Dialogo e Vangelo

Posté par atempodiblog le 10 mai 2014

Dialogo e Vangelo dans Andrea Tornielli 2zfj0va

Cari amici, due giorni fa il Papa, nell’omelia della messa di Santa Marta, commentando il brano degli Atti degli Apostoli nel quale si descrive l’incontro di Filippo con l’eunuco etiope, ha parlato della docilità al progetto di Dio da parte di chi evangelizza. E ha accennato anche al dialogo.

«Non si può evangelizzare senza il dialogo Non si può, perché tu devi partire proprio da dove è la persona che deve essere evangelizzata. E quanto importante è questo. “Ma, padre, si perde tanto tempo, perché ognuno ha la sua storia, viene con questo, le sue idee…”. E perde il tempo. Più tempo ha perso Dio nella creazione del mondo e l’ha fatta bene. Il dialogo: perdere il tempo con l’altra persona, perché quella persona è quella che Dio vuole che tu evangelizzi, che tu gli dia la notizia di Gesù è più importante. Ma come è, non come deve essere: come è adesso».

Dialogo è parola usata e abusata. Per qualcuno equivale al mettere da parte ciò che si è, la propria identità, o meglio la propria fede, in nome di un minimo comun denominatore o del quieto vivere. Da qualcun altro, sul fronte opposto, è considerata quasi una parolaccia, simbolo di una Chiesa che scende a compromessi con il mondo annacquando la sua dottrina. Francesco ricorda, invece, quanto il dialogo sia imprescindibile per l’evangelizzazione. Sia coloro che hanno ridotto la fede cristiana a dottrina, sistema di idee e pacchetto di regole morali; sia coloro che l’hanno ridotta a galateo di buone maniere, ad elenco di regole del politicamente corretto; sembrano dimenticare che l’annuncio della Buona Novella – notizia che ha drammaticamente a che fare con la pienezza di vita nell’al di qua ma anche con le «cose ultime», con il destino a cui tutti siamo chiamati – è sempre relazione, rapporto tra persone.

Il dialogo dunque è l’entrare in rapporto con l’altro a partire da ciò che l’altro è, vive, crede, pensa, spera. È la possibilità di entrare in rapporto, di lasciarsi ferire, di lasciarsi mettere in discussione. Non per far venir meno o per nascondere la nostra fede – che è sempre dono gratuitamente ricevuto, mai un possesso – ma per poter trasmettere un frammento di quella bellezza, di quell’amore incondizionato, di quell’abbraccio di cui sono stati destinatari coloro che incontravano Gesù per le vie della Galilea e della Giudea duemila anni fa. Non si può evangelizzare senza dialogo perché attraverso un dialogo, che intercetta e attraversa la condizione in cui si è e si vive, la fede si trasmette.

Fra qualche mese ricorrono i cinquant’anni della prima enciclica programmatica di Paolo VI, l’«Ecclesiam Suam». Papa Montini, che con ogni probabilità sarà beatificato entro la fine dell’anno, scrive: «La Chiesa deve venire a dialogo col mondo in cui si trova a vivere. La Chiesa si fa parola; la Chiesa si fa messaggio; la Chiesa si fa colloquio». All’inizio della Costituzione conciliare «Gaudium et spes» si legge: «Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore». Dialogo significa dunque condivisione, prossimità, lasciarsi ferire dalle le paure, dai dubbi di non crede o di chi non crede più. Per poter così, attraverso questa condivisione, annunciare la bellezza del vangelo, evitando al tempo stesso il rischio sempre presente di crederci «possessori» di una fede ridotta a sistema di pensiero, ridotta a pacchetto di regole e divieti, ridotta a ideologia.

Come osservata nel 2001 l’allora cardinale Joseph Ratzinger: «Durante tutto il corso della nostra vita la fede rimane un cammino, e perciò è sempre minacciata e in pericolo. Ed è anche salutare che si sottragga in questo modo al rischio di trasformarsi in ideologia manipolabile. Al rischio di indurirci e di renderci incapaci di condividere riflessione e sofferenza con il fratello che dubita e si interroga».

di Andrea Tornielli – Sacri Palazzi

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Ratzinger: la mia rinuncia è valida, assurdo fare speculazioni

Posté par atempodiblog le 26 février 2014

Benedetto XVI risponde con una lettera ad Andrea Tornielli: il nostro vaticanista gli aveva inviato alcune domande a proposito di presunte pressioni e complotti che avrebbero provocato le dimissioni
Ratzinger: la mia rinuncia è valida, assurdo fare speculazioni
«Non c’è il minimo dubbio – scrive Ratzinger nella missiva – circa la validità della mia rinuncia al ministero petrino. Unica condizione della validità è la piena libertà della decisione».
di Andrea Tornielli – Vatican Insider

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«Non c’è il minimo dubbio circa la validità della mia rinuncia al ministero petrino» e le «speculazioni» in proposito sono «semplicemente assurde». Joseph Ratzinger non è stato costretto a dimettersi, non l’ha fatto a seguito di pressioni o complotti: la sua rinuncia è valida e oggi nella Chiesa non esiste alcuna «diarchia», nessun doppio governo. C’è un Papa regnante nel pieno delle sue funzioni, Francesco, e un emerito che ha come «unico e ultimo scopo» delle sue giornate quello di pregare per il suo successore.

Dal monastero «Mater Ecclesiae» dentro le mura vaticane, il Papa emerito Benedetto XVI ha preso carta e penna per stroncare le interpretazioni sul suo storico gesto di un anno fa, rilanciate da diversi media e sul web in occasione del primo anniversario della rinuncia. Lo ha fatto rispondendo personalmente a una lettera con alcune domande che gli avevamo inviato nei giorni scorsi, dopo aver letto alcuni commenti sulla stampa italiana e internazionale riguardanti le sue dimissioni. In modo sintetico ma precisissimo, Ratzinger ha risposto, smentendo i presunti retroscena segreti della rinuncia e invitando a non caricare di significati impropri alcune scelte da lui compiute, come quella di mantenere l’abito bianco anche dopo aver lasciato il ministero di vescovo di Roma.

Come si ricorderà, con un clamoroso e inatteso annuncio, l’11 febbraio 2013 Benedetto XVI comunicava ai cardinali riuniti in concistoro la sua libera decisione di dimettersi «ingravescente aetate», per motivi di età: «Sono pervenuto alla certezza che le mie forze, per l’età avanzata, non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero petrino». Annunciava anche che la sede apostolica sarebbe stata vacante a partire dalla sera del 28 febbraio: i cardinali si sarebbero riuniti per procedere con l’elezione del successore. Nei giorni successivi, Ratzinger faceva sapere che avrebbe mantenuto il nome di Benedetto XVI (che compare anche in calce alla fine della lettera), che si sarebbe definito d’ora in avanti «Papa emerito» (come risulta anche dall’intestazione a stampa della stessa lettera) e avrebbe continuato a indossare l’abito bianco, anche se semplificato rispetto a quello del Pontefice, vale a dire senza la mantelletta (chiamata «pellegrina») e senza la fascia.

Nel corso dell’ultima udienza del mercoledì, il 27 febbraio 2013, in una piazza San Pietro inondata di sole e gremita di fedeli, Benedetto XVI aveva detto: «In questi ultimi mesi, ho sentito che le mie forze erano diminuite, e ho chiesto a Dio con insistenza, nella preghiera, di illuminarmi con la sua luce per farmi prendere la decisione più giusta non per il mio bene, ma per il bene della Chiesa. Ho fatto questo passo nella piena consapevolezza della sua gravità e anche novità, ma con una profonda serenità d’animo. Amare la Chiesa significa anche avere il coraggio di fare scelte difficili, sofferte, avendo sempre davanti il bene della Chiesa e non se stessi».

E aveva aggiunto che il suo ritirarsi, «nascosto al mondo», non significava «ritornare nel privato». «La mia decisione di rinunciare all’esercizio attivo del ministero – aveva detto – non revoca questo. Non ritorno alla vita privata, a una vita di viaggi, incontri, ricevimenti, conferenze eccetera. Non abbandono la croce, ma resto in modo nuovo presso il Signore Crocifisso. Non porto più la potestà dell’officio per il governo della Chiesa, ma nel servizio della preghiera resto, per così dire, nel recinto di San Pietro». Proprio queste parole circa il suo voler restare «nel recinto di San Pietro» hanno fatto ipotizzare ad alcuni che la rinuncia non sia stata davvero libera e dunque valida, quasi che Ratzinger si fosse voluto ritagliare un ruolo di «Papa ombra», cioè quanto di più lontano dalla sua sensibilità si possa immaginare.

Dopo l’elezione di Francesco, le novità del suo papato, la scossa che sta portando alla Chiesa con la sua parola e la sua testimonianza personale, era fisiologico che alcuni – com’è sempre peraltro accaduto in occasione di un cambio di pontificato – lo contrapponessero al predecessore. Una contrapposizione che lo stesso Benedetto XVI ha sempre rifiutato. Nelle ultime settimane, con l’avvicinarsi del primo anniversario della rinuncia, c’è chi è andato oltre, ipotizzando persino l’invalidità delle dimissioni di Benedetto e dunque un suo ruolo ancora attivo e istituzionale accanto al Papa regnante.

Lo scorso 16 febbraio, chi scrive ha inviato al Papa emerito un messaggio con alcune specifiche domande in merito a queste interpretazioni. Due giorni dopo è arrivata la risposta. «Non c’è il minimo dubbio – scrive Ratzinger nella missiva – circa la validità della mia rinuncia al ministero petrino. Unica condizione della validità è la piena libertà della decisione. Speculazioni circa la invalidità della rinuncia sono semplicemente assurde». Del resto, che la possibilità di dimettersi fosse tenuta in considerazione da molto tempo era ben noto alle persone più vicine a Ratzinger, e da lui stesso confermata nel libro intervista con il giornalista tedesco Peter Seewald («Luce del mondo», 2010): «Se un Papa si rende conto con chiarezza che non è più capace, fisicamente, psicologicamente e spiritualmente, di assolvere ai doveri del suo ufficio, allora ha il diritto e, in alcune circostanze, anche l’obbligo, di dimettersi».

È stato inevitabile, un anno fa, dopo l’annuncio – mai un Papa in duemila anni di storia della Chiesa aveva rinunciato per anzianità – collegare questo clamoroso gesto al clima mefitico di Vatileaks, dei complotti nella Curia romana. Tutto il pontificato di Benedetto XVI è stato una via Crucis, e in particolare gli ultimi anni: prima a motivo dello scandalo della pedofilia, da lui coraggiosamente affrontato senza incolpare le lobby o i «nemici esterni» della Chiesa, ma piuttosto la «persecuzione», il male che viene dal di dentro della Chiesa stessa. E poi a motivo della fuga di documenti prelevati dalla scrivania papale dal maggiordomo Paolo Gabriele. La rinuncia è stata dunque collegata a questi contesti. Ma Benedetto XVI aveva spiegato, sempre nel libro-intervista con Seewald, che non si lascia la nave mentre il mare è in tempesta. Per questo prima di annunciare le dimissioni, decisione presa da tempo e confidata ai più stretti collaboratori con mesi d’anticipo, Ratzinger ha atteso che la vicenda Vatileaks, il processo a Gabriele e l’inchiesta affidata ai tre cardinali si fossero conclusi. Soltanto dopo ha lasciato.

Nella lettera che ci ha inviato, il Papa emerito risponde anche alle domande sul significato dell’abito bianco e del nome papale. «Il mantenimento dell’abito bianco e del nome Benedetto – ci ha scritto – è una cosa semplicemente pratica. Nel momento della rinuncia non c’erano a disposizione altri vestiti. Del resto porto l’abito bianco in modo chiaramente distinto da quello del Papa. Anche qui si tratta di speculazioni senza il minimo fondamento».

Una chiara e quanto mai significativa testimonianza di questa affermazione, Benedetto XVI l’ha data sabato scorso, nel giorno del concistoro al quale era stato invitato da Francesco. Ratzinger non ha voluto un posto appartato e speciale, si è seduto in una sedia uguale a quella dei cardinali, in un angolo, nella fila dei porporati vescovi. Quando Francesco all’inizio e poi alla fine della cerimonia gli si è avvicinato per salutarlo e abbracciarlo, Benedetto si è tolto dal capo lo zucchetto per riverenza, e anche per attestare pubblicamente che il Papa è uno solo.

Nelle scorse settimane il teologo svizzero Hans Küng aveva citato alcune parole contenute in una lettera ricevuta da Benedetto XVI e riguardanti Francesco. Parole ancora una volta inequivocabili: «Io sono grato di poter essere legato da una grande identità di vedute e da un’amicizia di cuore a Papa Francesco. Io oggi vedo come mio unico e ultimo compito sostenere il suo Pontificato nella preghiera». Qualcuno, sul web, ha provato a mettere in dubbio l’autenticità della citazione o comunque ne ha paventato un uso strumentale. Anche di questo abbiamo chiesto conferma al Papa emerito: «Il prof. Küng ha citato letteralmente e correttamente le parole della mia lettera indirizzata a lui», ha precisato in modo lapidario. Prima di concludere con la speranza di aver risposto «in modo chiaro e sufficiente» alle domande che gli avevamo posto.

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Papa: “No a ‘tratta delle novizie’. Accettare peccatori, non i corrotti”

Posté par atempodiblog le 3 janvier 2014

«La Civiltà Cattolica» pubblica un resoconto del dialogo tra Francesco e i superiori degli ordini religiosi avvenuto a fine novembre: nei seminari «dobbiamo formare il cuore. Altrimenti formiamo dei piccoli mostri»
Andrea Tornielli – Vatican Insider

Papa: “No a 'tratta delle novizie'. Accettare peccatori, non i corrotti”  dans Andrea Tornielli 11l0uh0

«La Chiesa deve essere attrattiva. Svegliate il mondo. Siate testimoni di un modo diverso di fare, di agire, di vivere». È quanto ha detto Papa Francesco in una conversazione con l’Unione dei superiori generali degli Istituti religiosi maschili, ricevuti il 29 novembre scorso in Vaticano. Un resoconto ragionato del dialogo tra il primo Pontefice gesuita è riportato nel prossimo numero de «La Civiltà Cattolica». Nell’incontro con i superiori religiosi Francesco ha toccato molti temi, ha invitato a «formare il cuore» nei seminari per non creare dei «piccoli mostri», ha elogiato l’impegno di Benedetto XVI contro la pedofilia, ha chiesto di vigilare sul fenomeno della cosiddetta «tratta delle novizie», cioè il massiccio reclutamento di giovani suore nei Paesi extraeuropei da parte di alcune congregazioni per trapiantarle in Europa.

«È possibile vivere diversamente in questo mondo – ha spiegato Francesco – Stiamo parlando di uno sguardo escatologico, dei valori del Regno incarnati qui, su questa terra. Si tratta di lasciare tutto per seguire il Signore. No non voglio dire ‘radicale’. La radicalità evangelica non è solamente dei religiosi: è richiesta a tutti. Ma i religiosi seguono il Signore in maniera speciale, in modo profetico. Io mi attendo da voi questa testimonianza». Francesco ha sottolineato che i religiosi «devono essere uomini e donne capaci di svegliare il mondo» e ha ricordato che «la vita è complessa, è fatta di grazia e di peccato. Se uno non pecca, non è un uomo. Tutti sbagliamo e dobbiamo riconoscere la nostra debolezza. Un religioso che si riconosce debole e peccatore non contraddice la testimonianza che è chiamato a dare, ma anzi la rafforza, e questo fa bene a tutti. Ciò che mi aspetto è dunque la testimonianza», questa «testimonianza speciale».

Nei seminari, ha detto ancora il Papa, «dobbiamo formare il cuore. Altrimenti formiamo dei piccoli mostri. E questi piccoli mostri» poi «formano il popolo di Dio. Questo mi fa venire davvero la pelle d’oca». Sempre a proposito della formazione dei religiosi, Francesco ha detto che nei seminari vanno accettati i peccatori ma non i corrotti: «Non sto parlando di persone che si riconoscono peccatori: tutti siamo peccatori, ma non tutti siamo corrotti. Si accettino i peccatori ma non i corrotti». Parlando degli abusi sui minori, Bergoglio ha citato la grande decisione di Benedetto XVI nell’affrontare i casi di abuso, che «ci deve servire da esempio per avere il coraggio di assumere la formazione personale come sfida seria avendo in mente sempre il popolo di Dio».

Sempre a proposito di formazione, Francesco ha ricordato come ipocrisia e clericalismo possono minare la vita religiosa già dagli anni del noviziato. «L’ipocrisia, frutto del clericalismo, è uno dei mali più terribili… non si risolvono i problemi semplicemente proibendo di fare questo o quello, serve tanto dialogo, tanto confronto». Per quanto riguarda le vocazioni in crescita nelle Chiese giovani e il rischio di «reclutamento vocazionale», ribattezzato nel 1994 dai vescovi filippini «tratta delle novizie», il Papa ha invitato a «tenere gli occhi aperti su queste situazioni».

Francesco ha poi ricordato, a proposito dei carismi dei fondatori degli ordini religiosi, che «Il carisma è uno, ma, come diceva sant’Ignazio, bisogna viverlo secondo i luoghi, i tempi e le persone. Il carisma non è una bottiglia di acqua distillata. Bisogna viverlo con energia, rileggendolo anche culturalmente». «Ma così – ha aggiunto il Papa – c’è il rischio di sbagliare, direte, di commettere errori. È rischioso. Certo, certo: faremo sempre degli errori, non ci sono dubbi. Ma questo non deve frenarci, perché c’è il rischio di fare errori maggiori». Infatti, ha sottolineato Francesco, «dobbiamo sempre chiedere perdono e guardare con molta vergogna agli insuccessi apostolici che sono stati causati dalla mancanza di coraggio. Pensiamo, ad esempio, alle intuizioni pionieristiche di Matteo Ricci che ai suoi tempi sono state lasciate cadere». Un riferimento importante, quest’ultimo, alla realtà della Cina, dove il modello di evangelizzazione portato avanti dal missionario gesuita è tutt’oggi ricordato per la sua capacità di adattarsi alla cultura e alla mentalità cinesi.

«Sono convinto di una cosa – ha detto ancora il Papa nell’incontro con i superiori religiosi – I grandi cambiamenti della storia si sono realizzati quando la realtà è stata vista non dal centro, ma dalla periferia». Francesco ha anche rilanciato quanto affermava il generale dei gesuiti Pedro Arrupe, sul fatto che «è necessario un tempo di contatto reale con i poveri». «Per me – ha detto Bergoglio – questo è davvero importante: bisogna conoscere la realtà per esperienza, dedicare un tempo per andare in periferia per conoscere davvero la realtà e il vissuto della gente. Se questo non avviene, allora ecco che si corre il rischio di essere astratti ideologi e fondamentalisti, e questo non è sano».

Divisore dans Discernimento vocazionale

Per leggere integralmente il colloquio di Papa Francesco con i Superiori Generali cliccare qui Freccia dans Fede, morale e teologia «Svegliate il mondo!».

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Dio fatto tenerezza

Posté par atempodiblog le 21 décembre 2013

Dio fatto tenerezza dans Andrea Tornielli Ges-e-Maria

«Nel racconto della nascita di Gesù, quando gli angeli annunciano ai pastori che è nato il Redentore dicono loro: “Questo sarà per voi il segno, troverete un bambino appena nato avvolto in fasce, che giace in una mangiatoia…”. Questo è il segno: l’abbassamento totale di Dio. Il segno è che, questa notte, Dio si è innamorato della nostra piccolezza e si è fatto tenerezza, tenerezza verso ogni fragilità, verso ogni sofferenza, verso ogni angoscia, verso ogni ricerca, verso ogni limite. Il segno è la tenerezza di Dio e il messaggio che cercavano tutti coloro che sentivano disorientati, anche quelli che erano nemici di Gesù e lo cercavano dal profondo dell’anima, era questo: cercavano la tenerezza di Dio. Dio fatto tenerezza, Dio che accarezza la nostra miseria, Dio innamorato della nostra piccolezza».

Jorge Mario Bergoglio, omelia della veglia di Natale, 24 dicembre 2004
Tratto da: Sacri Palazzi

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freccetta.jpg La confessione natalizia (di Don Tino Rolfi)

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“Mai avere paura della tenerezza”

Posté par atempodiblog le 15 décembre 2013

“Mai avere paura della tenerezza”
Intervista con papa Francesco su Natale, fame nel mondo, sofferenza dei bambini, riforma della Curia, donne cardinale, Ior e prossimo viaggio in Terra Santa
di Andrea Tornielli – Vatican Insider

“Mai avere paura della tenerezza” dans Andrea Tornielli Papa-Francesco
Immagine tratta da: Familia Cristiana

«Il Natale per me è speranza e tenerezza…». Francesco racconta a «La Stampa» il suo primo Natale da vescovo di Roma. Casa Santa Marta, martedì 10 dicembre, ore 12.50. Il Papa ci accoglie in una sala accanto al refettorio.
L’incontro durerà un’ora e mezza. Per due volte, durante il colloquio, dal volto di Francesco sparisce la serenità che tutto il mondo ha imparato a conoscere, quando accenna alla sofferenza innocente dei bambini e parla della tragedia della fame nel mondo. Nell’intervista il Papa parla anche dei rapporti con le altre confessioni cristiane e dell’«ecumenismo del sangue» che le unisce nella persecuzione, accenna alle questioni del matrimonio e della famiglia che saranno trattate dal prossimo Sinodo, risponde a chi lo ha criticato dagli Usa definendolo «un marxista» e parla del rapporto tra Chiesa e politica.

Che cosa significa per lei il Natale?
«È l’incontro con Gesù. Dio ha sempre cercato il suo popolo, lo ha condotto, lo ha custodito, ha promesso di essergli sempre vicino. Nel Libro del Deuteronomio leggiamo che Dio cammina con noi, ci conduce per mano come un papà fa con il figlio. Questo è bello. Il Natale è l’incontro di Dio con il suo popolo. Ed è anche una consolazione, un mistero di consolazione. Tante volte, dopo la messa di mezzanotte, ho passato qualche ora solo, in cappella, prima di celebrare la messa dell’aurora. Con questo sentimento di profonda consolazione e pace. Ricordo una volta qui a Roma, credo fosse il Natale del 1974, una notte di preghiera dopo la messa nella residenza del Centro Astalli. Per me il Natale è sempre stato questo: contemplare la visita di Dio al suo popolo».

Che cosa dice il Natale all’uomo di oggi?
«Ci parla della tenerezza e della speranza. Dio incontrandoci ci dice due cose. La prima è: abbiate speranza. Dio apre sempre le porte, mai le chiude. È il papà che ci apre le porte. Secondo: non abbiate paura della tenerezza. Quando i cristiani si dimenticano della speranza e della tenerezza, diventano una Chiesa fredda, che non sa dove andare e si imbriglia nelle ideologie, negli atteggiamenti mondani. Mentre la semplicità di Dio ti dice: vai avanti, io sono un Padre che ti accarezza. Ho paura quando i cristiani perdono la speranza e la capacità di abbracciare e accarezzare. Forse per questo, guardando al futuro, parlo spesso dei bambini e degli anziani, cioè dei più indifesi. Nella mia vita di prete, andando in parrocchia, ho sempre cercato di trasmettere questa tenerezza soprattutto ai bambini e agli anziani. Mi fa bene, e mi fa pensare alla tenerezza che Dio ha per noi».

Come si può credere che Dio, considerato dalle religioni infinito e onnipotente, si faccia così piccolo?
«I Padri greci la chiamavano “synkatabasis”, condiscendenza divina. Dio che scende e sta con noi. È uno dei misteri di Dio. A Betlemme, nel 2000, Giovanni Paolo II disse che Dio è diventato un bambino totalmente dipendente dalle cure di un papà e di una mamma. Per questo il Natale ci dà tanta gioia. Non ci sentiamo più soli, Dio è sceso per stare con noi. Gesù si è fatto uno di noi e per noi ha patito sulla croce la fine più brutta, quella di un criminale».

Il Natale viene spesso presentato come fiaba zuccherosa. Ma Dio nasce in un mondo dove c’è anche tanta sofferenza e miseria.
«Quello che leggiamo nei Vangeli è un annuncio di gioia. Gli evangelisti hanno descritto una gioia. Non si fanno considerazioni sul mondo ingiusto, su come faccia Dio a nascere in un mondo così. Tutto questo è il frutto di una nostra contemplazione: i poveri, il bambino che deve nascere nella precarietà. Il Natale non è stata la denuncia dell’ingiustizia sociale, della povertà, ma è stato un annuncio di gioia. Tutto il resto sono conseguenze che noi traiamo. Alcune giuste, altre meno giuste, altre ancora ideologizzate. Il Natale è gioia, gioia religiosa, gioia di Dio, interiore, di luce, di pace. Quando non si ha la capacità o si è in una situazione umana che non ti permette di comprendere questa gioia, si vive la festa con l’allegria mondana. Ma fra la gioia profonda e l’allegria mondana c’è differenza».

È il suo primo Natale, in un mondo dove non mancano conflitti e guerre…
«Dio mai dà un dono a chi non è capace di riceverlo. Se ci offre il dono del Natale è perché tutti abbiamo la capacità di comprenderlo e riceverlo. Tutti, dal più santo al più peccatore, dal più pulito al più corrotto. Anche il corrotto ha questa capacità: poverino, ce l’ha magari un po’ arrugginita, ma ce l’ha. Il Natale in questo tempo di conflitti è una chiamata di Dio, che ci dà questo dono. Vogliamo riceverlo o preferiamo altri regali? Questo Natale in un mondo travagliato dalle guerre, a me fa pensare alla pazienza di Dio. La principale virtù di Dio esplicitata nella Bibbia è che Lui è amore. Lui ci aspetta, mai si stanca di aspettarci. Lui dà il dono e poi ci aspetta. Questo accade anche nella vita di ciascuno di noi. C’è chi lo ignora. Ma Dio è paziente e la pace, la serenità della notte di Natale è un riflesso della pazienza di Dio con noi».

In gennaio saranno cinquant’anni dallo storico viaggio di Paolo VI in Terra Santa. Lei ci andrà?
«Natale sempre ci fa pensare a Betlemme, e Betlemme è in un punto preciso, nella Terra Santa dove è vissuto Gesù. Nella notte di Natale penso soprattutto ai cristiani che vivono lì, a quelli che hanno difficoltà, ai tanti di loro che hanno dovuto lasciare quella terra per vari problemi. Ma Betlemme continua a essere Betlemme. Dio è venuto in un punto determinato, in una terra determinata, è apparsa lì la tenerezza di Dio, la grazia di Dio. Non possiamo pensare al Natale senza pensare alla Terra Santa. Cinquant’anni fa Paolo VI ha avuto il coraggio di uscire per andare là, e così è cominciata l’epoca dei viaggi papali. Anch’io desidero andarci, per incontrare il mio fratello Bartolomeo, patriarca di Costantinopoli, e con lui commemorare questo cinquantenario rinnovando l’abbraccio tra Papa Montini e Atenagora avvenuto a Gerusalemme nel 1964. Ci stiamo preparando».

Lei ha incontrato più volte i bambini gravemente ammalati. Che cosa può dire davanti a questa sofferenza innocente?
«Un maestro di vita per me è stato Dostoevskij, e quella sua domanda, esplicita e implicita, ha sempre girato nel mio cuore: perché soffrono i bambini? Non c’è spiegazione. Mi viene questa immagine: a un certo punto della sua vita il bambino si “sveglia”, non capisce molte cose, si sente minacciato, comincia a fare domande al papà o alla mamma. È l’età dei “perché”. Ma quando il figlio domanda, poi non ascolta tutto ciò che hai da dire, ti incalza subito con nuovi “perché?”. Quello che cerca, più della spiegazione, è lo sguardo del papà che dà sicurezza. Davanti a un bambino sofferente, l’unica preghiera che a me viene è la preghiera del perché. Signore perché? Lui non mi spiega niente. Ma sento che mi guarda. E così posso dire: Tu sai il perché, io non lo so e Tu non me lo dici, ma mi guardi e io mi fido di Te, Signore, mi fido del tuo sguardo».

Parlando della sofferenza dei bambini non si può dimenticare la tragedia di chi soffre la fame.
«Con il cibo che avanziamo e buttiamo potremmo dar da mangiare a tantissimi. Se riuscissimo a non sprecare, a riciclare il cibo, la fame nel mondo diminuirebbe di molto. Mi ha impressionato leggere una statistica che parla di 10mila bambini morti di fame ogni giorno nel mondo. Ci sono tanti bambini che piangono perché hanno fame. L’altro giorno all’udienza del mercoledì, dietro una transenna, c’era una giovane mamma col suo bambino di pochi mesi. Quando sono passato, il bambino piangeva tanto. La madre lo accarezzava. Le ho detto: signora, credo che il piccolo abbia fame. Lei ha risposto: sì sarebbe l’ora… Ho replicato: ma gli dia da mangiare, per favore! Lei aveva pudore, non voleva allattarlo in pubblico, mentre passava il Papa. Ecco, vorrei dire lo stesso all’umanità: date da mangiare! Quella donna aveva il latte per il suo bambino, nel mondo  abbiamo sufficiente cibo per sfamare tutti. Se lavoriamo con le organizzazioni umanitarie e riusciamo a essere tutti d’accordo nel non sprecare il cibo, facendolo arrivare a chi ne ha bisogno, daremo un grande contributo per risolvere la tragedia della fame nel mondo. Vorrei ripetere all’umanità ciò che ho detto a quella mamma: date da mangiare a chi ha fame! La speranza e la tenerezza del Natale del Signore ci scuotano dall’indifferenza».

Alcuni brani dell’«Evangelii Gaudium» le hanno attirato le accuse degli ultra-conservatori americani. Che effetto fa a un Papa sentirsi definire «marxista»?
«L’ideologia marxista è sbagliata. Ma nella mia vita ho conosciuto tanti marxisti buoni come persone, e per questo non mi sento offeso». Le parole che hanno colpito di più sono quelle sull’economia che «uccide»… «Nell’esortazione non c’è nulla che non si ritrovi nella Dottrina sociale della Chiesa. Non ho parlato da un punto di vista tecnico, ho cercato di presentare una fotografia di quanto accade. L’unica citazione specifica è stata per le teorie della “ricaduta favorevole”, secondo le quali ogni crescita economica, favorita dal libero mercato, riesce a produrre di per sé una maggiore equità e inclusione sociale nel mondo. C’era la promessa che quando il bicchiere fosse stato pieno, sarebbe trasbordato e i poveri ne avrebbero beneficiato. Accade invece che quando è colmo, il bicchiere magicamente s’ingrandisce, e così non esce mai niente per i poveri. Questo è stato l’unico riferimento a una teoria specifica. Ripeto, non ho parlato da tecnico, ma secondo la dottrina sociale della Chiesa. E questo non significa essere marxista».

Lei ha annunciato una «conversione del papato». Gli incontri con i patriarchi ortodossi le hanno suggerito qualche via concreta?
«Giovanni Paolo II aveva parlato in modo ancora più esplicito di una forma di esercizio del primato che si apra ad una situazione nuova. Ma non solo dal punto di vista dei rapporti ecumenici, anche nei rapporti con la Curia e con le Chiese locali. In questi primi nove mesi ho accolto la visita di tanti fratelli ortodossi, Bartolomeo, Hilarion, il teologo Zizioulas, il copto Tawadros: quest’ultimo è un mistico, entrava in cappella, si toglieva le scarpe e andava a pregare. Mi sono sentito loro fratello. Hanno la successione apostolica, li ho ricevuti come fratelli vescovi. È un dolore non poter ancora celebrare l’eucaristia insieme, ma l’amicizia c’è. Credo che la strada sia questa: amicizia, lavoro comune, e pregare per l’unità. Ci siamo benedetti l’un l’altro, un fratello benedice l’altro, un fratello si chiama Pietro e l’altro si chiama Andrea, Marco, Tommaso…».

L’unità dei cristiani è una priorità per lei?
«Sì, per me l’ecumenismo è prioritario. Oggi esiste l’ecumenismo del sangue. In alcuni paesi ammazzano i cristiani perché portano una croce o hanno una Bibbia, e prima di ammazzarli non gli domandano se sono anglicani, luterani, cattolici o ortodossi. Il sangue è mischiato. Per coloro che uccidono, siamo cristiani. Uniti nel sangue, anche se tra noi non riusciamo ancora a fare i passi necessari verso l’unità e forse non è ancora arrivato il tempo. L’unità è una grazia, che si deve chiedere. Conoscevo ad Amburgo un parroco che seguiva la causa di beatificazione di un prete cattolico ghigliottinato dai nazisti perché insegnava il catechismo ai bambini. Dopo di lui, nella fila dei condannati, c’era un pastore luterano, ucciso per lo stesso motivo. Il loro sangue si è mescolato. Quel parroco mi raccontava di essere andato dal vescovo e di avergli detto: “Continuo a seguire la causa, ma di tutti e due, non solo del cattolico”. Questo è l’ecumenismo del sangue. Esiste anche oggi, basta leggere i giornali. Quelli che ammazzano i cristiani non ti chiedono la carta d’identità per sapere in quale Chiesa tu sia stato battezzato. Dobbiamo prendere in considerazione questa realtà».

Nell’esortazione lei ha invitato a scelte pastorali prudenti e audaci per quanto riguarda i sacramenti. A che cosa si riferiva?
«Quando parlo di prudenza non penso a un atteggiamento paralizzante, ma a una virtù di chi governa. La prudenza è una virtù di governo. Anche l’audacia lo è. Si deve governare con audacia e con prudenza. Ho parlato del battesimo, e della comunione come cibo spirituale per andare avanti, da considerare un rimedio e non un premio. Alcuni hanno subito pensato ai sacramenti per i divorziati risposati, ma io non sono sceso in casi particolari: volevo solo indicare un principio. Dobbiamo cercare di facilitare la fede delle persone più che controllarla. L’anno scorso in Argentina avevo denunciato l’atteggiamento di alcuni preti che non battezzavano i figli delle ragazze madri. È una mentalità ammalata».

E quanto ai divorziati risposati?
«L’esclusione della comunione per i divorziati che vivono una seconda unione non è una sanzione. È bene ricordarlo. Ma non ho parlato di questo nell’esortazione».

Ne tratterà il prossimo Sinodo dei vescovi?
«La sinodalità nella Chiesa è importante: del matrimonio nel suo complesso parleremo nelle riunioni del concistoro in febbraio. Poi il tema sarà affrontato al Sinodo straordinario dell’ottobre 2014 e ancora durante il Sinodo ordinario dell’anno successivo. In queste sedi tante cose si approfondiranno e si chiariranno».

Come procede il lavoro dei suoi otto «consiglieri» per la riforma della Curia?
«Il lavoro è lungo. Chi voleva avanzare proposte o inviare idee lo ha fatto. Il cardinale Bertello ha raccolto i pareri di tutti i dicasteri vaticani. Abbiamo ricevuto suggerimenti dai vescovi di tutto il mondo. Nell’ultima riunione gli otto cardinali hanno detto che siamo arrivati al momento di avanzare proposte concrete, e nel prossimo incontro, in febbraio, mi consegneranno i loro primi suggerimenti. Io sono sempre presente agli incontri, eccetto la mattina del mercoledì per via dell’udienza. Ma non parlo, ascolto soltanto, e questo mi fa bene. Un cardinale anziano alcuni mesi fa mi ha detto: “La riforma della Curia lei l’ha già cominciata con la messa quotidiana a Santa Marta”. Questo mi ha fatto pensare: la riforma inizia sempre con iniziative spirituali e pastorali prima che con cambiamenti strutturali».

Qual è il giusto rapporto fra la Chiesa e la politica?
«Il rapporto deve essere allo stesso tempo parallelo e convergente. Parallelo, perché ognuno ha la sua strada e i suoi diversi compiti. Convergente, soltanto nell’aiutare il popolo. Quando i rapporti convergono prima, senza il popolo, o infischiandosene del popolo, inizia quel connubio con il potere politico che finisce per imputridire la Chiesa: gli affari, i compromessi… Bisogna procedere paralleli, ognuno con il proprio metodo, i propri compiti, la propria vocazione. Convergenti solo nel bene comune. La politica è nobile, è una delle forme più alte di carità, come diceva Paolo VI. La sporchiamo quando la usiamo per gli affari. Anche la relazione fra Chiesa e potere politico può essere corrotta, se non converge soltanto nel bene comune».

Posso chiederle se avremo donne cardinale?
«È una battuta uscita non so da dove. Le donne nella Chiesa devono essere valorizzate, non “clericalizzate”. Chi pensa alle donne cardinale soffre un po’ di clericalismo».

Come procede il lavoro di pulizia allo Ior?
«Le commissioni referenti stanno lavorando bene. Moneyval ci ha dato un report buono, siamo sulla strada giusta. Sul futuro dello Ior si vedrà. Per esempio, la “banca centrale” del Vaticano sarebbe l’Apsa. Lo Ior è stato istituito per aiutare le opere di religione, missioni, le Chiese povere. Poi è diventato come è adesso».

Un anno fa poteva immaginare che il Natale 2013  lo avrebbe celebrato in San Pietro?
«Assolutamente no».

Si aspettava di essere eletto?
«Non me l’aspettavo. Non ho perso la pace mentre crescevano i voti. Sono rimasto tranquillo. E quella pace c’è ancora adesso, la considero un dono del Signore. Finito l’ultimo scrutinio, mi hanno portato al centro della Sistina e mi è stato chiesto se accettavo. Ho risposto di sì, ho detto che mi sarei chiamato Francesco. Soltanto allora mi sono allontanato. Mi hanno portato nella stanza adiacente per cambiarmi l’abito. Poi, poco prima di affacciarmi, mi sono inginocchiato a pregare per qualche minuto insieme ai cardinali Vallini e Hummes nella cappella Paolina».

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Il Belgio negli anni di Hitler: la Madonna a Beauraing e a Banneux

Posté par atempodiblog le 29 novembre 2013

Il Belgio negli anni di Hitler
Tratto da: A.D. 2012. La Donna, il drago e l’Apocalisse. Di Saverio Gaeta e Andrea Tornielli. Ed. PIEMME

Due delle ultime apparizioni ufficialmente riconosciute in Europa si sono verificate quasi contemporaneamente a Beauraing e a Banneux, due paesi distanti fra loro in linea d’aria una settantina di chilometri, situati nella parte occidentale del Belgio che separa Francia e Germania.

Il Belgio negli anni di Hitler: la Madonna a Beauraing e a Banneux dans Andrea Tornielli Baureing

A Beauraing la Vergine si rivelò per trentatré volte, tra il 29 novembre 1932 e il 3 gennaio 1933, a cinque ragazzi. Quando i veggenti le chiesero il motivo della sua venuta sulla terra, la Madonna – il 30 dicembre 1932 e il successivo 1° gennaio – rispose in maniera coincisa: “Pregate, pregate molto, pregate sempre”. I bambini si sposarono tutti, cercando di restare il più possibile in secondo piano, in quanto si consideravano unicamente uno strumento per la diffusione del messaggio della Madonna. Le apparizioni vennero ufficialmente riconosciute nel 1949.

Banneux dans Apparizioni mariane e santuari

Dopo neanche due settimane da questi avvenimenti, fra il 15 gennaio e il 2 marzo 1933, la Madonna apparve per altre otto volte a Banneux. Alla veggente Mariette indicò una piccola fonte, affermando: “Io sono la Madonna dei poveri. Questa sorgente è riservata a me, per tutte le nazioni”. Nel 1949 il vescovo di Liegi ha dichiarato autentiche le otto apparizioni.

Le due manifestazioni contigue, sia dal punto di vista dello spazio che del tempo, sono state interpretate dai mariologi come un’ulteriore conferma dell’attenzione della Vergine per il destino degli uomini in particolari momenti della storia, con l’obiettivo di segnalare i pericoli e di offrire un aiuto per affrontarli. Donald Anthony Foley, nel suo Libro delle apparizioni mariane, osserva come “nel contesto dell’imminente salita al potere di Hitler, questi messaggi assumono un significato profondo”.

La Madonna invita a “pregare, pregare moltissimo”, “pregare sempre” e “sacrificarsi”. E’ l’urgente necessità di preghiere, aggiunge Foley “per il popolo tedesco e per i suoi politici, affinché non commettessero il tremendo orrore di permettere a Hitler di andare al potere”. Ma le preghiere della gente di Beauraing e altrove in Belgio non avrebbero ottenuto il risultato sperato e Hitler sarebbe divenuto il Cancelliere del Reich il 20 gennaio 1933.

Anche nelle apparizioni di Banneux il tema della preghiera è centrale. Il 15 febbraio, la veggente Mariette riferì queste parole della Madonna: “Credete in me, Io crederò in voi. Pregate molto”. Il 20 febbraio, la Vergine, con aria particolarmente afflitta, si era limitata a dire: “Mia cara figlia, prega molto”, mentre nell’apparizione finale, il 2 marzo 1933, le sue parole per Mariette furono: “Io sono la Madre del Salvatore, Madre di Dio, pregate molto”. Anche le parole con cui la Madonna disse che la fonte era “riservata a tutte le nazioni, per dare sollievo agli ammalati”, erano, spiega Foley “un rifiuto implicito nei confronti delle grossolane teorie razziali naziste; infatti Hitler, anziché dare sollievo agli ammalati e alle persone portatrici di un handicap, stava pianificando di liberarsene”.

“Ma, in ogni caso” osserva “proprio la contemporaneità delle due apparizioni con le vicende relative a Hitler dimostrano che la Vergine non ha trascurato di avvertirci a riguardo della tragedia nazista. Per di più, Beauraing e Banneux si trovano nel territorio delle Ardenne dove, fra dicembre 1944 e gennaio 1945, si sarebbe svolta l’ultima sanguinosa battaglia fra i nazisti e gli eserciti alleati durante la Seconda guerra mondiale”. Uno straordinario tempismo storico che richiama alla mente le apparizioni del 1981 a Medjugorje in Bosnia-Erzegovina, dieci anni prima della guerra in ex Jugoslavia, e a Kibeho in Africa, avvenute anche lì una dozzina d’anni prima delle stragi nella regione dei “Grandi Laghi”.

Il significato profondo e profetico delle due apparizioni di Beauraing e Banneux va dunque colto sotto l’aspetto storico: di fronte alla bufera incombente sull’Europa, la Madonna ha indicato la vera e unica soluzione, l’implorazione a Dio affinché allontani il male dalla faccia della Terra.
“Del resto” aggiunge padre Fanzaga “non è per nulla casuale che, in ben diciannove delle trentatré apparizioni a Beauraong, la Madonna non abbia detto nulla, ma sia venuta soltanto per pregare. Questo desidero sottolinearlo perché, anche riguardo a Medjugorje, ci sono critiche e perplessità per la ripetitività delle apparizioni: se però una sola volta al mese, il giorno 25, viene dato il messaggio, in tutti gli altri giorni la Regina della Pace appare ai veggenti e prega con loro”.

E’ interessante ritornare infine sul fatto che proprio quelle zone sono state teatro di terribili scontri tra le truppe tedesche in ritirata e quelle alleate in avanzata. I tedeschi si sarebbero scatenati in queste terre con le bombe volanti. “Leggiamo nella storia che, nel dicembre 1944” scrive Foley “la controffensiva tedesca era penetrata a sud della linea Liegi-Namur. Inspiegabilmente si arrestò, a qualche chilometro da Beauraing e sul suo fianco nord, a dieci chilometri da Banneux, cioè a Spa, località che nel centro del suo abitato aveva eretto una statua della Madonna dei poveri”.

Anche la città di Liegi non fu più colpita da bombardamenti tedeschi dal giorno in cui il vescovo si era recato a Banneux a implorare dalla Madonna questa grazia. In precedenza, 2141 bombe volanti V1 e V2 avevano distrutto più della metà dell’abitato e provocato la morte di oltre tremila persone. “Banneux stessa” continua Foley “che veniva sorvolata in continuazione da queste bombe, sperimentò uno speciale intervento di protezione. Una bomba volante, un giorno, fu vista mentre stava per colpire in pieno l’Ospizio dei bambini che ne ospitava una cinquantina. E invece, tra lo stupore di chi assisteva al fatto, la bomba fece un quarto di giro e andò a scoppiare sulla strada che costeggia l’edificio. L’impatto fu tremendo: i vetri saltarono tutti, e volarono schegge ovunque; ma, alla fine, si dovette constatare che, eccetto la paura e i danni materiali, non ci fu nessun morto e addirittura nessun ferito”.

Si racconta anche un episodio commovente e anche un po’ divertente. Quando il fumo scatenato dallo scoppio aveva cominciato a dissiparsi, la gente che si trovava nel rifugio vide, con grande meraviglia, scendere la Madonna dei poveri. Non lei in persona, ma la sua statua che si trovava nella cappella, portata in braccio da un giovane ufficiale americano che, pur essendo di religione protestante, aveva pensato bene do non lasciarla fuori dal rifugio, esposta alle bombe.

Nel libro Ipotesi su Maria, lo scrittore Vittorio Messori scrive: “I legami (di Banneux, N.d.A.) con Lourdes sembrano indubbi; e ancor più se si pensa che le precedenti apparizioni di Beauraing hanno inizio e in gran parte si svolgono presso ‘una grotta di Massabielle’ costruita nel giardino delle suore locali. E il cappellano di Banneux è colui che lega, con il suo voto, un evento mariano all’altro. Bernadette e Mariette sono accomunate non solo dall’età giovanissima, dall’ignoranza, dalla miseria, ma anche dal fatto di essere state le sole testimoni: cosa che non avvenne nelle altre apparizioni degli ultimi due secoli, escludendone la prima, quella della Medaglia miracolosa nella Parigi del 1830. C’è un legame anche nel fatto  che, mentre sul gave de Pau (a Lourdes, N.d.A.) fu confermato il dogma mariano dell’Immacolata Concezione, sulle Ardenne (il “Sono la Madre del Salvatore, Madre di Dio” dell’ultima apparizione) fu confermato il più antico dogma della Theotòkos, della maternità divina”.

Messori fa notare anche un’altra coincidenza: “La diocesi di Liegi confina non soltanto con la Germania, ma anche con l’Olanda. A poche decine di chilometri da Banneux c’è Maastricht, che è giusto a ridosso del confine belga. E’ la città dove le nazioni d’Europa hanno completato la fase iniziale del processo unitario. Sarà davvero un caso che, proprio lì accanto, Maria abbia dedicato una sorgente a ‘tutte le nazioni’? E’ una domanda che ci poniamo, a conferma dei molti enigmi che circondano questa tappa belga della moderna epifania mariana. Enigmi tra i quali, non ultimo, quello della presa del potere da parte di Hitler proprio in quel gennaio del 1933. La riproposta dell’umanità, del servizio, della povertà, del nascondimento, mentre iniziava la sanguinosa parabola un regime nato proprio dal rifiuto di questo”.

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«Non si evangelizza andando a imporre un nuovo obbligo»

Posté par atempodiblog le 16 novembre 2013

«Non si evangelizza andando a imporre un nuovo obbligo»
Nel videomessaggio di Francesco all’incontro di Guadalupe in Messico una sintesi del pontificato: «Presentare l’essenziale, l’amore di Dio. Serve tanta pazienza. Il vescovo guidi con tenerezza il suo gregge»
di Andrea Tornielli - Vatican Insider

«Non si evangelizza andando a imporre un nuovo obbligo» dans Andrea Tornielli guadalupeÈ un videomessaggio indirizzato all’America Latina, ma buon ben dirsi una sintesi efficace di otto mesi di pontificato e il preannuncio dei contenuti dell’esortazione post-sinodale sulla nuova evangelizzazione: rivolgendosi ai partecipanti al Pellegrinaggio-Incontro presso il santuario di Guadalupe a Città del Messico, indetto per l’Anno della fede dalla Pontificia commissione per l’America Latina e dai Cavalieri di Colombo, Papa Francesco ha spiegato che cosa significa annunciare il Vangelo oggi.

Bergoglio ha ricordato che la Chiesa è «in stato permanente di missione» e che «tutta l’attività abituale delle Chiese particolari» deve avere un carattere missionario. «L’intimità della Chiesa con Gesù è un’intimità itinerante, suppone un uscire da se stessi, un camminare e seminare sempre di nuovo, sempre più in là – ha aggiunto Francesco – È vitale per la Chiesa non chiudersi, non sentirsi già soddisfatta e sicura con quel che ha raggiunto. Se succede questo, la Chiesa si ammala, si ammala di abbondanza immaginaria, di abbondanza superflua, in certo modo “fa indigestione” e si debilita. Bisogna uscire dalla propria comunità e avere l’audacia di arrivare alle periferie esistenziali che hanno bisogno di sentire la vicinanza di Dio».

Dio, spiega il Papa, «non abbandona nessuno e mostra sempre la sua tenerezza e la sua misericordia inesauribile, quindi, questo è ciò che bisogna portare a tutta la gente». Bisogna cercare di «arrivare a tutti, senza escludere nessuno e tenendo in gran considerazione le circostanze di ognuno». «Si deve arrivare a tutti – continua Francesco – e si condividerà la gioia di essersi incontrati con Cristo. Non si tratta di andare come chi impone un nuovo obbligo, come chi si limita al rimprovero o al lamento dinanzi a quel che si considera imperfetto o insufficiente».

Evangelizzare «esige molta pazienza, molta pazienza», l’evangelizzatore «cura il grano e non perde la pace per la presenza della zizzania. E sa anche presentare il messaggio cristiano in maniera serena e graduale, con il profumo del Vangelo, come faceva il Signore. Sa privilegiare, in primo luogo, l’essenziale e più necessario, cioè la bellezza dell’amore di Dio che ci parla in Cristo morto e risorto. Dall’altra parte, deve sforzarsi di essere creativo nei suoi metodi, non possiamo rimanere rinchiusi nel luogo comune del “si è fatto sempre così”».

Francesco torna a parlare del vescovo, che «conduce la pastorale nella Chiesa particolare» e lo fa «come il pastore che conosce per nome le sue pecore, le guida con vicinanza, con tenerezza, con pazienza, manifestando effettivamente la maternità della Chiesa e la misericordia di Dio». Il vero pastore non ha l’atteggiamento «del principe o del mero funzionario attento principalmente alla disciplina, alle regole, ai meccanismi organizzativi». Perché «questo porta sempre ad una pastorale distante dalla gente, incapace di favorire ed ottenere l’incontro con Cristo e l’incontro con i fratelli».

«Il popolo di Dio a lui affidato ha bisogno che il vescovo vegli per lui, prendendosi cura soprattutto di quello che lo mantiene unito e promuove la speranza nei cuori. Ha bisogno che il vescovo sappia discernere, senza spegnerlo, il soffio dello Spirito Santo che viene da dove vuole, per il bene della Chiesa e la sua missione nel mondo».

E questi atteggiamenti del vescovo, spiega ancora Francesco, «devono anche essere partecipati molto profondamente dagli altri agenti di pastorale, soprattutto dai presbiteri. La tentazione del clericalismo, che tanto danno fa alla Chiesa in America Latina, è un ostacolo per lo sviluppo della maturità e della responsabilità cristiana di buona parte del laicato».

Il clericalismo «implica un atteggiamento autoreferenziale, un atteggiamento di gruppo, che impoverisce la proiezione verso l’incontro del Signore e verso gli uomini che aspettano l’annuncio». Il Papa ha quindi accennato all’importanza di formare preti «capaci di prossimità, di incontro, che sappiano infiammare il cuore della gente, camminare con loro, entrare in dialogo con le sue speranze ed i suoi timori». Un lavoro che i vescovi «non possono delegare» ma «lo devono assumere come qualcosa di fondamentale per la vita della Chiesa, senza risparmiare sforzi, attenzioni e accompagnamento». La cultura di oggi «esige una formazione seria, bene organizzata» e Bergoglio si chiede se seminari molto piccoli, con «carenza di personale formativo», siano in grado di far fronte a questa esigenza.

Il Papa parla poi dei religiosi e delle religiose chiedendo loro «di essere fedeli al carisma ricevuto, che nel loro servizio alla Santa Madre Chiesa gerarchica», non lasciando «svanire quella grazia che lo Spirito Santo diede ai loro fondatori e che devono trasmettere in tutta la sua integrità».

Infine, l’invito alla missione è rivolto a ciascuno dei credenti battezzati: «Vi prego, come padre e fratello in Gesù Cristo, che vi facciate carico della fede che avete ricevuto nel Battesimo. E, come fecero la mamma e la nonna di Timoteo, trasmettiate la fede ai vostri figli e nipoti, e non solo a loro. Questo tesoro della fede non è dato per uso personale. È per donarlo, per trasmetterlo, e così crescerà. Fate conoscere il nome di Gesù. E se fate questo, non vi meravigliate che in pieno inverno fioriscano le rose di Castilla (un riferimento a quanto accadde all’indios Juan Diego di fronte alla Madonna di Guadalupe, ndr). Perché sapete, sia Gesù sia noi abbiamo la stessa Madre!».

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MEDJUGORJE/ Tornielli: per Francesco è meglio amare Dio che vivere per i messaggi…

Posté par atempodiblog le 16 novembre 2013

“Il Papa non intendeva criticare chi crede nei messaggi di Medjugorje, nei cui confronti non c’è ancora un giudizio ufficiale da parte della Chiesa, anche se è innegabile che le apparizioni producano ogni anno degli enormi frutti spirituali positivi. La polemica di Bergoglio riguardava piuttosto quanti, anziché affidarsi nelle mani di Dio, si illudono di poter scrutare il futuro utilizzando i messaggi della Madonna”. Lo spiega Andrea Tornelli, editorialista e vaticanista de La Stampa, dopo che Papa Francesco nel corso dell’omelia di Santa Marta ha affermato che “la Madonna è Madre e ama tutti noi. Ma non è un capufficio della Posta, per inviare messaggi tutti i giorni”.
di Pietro Vernizzi – Il Sussidiario.net
Tratto da: Ascolta tua Madre

MEDJUGORJE/ Tornielli: per Francesco è meglio amare Dio che vivere per i messaggi… dans Andrea Tornielli medjugorje_gospa

Tornielli, per quale motivo ritiene che il Papa non intendesse criticare Medjugorje?
Bergoglio ha già detto queste cose prima di diventare Papa. Nel mirino c’è il senso della curiosità per il futuro, e quindi tutto ciò che riguarda segreti o messaggi. Non è giusto attribuire questa omelia a un solo caso di apparizioni vere o presunte come è Medjugorje. Ciò a cui si riferiva il Papa è al fatto che spesso persone anche devote si fanno così prendere dal seguire i messaggi legati a questi fenomeni, che finiscono per avere un atteggiamento di eccessiva curiosità nei confronti del futuro.

In che senso la natura di questa curiosità non è veramente cristiana?
Perché queste persone sono così impegnate nel decifrare e confrontare questi messaggi, che finiscono per dimenticare la verità del messaggio evangelico. Possiamo preoccuparci di scrutare il futuro, ma non sappiamo neanche se ci saremo ancora domani mattina, eppure il giudizio finale su ciascuno di noi viene nel momento della morte. L’atteggiamento del cristiano è quello di chi sa che la sua vita dipende da Dio, e dunque non ha uno sguardo sul futuro che è così denso di curiosità, né si lascia così prendere da determinati messaggi sul futuro dell’umanità in quanto gli basta il Vangelo.

Prima di diventare Papa, Bergoglio si è mai espresso esplicitamente su Medjugorje?
Non lo ha mai fatto in termini specifici né sistematici. Quando era arcivescovo di Buenos Aires fu organizzata un’iniziativa collegata a Medjugorje e Bergoglio lasciò fare come è nel suo stile. Papa Francesco del resto ha una spiccata devozione mariana e lo si vede in tutto ciò che fa, nelle visite continue che compie alla Salus Populi Romani di Santa Maria Maggiore, come ha accolto e pregato davanti alla Statua della Madonna di Fatima lo scorso 13 ottobre, nella tenerezza con cui ha cullato la statuina di Santa Signora de Aparecida.

Bergoglio è un Papa profondamente mariano e che mostra di non avere alcun problema nei confronti delle manifestazioni di devozione popolare alla Madonna. Ricordo che dopo la sua elezione al Soglio Pontificio ha chiesto ai vescovi del Portogallo che pregassero per consacrare il suo pontificato alla Madonna di Fatima. Quello di Papa Francesco non è quindi certo l’atteggiamento di chi guarda con sufficienza e sospetto a tutti questi fenomeni. Il bersaglio non è Medjugorje ma un certo tipo di atteggiamento, proprio di chi pensa di dipendere da un messaggio mensile anziché da Dio.

Qual è la posizione ufficiale della Chiesa nei confronti di Medjugorje?
Il primo giudizio è la Dichiarazione di Zara da parte dei vescovi della Jugoslavia nel 1991, da cui risulta che “non constat de supernaturalitate”, cioè che non è stata riscontrata la soprannaturalità del fenomeno. E’ un giudizio che non ha chiuso la vicenda, nonostante l’opposizione fermissima e contraria alle apparizioni da parte dei due vescovi che si sono succeduti alla guida della Diocesi di Mostar.

In che senso dice che è un giudizio che non ha chiuso la vicenda?
Qualche anno fa Benedetto XVI ha affidato al Cardinal Camillo Ruini una nuova inchiesta che si sta a sua volta avviando verso la conclusione. Non mi aspetto però una decisione definitiva della Chiesa finché le apparizioni continuano a essere in corso e i messaggi continuano a essere divulgati.

Che cosa la colpisce di più quando si parla di Medjugorje?
Il dato di fatto impressionante è quanta gente vada ogni anno a Medjugorje. E’ innegabile che le apparizioni producano tanti frutti spirituali positivi, e questo è uno dei criteri attraverso i quali la Chiesa giudica solitamente questi fenomeni.

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Nelle telefonate del Pontefice la pastorale della solidarietà

Posté par atempodiblog le 30 septembre 2013

Dalla vittima di stupro, alla mamma del tossicodipendente, al bambino malato
di Andrea Tornielli – Vatican Insider

Nelle telefonate del Pontefice la pastorale della solidarietà dans Andrea Tornielli phvh

La telefonata è arrivata grazie a un tovagliolo di carta. Poche righe intrise di sofferenza e di coraggio. Nei giorni scorsi, una donna addetta alle pulizie nell’aeroporto di Buenos Aires ha saputo che l’uomo passatole di fronte era il direttore della Tv cattolica e stava imbarcandosi su un volo diretto a Roma dove avrebbe incontrato il Papa. Così ha pensato di scrivere un breve messaggio, per raccontare di suo figlio tossicodipendente e disoccupato, spiegando che lei lavora ogni giorno per lui nella speranza che possa uscire dall’incubo della droga. La donna ha scritto sul tovagliolo la richiesta di una preghiera e l’ha affidata al giornalista.

Quella singolare missiva su salvietta ha attraversato l’oceano ed è arrivata nelle mani di Bergoglio, che ne è rimasto profondamente colpito. «Era scritta in modo spartano… chiedeva solo una preghiera». Il Papa ha composto il numero che la donna aveva appuntato su un angolo del tovagliolo e le ha parlato. Ha voluto anche parlare con il figlio. Ha ascoltato entrambi, ha detto che pregava per loro. Il giorno dopo, incontrando i preti di Roma, Francesco ne ha parlato: è stato finora l’unico caso di telefonata papale rivelato dal chiamante e non dal chiamato. Bergoglio ha indicato l’esempio della donna e ha chiesto: «Non è questa santità?». La Chiesa «non crolla», ha aggiunto, perché anche oggi «c’è tanta santità quotidiana».

Le chiamate del Francesco alle persone comuni stanno diventando un’abitudine. L’ultima in ordine di tempo è quella fatta alla famiglia Chiolerio di Betlemme, frazione di Chivasso. Il Papa ha chiamato Federico, un bambino di sei anni che gli aveva inviato un disegno della frazione, l’unica località italiana a portare il nome della città dov’è nato Gesù.

Che cosa spinge il Papa venuto «dalla fine del mondo», nei rari momenti di tranquillità trascorsi nella suite 201 di Casa Santa Marta, a prendere il telefono fisso e a digitare personalmente il numero di uomini, donne, bambini che gli hanno spedito una lettera, un disegno o un messaggio di posta elettronica? «Per favore, spieghi ai giornalisti che le mie telefonate non sono una notizia», ha detto Francesco a don Dario Viganò, direttore del Centro Televisivo Vaticano. «Io sono così, ho sempre fatto questo anche a Buenos Aires.

Ricevevo un biglietto, una lettera di un prete in difficoltà, una famiglia o un carcerato e rispondevo. Per me è molto più semplice chiamare, informarmi del problema e suggerire una soluzione, se c’è. Ad alcuni telefono, ad altri invece scrivo». Il Papa ha concluso con un sorriso ironico: «E meno male che non sanno tutte quelle che ho fatto!».

Le prime chiamate a sorpresa di Francesco erano dirette a persone conosciute. L’edicolante, per avvisarlo che causa elezione al soglio pontificio non doveva più portargli al copia del quotidiano «La Nación». Il suo dentista a Buenos Aires, per disdire, sempre a motivo della sopravvenuta elezione, un appuntamento già preso: il medico in quel momento era assente, e la segretaria per poco non sveniva dopo aver riconosciuta la voce di Bergoglio. Poi si è saputo di telefonate divenute un appuntamento fisso, come quella quindicinale, la domenica, a un gruppo di ragazzi detenuti in un carcere di Buenos Aires, che Francesco accompagna: «Sento che mi devo prendere cura di loro».

Infine si è cominciato ad aver notizia anche di chiamate fatte a persone sconosciute. Il flusso di corrispondenza è quasi triplicato, in Vaticano arrivano ogni giorno diversi sacchi pieni di lettere indirizzate a Francesco. Il Papa ha l’abitudine di leggerne un numero maggiore rispetto ai predecessori, anche se non può rispondere personalmente a tutte. Ma i messaggi che più lo colpiscono li trattiene sulla sua scrivania. Ci medita su. E in qualche caso partono le telefonate. Ripercorrendo quelle finite alla ribalta della cronaca, è possibile disegnarne quasi la «geografia».

C’è quella fatta a Michele Ferri, fratello del titolare di impianti di benzina ucciso lo scorso giugno da un suo dipendente. L’uomo, immobilizzato sulla carrozzina, gli aveva scritto per parlargli della sua sofferenza per quella morte violenta che non riusciva ad accettare. C’è quella che ha raggiunto Alejandra, una donna argentina vittima di stupro da parte di un poliziotto, che aveva scritto al Papa chiedendo giustizia. E ancora c’è la chiamata rivelata da Anna Romano, la giovane che ha deciso di non abortire nonostante il padre del bambino prima di abbandonarla glielo avesse chiesto. O quella della scorsa settimana a Michael, un dodicenne di Pinerolo ammalato di distrofia muscolare, che si stava lasciando andare ed è stato rincuorato.

Ma c’è stata anche quella a un giovane universitario padovano, che si è sentito invitare dal Papa a dargli de «tu». Proprio di questa chiamata Francesco ha parlato nell’intervista con il direttore della «Civiltà Cattolica»: «Ho visto che è stata molto ripresa dai giornali la telefonata che ho fatto a un ragazzo che mi aveva scritto una lettera. Io gli ho telefonato perché quella lettera era tanto bella, tanto semplice. Per me questo è stato un atto di fecondità. Mi sono reso conto che è un giovane che sta crescendo, ha riconosciuto un padre, e così gli dice qualcosa della sua vita. Il padre non può dire “me ne infischio”. Questa fecondità mi fa tanto bene».

«La Chiesa», ha detto Bergoglio «è una madre che non ha paura di entrare nella notte, per dare speranza… La Chiesa è una mamma misericordiosa, che cerca sempre di incoraggiare». Il filo rosso che unisce queste telefonate? Situazioni di dolore, di sofferenza, di solitudine ma anche di coraggio. E domande poste con autenticità. Francesco ha detto che bisogna recuperare la «grammatica della semplicità»: serve una Chiesa «capace di far compagnia» e di «riscaldare il cuore». Attraverso queste telefonate, e le tante altre che non conosceremo mai, il Papa «parroco» è entrato nelle singole esistenze di persone normali. Straordinariamente normali, proprio come lui.

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Intervista al Papa: «La Chiesa, un ospedale da campo»

Posté par atempodiblog le 20 septembre 2013

Il direttore di «Civiltà Cattolica» padre Antonio Spadaro intervista Papa Francesco: «Non possiamo insistere solo sulle questioni legate ad aborto, matrimonio omosessuale e uso dei metodi contraccettivi»
di Andrea Tornielli – Vatican Insider

Intervista al Papa: «La Chiesa, un ospedale da campo» dans Alessandro Manzoni tu6a

«Io vedo con chiarezza che la cosa di cui la Chiesa ha più bisogno oggi è la capacità di curare le ferite e di riscaldare il cuore dei fedeli, la vicinanza, la prossimità. Io vedo la Chiesa come un ospedale da campo dopo una battaglia. È inutile chiedere a un ferito grave se ha il colesterolo e gli zuccheri alti! Si devono curare le sue ferite. Poi potremo parlare di tutto il resto. Curare le ferite, curare le ferite… E bisogna cominciare dal basso».

È il cuore del messaggio contenuto nella lunga intervista (ben 29 pagine della rivista) che Papa Francesco ha concesso al direttore di «Civiltà Cattolica» padre Antonio Spadaro. Un colloquio di sei ore avvenuto il 19, il 23 e il 29 agosto. Jorge Mario Bergoglio traccia un identikit inedito di se stesso, che include anche le sue preferenze artistiche; analizza il ruolo della Chiesa oggi e indica le priorità dell’azione pastorale.

Non insistere solo sui valori non negoziabili
«Non possiamo insistere solo sulle questioni legate ad aborto, matrimonio omosessuale e uso dei metodi contraccettivi. Questo non è possibile. Io non ho parlato molto di queste cose, e questo mi è stato rimproverato. Ma quando se ne parla, bisogna parlarne in un contesto. Il parere della Chiesa, del resto, lo si conosce, e io sono figlio della Chiesa, ma non è necessario parlarne in continuazione».

«Una pastorale missionaria non è ossessionata dalla trasmissione disarticolata di una moltitudine di dottrine da imporre con insistenza. L’annuncio di tipo missionario si concentra sull’essenziale, sul necessario, che è anche ciò che appassiona e attira di più, ciò che fa ardere il cuore, come ai discepoli di Emmaus…».

«La Chiesa a volte si è fatta rinchiudere in piccole cose, in piccoli precetti. La cosa più importante è invece il primo annuncio: “Gesù Cristo ti ha salvato!”. E i ministri della Chiesa devono innanzitutto essere ministri di misericordia». «L’annuncio dell’amore salvifico di Dio è previo all’obbligazione morale e religiosa. Oggi a volte sembra che prevalga l’ordine inverso».

A proposito dei gay
«Dobbiamo annunciare il Vangelo su ogni strada, predicando la buona notizia del Regno e curando, anche con la nostra predicazione, ogni tipo di malattia e di ferita. A Buenos Aires ricevevo lettere di persone omosessuali, che sono “feriti sociali” perché mi dicono che sentono come la Chiesa li abbia sempre condannati. Ma la Chiesa non vuole fare questo. Durante il volo di ritorno da Rio de Janeiro ho detto che, se una persona omosessuale è di buona volontà ed è in cerca di Dio, io non sono nessuno per giudicarla. Dicendo questo io ho detto quel che dice il Catechismo. La religione ha il diritto di esprimere la propria opinione a servizio della gente, ma Dio nella creazione ci ha resi liberi: l’ingerenza spirituale nella vita personale non è possibile».

«Una volta una persona, in maniera provocatoria, mi chiese se approvavo l’omosessualità. Io allora le risposi con un’altra domanda: “Dimmi: Dio, quando guarda a una persona omosessuale, ne approva l’esistenza con affetto o la respinge condannandola?”. Bisogna sempre considerare la persona. Qui entriamo nel mistero dell’uomo. Nella vita Dio accompagna le persone, e noi dobbiamo accompagnarle a partire dalla loro condizione. Bisogna accompagnare con misericordia. Quando questo accade, lo Spirito Santo ispira il sacerdote a dire la cosa più giusta».

«La mia certezza: Dio è nella vita di ogni persona»
«Chi oggi cerca sempre soluzioni disciplinari – ha affermato Francesco – chi tende in maniera esagerata alla “sicurezza” dottrinale, chi cerca ostinatamente di recuperare il passato perduto, ha una visione statica e involutiva. E in questo modo la fede diventa una ideologia tra le tante. Io ho una certezza dogmatica: Dio è nella vita di ogni persona, Dio è nella vita di ciascuno. Anche se la vita di una persona è stata un disastro, se è distrutta dai vizi, dalla droga o da qualunque altra cosa, Dio è nella sua vita. Lo si può e lo si deve cercare in ogni vita umana. Anche se la vita di una persona è un terreno pieno di spine ed erbacce, c’è sempre uno spazio in cui il seme buono può crescere. Bisogna fidarsi di Dio».

Dio è più grande del peccato
«Come stiamo trattando il popolo di Dio? Sogno una Chiesa Madre e Pastora. I ministri della Chiesa devono essere misericordiosi, farsi carico delle persone, accompagnandole come il buon samaritano che lava, pulisce, solleva il suo prossimo. Questo è Vangelo puro. Dio è più grande del peccato. Le riforme organizzative e strutturali sono secondarie, cioè vengono dopo. La prima riforma deve essere quella dell’atteggiamento. I ministri del Vangelo devono essere persone capaci di riscaldare il cuore delle persone, di camminare nella notte con loro, di saper dialogare e anche di scendere nella loro notte, nel loro buio senza perdersi. Il popolo di Dio vuole pastori e non funzionari o chierici di Stato. I vescovi, particolarmente, devono essere uomini capaci di sostenere con pazienza i passi di Dio nel suo popolo in modo che nessuno rimanga indietro, ma anche per accompagnare il gregge che ha il fiuto per trovare nuove strade».

La Chiesa è il popolo di Dio
«Il popolo è soggetto. E la Chiesa è il popolo di Dio in cammino nella storia, con gioie e dolori. Sentire cum Ecclesia dunque per me è essere in questo popolo. E l’insieme dei fedeli è infallibile nel credere, e manifesta questa sua infallibilitas in credendo mediante il senso soprannaturale della fede di tutto il popolo che cammina… Quando il dialogo tra la gente e i vescovi e il Papa va su questa strada ed è leale, allora è assistito dallo Spirito Santo. Non è dunque un sentire riferito ai teologi… Non bisogna dunque neanche pensare che la comprensione del « sentire con la Chiesa » sia legata solamente al sentire con la sua parte gerarchica». E la Chiesa non va ridotta a «una piccola cappella che può contenere solo un gruppetto di persone selezionate. Non dobbiamo ridurre il seno della Chiesa universale a un nido protettore della nostra mediocrità».

«Sono un peccatore»
Il Papa definisce se stesso «un peccatore». E ricordando la straordinaria immagine caravaggesca della vocazione di Matteo afferma: «Ecco, questo sono io: “un peccatore al quale il Signore ha rivolto i suoi occhi”. E questo è quel che ho detto quando mi hanno chiesto se accettavo la mia elezione a Pontefice».

Per fare le riforme serve tempo
«Molti pensano che i cambiamenti e le riforme possano avvenire in breve tempo. Io credo che ci sia sempre bisogno di tempo per porre le basi di un cambiamento vero, efficace. E questo è il tempo del discernimento. E a volte il discernimento invece sprona a fare subito quel che invece inizialmente si pensa di fare dopo. È ciò che è accaduto anche a me in questi mesi».
«Ecco, invece diffido delle decisioni prese in maniera improvvisa – ha spiegato il Papa a « Civiltà Cattolica » – Diffido sempre della prima decisione, cioè della prima cosa che mi viene in mente di fare se devo prendere una decisione. In genere è la cosa sbagliata. Devo attendere, valutare interiormente, prendendo il tempo necessario. La sapienza del discernimento riscatta la necessaria ambiguità della vita e fa trovare i mezzi più opportuni, che non sempre si identificano con ciò che sembra grande o forte».

Perché uso un’auto modesta
«Il discernimento si realizza sempre alla presenza del Signore, guardando i segni, ascoltando le cose che accadono, il sentire della gente, specialmente i poveri. Le mie scelte, anche quelle legate alla normalità della vita, come l’usare una macchina modesta, sono legate a un discernimento spirituale che risponde a una esigenza che nasce dalle cose, dalla gente, dalla lettura dei segni dei tempi. Il discernimento nel Signore mi guida nel mio modo di governare».

Sono un indisciplinato… nato
Della Compagnia di Gesù, Francesco dice: «mi hanno colpito tre cose: la missionarietà, la comunità e la disciplina. Curioso questo, perché io sono un indisciplinato nato, nato, nato. Ma la loro disciplina, il modo di ordinare il tempo, mi ha colpito tanto».

Non vado nell’appartamento papale perché lì si entra col contagocce
«E poi – ha aggiunto – una cosa per me davvero fondamentale è la comunità. Cercavo sempre una comunità. Io non mi vedevo prete solo: ho bisogno di comunità. E lo si capisce dal fatto che sono qui a Santa Marta… Ho scelto di abitare qui, nella camera 201, perché quando ho preso possesso dell’appartamento pontificio, dentro di me ho sentito distintamente un “no”. L’appartamento pontificio nel Palazzo Apostolico non è lussuoso. È antico, fatto con buon gusto e grande, non lussuoso. Ma alla fine è come un imbuto al rovescio. È grande e spazioso, ma l’ingresso è davvero stretto. Si entra col contagocce, e io no, senza gente non posso vivere. Ho bisogno di vivere la mia vita insieme agli altri».

Carattere decisionista ma non sono di destra
«Nella mia esperienza di superiore in Compagnia… il mio governo all’inizio aveva molti difetti… Mi son trovato Provinciale ancora molto giovane. Avevo 36 anni: una pazzia. Bisognava affrontare situazioni difficili, e io prendevo le mie decisioni in maniera brusca e personalista. Sì, devo aggiungere però una cosa: quando affido una cosa a una persona, mi fido totalmente di quella persona. Deve fare un errore davvero grande perché io la riprenda. Ma, nonostante questo, alla fine la gente si stanca dell’autoritarismo. Il mio modo autoritario e rapido di prendere decisioni mi ha portato ad avere seri problemi e ad essere accusato di essere ultraconservatore. Ho vissuto un tempo di grande crisi interiore quando ero a Cordova. Ecco, no, non sono stato certo come la Beata Imelda, ma non sono mai stato di destra. È stato il mio modo autoritario di prendere le decisioni a creare problemi».

Voglio consultazioni reali, non pro forma
«Col tempo ho imparato molte cose. Il Signore ha permesso questa pedagogia di governo anche attraverso i miei difetti e i miei peccati. Così da arcivescovo di Buenos Aires ogni quindici giorni facevo una riunione con i sei vescovi ausiliari, varie volte l’anno col Consiglio presbiterale. Si ponevano domande e si apriva lo spazio alla discussione. Questo mi ha molto aiutato a prendere le decisioni migliori. E adesso sento alcune persone che mi dicono: “non si consulti troppo, e decida”. Credo invece che la consultazione sia molto importante. I concistori, i Sinodi sono, ad esempio, luoghi importanti per rendere vera e attiva questa consultazione. Bisogna renderli però meno rigidi nella forma. Voglio consultazioni reali, non formali. La Consulta degli otto cardinali, questo gruppo consultivo outsider, non è una decisione solamente mia, ma è frutto della volontà dei cardinali, così come è stata espressa nelle Congregazioni Generali prima del conclave. E voglio che sia una Consulta reale, non formale».

Così vedo la Curia
«I dicasteri romani sono al servizio del Papa e dei vescovi: devono aiutare sia le Chiese particolari sia le Conferenze episcopali. Sono meccanismi di aiuto. In alcuni casi, quando non sono bene intesi, invece, corrono il rischio di diventare organismi di censura. È impressionante vedere le denunce di mancanza di ortodossia che arrivano a Roma. Credo che i casi debbano essere studiati dalle Conferenze episcopali locali, alle quali può arrivare un valido aiuto da Roma. I casi, infatti, si trattano meglio sul posto. I dicasteri romani sono mediatori, non intermediari o gestori».

Collegialità e primato di Pietro
«Si deve camminare insieme: la gente, i vescovi e il Papa. La sinodalità va vissuta a vari livelli. Forse è il tempo di mutare la metodologia del Sinodo, perché quella attuale mi sembra statica. Questo potrà anche avere valore ecumenico, specialmente con i nostri fratelli Ortodossi. Da loro si può imparare di più sul senso della collegialità episcopale e sulla tradizione della sinodalità. Lo sforzo di riflessione comune, guardando a come si governava la Chiesa nei primi secoli, prima della rottura tra Oriente e Occidente, darà frutti a suo tempo».

La donna nella Chiesa e il «machismo in gonnella»
«È necessario ampliare gli spazi di una presenza femminile più incisiva nella Chiesa. Temo la soluzione del “machismo in gonnella”, perché in realtà la donna ha una struttura differente dall’uomo. E invece i discorsi che sento sul ruolo della donna sono spesso ispirati proprio da una ideologia machista. Le donne stanno ponendo domande profonde che vanno affrontate. La Chiesa non può essere se stessa senza la donna e il suo ruolo. La donna per la Chiesa è imprescindibile. Maria, una donna, è più importante dei vescovi. Dico questo perché non bisogna confondere la funzione con la dignità. Bisogna dunque approfondire meglio la figura della donna nella Chiesa. Bisogna lavorare di più per fare una profonda teologia della donna. Solo compiendo questo passaggio si potrà riflettere meglio sulla funzione della donna all’interno della Chiesa. Il genio femminile è necessario nei luoghi in cui si prendono le decisioni importanti».

Il Concilio e la messa antica
«Il Vaticano II è stato una rilettura del Vangelo alla luce della cultura contemporanea. Ha prodotto un movimento di rinnovamento che semplicemente viene dallo stesso Vangelo. I frutti sono enormi. Basta ricordare la liturgia. Il lavoro della riforma liturgica è stato un servizio al popolo come rilettura del Vangelo a partire da una situazione storica concreta. Sì, ci sono linee di ermeneutica di continuità e di discontinuità, tuttavia una cosa è chiara: la dinamica di lettura del Vangelo attualizzata nell’oggi che è stata propria del Concilio è assolutamente irreversibile. Poi ci sono questioni particolari come la liturgia secondo il Vetus Ordo. Penso che la scelta di Papa Benedetto sia stata prudenziale, legata all’aiuto ad alcune persone che hanno questa particolare sensibilità. Considero invece preoccupante il rischio di ideologizzazione del Vetus Ordo, la sua strumentalizzazione».

Se uno ha una risposta per tutto, Dio non è con lui
«Se una persona dice che ha incontrato Dio con certezza totale e non è sfiorata da un margine di incertezza, allora non va bene. Per me questa è una chiave importante. Se uno ha le risposte a tutte le domande, ecco che questa è la prova che Dio non è con lui. Vuol dire che è un falso profeta, che usa la religione per se stesso. Le grandi guide del popolo di Dio, come Mosè, hanno sempre lasciato spazio al dubbio. Si deve lasciare spazio al Signore, non alle nostre certezze; bisogna essere umili. L’incertezza si ha in ogni vero discernimento che è aperto alla conferma della consolazione spirituale».

La dottrina non è un monolite da difendere
«Ci sono norme e precetti ecclesiali secondari che una volta erano efficaci, ma che adesso hanno perso di valore o significato. La visione della dottrina della Chiesa come un monolite da difendere senza sfumature è errata… Le forme di espressione della verità possono essere multiformi, e questo anzi è necessario per la trasmissione del messaggio evangelico nel suo significato immutabile».

Il pericolo della fede-laboratorio
«C’è sempre in agguato il pericolo di vivere in un laboratorio. La nostra non è una fede-laboratorio, ma una fede-cammino, una fede storica. Dio si è rivelato come storia, non come un compendio di verità astratte. Io temo i laboratori perché nel laboratorio si prendono i problemi e li si portano a casa propria per addomesticarli, per verniciarli, fuori dal loro contesto. Non bisogna portarsi la frontiera a casa, ma vivere in frontiera ed essere audaci».
«Quando si parla di problemi sociali, una cosa è riunirsi per studiare il problema della droga in una villa miseria, e un’altra cosa è andare lì, viverci e capire il problema dall’interno e studiarlo».

«Sono vivo grazie a una suora»
«Le frontiere sono tante. Pensiamo alle suore che vivono negli ospedali: loro vivono nelle frontiere. Io sono vivo grazie a una di loro. Quando ho avuto il problema al polmone in ospedale, il medico mi diede penicillina e streptomicina in certe dosi. La suora che stava in corsia le triplicò perché aveva fiuto, sapeva cosa fare, perché stava con i malati tutto il giorno. Il medico, che era davvero bravo, viveva nel suo laboratorio, la suora viveva nella frontiera e dialogava con la frontiera tutti i giorni. Addomesticare le frontiere significa limitarsi a parlare da una posizione distante, chiudersi nei laboratori. Sono cose utili, ma la riflessione per noi deve sempre partire dall’esperienza».

I Promessi Sposi sul comodino
«Ho amato molto autori diversi tra loro. Amo moltissimo Dostoevskij e Hölderlin. Di Hölderlin voglio ricordare quella lirica per il compleanno di sua nonna che è di grande bellezza, e che a me ha fatto anche tanto bene spiritualmente. È quella che si chiude con il verso « Che l’uomo mantenga quel che il fanciullo ha promesso ». Mi ha colpito anche perché ho molto amato mia nonna Rosa, e lì Hölderlin accosta sua nonna a Maria che ha generato Gesù, che per lui è l’amico della terra che non ha considerato straniero nessuno. Ho letto il libro « I Promessi Sposi » tre volte e ce l’ho adesso sul tavolo per rileggerlo. Manzoni mi ha dato tanto. Mia nonna, quand’ero bambino, mi ha insegnato a memoria l’inizio di questo libro»

Il film di Fellini
«La strada di Fellini è il film che forse ho amato di più. Mi identifico con quel film, nel quale c’è un implicito riferimento a san Francesco. Credo poi di aver visto tutti i film con Anna Magnani e Aldo Fabrizi quando avevo tra i 10 e 12 anni. Un altro film che ho molto amato è Roma città aperta. Devo la mia cultura cinematografica soprattutto ai miei genitori che ci portavano spesso al cinema».

LINK
http://www.laciviltacattolica.it

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Papa Francesco risponde alle domande dei giornalisti

Posté par atempodiblog le 30 juillet 2013

Papa Francesco risponde alle domande dei giornalisti
di Giacomo Galeazzi e Andrea Tornielli, inviati sul volo Rio de Janeiro-Roma – La Stampa

Papa Francesco risponde alle domande dei giornalisti dans Andrea Tornielli pp5a

Lobby gay, scandali finanziari, Ior, Vatileaks. Non c’è tema al quale Francesco si sia sottratto nell’ora e venti di botta e risposta con i giornalisti sul volo da Rio De Janeiro a Roma. Un confronto franco, senza nessun filtro da parte del Vaticano sugli argomenti, come accadeva invece in passato. Bergoglio è arrivato di buon passo e fresco come una rosa, nonostante un tour de force di una settimana e giornate intere passate ad abbracciare persone, fare discorsi, celebrare lunghe liturgie. Poco dopo il decollo da Rio, Francesco ha raggiunto la coda dell’Airbus 330 Alitalia dove viaggiano i giornalisti per sottoporsi al fuoco di fila delle loro richieste. Ha preso di petto anche le questioni più delicate o scottanti, anzi ha ringraziato per l’opportunità di chiarirle: le accuse di omosessualità rivolte a monsignor Ricca, il futuro della banca vaticana di cui non è esclusa la chiusura e i sacramenti ai divorziati risposati. E ancora, il ruolo della donna nella Chiesa, il lusso della Curia, fino al contenuto della borsa in cuoio nera che Francesco ha portato personalmente come suo bagaglio a mano. Bergoglio ha sorpreso tutti per la puntualità delle risposte e per la cordialità mostrata verso la stampa e ha rivelato di voler fare un viaggio di un giorno per andare a trovare i parenti in Piemonte. Ieri mattina, quando ormai l’aereo era prossimo all’atterraggio, il Papa si è nuovamente riaffacciato, da solo e senza prelati al seguito, per salutare i giornalisti. L’ennesima riprova del fatto che il nuovo Papa comunica benissimo e non ha bisogno di spin doctor o sherpa: ‘Dobbiamo essere normali’.

Il destino incerto dello Ior
« Io pensavo di trattare la questione l’anno prossimo, ma l’agenda è cambiata per i ben noti problemi da affrontare. Come riformarlo e sanare ciò che c’è da sanare? Ho nominato una commissione ‘referente’. Non so come finirà lo Ior: alcuni dicono che sia meglio avere una banca, altri che servirebbe un fondo di aiuto, altri ancora dicono di chiuderlo. Mi fido del lavoro delle persone della commissione che stanno lavorando su questo. Il presidente dello Ior rimane lo stesso di prima, invece il direttore e il vicedirettore hanno dato le dimissioni. Non saprei dire come finirà: si prova, si cerca, ed è anche bello, perché siamo umani, dobbiamo trovare il mezzo per fare questo bene. Ma di certo qualsiasi cosa diventerà lo Ior, le caratteristiche devono essere trasparenza e onestà. Deve essere così » .

La lobby gay (in Vaticano)
« Si scrive tanto della lobby gay. Io ancora non ho trovato nessuno che mi dia la carta d’identità, in Vaticano, dove c’è scritto gay. Dicono che ce ne siano. Credo che qualcuno si trova. Ma si deve distinguere il fatto che una persona sia gay dal fatto di fare lobby. Se è lobby, tutte non sono buone. Se una persona è gay e cerca il Signore e ha buona volontà, chi sono io per giudicarla? Il Catechismo della Chiesa cattolica dice che queste persone non devono essere discriminate ma accolte. Il problema non è avere queste tendenze, sono fratelli, il problema è fare lobby: di questa tendenza o lobby d’affari, lobby dei politici, lobby dei massoni, tante lobby… questo è il problema più grave » .

Le accuse contro monsignor Ricca
« Nel caso di monsignor Ricca ho fatto quello che il diritto canonico chiede di fare, che è l’investigazione previa. E in questa investigazione non c’è niente di quello di cui lo accusano, non abbiamo trovato niente. Questa è la risposta. Ma vorrei aggiungere un’altra cosa. Vedo che tante volte nella Chiesa, fuori di questo caso e anche in questo caso, si vanno a cercare i peccati di gioventù, e questo poi si pubblica. Non i delitti, che sono un’altra cosa, l’abuso di minori per esempio è un delitto, non è un peccato. Ma se una persona, laica prete o suora, commette un peccato e poi si converte, il Signore perdona. E quando il Signore perdona, dimentica. Questo per la nostra vita è importante: quando noi andiamo a confessarci, e diciamo ‘ho peccato’, il Signore dimentica. E noi non abbiamo il diritto di non dimenticare, perché corriamo il rischio che anche il Signore non si dimentichi dei nostri peccati. Tante volte penso a San Pietro: ha commesso uno dei peccati peggiori, rinnegare Cristo, e dopo questo peccato lo hanno fatto Papa! ».

Austerità e caso Scarano
« Non potrei vivere da solo nel palazzo. L’appartamento papale è grande ma non è lussuoso. Ma io non posso vivere da solo con un piccolo gruppetto di persone. Ho bisogno di vivere con gente, di trovare gente. Per questo ho detto che sono motivi ‘psichiatrici’: psicologicamente non potevo e ognuno deve partire dal suo modo di essere. Comunque anche gli appartamenti dei cardinali sono austeri, quelli che conosco. Ognuno deve vivere come il Signore chiede di vivere. Ma un’austerità generale è necessaria per tutti quelli che lavorano al servizio della Chiesa. Ci sono santi in Curia, vescovi, preti e laici, gente che lavora. Tanti che vanno dai poveri di nascosto o che nel tempo libero vanno in qualche chiesa a esercitare il ministero. Poi c’è anche qualcuno che non è tanto santo e questi casi fanno rumore perché, come sapete, fa più rumore un albero che cade che una foresta che cresce. A me provoca dolore quando accadono queste cose. Abbiamo questo monsignore (il riferimento è a Nunzio Scarano, contabile dell’Apsa, ndr) che è in galera. Non è andato in galera perché assomigliava alla beata Imelda! » .

L’Argentina può attendere
« In America Latina credo che non ci sia possibilità di tornare, perché il Papa latinoamericano, il primo viaggio in America Latina … arrivederci! Dobbiamo aspettare un po’! Andare in Argentina: in questo momento io credo che si possa aspettare un po’, perché altri viaggi come quello a Gerusalemme hanno una certa priorità » .

Il caso Vatileaks
« Quando sono andato a trovare Benedetto XVI a Castel Gandolfo, ho visto che sul tavolino c’erano una cassa e una busta. Benedetto XVI mi ha detto che nella cassa c’erano tutte le testimonianze delle persone ascoltate dalla commissione dei tre cardinali sul caso Vatileaks, mentre nella busta c’erano le conclusioni, il riassunto finale. Benedetto XVI sapeva tutto a memoria. È un problema grosso, ma non mi sono spaventato! ».

Il contenuto della borsa di cuoio
« Non c’era la chiave per la bomba atomica… Sono salito sull’aereo portando la mia borsa perché sempre faccio così. Che cosa c’è dentro? Il rasoio, il breviario, l’agenda e un libro da leggere: ho portato un libro su Santa Teresina, della quale sono devoto. È normale portarsi la borsa, dobbiamo essere normali, dobbiamo abituarci a essere normali e sono un po’ sorpreso del fatto che l’immagine della borsa abbia fatto il giro del mondo ».

L’aereo papale senza il letto
« Quest’aereo non ha allestimenti speciali. Io sono avanti, una bella poltrona, comune, ma comune, quella che hanno tutti. Io ho fatto scrivere una lettera e una chiamata telefonica per dire che io non volevo allestimenti speciali sull’aereo: è chiaro? ».

Il Papa ‘ingabbiato’ e la sicurezza
« Sapeste quante volte ho avuto voglia di andare per le strade di Roma! Mi piaceva tanto. Era una mia abitudine di camminare, ero un prete ‘callejero’, un prete di strada. Ma questi della Gendarmeria sono buoni, tanto buoni, e adesso mi lasciano fare qualcosa di più…
A proposito di tutte le ipotesi fatte sulla sicurezza durante il viaggio in Brasile: non c’è stato un solo incidente in tutta Rio de Janeiro in questi giorni. E tutto è stato spontaneo. Con meno sicurezza, ho potuto abbracciare la gente. Ho voluto fidarmi di un popolo.
È vero che c’era il rischio che ci fosse qualche pazzo, ma c’è anche il Signore. Non ho voluto la macchina blindata perché non si può blindare un vescovo dal suo popolo. Preferisco la pazzia di questa vicinanza che fa bene a tutti ».

Sui sacramenti ai divorziati risposati
« È un tema che torna sempre. Credo che questo sia il tempo della misericordia, questo cambio d’epoca in cui ci sono tanti problemi anche nella Chiesa, anche per le testimonianze non buone di alcuni preti. Il clericalismo ha lasciato tanti feriti e bisogna andare a curarli con la misericordia. La Chiesa è mamma, e nella Chiesa si deve trovare misericordia per tutti. E i feriti non solo bisogna aspettarli, ma bisogna andarli a trovare… I divorziati possono fare la comunione, sono i divorziati in seconda unione che non possono. Bisogna guardare al tema nella totalità della pastorale matrimoniale. Gli ortodossi ad esempio seguono la teologia dell’economia e permettono una seconda unione. Quando si riunirà il gruppo degli otto cardinali, nei primi tre giorni di ottobre, tratteremo come andare avanti nella pastorale matrimoniale. Il mio predecessore a Buenos Aires, il cardinale Quarracino, diceva sempre: ‘Per me la metà dei matrimoni sono nulli, perché si sposano senza sapere che è per sempre, perché lo fanno per convenienza sociale, etc…’. Anche il tema della nullità si deve studiare ».

Le donne nella Chiesa
« Una Chiesa senza le donne è come il collegio apostolico senza la Madonna. Il ruolo delle donne è l’icona della Vergine, della Madonna. E la Madonna è più importante degli apostoli. La Chiesa è femminile perché è sposa e madre. Si deve andare più avanti, non si può capire una Chiesa senza le donne attive in essa… Non abbiamo ancora fatto una teologia della donna. Bisogna farlo.
Per quanto riguarda l’ordinazione delle donne, la Chiesa ha parlato e ha detto no. Giovanni Paolo II si è pronunciato con una formulazione definitiva, quella porta è chiusa. Ma ricordiamo che Maria è più importante degli apostoli vescovi, e così la donna nella Chiesa è più importante dei vescovi e dei preti ».

Il rapporto con ‘nonno’ Benedetto XVI
« L’ultima volta che ci sono stati due Papi insieme non si parlavano ma lottavano per vedere chi era quello vero. Io a Benedetto XVI voglio tanto bene, è un uomo di Dio, un uomo umile, un uomo che prega. Sono stato tanto felice quando è stato eletto Papa, e poi abbiamo visto il suo gesto delle dimissioni… per me è un grande. Adesso abita in Vaticano e c’è chi chiede: ma non ti ingombra? Non ti rema contro? No, per me è come avere il nonno saggio in casa, è il mio papà. Quando in famiglia c’è il nonno, è venerato e ascoltato. Benedetto XVI non si immischia. Se ho una difficoltà posso andare a parlargli, come ho fatto per quel problema grosso di Vatileaks… Quando ha ricevuto i cardinali il 28 febbraio per accomiatarsi, ha detto: tra di voi c’è il nuovo Papa al quale io prometto fin d’ora la mia obbedienza. È un grande! »

Cose belle e brutte di questi mesi
« Tra le cose belle penso all’incontro con i vescovi italiani. Tra quelle dolorose che mi sono entrate nel cuore c’è stata la visita a Lampedusa, che mi ha fatto bene. Ho pensato con dolore a quelle persone morte in mare prima di sbarcare, che sono vittime di un sistema socio-economico mondiale. Ma la cosa peggiore che mi è capitata è una sciatica, che ho avuto nel primo mese, a causa della poltrona dove mi sedevo per ricevere. È stata dolorosissima e non la auguro a nessuno! ».

Il lavoro di vescovo e di Papa
« Fare il lavoro di vescovo è una cosa bella. Il problema è quando qualcuno cerca quel lavoro, questo non è tanto bello. C’è sempre il pericolo di pensarsi un po’ superiori agli altri, di sentirsi un po’ principe. Ma il lavoro di vescovo è bello: deve stare davanti ai fedeli, in mezzo ai fedeli e dietro ai fedeli. Facendo il vescovo a Buenos Aires sono stato felice. Ero tanto felice. E come Papa? Anche. Quando il Signore ti mette lì, se tu accetti di fare quello che il Signore ti chiede, sei felice’ ».

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«Sarebbe sciocco rinunciare al consiglio di Benedetto»

Posté par atempodiblog le 13 juillet 2013

«Sarebbe sciocco rinunciare al consiglio di Benedetto»
In una telefonata all’amico ex alunno Jorge Milia, Papa Francesco parla dell’affetto per il predecessore

Andrea Tornielli – Vatican Insider

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«Non ti immagini l’umiltà e la saggezza di quest’uomo… Non ci penso nemmeno a rinunciare al consiglio di una persona del genere, sarebbe sciocco da parte mia!». Sono parole di Papa Bergoglio riferite al suo predecessore, Benedetto XVI. Parole dette per telefono a Jorge Milia, giornalista, scrittore ed ex alunno di Bergoglio. Le riporta lo stesso Milia in un articolo pubblicato sul blog di Alver Metalli Terre d’America.

Lo scrittore inizia col dire che il Papa con lui si è lamentato per aver ricevuto una sua lettera di ben dodici pagine. «Ma non puoi negare che ti ho fatto ridere…» gli ha risposto Milia. «Ha riso. Per quelle ragioni che nessuno può spiegare, tanto meno io, tollera ancora la mia prosa come tanti anni fa, quando eravamo professore e alunno. Gli ho detto che avevo iniziato a leggere l’enciclica Lumen Fidei e lui ha declinato ogni merito personale.

Ha commentato che Benedetto XVI aveva fatto la maggior parte del lavoro, che era un pensatore sublime, non conosciuto o capito dalla maggior parte delle persone». Poi lo scrittore riferisce altre parole del Pontefice: «Oggi ero con el viejo, il vecchio … – l’ha chiamato così, all’argentina, con quel carattere affettuoso che diamo alla parola – abbiamo chiacchierato molto; per me è un piacere scambiare idee con lui»  «E davvero quando parla di Ratzinger – rimarca Milia – lo fa con riconoscenza e tenerezza. A me fa un po’ l’effetto di uno che ha ritrovato un vecchio amico, un ex compagno di classe, di quelli che si fanno vedere di tanto in tanto, che a scuola frequentavano uno o due corsi dopo il nostro e che in qualche modo ammiravamo, magari con le differenze che il tempo aveva levigato, ammorbidito».   Francesco per telefono ha aggiunto all’amico ex alunno: «Non ti immagini l’umiltà e la saggezza di quest’uomo».

Milia ha ribattuto: «Allora tienilo vicino…». «Non ci penso nemmeno – ha replicato il Papa – a rinunciare al consiglio di una persona del genere, sarebbe sciocco da parte mia!». A proposito dell’accessibilità nel rapporto con le persone, Francesco ha confidato all’amico: «Non è stato facile, Jorge, qui ci sono molti “padroni” del Papa e con molta anzianità di servizio». «Poi ha commentato – scrive Milia – che ogni cambiamento che ha introdotto gli è costato degli sforzi (e, suppongo, dei nemici …) Tra questi sforzi la cosa più difficile è stata di non accettare che gli gestissero l’agenda. Per questo non ha voluto vivere nel palazzo, perché molti Papi hanno finito con il diventare “prigionieri” dei loro segretari».

«Sono io che decido chi vedere – ha detto Francesco all’ex alunno – non i miei segretari…  A volte non posso vedere chi vorrei, perché devo vedere chi chiede di me». «Questa frase mi ha molto colpito – osserva lo scrittore -. Io, che non sono Papa e non ho il suo potere, sento il cuore che si accelera quando aspetto un caro amico e non so proprio se darei la precedenza ad un altro al suo posto. Lui, invece, si priva dell’incontro che vorrebbe per stare con chi lo richiede. Mi ha detto che i Papi sono stati isolati per secoli e che questo non va bene, il posto del Pastore è con le sue pecore…».

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Un’indagine svela l’“effetto Francesco”

Posté par atempodiblog le 11 mai 2013

Un’indagine svela l’effetto Francesco”
di Massimo Introvigne – La nuova Bussola Quotidiana
Tratto da: Ascolta tua Madre

Un'indagine svela l'“effetto Francesco” dans Andrea Tornielli papafrancescomisericord

Il primo a rilevarlo è stato, tra i giornalisti, l’amico Andrea Tornielli. C’è un «effetto Francesco» e a Pasqua, commossi dagli appelli del nuovo Papa ad affidarsi senza riserve alla misericordia divina, molti «lontani» sono tornati in chiesa, spesso dopo tanti anni, e si sono confessati. Anch’io ho sentito tanti aneddoti di questo genere, non solo in Italia, raccontati da sacerdoti o religiosi, e anche da autorità ecclesiastiche, e ho verificato questo effetto in ambienti dove non me lo sarei mai aspettato.

Siccome però sono un sociologo, diffido sempre un po’ delle impressioni aneddotiche e preferisco affidarmi ai dati quantitativi. Il centro che dirigo, il CESNUR, ha dunque promosso un’indagine intesa a trasformare le impressioni aneddotiche sull’effetto Francesco in un dato statistico, per quanto primo e parziale. Impostare un’indagine dopo un solo mese di pontificato di Francesco non è stato facile, e i sacerdoti e religiosi sono un universo non sempre entusiasta di rispondere ai sociologi. Ho quindi scelto la tecnica detta a cascata, in cui da un gruppo qualificato d’intervistati si passa, sfruttando i loro contatti, a un altro gruppo.

Mi sono servito di un software che permette di raccogliere risposte a questionari a partire dai social network Facebook e Twitter, e mi
sono rivolto ai sacerdoti e religiosi presenti in una serie di gruppi e ambiti qualificati: non solo i miei amici – che sono comunque cinquemila, il
massimo consentito, su Facebook – ma i partecipanti a gruppi di ex alunni di seminari, di lettori della Nuova Bussola Quotidiana e di Avvenire,
di ascoltatori di Radio Maria, di persone interessate alle news su associazioni e movimenti cattolici.

La ricerca si è chiusa automaticamente al ricevimento della duecentesima risposta ricevuta da un sacerdote o religioso, un campione –
considerata la tecnica usata – rappresentativo e sufficiente. Sono stati intervistati, a titolo di controllo, anche laici cattolici impegnati in una
specifica comunità e un piccolo numero di religiose.
Tra i sacerdoti e religiosi il 53% ha affermato di avere riscontrato nella propria comunità un aumento delle persone che si riavvicinano alla
Chiesa o si confessano, aggiungendo che queste persone citano esplicitamente gli appelli di Papa Francesco come ragione del loro
riavvicinamento alla pratica religiosa. Nel 43,8% di questi casi l’aumento di fedeli è definito come consistente, superiore al 25%. Lo notano di
più i religiosi (66,7%) rispetto ai sacerdoti diocesani (50%). E per il 64,2% del campione l’aumento riguarda particolarmente le confessioni.

Abbiamo condotto la stessa indagine anche su un campione di oltre cinquecento laici cattolici. Percepiscono l’effetto Francesco meno dei
sacerdoti e religiosi, che sono impegnati direttamente nei confessionali. Ma un significativo 41,8% dei laici si è accorto dell’effetto di ritorno
alla Chiesa motivato dagli appelli di Papa Francesco, che sembra dunque essere visibile, per così dire, anche a occhio nudo. Il 17,7% dei laici
dichiara specificamente di avere rilevato un aumento di coloro che si confessano nella propria comunità. Per quanto poi il numero di religiose
che hanno risposto sia modesto, questo primo dato indica che le suore si sono accorte del fenomeno in modo massiccio: 81,82%.

I dati sono, nei limiti dell’indagine, molto significativi. Un effetto rilevato da oltre metà di un campione è un fenomeno non solo esistente
ma di grande rilievo. Non è tanto importante che il 47% dei sacerdoti e religiosi non riscontri l’effetto. I fenomeni sociali percepiti dall’unanimità
o quasi di chi risponde a un questionario sono pochissimi. Né si potrebbe sostenere che gli intervistati hanno scambiato il consueto aumento
di fedeli e penitenti a Pasqua per un effetto legato a Papa Francesco.

Agli intervistati è stato chiesto specificamente di rispondere solo con riferimento a fedeli che motivassero specificamente il loro ritorno alla
Chiesa con gli appelli del nuovo Pontefice, e il questionario era strutturato in modo da indurli a paragonare la Pasqua 2013 a quelle degli anni
precedenti, non ad altri periodi dell’anno liturgico.
Se cercassimo di tradurre il dato in termini numerici e su scala nazionale, con riferimento a metà delle parrocchie e comunità, dovremmo
parlare di centinaia di migliaia di persone che si riavvicinano alla Chiesa accogliendo gli inviti di Papa Francesco. Un effetto massiccio e
perfino spettacolare.

Naturalmente, l’effetto Francesco è anche un effetto Ratzinger: molti affermano spontaneamente di essere stati commossi e scossi anche
dalla rinuncia di Benedetto XVI. E l’effetto andrà verificato alla prova del tempo.
Potrebbe trattarsi di quella che i sociologi chiamano effervescenza religiosa, che non sempre è di lunga durata. Tuttavia, fin da ora possiamo
affermare che non si tratta di impressioni e di aneddoti, ma di numeri reali.

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Rosa Margherita la nonna “teologa” di Francesco

Posté par atempodiblog le 25 mars 2013

“Lei mi ha insegnato molto nella fede”
di Andrea Tornielli – La Stampa

Rosa Margherita la nonna “teologa” di Francesco dans Andrea Tornielli famigliabergoliononna
La famiglia Mario Bergoglio (in piedi) con i suoi familiari;
seduti, da sinistra, il nonno Giovanni, la nonna Rosa e il papà Mario

Com’è ormai solito fare quasi sempre, da pastore abituato a predicare a braccio, anche ieri Papa Francesco ha sollevato gli occhi dal testo e dopo aver citato tra le «ferite» che «il male infligge all’umanità» anche la «sete di denaro» ha detto: «Mia nonna diceva sempre a noi bambini: il sudario non ha tasche!». Gli averi accumulati li dobbiamo lasciare, non ci accompagnano nell’ultimo viaggio. Così, fatto alquanto inusuale per una messa papale in piazza San Pietro, anche la nonna del Pontefice conquista una citazione nell’omelia della Domenica delle Palme.

Francesco si riferiva alla mamma di suo padre, Rosa Margherita Vasallo, nata nel 1884 in Valbormida, sposatasi a Torino con Giovanni Bergoglio. Dalla loro unione nel 1908 era nato il padre del Papa, Mario. Nel gennaio 1929 i Bergoglio, lasciato Portacomaro, erano sbarcati a Buenos Aires, per ricongiungersi agli altri familiari già emigrati in Argentina. La signora Rosa, nonostante l’aria calda e carica d’umidità – nell’emisfero Sud in gennaio è piena estate – portava un cappotto col collo di volpe, fuori luogo per quelle temperature. Nella fodera c’erano i proventi della vendita dei beni di famiglia.

Il piccolo Jorge, nato nel dicembre 1936, era cresciuto passando parte della giornata a casa dei nonni, che gli avevano trasmesso un po’ di piemontese e soprattutto la fede cristiana. In un’intervista radiofonica rilasciata lo scorso novembre alla radio della parrocchia della villa 21 di Barracas, una delle baraccopoli povere di Buenos Aires, il futuro Papa aveva detto: «Chi mi ha insegnato a pregare è stata mia nonna. Lei mi ha segnato molto nella fede e mi raccontava le storie dei santi».

Qualche anno fa, in un intervento televisivo sul canale EWTN, visibile ora nel sito web cantualeantonianum.com, il cardinale Bergoglio aveva ricordato: «Una volta, quando ero in seminario, mia nonna mi disse: “Non ti dimenticare mai che stai per diventare un sacerdote e la cosa più importante per un sacerdote è celebrare la messa” e mi raccontò di una madre che a suo figlio – il quale era un prete veramente santo – disse: “Celebra la messa, ogni messa, come se fosse la prima e l’ultima”».

Nel libro-intervista «El Jesuita», il cardinale Bergoglio aveva raccontato di tenere ripiegato all’interno del breviario, il libro di preghiere in due tomi che porta sempre con sé anche durante i viaggi, proprio uno scritto della nonna. Si tratta di un piccolo testamento lasciato ai nipoti Bergoglio, nel quale si legge: «Che questi miei nipoti, ai quali ho dato il meglio del mio cuore, abbiano una vita lunga e felice, ma se in qualche giorno il dolore, la malattia, o la perdita di una persona amata li riempia di sconforto, ricordino che un sospiro al Tabernacolo, dove c’è il martire più grande e augusto, e uno sguardo a Maria ai piedi della croce, possono far cadere una goccia di balsamo sopra le ferite più profonde e dolorose».

Nel suo primo Angelus, domenica 17 marzo, Papa Francesco aveva citato un’altra anziana signora, che non era sua nonna ma l’aveva chiamata così secondo l’usanza argentina. Era una vecchia che si era andata a confessare da lui, vescovo, e gli aveva detto: «Se il Signore non perdonasse tutti, il mondo non esisterebbe». Bergoglio all’Angelus aveva commentato: «Mi venne voglia di domandarle: mi dica signora, lei ha studiato alla Gregoriana?». Ci si dovrà abituare, dunque, a queste citazioni così vicine alla fede dei semplici, efficaci e comprensibili da tutti, che punteggiano i suoi discorsi e le sue omelie. E che caratterizzano lo stile di un Papa rimasto se stesso, anche nella regola di vita improntata alla sobrietà: Francesco si è fatto recapitare dall’Argentina un paio di vecchie scarpe nere appena fatte risuolare, come ha raccontato alla rubrica «A Sua immagine» di RaiUno Virgina Bonar, una collaboratrice dell’ormai ex arcivescovo di Buenos Aires.

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Paolo VI, padre appassionato alla vita del suo popolo

Posté par atempodiblog le 24 mars 2013

Paolo VI, padre appassionato alla vita del suo popolo dans Andrea Tornielli giussanipaolovi

Le parole pronunciate il 23 luglio 1975 da Paolo VI sono per me come un vertice, una sintesi di tutta la sua preoccupazione di Papa per la vita reale della Chiesa, realtà umana e divina che cammina nella storia: «Dov’è il “Popolo di Dio”, del quale tanto si è parlato, e tuttora si parla, dov’è? Questa entità etnica sui generis… Come è scompaginato? Com’è caratterizzato? Com’è organizzato? Come esercita la sua missione ideale e tonificante nella società, nella quale è immerso? Bene sappiamo che il Popolo di Dio ha ora, storicamente, un nome a tutti più familiare: è la Chiesa».

Questo cuore di padre appassionato alla vita reale del suo popolo ci fece sentaire ancora più caro il papa dell’Ecclesiam Suam, egli che da arcivescovo aveva visto nascere e aveva accompagnato la prima insorgenza di Gioventù Studentesca nella Milano degli Anni’50, come tentativo di testimonianza della fede cattolica, stradda ragionevole per la salvezza, secondo le preoccupazioni dell’allora cardinale Montini, che con la grande Missione nelle diocesi di Milano suscitò in tanti giovani un interesse nuovo per la proposta crisitana.

Gli ultimi anni del pontificato di Paolo VI furono carichi di dolore per la Chiesa di Dio, provata da mille pericoli. Ricordo l’uscita dell’ Humanae Vitae e immagino il dolore che deve avere provato Paolo VI per l’imprevista onda di ostilità suscitata dalla sua enciclica. Quel fatto, mi pare, segna come un punto di svolta tra la prima e la seconda stagione del pontificato. Egli avvertiva la presenza operante del Maligno in lotta con la realtà storica della Chiesa, quasi schiacciandola in certi momenti o luoghi. Ma proprio questa percezione rinnovò in lui la certezza purissima della più forte azione del Signore operante in un “piccolo gregge” a Lui fedele: la comunità cristiana, nata per l’energia dello Spirito di Cristo risorto e unita intorno a Pietro e ai successori degli apostoli.
Ne parlò, quasi “confessandosi”, a Jean Guitton nel 1977:

«C’è un grande turbamento in questo momento nel mondo e nella Chiesa, e ciò che è in questione è la fede. [Capita che escano libri in cui la fede è in ritirata su punti importanti, che gli episcopati tacciano, che non si trovino strani questi libri. Questo, secondo me, è strano. Rileggo talvolta il Vangelo della fine dei tempi, e constato che emergono oggi alcuni segni di questa fine.] Ciò che mi colpisce, quando considero il mondo cattolico, è che all’interno del cattolicesimo sembra talvolta predominare un pensiero di tipo non-cattolico, e può avvenire che questo pensiero non cattolico all’interno del cattolicesimo diventi domani il più forte. Ma esso non rappresenterà mai il pensiero della Chiesa. Bisogna che sussista un piccolo gregge, per quanto piccolo esso sia» (J. Guitton, Paolo VI segreto).

Così un libro che ricorda Paolo VI è per fare memoria di una fede maturata nella sofferenza in una purità di abbandono alla volontà del Padre che è nei cieli, e germogliata come tenerezza di sguardo, come quando il Papa salutò i nostri studenti di Firenze, alla fine di dicembre del 1977: «Siate contenti, siate fedeli, siate forti e siate lieti di portare intorno a voi la testimonianza che la fede cristiana è forte, è lieta, è bella e capace di trasformare davvero nell’amore e con l’amore la società in cui essa si inserisce».

dalla Prefazione di Don Luigi Giussani al libro “Paolo VI. Il timoniere del Concilio” di Andrea Tornielli, Ed. PIEMME

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