Posté par atempodiblog le 3 avril 2011
L’uomo, fin che sta in questo mondo, è un infermo che si trova su un letto scomodo più o meno, e vede intorno a sé altri letti, ben rifatti al di fuori, piani, a livello; e si figura che ci si deve star benone. Ma se gli riesce di cambiare, appena s’è accomodato nel nuovo, comincia, pigiando, a sentire, qui una lisca che lo punge, lì un bernoccolo che lo preme: siamo, in somma, a un di presso, alla storia di prima. Avete, certo, tutti indovinato di chi sia questa considerazione: siamo in pratica all’ultima pagina dei Promessi Sposi (cap. 38) e Manzoni, con l’immagine dell’infermo e dei letti, centra due aspetti fondamentali dell’umanità. Da un lato, c’è la fragilità costitutiva e radicale della creatura umana, un «infermo» che percepisce il suo limite, la sua impotenza, la sua realtà vera. D’altro lato, c’è però la sua altrettanto costitutiva e radicale insoddisfazione e scontentezza. Il desiderio, pur legittimo, di mutare stato si nutre di illusioni e alla fine precipita in delusione. Sboccia, così, la pianta maligna della gelosia e dell’invidia. Un proverbio tedesco dichiara che «la felicità e l’arcobaleno non si vedono mai sulla propria casa, ma solo su quella del tuo vicino». La capacità di accettarsi, il realismo della situazione, la serenità nella semplicità sono merce rara, tant’è vero che la società, anche attraverso la pubblicità, crea continuamente miti, costringendo a rincorrere fantasmi di felicità. Per questo, di fronte alla frustrazione dei sogni, si piomba nel pessimismo, nello scoraggiamento e persino nella ribellione. Riflettiamo su questa frase dello scrittore tedesco Ludwig Börne (1786-1837): «Si è scontenti perché pochi sanno che la distanza tra uno e niente è più grande che tra uno e mille».
di Gianfranco Ravasi
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Posté par atempodiblog le 7 août 2009
“Il buon senso c’era; ma se ne stava nascosto, per paura del senso comune”.
Alessandro Manzoni
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Posté par atempodiblog le 15 mars 2009
Sì, Tu scendi ancor dal cielo;
Sì, Tu vivi ancor tra noi;
Solo appar, non è, quel velo:
Tu l’hai detto; il credo, il so;
Come so che tutto puoi,
Che ami ognora i tuoi redenti,
Che s’addicono i portenti
A un amor che tutto può.
di Alessandro Manzoni
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Posté par atempodiblog le 24 octobre 2008
CHI SOFFIA SUL FUOCO
di Michele Brambilla – Il Giornale
A un certo punto dell’ottavo capitolo dei suoi Promessi Sposi, quello dedicato alla «notte degli imbrogli» (Renzo e Lucia entrano con un sotterfugio e due testimoni in casa di don Abbondio per cercare di estorcergli un matrimonio-lampo), il Manzoni così commenta: «In mezzo a questo serra serra, non possiam lasciar di fermarci un momento a fare una riflessione. Renzo, che strepitava di notte in casa altrui, che vi s’era introdotto di soppiatto, e teneva il padrone stesso assediato in una stanza, ha tutta l’apparenza d’un oppressore; eppure, alla fin de’ fatti, era l’oppresso. Don Abbondio, sorpreso, messo in fuga, spaventato, mentre attendeva tranquillamente a’ fatti suoi, parrebbe la vittima; eppure, in realtà, era lui che faceva un sopruso. Così va spesso il mondo… voglio dire, così andava nel secolo decimo settimo».
Il lettore ci perdonerà se l’abbiamo presa alla lontana, ma la morale manzoniana ci pare calzi a pennello con quanto abbiamo visto e sentito ieri, quando da più parti s’è dato a Berlusconi dell’incendiario e del fomentatore di incidenti.
Intendiamoci bene: nessuno di noi si azzarda a paragonare il premier a Renzo, e i suoi critici (politici o giornalisti che siano) a don Rodrigo: il senso del ridicolo grazie al cielo non l’abbiamo ancora perso. Però è vero che il mondo continua ad andare come nel secolo decimo settimo, nel senso che se si giudica un fatto analizzando solo una sua parte – soprattutto se la parte è quella finale – si rischia sempre di confondere i ruoli dei protagonisti.
Berlusconi è stato fatto passare per responsabile morale di possibili incidenti nelle scuole e nelle università per aver fatto intendere che, in certi casi, avrebbe fatto ricorso «alle forze dell’ordine». Noi, come abbiamo già scritto chiaramente ieri, siamo contrari all’utilizzo di polizia e carabinieri: e quindi ci rallegriamo che il premier abbia poi precisato che a quell’ipotesi non pensa affatto. Ma non è questo il punto. Il punto è che, per quella frase, Berlusconi è passato come dicevamo per l’incendiario della situazione. «Soffia sul fuoco», ha detto Veltroni. «Getta una miccia accesa sulla benzina», ha aggiunto la Finocchiaro. «Se ci fosse un calcolo, le frasi di Berlusconi sembrerebbero pensate apposta per incendiare le università», ha scritto il direttore di Repubblica Ezio Mauro.
Non crediamo occorra essere berlusconiani – o berluscones, come dicono – per rilevare un dato di fatto elementare: e cioè che non si soffia sul fuoco se qualcun altro prima non ha acceso un fuoco; e non si getta una miccia accesa sulla benzina se qualcun altro prima non ha cosparso il campo di benzina. La tensione nelle scuole c’è già, e rischia di salire perché da settimane si sta facendo una campagna che non vogliamo chiamare «terroristica» come ha fatto la Gelmini, ma «allarmistica» senz’altro sì; una campagna zeppa di bufale sesquipedali, tipo l’abolizione del tempo pieno e dell’inglese alle elementari. Sono stati altri, a far salire la temperatura: altri come l’ex ministro Mussi che ha parlato di «strage di ricercatori universitari»; altri come il manifesto che ha titolato sul «razzismo in cattedra»; altri come chi ha fatto credere ai bambini che la riforma faccia dei morti (che cosa significa altrimenti, per un bambino, il demenziale lutto al braccio di alcune maestre?). E come chi – peggio ancora – i bambini li ha usati nei cortei: gesto infame, perché i bambini in un corteo-contro-qualcuno non vanno portati mai, chiunque sia e qualunque cosa abbia fatto quel qualcuno.
L’editoriale su Repubblica di Ezio Mauro si intitolava «Se il dissenso è un reato». C’era scritto che «qualcuno dovrebbe spiegare al Premier che la pubblica discussione e il dissenso sono invece elementi propri di una società democratica». Mauro è un grande giornalista e un uomo intelligente: ma come fa a non capire la differenza tra «la pubblica discussione» e gli incidenti di Milano dell’altro giorno; tra «il dissenso» e l’impedire fisicamente di far lezione a chi vuol far lezione. Come fa a non capire le stesse cose un Veltroni. Come fa a non capirle una Finocchiaro.
Noi la Celere non la manderemmo neanche contro chi fa i picchetti e neanche contro chi occupa. Non stiamo neppure dicendo che il decreto sulla scuola non sia criticabile. Però, che almeno siano ben delineati i ruoli in questa notte degli imbrogli, e che sia ben chiaro chi sta soffiando – da settimane – sul fuoco.
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Posté par atempodiblog le 5 septembre 2008
Un uomo non dovrebbe mai vergognarsi di confessare di aver avuto torto: è, infatti, un po’ come dire – in altri termini – che oggi egli è più saggio di quanto non lo fosse ieri. Così consigliava Jonathan Swift (1667-1745), sì, il celebre autore dei Viaggi di Gulliver, in un suo scritto minore intitolato Pensieri su vari argomenti. E il suo monito merita attenzione perché il riconoscere un errore personale è un atto di per sé dovuto, eppure è tanto difficile da compiere. In agguato, infatti, c’è sempre l’orgoglio che si leva imperioso e che spinge fino al ridicolo nel tentativo di autogiustificarsi sempre e comunque. I dittatori, come è noto, « hanno sempre ragione », con sprezzo della ragione stessa. Ma pure noi, nel nostro piccolo, sentiamo forte il desiderio di autodifesa anche quando la nostra causa è disperata.
C’è, però, un’ulteriore considerazione da fare, di impronta piuttosto realistica. La esprime un altro grande scrittore, Manzoni nei suoi Promessi Sposi: «La ragione e il torto non si dividon mai con un taglio così netto, che ogni parte sia soltanto dell’una o dell’altro». Questa osservazione ci invita alla sobrietà anche quando siamo effettivamente nella ragione: annientare, sia pure metaforicamente, l’avversario non è mai corretto perché la pienezza e la perfezione assoluta non sono mai appannaggio della natura umana che rimane limitata. Il dialogo nasce appunto dalla consapevolezza che il possesso totale ed esclusivo della verità è di Dio e, quindi, diventa importante il confronto. Questo naturalmente non significa che il vero in sé non esista e sia solo soggettivo: esso è, però, distribuito – sia pure in forme e misure differenti – tra tanti. In conclusione, potremmo dire che riconoscere che talora si ha torto significa indirettamente ammettere che la verità esiste e che altre volte è proprio dalla nostra parte.
di Gianfranco Ravasi – Avvenire
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