans Alessandro Gnocchi, Antonio Socci, Articoli di Giornali e News, Don Luigi Giussani, Mario Palmaro, Papa Francesco I, Riflessioni | Pas de Commentaire »

Che bello seguire Francesco! Quello che ci insegna (anche sui valori): i cristiani leggono i segni dei tempi. Una storia che inizia.

Posté par atempodiblog le 24 septembre 2013

Che bello seguire Francesco! Quello che ci insegna (anche sui valori): i cristiani leggono i segni dei tempi. Una storia che inizia.
di Antonio Socci- Libero

Che bello seguire Francesco! Quello che ci insegna (anche sui valori): i cristiani leggono i segni dei tempi. Una storia che inizia. dans Antonio Socci 00yj

C’è lo stupore e la compassione nella splendida intervista di papa Francesco. Lo stupore di chi si è sentito perdonato e amato dal Salvatore, come il pubblicano Matteo, l’evangelista della celebre tela di Caravaggio. Che il papa evoca.
E c’è la compassione per questa umanità di feriti. Il desiderio di portare a tutti quello sguardo di misericordia che lui ha incontrato nel volto di Gesù e quindi nella Chiesa.

COSA SIAMO
In effetti siamo un mondo di feriti. Le cronache parlano di guerre sanguinose, di repressioni crudeli, di una crisi economica che imperversa e porta all’angoscia, di società piene di odio. Parlano di violenza perfino in quei rapporti affettivi personali che dovrebbero essere segnati dall’amore.

Siamo tutti creature ferite dalla vita. Non lo si può negare.
Il recente Festival della filosofia di Modena, dedicato appunto all’amore, è stato concluso dalla lezione magistrale della sociologa israeliana Eva Illouz, nota per il suo best-seller, “Perché l’amore fa soffrire”.
La Illouz, sebbene femminista e liberal, ha fotografato – a cinquant’anni dalla rivoluzione sessuale che doveva renderci tutti liberi e felici – un panorama di rovine.
Ha spiegato che l’amore “ormai è divenuto un problema, preso in carico dalle comunità terapeutiche”. Ha aggiunto: “l’amore ha sempre fatto soffrire, ma oggi lo fa molto più di prima”. E lo sappiamo tutti.
E’ l’ennesima eterogenesi dei fini. Come il marxismo, anche la rivoluzione sessuale promise la felicità e ha prodotto l’infelicità (così pure potremmo dire per il mito scientista o quello del benessere).

L’OSPEDALE DI DIO
Dunque la nostra società è piena di feriti. Ecco perché papa Francesco vede la Chiesa “come un ospedale da campo dopo la battaglia”. Essa si sente chiamata a “curare le ferite e riscaldare il cuore dei fedeli”.

Siamo tutti feriti senza distinzione di credo o di filosofia o di fede politica. La battaglia che ci ha messo a terra e di cui parla il Papa è quella della vita, ma anche quella che la modernità aveva intrapreso per emanciparsi da Dio.
E’ evidente che la Chiesa ha perso quella battaglia (umanamente e storicamente parlando).
Ma i “morti e i feriti” distesi sul terreno sono i vincitori, cioè tutti noi moderni. La Chiesa non combatteva per sé, ma per noi. Noi moderni abbiamo prevalso e ora siamo al tappeto.
Perciò essa, come una madre premurosa, che aveva messo in guardia i suoi figli, si china su di loro, pietosa e se li carica sulle spalle.
Papa Francesco fa come il padre del figliol prodigo. Che non rinfaccia al figlio i suoi errori, che non inveisce e non punisce.
Anzi, “quando era ancora lontano, il padre lo vide e commosso gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò”, poi – interrompendo il mea culpa del figlio – “disse ai servi: presto, portate qui il vestito più bello e rivestitelo, mettetegli l’anello al dito e i calzari ai piedi… facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato” (Lc 15, 20-24).

IL FRATELLO INDIGNATO
Diciamo la verità, l’atteggiamento del figlio maggiore che, tornando dai campi, vede tutti questi festeggiamenti e s’indigna col padre, somiglia un po’ a quello di alcuni di noi cattolici verso papa Francesco.
C’è chi pretenderebbe che si stesse ogni giorno a condannare, a recriminare e a far proclami. Mentre il padre vuole anzitutto riabbracciare l’errante e riaverlo come figlio.
Questo non significa affatto approvare gli errori o sottovalutarli. No, significa amare i figli.
Del resto è ciò che la Chiesa ha fatto fin dalle origini. La “bella notizia” (perché questo significa la parola “Vangelo”) non è l’elenco dei peccati, nemmeno un catalogo di valori morali, ma è l’annuncio che Dio ha avuto pietà degli uomini ed è venuto a prenderseli sulle spalle, a curarli, a guarirli, a salvarli.
Gesù entrò nel mondo così: “Non incriminò, non accusò nessuno. Salvò. Non incriminò il mondo. Salvò il mondo. Questi altri” scriveva Péguy “vituperano, raziocinano, incriminano. Medici ingiuriosi che se la prendono con il malato”.
Il grande convertito francese usava la stessa metafora di papa Francesco: siamo una umanità malata, un mondo di feriti. E il medico non può prendersela col malato. Il suo compito è curarlo e guarirlo.
Si dirà che oggi però c’è la secolarizzazione dilagante. Ma già Péguy rispondeva a questa obiezione: “anche al tempo di Gesù c’erano il secolo e le sabbie del secolo. Ma sulla sabbia arida, sulla sabbia del secolo scorreva una fonte, una fonte inesauribile di grazia”.
Pure Gesù fu accusato di essere indulgente e perfino connivente con peccatori, pubblicani e prostitute. Ma era venuto per loro (cioè per tutti noi). E proprio la sua misericordia, la bellezza della sua umanità, commuoveva i peccatori che si convertivano e cambiavano vita.

LA GUERRA DEI VALORI
Chi oggi lamenta la fine della battaglia per i valori non negoziabili non ha compreso. A parte il fatto che tali valori non sono l’essenza del cristianesimo e considerarli tali sarebbe una nuova, pericolosa ideologia.

Chiarito ciò è sbagliato pensare che Francesco rinneghi quanto hanno insegnato i suoi due predecessori. Perché ha sempre ribadito quell’insegnamento (anche ieri lo ha fatto su inizio e fine vita).
Certo, non sta a ripeterlo ogni giorno. Ma non perché quei principi, ai suoi occhi, non siano importanti.
Solo perché a Francesco preme anzitutto sottolineare il primo, vero, grande e basilare “principio non negoziabile” (la base di tutti gli altri): l’essere umano concreto, quello in carne e ossa, con le sue ferite, anche con i suoi peccati. La sua salvezza.
Agli occhi di Dio le persone concrete sono il fondamentale “principio non negoziabile”, tanto che per ognuno di loro si è fatto uomo, si è fatto crocifiggere ed è risorto.
Ecco perché nell’esortazione missionaria di Francesco a “curare” le ferite dell’umanità, rientra pienamente fare centri di aiuto alla vita, accogliere le persone travolte dal crollo di legami affettivi, sostenere chi vive malattie terminali o ha persone care in condizioni estreme, aiutare poveri e infelici. Si apre una grande stagione di carità per i cristiani.

COSA CAMBIA
Certo, cambia qualcosa: lo sguardo su questo momento storico. Più che battaglie culturali con intellettuali e politici, ci si prenderà cura degli esseri umani.
Non perché sia sbagliato o inutile dire la verità e cercare il bene pubblico: è doveroso (lo stesso Francesco ha dialogato con Scalfari).
Ma perché – come diceva don Giussani – a vincere la cultura nichilista non sarà una contrapposta cultura cattolica, ma la commozione personale per Gesù, la sua carità: “La Chiesa è proprio un luogo commovente di umanità, è il luogo della umanità… La lotta col nichilismo, contro il nichilismo, è questa commozione vissuta” (Giussani).
Del resto è sempre stato così. Il mondo è sempre stato una distesa di feriti. Perché tale è la condizione umana. Nasciamo come naufraghi che cercano il senso della vita, avvolti dal mistero dell’universo, desideriamo amare ed essere amati, subiamo il male e lo facciamo, bramiamo ogni giorno la felicità e non la troviamo.
Così ci vedeva Gesù. Così ci rappresentò nella parabola del Buon Samaritano: noi siamo quell’uomo “spogliato, percosso” e lasciato “mezzo morto” sul ciglio della strada. Mentre lui è il buon samaritano che “ne ebbe compassione, gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi, caricatolo sopra il suo giumento, lo portò a una locanda e si prese cura di lui”.
Quella “locanda” è la Chiesa. E come Gesù cura le nostre ferite? Ce lo dice il profeta Isaia: “per le Sue piaghe noi siamo stati guariti”. Ci guarisce soffrendo al posto nostro. Ci riscatta dando se stesso.
I santi ce lo ricordano. Pensiamo a padre Pio, alle sue stigmate, alle sofferenze con cui otteneva tante grazie. Il suo confessionale è stato un grande ospedale da campo delle anime. E accanto ha voluto far costruire un grande ospedale dei corpi: “la casa sollievo della sofferenza”. Per capire papa Francesco guardate i santi come padre Pio.

Una città... da favola: Bergamo, gioiello dell'Alta Italia dans Viaggi & Vacanze sb0nxu

Inoltre 2e2mot5 dans Diego Manetti
La fatica della decisione

Publié dans Antonio Socci, Fede, morale e teologia, Misericordia, Papa Francesco I, Perdono, Riflessioni, Stile di vita | Pas de Commentaire »

I cosiddetti “progressisti” vogliono abolire “padre” e “madre”. Tre passi nel ridicolo (e verso il baratro)

Posté par atempodiblog le 20 septembre 2013

Socci: “Cancellare padre e madre è abolire la legge per natura”
In Italia dilaga la trovata di usare “genitore 1” e “genitore 2”. Ma si tratta di una insensata negazione della realtà (che crea discriminazioni)
I cosiddetti “progressisti” vogliono abolire “padre” e “madre”. Tre passi nel ridicolo (e verso il baratro)
di Antonio Socci – Libero Quotidiano.it

I cosiddetti “progressisti” vogliono abolire “padre” e “madre”. Tre passi nel ridicolo (e verso il baratro) dans Antonio Socci id5a

Quasi cent’anni fa il grande Gilbert K. Chesterton prevedeva che la deriva della moderna mentalità nichilista sarebbe stata – di lì a poco – il ridicolo. Cioè la guerra contro la realtà.
Intendeva dire che ciò che fino ad allora era stata un’affermazione di buon senso e di razionalità – per esempio che tutti nasciamo da un uomo e da una donna – in futuro sarebbe diventata una tesi da bigotti, un dogmatismo da condannare e sanzionare. Sosteneva che ci dovevamo preparare alla grande battaglia in difesa del buon senso.
Chesterton infatti scriveva:

“La grande marcia della distruzione culturale proseguirà. Tutto verrà negato. Tutto diventerà un credo… Accenderemo fuochi per testimoniare che due più due fa quattro. Sguaineremo spade per dimostrare che le foglie sono verdi in estate. Non ci resterà quindi che difendere non solo le incredibili virtù e saggezze della vita umana, ma qualcosa di ancora più incredibile: questo immenso, impossibile universo che ci guarda dritto negli occhi. Combatteremo per i prodigi visibili come se fossero invisibili. Guarderemo l’erba e i cieli impossibili con uno strano coraggio. Saremo tra coloro che hanno visto eppure hanno creduto”.

SPREZZO DEL RIDICOLO
Viene da ricordarlo con una certa tristezza in questi giorni nei quali – seguendo la bislacca trovata del governo francese – anche in Italia sta cominciando a dilagare l’idea di sostituire, nella modulistica della burocrazia scolastica, le categorie “padre” e “madre” con la formula “genitore 1” e “genitore 2”.
Tutto questo perché – secondo l’ideologia “politically correct” – si deve “desessualizzare la genitorialità”. Cioè perché la dizione “padre” e “madre” potrebbe essere sentita come discriminatoria da qualcuno.
Resistendo allo sconcerto e al ridere vorrei provare a ragionare pacatamente con chi si fa alfiere di questo tipo di trovate. Anzitutto va sottolineato che “i fatti hanno la testa dura” e – con buona pace di certi opinionisti – tutti sulla terra siamo stati generati da un uomo e da una donna. In qualunque modo sia avvenuto il concepimento.
Quindi la realtà contraddice le opinioni e soprattutto mostra che nessuno può sentirsi “discriminato” da quella formulazione perché tutti, proprio tutti, siamo stati generati da un padre e da una madre e dunque siamo loro figli.
Ma oggi purtroppo la mentalità dominante afferma che se i fatti contraddicono le opinioni, tanto peggio per i fatti. Così, non potendo “abolire” la natura per legge, si decide di abolire le parole che “dicono” la natura delle cose (domani si potrà decretare per legge che due più due fa sette e che si deve chiamare notte il giorno e giorno la notte).

DISCRIMINAZIONE PEGGIORE
Torniamo al genitore 1 e al genitore 2. Il fatto è che con questa formula i “politicamente corretti” finiscono pure per creare discriminazioni peggiori.
Anzitutto discriminano la stragrande maggioranza delle persone che continuano a sentirsi padri e madri – e non genitore 1 e genitore 2 – e continuano farsi chiamare dai figli “papà” e “mamma” (finché non verrà proibito).
In secondo luogo con la nuova formulazione si discrimina il “genitore 2” che inevitabilmente diventerà secondario.
Infatti per ovviare a questo problema al Comune di Bologna pare abbiano pensato di adottare un’altra dizione: “genitore” e “altro genitore”.
Vorrei sommessamente notare che è egualmente discriminatoria verso uno dei genitori. E che entrambe poi sono formule fortemente sessiste, perché sia la “soluzione” veneziana che quella bolognese, usano il termine genitore al maschile, mentre la madre – se vogliamo usare un linguaggio non discriminatorio – è casomai “genitrice”.
Ma, a quanto pare, in questo caso la discriminazione contro le donne viene ignorata e tenuta in non cale. Alla fine della fiera è evidente che i soli termini che non discriminano nessuno sarebbero “padre” e “madre”.
Ma ormai l’ideologia dominante ha dichiarato guerra a padri e madri, alla famiglia naturale, alla realtà. E quindi dovremo subire la loro progressiva cancellazione linguistica.
Non solo. L’epurazione del linguaggio andrà avanti (per esempio la parola “matrimonio”, che rimanda evidentemente alla mater, quindi alla generazione) e si dovrà estendere alla letteratura.

DESESSUALIZZARE TUTTO
Si dovrà censurare quasi tutto, dall’Odissea, dove Telemaco ha la sfrontatezza di aspettare il padre anziché il genitore 1, all’Amleto dove il protagonista vive anch’esso il dramma della morte del padre.
Dalla Bibbia, dove la paternità di Abramo dà inizio all’Alleanza e dove Gesù insegna a pregare col “Padre nostro”, indicando in Maria la Madre, fino alla psicoanalisi.
Anche la psicoanalisi dovrà cadere sotto i colpi del politically correct.
Sigmund Freud nella “Prefazione alla seconda edizione” di “L’interpretazione dei sogni” scrive testualmente: “Questo libro ha infatti per me anche un altro significato soggettivo, che mi è riuscito chiaro solo dopo averlo portato a termine. Esso mi è apparso come un brano della mia autobiografia, come la mia reazione alla morte di mio padre, dunque all’avvenimento più importante, alla perdita più straziante nella vita di un uomo”.
Come ha notato Hermann Lang “se Freud è da considerare il padre della psicanalisi” da questa citazione “risulterebbe che questa psicanalisi la deve essenzialmente alla relazione con il padre”.
La psicoanalisi infatti ci spiega che il “padre” e la “madre” non sono soltanto l’ineludibile realtà umana da cui tutti siamo nati e nasciamo, coloro che hanno generato il nostro corpo biologico: essa ci svela che le loro diverse figure permeano pure la nostra psiche, fondano, in modo complementare, la nostra identità profonda e la nostra relazione con tutte le cose. Abolire il padre e la madre dunque rischia di portare all’abolizione (psicologica) dei figli.
Ricordo solo un pensiero di Freud: “Non saprei indicare un bisogno infantile di intensità pari al bisogno che i bambini hanno di essere protetti dal padre” (da “Il disagio della civiltà”, in Opere, X, Boringhieri, Torino 1978, p. 565).
Qua, come pure dove parla della madre, come si può “correggere” Freud? Non si può sostituire padre e madre con genitore 1 o genitore 2. Perché non sono intercambiabili. Padre e madre sono complementari. E ineliminabili.
Ma tutto questo sembra non importare a questo o quell’assessore o politico o ministro o opinionista. Pare che nemmeno ci si accorga dell’enormità e della delicatezza di ciò che si va a spazzar via. Cosa volete che sia la cancellazione di una civiltà millenaria e della stessa natura umana. Basta una delibera del sindaco.

Publié dans Antonio Socci, Articoli di Giornali e News, Gilbert Keith Chesterton, Riflessioni | Pas de Commentaire »

Il mondo digiuna col Papa l’unico “politico” credibile

Posté par atempodiblog le 7 septembre 2013

Il mondo digiuna col Papa l’unico “politico” credibile
L’inerme Francesco illumina il mondo con un annuncio: la forza della preghiera e del digiuno può vincere gli eserciti e i massacratori
di Antonio Socci – Libero

Il mondo digiuna col Papa l’unico “politico” credibile dans Antonio Socci 7fj7

Progressisti e tradizionalisti, nella Chiesa, si trovano puntualmente d’accordo. Ed entrambi sbagliano, fuorviati dal pregiudizio e dall’ideologia. Anche sul pontificato di Francesco avevano affermato, da sponde opposte, che Bergoglio stava annichilendo il papato.
Era bastato loro la sua frase di presentazione come “vescovo di Roma” per emettere questo drastico verdetto. Gli uni (i conservatori) con toni apocalittici, gli altri (i progressisti) con trionfalismo.
Per la verità aveva provveduto lo stesso Francesco, nella conferenza stampa improvvisata sull’aereo di ritorno dal Brasile, a spiegare che essersi presentato come “vescovo di Roma” voleva dire semplicemente ricordare il primo dei titoli del Papa, quello da cui deriva il primato petrino. Ma non poteva essere letto come una soppressione del suo ruolo nella Chiesa universale. Chi aveva fantasiosamente immaginato tutto questo era fuori strada.

QUELLO CHE STA ACCADENDO
E quello che sta accadendo sotto i nostri occhi in questi giorni – con buona pace di tradizionalisti e progressisti – esalta la figura e la missione del Vicario di Cristo come non si ricordava da tempo.
Papa Francesco infatti è visto come una grande luce non solo dalla Chiesa, ma dal mondo. E parla non solo a nome della Chiesa tutta, ma addirittura dell’intera umanità.
Lo si è visto nell’ormai celebre Angelus di domenica scorsa, quello in cui ha “lanciato” l’iniziativa del digiuno e della preghiera di oggi: “vorrei farmi interprete del grido che sale da ogni parte della terra, da ogni popolo, dal cuore di ognuno, dall’unica grande famiglia che è l’umanità, con angoscia crescente: è il grido della pace!”.
E’ stupefacente non solo il vigore con cui Francesco ha preso in pugno il timone della barca di Pietro e la sta rinnovando, con la piena autorità del Vicario di Cristo, ma anche la centralità morale che il Papa ha assunto sulla scena mondiale a difesa della pace e delle popolazioni inermi e massacrate.
Al G20 di San Pietroburgo, apertosi giovedì, è risuonata come voce al di sopra di tutti proprio la lettera di Francesco ai grandi della terra, lettera dove si evidenzia, con realismo e razionalità, che non c’è alcuna soluzione militare perché sarebbe solo un’inutile strage. L’unica via è la trattativa, il dialogo, la ricerca di un giusto compromesso, cioè il ritorno vero della politica.

LA POVERTA’ DI GESU’
Certo, c’è qualcosa del papato, come si è conosciuto negli ultimi secoli, di cui Francesco si sta disfacendo. Lo ha spiegato lui stesso quando ha scelto di non andare a vivere nell’appartamento pontificio: non vuole più che il papa sia o sembri un sovrano rinascimentale.
Il papa deve essere visibilmente l’evangelico e povero successore del pescatore di Cafarnao, la cui autorità deriva esclusivamente dall’investitura di Gesù Cristo e dal Vangelo. E non da commistioni con i poteri di questo mondo, da fronzoli e paramenti sacrali, da cerimonie e corti terrene.
Lo ha fatto capire con molti altri gesti. Per esempio quando – in diverse occasioni – alla folla che lo acclamava “Francesco! Francesco!”, ha chiesto di gridare piuttosto un altro nome: “Gesù Gesù!”. Sono piccoli segni di una pedagogia molto importante.
E’ nella linea del rinnovamento che era stato deciso dal Concilio Vaticano II: un ritorno all’essenzialità evangelica su cui già si erano incamminati Paolo VI, papa Luciani, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI.
Francesco realizza ancora più clamorosamente e visibilmente questa scelta, questo rifiuto di ogni mondanità, questo ritorno della Chiesa al semplice Vangelo, questo scelta del pastore di stare fra le pecore e non nei palazzi del potere.
E – ecco il luminoso paradosso – proprio nel momento in cui il papato sceglie visibilmente l’inermità evangelica, la sua autorevolezza morale nel mondo ne esce ingigantita.
Nel momento in cui la Santa Sede si concentra sull’annuncio della Buona novella e della misericordia di Dio, e quindi è più impolitica, proprio allora il suo peso politico si fa grande.

MODELLO VON GALEN
E’ quello che un grande pensatore come Böckenförde aveva chiamato “il modello von Galen” che – secondo lui – rappresentava la via della Chiesa nei tempi moderni.
Von Galen è l’eroico vescovo che – nella Germania degli anni Trenta – proclamò la radicale opposizione e inconciliabilità fra cristianesimo e nazismo e tuonò contro il regime hitleriano per il suo disprezzo della vita dei più deboli: “le prediche sull’eutanasia del vescovo di Münster scrive Böckenförde “erano al tempo stesso annuncio e azione politica e quest’ultima tanto più in quanto non si poteva loro rimproverare di oltrepassare i limiti del compito ecclesiastico della predicazione”.
In effetti anche Francesco non fa che predicare il Vangelo. Non cerca egemonie o privilegi per al Chiesa, non ha un suo potere da affermare, neanche una sua immagine personale.
E la sua semplicità evangelica in fondo è vera finezza politica, perché egli spinge i grandi della terra verso il negoziato e la pace sia con la forza della sua autorità morale, che interpreta la volontà dei popoli, sia con la sua diplomazia vaticana, che sa dialogare con tutti, sia con la partecipazione corale al gesto planetario del digiuno e della preghiera di milioni di donne e uomini concreti, che di solito sono tagliati fuori dalle decisioni degli “statisti”.
Chiedendo a tutti i credenti di partecipare a questa preghiera e a questo digiuno il Papa ricorda una grande verità, che i cristiani forse hanno dimenticato, cioè che la preghiera (specie con la penitenza) può tutto e può anche fermare le guerre (come ha ripetuto la Madonna a Fatima e a Medjugorje).
Inoltre proponendo il gesto del digiuno a tutti, anche ai non credenti (e stanno aderendo persone inimmaginabili qualche tempo fa), il Papa – sulla scia di grandi testimoni, come Gandhi – mostra che si cambia il mondo e si ferma il male non con la violenza e la forza, ma – al contrario – con la non-violenza e l’inerme offerta di se stessi, cioè con un gesto di sacrifico e di amore.

REALISMO
Papa Francesco domenica ha proclamato: “C’è un giudizio di Dio e anche un giudizio della storia sulle nostre azioni a cui non si può sfuggire! Non è mai l’uso della violenza che porta alla pace. Guerra chiama guerra, violenza chiama violenza!”.
La storia, anche di questi anni recenti, mostra che le parole del Papa sono la pura verità. Fra l’altro – noto “en passant” – la limpidezza di Francesco smaschera l’ipocrisia di sedicenti progressisti come Obama e Hollande, a parole pacifisti, ma nella realtà smaniosi di andare a bombardare e di affermare i propri disegni di potere e i propri interessi imperiali. Senza il consenso dei loro popoli e senza credibilità.
Stendiamo un pietoso velo poi sui cosiddetti “cattolici” Biden e Kerry che, per il potere (sono rispettivamente vicepresidente e segretario di stato Usa), se ne infischiano dell’appello della Chiesa e del Papa e stanno con i bombardieri.
D’altra parte l’evento di oggi mostra come tutte le confessioni cristiane (a cominciare dalle chiese ortodosse) e le grandi religioni del pianeta, guardino al papa con una stima e un desiderio di collaborazione che è un segno promettente per tutta l’umanità.
Con questo pontificato la storia sembra avere una di quelle accelerazioni che, nel giro di pochissimo tempo, cambia tutte le coordinate e anche gli scenari geopolitici: basta sommare insieme il crollo di credibilità della fallimentare presidenza Obama, l’irrilevanza dell’Europa e la centralità che la Chiesa ha nell’asse tra Paesi emergenti, come il Brasile, la Russia e la Cina.
Ma questa è materia per gli analisti e gli storici. Ciò che già dalle cronache appare chiaro è che c’è una sola voce che oggi ha piena autorevolezza, credibilità e parla al cuore dei popoli: quella di papa Francesco. Un segno dei tempi.

Publié dans Antonio Socci, Digiuno, Papa Francesco I, Riflessioni, Stile di vita | Pas de Commentaire »

Il cronista Giovanni

Posté par atempodiblog le 21 août 2013

Il cronista Giovanni
L’autore del quarto vangelo vide di prima persona quello che poi scrisse. Lo documenta un libro di un’archeologa ebrea francese.

Intervista di Antonio Socci a Jacqueline Genot-Bismuth per Il Sabato (1992)

Il cronista Giovanni dans Antonio Socci rwej

Ebrea-francese [...] agnostica, docente di giudaismo antico medievale alla Sorbona di Parigi, fondatrice del Centro di ricerca sulla cultura rabbinica. Jacqueline Genot-Bismuth ha pubblicato [...] un libro sulle più recenti scoperte archeologiche a Gerusalemme, dopo il volume «Un homme nommé Salut» (Oeil), dedicato alla figura di Gesù nel Vangelo di Giovanni. E all’impatto di Gesù con l’ebraismo del suo tempo. «Il Sabato» le ha chiesto la sua ricostruzione di quegli eventi.

Lei scrive che i farisei cominciano ad allarmarsi per Gesù con la resurrezione di Lazzaro. Perché?
Genot-Bismuth: Tutti credettero a quella resurrezione. Io non posso giudicare se essa vi fu o no, l’importante è rilevare che tutti ne furono colpiti. I farisei erano contrari al potere profetico. Di conseguenza produrre una resurrezione – essendo un potere profetico – voleva dire mettere in discussione tutto ciò contro cui si erano battuti. Significava dare scacco al giudaismo che seguiva la Torà esclusivamente scritta con l’interpretazione di cui essi erano i maestri. Dunque era il loro potere che era battuto in breccia da un giudaismo alternativo che arrischiava la forza in qualche modo rivoluzionaria della profezia.

Non era più ragionevole credere ai propri occhi?
Genot-Bismuth: Un difensore della Legge assoluta non poteva che opporsi al profetismo attivo: ora, la popolazione era effettivamente convinta che Gesù avesse resuscitato Lazzaro, e questo fatto provava la sua pretesa di essere profeta. Dunque ormai non era più che un nemico. È ovvio. Lui stesso doveva saperlo. Del resto dal Vangelo di Giovanni si evince chiaramente che Gesù era molto, molto politico. Quando si rende conto che provocava se ne va via da Gerusalemme perché capisce di essere in pericolo. Insomma fa scelte molto politiche e strategiche. Gesù non appare affatto come un ingenuo, un sognatore naïf, è realista, uno che sa calcolare i suoi rischi e verso la fine gioca il tutto per tutto.

Le ostilità fra farisei e sadducei, dentro il Sinedrio, erano molto forti. Ve ne furono anche nel processo a Gesù?
Genot-Bismuth: Non so dirlo perché non abbiamo il verbale del processo. Ma Paolo, per esempio, quando fu chiamato in giudizio dal Sinedrio riuscì scaltramente a mettere un gruppo contro l’altro facendola franca. Nel Vangelo di Giovanni si vede che nel Sinedrio ci sono farisei che stanno dalla parte di Gesù, come Nicodemo. D’altronde anche nella missione rogatoria del Sinedrio nei confronti di Giovanni Battista sul Giordano, si evidenziano i rappresentanti dei due partiti del Sinedrio. E ciascuno fa le sue domande.

Flusser ipotizza che la condanna di Gesù da parte di Caifa fosse contro la Legge, fuori dall’ebraismo.
Genot-Bismuth: E’ una convinzione ideologica. La Mishna dice che quando uno pseudoprofeta si presenta come tale e si è certi che è uno pseudoprofeta deve subire il giudizio del Sinedrio e la condanna a morte. Tutto questo nella Mishna è molto chiaro.

Cosa teme, Caifa, da Gesù?
Genot-Bismuth: È una ragion di stato, la sua. Caifa è un uomo di governo che ragiona in termini di strategia. Prende la parola nel Sinedrio e dice: voi state dibattendo se è colpevole o no. A me non interessa. Io so che è uno pericoloso. Attirerà su di noi la vendetta dei romani, tutti noi siamo in pericolo dal momento che, alla fine, solleverà la gente contro i romani e contro di noi e il nostro regime. Lo dice chiaramente. Il suo è un giudizio politico. Del resto la carica di sommo sacerdote è nell’orbita del temporale, non è la religione come noi oggi la immaginiamo. È il regime di autonomia della Giudea che è negoziato con i romani, un’autonomia morale, la pax romana. Il sommo sacerdote è soprattutto un etnarca. E dunque ragiona in questo orizzonte politico. Le regole del gioco d’altronde erano chiare per Gesù stesso.

Cosa intende dire?
Genot-Bismuth: Sapeva benissimo di apparire come un sovversivo, che poteva essere visto come un agitatore politico, come i tantissimi messia o pseudo-messia che l’avevano preceduto o che saranno condannati a morte in seguito. Non c’era niente di straordinario, da questo punto di vista, in questa storia. Egli sapeva bene ciò che lo aspettava.

È curioso che lei – scrivendo due libri sul Vangelo di Giovanni – non contesti mai la storicità di ciò che il Vangelo riferisce. Sa che da Renan in poi…
Genot-Bismuth: Di Renan si possono leggere pagine antisemite terrificanti, veri abomini. E’ chiarissimo. La ragione essenziale che muove Renan e la scuola che nasce da lui è precisamente l’odio antisemita. Dichiara di voler fare di Cristo un “ariano” e che il cristianesimo non deve assolutamente nulla a quel popolo degenerato che sono i semiti. Allora gli è necessario negare tutto ciò che è storico di Gesù e della nascita del cristianesimo. Sono le stesse manipolazioni della verità storica in cui si specializzeranno personaggi come Stalin e oggi Le Pen.

Lei ha pubblicato testi rabbinici straordinariamente convergenti con san Giovanni sul racconto del processo a Gesù. E sostiene che il Vangelo di Giovanni è scritto da un contemporaneo, testimone oculare di quegli avvenimenti.
Genot-Bismuth: Il Vangelo si conclude con questa formula: «Questo è il discepolo che rende testimonianza su questi fatti e li ha scritti; e noi sappiamo che la sua testimonianza è vera». Una indicazione scarna come una nota d’archivio del tempo e che, senza dubbio, merita ben più credito di quanto glien’è stato accordato.

Nel Vangelo di Giovanni, Gesù dichiara di essere il Figlio di Dio, uno con il Padre.
Genot-Bismuth: Sì, dunque di essere come Dio. Ma usa volutamente un’espressione ambigua, infatti ogni uomo poteva dirsi figlio di Dio. Di per sé era un’espressione accettata. Allora cosa intende Gesù quando si definisce Figlio di Dio? Egli afferma evidentemente la sua divinità («chi vede me, vede il Padre»). Ma gioca sull’ambiguità, è qualcosa di straordinario, usa, manipola il linguaggio in tutti i suoi sensi come un profeta. Di fatto Gesù alla fine si è sostituito a Dio e questo è il punto di non ritorno rispetto all’ebraismo: da qui comincia l’eresia o – secondo il punto di vista che si adotta – completamente un’altra cosa.

I più sostengono ancora oggi che il Vangelo di Giovanni è stato scritto molto tardi.
Genot-Bismuth: Io dico che è stato scritto da chi è stato testimone. Che egli prendesse abitualmente delle note durante gli avvenimenti mi pare evidente per la civiltà in cui era stato educato. Poi può darsi che, sulla base dei ricordi scritti, abbia composto il suo Vangelo in tarda età. Secondo me Giovanni ha dubitato per tutto il tempo, ha cominciato a credere veramente al momento in cui ha scoperto la tomba vuota.

Molti vedono nel suo Vangelo un’impronta ellenistica, soprattutto nel Prologo.
Genot-Bismuth: Solo perché usa il termine Logos. Ma allora anche Ben Sira (l’Ecclesiastico) è ellenistico. No, in realtà Logos è solo la traduzione dell’ebraico «davar» (atto/parola) ed è l’antichissima interpretazione della Genesi. Giovanni appare in una linea di interpretazione molto chiara, che lega la Genesi, l’interpretazione della Genesi fatta dal libro dei Proverbi e infine l’Ecclesiastico che due secoli dopo continua, riprende e amplifica i Proverbi. E poi, due secoli dopo, c’è Giovanni.

Il Prologo è la spiegazione del primo versetto della Genesi?
Genot-Bismuth: Il Targum Neophyti, in aramaico palestinese, traduce così Genesi 1,1: «Fin dall’origine il Verbo (davar) di YHWH creò con saggezza il cielo e…». Giovanni è legato a questa antica traduzione e apre così il suo Vangelo: «E il Verbo (davar) è stato un uomo di carne ed ha posto la sua tenda fra noi…». Propriamente l’incarnazione del davar, del Logos.

Nel libro «Un homme nommé Salut», lei pubblica documenti ebraici del I secolo, dove si parla di libri cristiani che possono far pensare ai Vangeli.
Genot-Bismuth: È un passo dello Sabat 116, vv (tratto dal Talmud completo). Ed è molto chiaro. Non solo parla di «awan-gelayon» e fa dei giochi di parole polemici su «evangelio», ma riporta addirittura una citazione esplicita di Matteo.

Cosa?
Genot-Bismuth: È riportato il dialogo fra un patriarca e un cristiano. E il cristiano ad un certo punto afferma: «È scritto nel Vangelo che “non sono venuto per abolire, ma per compiere”». Testuale. Se non si vuol accettare neanche questo è finita. Allora tutto è falso, nel mondo.

Molti sostengono che non è possibile che i Vangeli siano stati scritti prima del 70.
Genot-Bismuth: È un pregiudizio. Secondo me è più che plausibile. È stupido, per degli studiosi, l’espressione “non è possibile”. E poi come volete, in una civiltà che è l’inventrice della scrittura, che riferisce tutto al testo sacro, scritto, come potete immaginare che quel genere di fatti non sia stato messo per scritto molto presto? Ricordate che per esempio i sadducei non riconoscevano per niente l’oralità, volevano che tutto fosse scritto. Dunque se i cristiani volevano veramente far conoscere il loro annuncio occorreva da subito mettere per scritto.

Publié dans Antonio Socci, Commenti al Vangelo, Fede, morale e teologia, Libri | Pas de Commentaire »

La storicità dei Vangeli

Posté par atempodiblog le 20 août 2013

La storicità dei Vangeli dans Antonio Socci hsk2

Voglio prendere spunto da un paio di notizie arrivate da Israele. Le ha riportate il Jerusalem Post il 21 e il 23 dicembre (2004) e si possono trovare sintetizzate in questa pagina web: http://www.israele.net/sections.php?section_cat=13
La prima riguarda la scoperta a Gerusalemme di una parte della celebre piscina di Siloe, quella menzionata nel Vangelo di Giovanni nella quale Gesù guarì un uomo cieco dalla nascita. Ed ecco la seconda notizia: la Israel Antiquities Authority ha recentemente scoperto i resti del villaggio di Cana dove Gesù compì il suo primo miracolo cambiando l’acqua in vino durante una festa di matrimonio. In alcuni edifici sono stati trovati utensili e i resti di un mikve, un bagno rituale ebraico.

Non è qui il caso di approfondire i particolari che pure sono affascinanti. Tuttavia queste due piccole notizie – che documentano tangibilmente come siano fedeli ai fatti i resoconti del Vangelo – ci mettono ancora una volta, appassionatamente, sulle tracce di quell’Uomo di Nazaret che giganteggia nelle pagine del Vangelo. Riportano alla luce le pietre su cui lui ha camminato, i luoghi che hanno sentito risuonare la sua voce, la terra con cui ha guarito un povero cieco. Tutto esattamente come riferiscono i resoconti evangelici. E’ bene ricordare la colossale importanza che le scoperte archeologiche moderne hanno assunto dopo due secoli di tentata demolizione della credibilità storica dei fatti riportati nei Vangeli. Scoperte clamorose. A cominciare dal più antico frammento del Vangelo, il famoso 7Q5, che riporta un versetto di Marco che fu composto prima del 50 d.C. Ma anche tutti gli altri ritrovamenti archeologici.
Il padre Ignace De La Potterie sj, uno dei grandi esperti di Giovanni, faceva un lucido esempio a questo proposito:
“Fin dalla metà del secolo scorso, la Scuola di Tubinga (David Fr., Strass, Walter Bauer, Ferdinand Ch. Baur) aveva imposto l’idea che nessuno dei redattori dei Vangeli fosse un testimone oculare, tanto meno un apostolo. Quello di Giovanni veniva attribuito a un qualche filosofo ellenizzante dell’Asia Minore o dell’Egitto. Nel 1930 il modernista italiano Adolfo Omodeo, in La mistica giovannea, l’unica opera italiana citata da Rudolf Bultmann, sosteneva ancora che Giovanni era stato scritto da uno gnostico in Egitto, intorno al 120. In questa temperie mentale la precisione delle descrizioni topografiche palestinesi risultava difficile da spiegare, se non addirittura scomoda. E allora si tendeva a interpretarla in modo mitico, fittizio. Esempio: nel capitolo quinto, la guarigione del paralitico avviene nei pressi di una piscina miracolosa che Giovanni chiama Betesda, ‘che ha cinque portici’ (quinque porticus habens). Ricordo di aver studiato, da giovane, su un libro di cento anni fa in cui questo passo veniva interpretato come una simbologia pitagorica…. Dall’inizio del Novecento i numerosi scavi compiuti in Palestina hanno dato conferme archeologiche ai luoghi descritti da Giovanni. La fontana con cinque portici, che doveva essere un simbolo pitagorico, è stata trovata presso il Tempio di Gerusalemme” (Storia e mistero, Sei 1997, pp. 10-11).

Evidentemente è facile intuire che delle descrizioni così precise di Gerusalemme potevano essere fatte solo da un ebreo che viveva in quella città prima della sua distruzione da parte dei Romani, nel 70 d.C. Dunque anche le pietre confermano (gridano!) ciò che Giovanni scrive a chiare lettere, cioè di essere un testimone oculare dei fatti: “ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo visto con i nostri occhi e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della Vita… lo annunziamo anche a voi” (1Giov 1,1). E Pietro conferma che essi, gli apostoli, non sono “andati dietro a favole artificiosamente inventate”, ma “siamo stati testimoni oculari della sua grandezza” (2Pt 1,16). Quando – alcuni anni fa – riportai alla luce la clamorosa scoperta di padre José O’Callaghan sul 7Q5 – la reazione di molti esegeti fu velenosa (soprattutto di quelli ecclesiastici, perché i papirologi laici accettarono tranquillamente e laicamente la scoperta). Uno di questi biblisti (rimasto famoso per un incredibile svarione scientifico) sibilò su un giornale: “Continua, in modo spesso scomposto e frenetico, l’interesse per il Gesù della storia”. Gli rispose per le rime il grande De La Potterie (vedi AAVV, Vangelo e storicità, p. 165). Io da parte mia devo confessare e lo dichiaro qui apertamente che quell’interesse “scomposto e frenetico per il Gesù della storia” è tutt’altro che sparito. Non si è mai attenuato, ma casomai si è ingigantito con gli anni. Quell’Uomo di nome Gesù, vero uomo e vero Dio, nostro Salvatore, nostro buon Pastore (che porta sulle sue spalle ognuno di noi), è la nostra passione. La sua storia, i suoi gesti, la sua presenza, il suo volto sono l’unica perla preziosa che vale la pena cercare nella vita. Null’altro. Come diceva Charles Moeller, che don Giussani ci ha fatto conoscere: “io credo che non potrei più vivere se non Lo sentissi più parlare”.

di Antonio Socci

Publié dans Antonio Socci, Commenti al Vangelo, Fede, morale e teologia, Padre Ignace de la Potterie | Pas de Commentaire »

Un’umanità di feriti che cerca conforto

Posté par atempodiblog le 11 août 2013

Un'umanità di feriti che cerca conforto dans Antonio Socci 3u2k

Una ventina di anni fa, a Bassano del Grappa, durante una conversazione a tavola, l’allora cardinale Ratzinger si lasciò andare a una battuta umoristica che però contiene molta verità: “per me” disse “una conferma della divinità della fede viene dal fatto che essa sopravvive a qualche milione di omelie ogni domenica”.

Chiunque frequenti abitualmente la messa sa che è drammaticamente vero. Non certo perché si pretenda che i preti siano tutti dei grandi oratori alla Bossuet. Né perché vi sia una povertà culturale del ceto ecclesiastico.

Anzi. Capita di sentire omelie di dottissimi teologi che hanno un effetto devastante sulla fede degli ascoltatori, mentre – magari – poche parole commosse balbettate da un anziano sacerdote di campagna toccano davvero il cuore.

Qual è allora il problema? Non si tratta delle parole e dei concetti, ma del cuore.

Lo abbiamo capito specialmente con l’inizio travolgente del pontificato di papa Francesco che ha scelto proprio lo strumento più povero, le sue semplici omelie quotidiane, o comunque dei discorsi fatti con tono dimesso e familiare (come l’improvvisata conferenza stampa in aereo), per guidare la Chiesa. A cui sta imprimendo una svolta formidabile.

Cos’è che colpisce e commuove in papa Francesco? Mi pare sia evidente: ogni sua parola abbraccia, consola, conforta chi ascolta. E’ questa finora la cifra segreta del suo pontificato.

Ai vescovi che ha incontrato in Brasile a un certo punto ha detto: “dovete ricordarvi che quella che avete davanti è un’umanità di feriti”.

Non è solo una bellissima immagine. Dentro queste semplici parole c’è tutto un giudizio sul mondo contemporaneo e soprattutto c’è un’intuizione immensa del cristianesimo.

Innanzitutto Francesco non punta il dito, non incrimina, non recrimina, non accusa. Innanzitutto abbraccia.

Quando gli hanno chiesto perché in Brasile non ha ripetuto ad ogni occasione la dottrina della Chiesa su matrimoni gay e tutto il resto delle questioni che i media ci martellano in testa, lui, con semplicità, ha spiegato che ormai tutti, anche i sassi, conoscono qual è la dottrina cattolica in proposito.

Ma ha aggiunto che lui doveva e voleva portare “innanzitutto”, ai tre milioni di giovani che lo aspettavano in Brasile, una parola positiva.

La “parola positiva” è un’espressione che significa “una buona notizia”, un “lieto annuncio” ed è proprio questo il significato etimologico della parola “evangelo”. La “buona notizia” è Gesù Cristo in persona, cioè Dio che ha avuto compassione degli uomini ed è venuto sulla terra a salvarli.

E’ lui il Buon Samaritano della parabola che si china su quell’uomo disteso ai margini della strada, massacrato, coperto di ferite e incapace anche solo di rialzarsi.

E’ Gesù, buon samaritano, che lo accudisce, poi se lo carica sulle spalle e lo porta al ricovero (la Chiesa) dove verrà curato, nutrito e guarito.

Questo è il cuore del cristianesimo e Francesco viene a ricordarlo anzitutto ai pastori che lo hanno dimenticato. Io stesso, un paio di domeniche orsono, quando la lettura del vangelo era proprio quella del Buon samaritano, ho sentito l’omelia di un pretino, tutto orgoglioso del suo sapere teologico, il quale ha spiegato che quell’uomo disteso e ferito a terra, su cui si china Gesù-Buon samaritano, è in quelle condizioni a causa dei suoi peccati.

Ora, il concetto è un’evidente minchiata, perché Gesù non dice affatto questo, anzi spiega che il poveretto è stato ridotto in fin di vita da dei briganti che “lo spogliarono, lo percossero e poi se ne andarono, lasciandolo mezzo morto”.
Ma l’errore del pretino in questione svela un po’ lo sguardo incriminatorio con cui un certo mondo clericale guarda agli uomini, analogo e speculare al disprezzo generalizzato e ingiusto con cui nel mondo senti parlare (male) “dei preti”.

Invece papa Francesco è pieno di compassione, sa che tutti coloro che stanno lì ad ascoltarlo sono pieni di silenziose ferite, inflitte dalla vita, pieni di pesi, ansie, angosce.

E lui vuol portare loro l’abbraccio di Gesù e la sua misericordia. Il balsamo dell’abbraccio di Dio. Quante volte il Vangelo dice: “Gesù guardò la folla e pieno di compassione…”.

Un giorno disse: “venite a me voi tutti che siete affaticati e oppressi e io vi ristorerò”. Lui, il suo abbraccio, è l’unico luogo al mondo dove tutti noi, affaticati e oppressi dalla fatica di vivere, possiamo trovare ricovero, conforto, nutrimento e ristoro.

Perché noi da soli non riusciamo nemmeno a stare in piedi. “Ma che poss’io, Signor,/ s’a me non vieni/ coll’usata ineffabil cortesia?”, si chiede in una poesia Michelangelo Buonarroti.

Gli uomini hanno bisogno di misericordia più ancora del pane. Questo non è banale “buonismo”, come ritiene qualcuno accusando il Papa di essere un facile demagogo.

Bergoglio infatti è sempre stato estremamente esigente e rigoroso con se stesso (è noto il suo stile di vita evangelico, adottato da decenni), mentre è indulgente con il suo gregge. E invita i vescovi e i sacerdoti a fare altrettanto.

Così infatti era anche Gesù. Al contrario “scribi e farisei” erano indulgenti con se stessi ed esigenti con coloro che pretendevano di guidare : perché – diceva Gesù – “dicono e non fanno. Legano infatti pesanti fardelli e li impongono sulle spalle della gente, ma loro non vogliono muoverli neppure con un dito” (Mt 23, 3-4).

Bergoglio indica implicitamente l’esempio dei santi pastori, come il santo Curato d’Ars o padre Pio. Erano uomini che spesso si accollavano misteriosamente i pesi o le penitenze dei loro fedeli per poter elargire loro la Grazia del perdono o della guarigione.

Ecco perché papa Francesco appare al tempo stesso così libero da tutto e tutti eppure così tradizionale. Perché null’altro desidera che portare a tutti Gesù.

Questa è la sua vera, grande “rivoluzione”: la “rivelazione” del cuore di Dio operata da Gesù. Da lui abbiamo compreso che Dio è un Padre che si strugge di pietà per le sofferenze e lo smarrimento dei suoi figli.

Anche il perdono (il Papa ripete: “Dio perdona sempre, perdona tutto e perdona tutti”) è parte essenziale di quel conforto e di quel ristoro perché l’uomo ha un bisogno estremo di sentirsi perdonato.

Non di sentirsi mettere sul banco degli accusati perché lo sa bene – nel profondo del cuore – di essere un poveraccio, pieno di peccati. Ha bisogno di chi gli dice “io ti perdonerò sempre. Se anche tuo padre o tua madre ti rinnegassero, io non ti abbandonerò mai” (e queste sono parole di Dio nella Sacra Scrittura).

Così, quando papa Francesco ha fatto irruzione nel mondo abbiamo visto la misericordia. Ascoltarlo, guardarlo, ricorda le parole che Péguy diceva su Gesù: “C’era la cattiveria dei tempi anche sotto i Romani. Ma Gesù venne. Egli non perse i suoi anni a gemere ed interpellare la cattiveria dei tempi. Egli taglia corto. In un modo molto semplice. Facendo il cristianesimo. Egli non si mise a incriminare, ad accusare qualcuno. Egli salvò. Non incriminò il mondo. Egli salvò il mondo”.

di Antonio Socci – Libero, 4 agosto 2013

Publié dans Antonio Socci, Fede, morale e teologia, Misericordia, Papa Francesco I, Perdono | Pas de Commentaire »

12345...7