Letture, come ai tempi dei Promessi Sposi sarà il Bene ad avere l’ultima parola

Posté par atempodiblog le 7 mars 2020

La visione manzoniana del Male sconfitto sempre dalla fede
Letture, come ai tempi dei Promessi Sposi sarà il Bene ad avere l’ultima parola
di Caterina Maniaci – ACI Stampa

Letture, come ai tempi dei Promessi Sposi sarà il Bene ad avere l'ultima parola dans Alessandro Manzoni I-promessi-sposi

Dall’autunno del 1629 al maggio 1630 Milano e buona parte della Lombardia sono flagellate dalla peste. Che viene considerata un pericolo minore, all’inizio, dalle autorità, e che rapidamente si  propaga e stermina una gran parte della popolazione. Questa, fra le tante epidemie che hanno costellato la vita del nostro Paese, viene ricordata in modo particolare perché Alessandro Manzoni l’ha mirabilmente rievocata nel suo romanzo capolavoro, I Promessi Sposi.

In questi giorni difficili e angoscianti che oggi in Italia, e ormai ovunque nel mondo, stiamo vivendo per via dell’epidemia diffusa dal famigerato coronavirus, vorremmo suggerire di riaprire quel romanzo, e in particolare il capitolo XXXI. In queste settimane spesso è stato citato e qui si vorrebbe farlo non tanto per rintracciare in questa cronaca remota le comparazioni, o le grandi differenze, con quello che stiamo affrontando oggi. Rileggere Manzoni e I Promessi Sposi può rappresentare invece l’occasione non solo per riscoprire la bellezza di questa storia e la grandezza del suo autore, ma per ritrovare consolazione e saggezza, una “guida” per affrontare con autentico spirito cristiano quello che accade ora quotidianamente.

Il Bene non viene sconfitto, alla fine, nonostante i percorsi difficili, i travagli, le pene e le ingiustizie subite. Il Bene si propaga forse più lentamente del Male, ma in modo più capillare e duraturo. La malattia, la pestilenza,  non sono quelle che avranno l’ultima parola, invece avranno una fine e i “buoni”, gli umili. Coloro che hanno sempre anteposto l’amore per gli altri a quello per sé stessi, potranno dire l’ultima parola. Perché la vita terrena, breve e piena di affanni, non è il fine ultimo del nostro destino, la nostra vera esistenza comincerà dopo la morte. Si tratta, a ben vedere, di un messaggio non tanto consolatorio, ma realistico, basato sulla evidenza della ragione di speranza che offre il cristianesimo e su quello che possiamo sperimentare quotidianamente noi stessi.

Manzoni racconta con forza, passione e commozione il sacrificio di tanti, conosciuti e sconosciuti, che nel momento della grande paura, dell’infuriare della pestilenza reagiscono e fanno fronte al dilagare del male e della morte. Le autorità sottovalutano il pericolo, lo nascondono e poi, quando non possono più negare l’evidenza, schiacciati sotto il peso della situazione precipitata, si affidano ai religiosi. Qui il racconto intreccia elementi storici a intuizioni personali. Il lazzaretto di Milano viene affidato ai padri cappuccini, sotto la guida di padre Felice Casati, noto per la vita caritatevole e molto stimato, affiancato da padre Michele Pozzobonelli, più giovane ma altrettanto animato da fervore caritatevole. Manzoni rileva la « stranezza » di un’autorità governativa che rinuncia al proprio compito per cederlo a uomini religiosi, ma sottolinea come questa situazione sia occasione del manifestarsi del potere infinito della carità cristiana, così come è bello che i frati abbiano accettato questo gravoso incarico quando nessun altro voleva accollarselo, senza altro fine che quello di servire il prossimo e  senza altra speranza che quella di una morte invidiabile in quanto viatico per la vita eterna. Molti confratelli, infatti, si ammalano e perdono la vita, anche padre Casati viene colpito dalla peste, ma guarisce e continua a prodigarsi nella vita terribile del lazzaretto.

Non si può, suggerendo una rilettura dei Promessi Sposi,  e in particolare degli ultimi capitoli dedicati appunto alla pestilenza e alle sue conseguenze sui vari protagonisti – ricordiamo che Renzo e Lucia si ritrovano proprio nel lazzaretto milanese – non citare uno dei più famosi episodi manzoniani, tra i più commoventi. Quello che ha come protagonista la piccola Cecilia e  la sua mamma.

Nel capitolo XXXIV Renzo vaga per la Milano sconvolta dalla peste. Si trova in una zona che oggi possiamo individuare come via Montenapoleone e vede una giovane donna uscire da un portone e dirigersi verso il carro dei monatti  (gli uomini che raccoglievano i cadaveri delle vittime di casa in casa, di strada in strada)  fermo lì vicino, portando in braccio un corpo immobile  quello che poi si scoprirà essere quello della sua figlioletta, una bimba di nove anni, Cecilia, appena spirata.  Uno dei monatti si avvicina per prendere il corpo e gettarlo insieme agli altri accatastati sul carro. Ma la madre si rifiuta di cederlo, è lei stessa che lo vuole posare sul carro, dare un’ultima carezza a quel viso tanto amato e già appassito. Mette in mano all’uomo dei denari in cambio della promessa che la figlioletta sarà sepolta sottoterra “così com’è vestita”, senza toglierle neanche un filo. Vuole insomma che la sua bimba mantenga bellezza e dignità anche nella morte, che non è la fine di tutto e non è nato separazione definitiva, perché, le mormora prima di lasciarla andare, si rivedranno presto in cielo, lei insieme all’altra sorella.

Umanità e bellezza anche nel caos, nella disperazione, nella paura. Un messaggio che non dobbiamo e non possiamo ignorare.

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L’inno di Alessandro Manzoni per la memoria del nome di Maria

Posté par atempodiblog le 12 septembre 2015

Il nome di Maria
di Alessandro Manzoni

Tacita un giorno a non so qual pendice
Salia d’un fabbro nazaren la sposa;
Salia non vista alla magion felice
D’una pregnante annosa;

E detto: “Salve” a lei, che in reverenti
Accoglienze onorò l’inaspettata,
Dio lodando, sclamò: Tutte le genti
Mi chiameran beata.

Deh! con che scherno udito avria i lontani
Presagi allor l’età superba! Oh tardo
Nostro consiglio! oh degl’intenti umani
Antiveder bugiardo!

Noi testimoni che alla tua parola
Ubbidiente l’avvenir rispose,
Noi serbati all’amor, nati alla scola
Delle celesti cose,

Noi sappiamo, o Maria, ch’Ei solo attenne
L’alta promessa che da Te s’udia,
Ei che in cor la ti pose: a noi solenne
È il nome tuo, Maria.

A noi Madre di Dio quel nome sona:
Salve beata! che s’agguagli ad esso
Qual fu mai nome di mortal persona,
O che gli vegna appresso?

Salve beata! in quale età scortese
Quel sì caro a ridir nome si tacque?
In qual dal padre il figlio non l’apprese?
Quai monti mai, quali acque

Non l’udiro invocar? La terra antica
Non porta sola i templi tuoi, ma quella
Che il Genovese divinò, nutrica
I tuoi cultori anch’ella.

In che lande selvagge, oltre quei mari
Di sì barbaro nome fior si coglie,
Che non conosca de’ tuoi miti altari
Le benedette soglie?

O Vergine, o Signora, o Tuttasanta,
Che bei nomi ti serba ogni loquela!
Più d’un popol superbo esser si vanta
In tua gentil tutela.

Te, quando sorge, e quando cade il die,
E quando il sole a mezzo corso il parte,
Saluta il bronzo, che le turbe pie
Invita ad onorarte.

Nelle paure della veglia bruna,
Te noma il fanciulletto; a Te, tremante,
Quando ingrossa ruggendo la fortuna,
Ricorre il navigante.

La femminetta nel tuo sen regale
La sua spregiata lacrima depone,
E a Te beata, della sua immortale
Alma gli affanni espone;

A Te che i preghi ascolti e le querele,
Non come suole il mondo, né degl’imi
E de’ grandi il dolor col suo crudele
Discernimento estimi.

Tu pur, beata, un dì provasti il pianto,
Né il dì verrà che d’oblianza il copra:
Anco ogni giorno se ne parla; e tanto
Secol vi corse sopra.

Anco ogni giorno se ne parla e plora
In mille parti; d’ogni tuo contento
Teco la terra si rallegra ancora,
Come di fresco evento.

Tanto d’ogni laudato esser la prima
Di Dio la Madre ancor quaggiù dovea;
Tanto piacque al Signor di porre in cima
Questa fanciulla ebrea.

O prole d’Israello, o nell’estremo
Caduta, o da sì lunga ira contrita,
Non è Costei, che in onor tanto avemo,
Di vostra fede uscita?

Non è Davidde il ceppo suo? Con Lei
Era il pensier de’ vostri antiqui vati,
Quando annunziaro i verginal trofei
Sopra l’inferno alzati.

Deh! a Lei volgete finalmente i preghi,
Ch’Ella vi salvi, Ella che salva i suoi;
E non sia gente né tribù che neghi
Lieta cantar con noi:

Salve, o degnata del secondo nome,
O Rosa, o Stella ai periglianti scampo,
Inclita come il sol, terribil come
Oste schierata in campo.

Con Maria verso il Santo Natale dans Don Giustino Maria Russolillo mariaimmacolata

L’inno di Alessandro Manzoni per la memoria del nome di Maria
«E UBBIDIENTE L’AVVENIR RISPOSE»
di Mons. Inos Biffi – L’Osservatore Romano

Secondo il progetto contenuto in un manoscritto cartaceo, conservato nella sala manzoniana della biblioteca Braidense, tra i dodici inni programmati Manzoni intendeva comporne due in onore di Maria: quello per la festa dell’Assunzione e quello per la memoria del suo nome, ricorrente nella liturgia il 12 settembre. In realtà solo quest’ultimo vide la luce – tra il novembre 1812 e il 19 aprile 1813. E manifesta tutta la semplice e ardente pietà dello scrittore, da poco ridiventato credente, verso la Vergine.

Si potrebbe dire, in sintesi, che Il Nome di Maria traduca in delicatissima poesia il vangelo lucano della Visitazione, il mistero dell’umiltà e della grandezza della Madre di Dio, e il rifrangersi nell’universale devozione cristiana della sua profezia - “Tutte le genti / Mi chiameran beata” -.

La pacata bellezza dell’inno, modellato sul ritmo contemplativo della saffica, attrae già dalla prima strofa, dove, con tocco agile e delicato, il poeta ci fa
apparire dinanzi in tutta la sua suggestion e la trasparente immagine di Maria nel suo ascendere raccolto alla casa di Elisabetta: “Tacita un giorno a
non so qual pendice / Salia d’un fabbro nazaren la sposa; / Salia non vista alla magion felice / D’una pregnante annosa”.

«Il Manzoni – commenta il cardinale Giovanni Colombo da finissimo conoscitore del poeta lombardo - con una paroletta di sole tre sillabe – “Tacita” - dà
inizio a questa lirica. Felice scoperta: basterebbe questo sdrucciolo silenzioso per darci la misura del suo gusto e del suo genio. Il fascino di bellezza, che ad alcune parole ricorrenti nelle prime strofe della poesia sembra conferire una vaga indeterminatezza, riempie di stupore.
“Un giorno”: quale non si sa; “a non so qual pendice”: neppure il poeta saprebbe indicarcela. “Salìa… Salìa”: vuol significare l’agile fretta; “d’un fabbro nazaren”: a Nazaret i falegnami saranno stati più d’uno; ma qui non è lui che conta, è la sua sposa. Ed ella va “non vista”, tanto era umile e raccolta in sé (…) Anche “inaspettata” è una di queste parole che acquistano fascino dall’indeterminatezza da cui sono velate».
In questo incontro tra le due madri Manzoni si sofferma in particolare sull’annunzio profetico di Maria: “Tutte le genti / Mi chiameran beata”. L’“età superba” - come egli qualifica con secca e sferzante definizione l’umanità priva della luce e della pietà cristiana - nel suo “tardo consiglio” e nel suo umano “antiveder bugiardo”, sicuramente avrebbe schernito questo presagio divinamente ispirato al cuore dell’“inaspettata” nella casa di Elisabetta.

Quanti però sono destinati a vivere nell’amore e a porsi alla scuola di Dio e dei suoi misteri – “Noi serbati all’amor, nati alla scola / Delle celesti cose” -
possono attestare che il tempo si è docilmente piegato al preannunzio della Vergine – “Ubbidiente l’avvenir rispose”.
Il poeta passa, così, all’esaltazione e al saluto del nome di Maria, Madre di Dio: un nome solenne e incomparabile; caramente ripetuto in ogni età, anche la più rude; insegnato di padre in figlio; invocato universalmente e onorato anche nei luoghi remoti e incolti, che pure conoscono “le benedette soglie” dei suoi “miti altari”: miti, perché spirano e trasfondono nell’anima serenità e confidenza, a dire anche “la preferenza – di Manzoni – per la gentilezza delle piccole cose” (Giovanni Colombo).
Ma altri “bei nomi”, insieme con quello di “Maria”, sono riservati alla Madonna: “O Vergine, o Signora, o Tuttasanta / – esclama il poeta nella sua ammirata contemplazione - Che bei nomi ti serba ogni loquela!”. Né mancano popoli, per quanto altezzosi, che si gloriano di essere sotto la sua protezione: “Più d’un popol superbo esser si vanta / In tua gentil tutela”: e qui sentiamo l’eco dell’antica antifona: Sub tuum praesidium, mentre possiamo notare la felice scelta dell’aggettivo “gentile” riferito alla salvaguardia di Maria, per dirne ancora il garbo affabile e attento.
La strofa che segue, nel suo ritmo sciolto e composto, è di un fascino incantevole nella rievocazione del suono di campana che tre volte al giorno – al mattino, a mezzogiorno e al tramonto – chiama i fedeli alla preghiera mariana, come “racchiudendo nel nome di Maria l’intera giornata del cristiano” (Valter Boggioni): “Te, quando sorge, e quando cade il die, / E quando il sole a mezzo corso il parte, / Saluta il bronzo che le turbe pie / Invita ad onorarte”.

Ed è l’invocazione degli umili e degli indifesi, con i loro “preghi” e le loro “querele”, che il poeta si sofferma poi a illustrare. Sul mondo di questi offesi e umiliati egli vede, particolarmente inchinata, la tenerezza materna della Vergine. Potremmo dire:
sui piccoli dei Promessi Sposi, trascurati dal mondo, che “col suo crudele / discernimento” distingue il dolore “degl’imi / e de’ grandi”, ma cari alla Provvidenza di Dio e alla cura della Vergine. In particolare, il poeta indugia «a contemplare tre quadretti: quello del fanciulletto che la chiama “nelle paure ella veglia bruna”, del navigante che ne invoca il soccorso nei momenti della burrasca, della femminetta che le affida la sua “spregiata lacrima”. È questa la parte più intensa della poesia. Ogni volta che il Manzoni nella vita umana vissuta immerge i simboli religiosi, questi perdono la loro fredda astrattezza e suscitano le vibrazioni più profonde».
Del resto, la Vergine stessa ha fatto l’esperienza delle lacrime: “Tu pur, beata, un dì provasti il pianto”, e “quello che in quest’inno ci commuove, è
ciò che vi è di più semplice: la preghiera che si appella alla Madre divina per una nostra comunione al suo soffrire” (G. Colombo).
Il ricordo del pianto di Maria non si è spento lungo i secoli ed è rimasta viva – “come di fresco evento” - la memoria della sua allegrezza, rievocata nell’antifona pasquale Regina caeli, laetare.

E questo non sorprende. Il poeta coglie la ragione profonda di questa lode unica e primeggiante verso Maria: essa è “di Dio la Madre” e insieme la “fanciulla ebrea”, che “piacque al Signor di porre in cima”, e ama intrattenersi su questa origine della Vergine.
Colei che noi veneriamo – “in tanto onor avemo” - è frutto della fede ebraica: “Di vostra fede uscita”, è detto con espressione felicissima. Maria proviene, infatti, dal “ceppo” di Davide ed era riferito a lei il preannuncio della vittoria della donna sul serpente: “Era il pensier de’ vostri antiqui vati, / Quando annunziaro i virginal trofei / Sopra l’inferno alzati”.

Maria “è madre particolarmente degli ebrei” (G. Colombo): per questo essa è il motivo della speranza per la “prole d’Israello”, esortata a implorare da lei – “che salva i suoi” - il dono della salvezza, ardentemente invocata anche nell’inno sacro La Passione, come frutto del “sacro / Santo Sangue”.

Si potrebbe parlare di comunione ecumenica tra ebrei e cristiani come grazia che viene da Maria. Nessuno, infatti, dovrà mancare al lieto canto che così saluterà la Vergine: “Salve, o degnata del secondo nome” - il nome più glorioso, dopo quello di Cristo -, “O Rosa, o Stella ai periglianti scampo”, “Inclita come il sol”, “terribile come / Oste schierata in campo”. Vengono in mente le invocazioni delle litanie del Rosario: Rosa mystica, Stella matutina, Turris davidica, Auxilium christianorum: Maria speranza, riparo e difesa contro il male. Ma se “la venerazione alla Vergine Maria da parte del Manzoni ha nell’Inno Sacro dedicato al suo Nome l’espressione più alta”, essa “non è un atto isolato”.

Osserva ancora Giovanni Colombo: «Il riferimento a Maria, una costante della sua meditazione, è inseparabile dalla sua riscoperta della fede in Cristo. Nel Natale il Manzoni contempla l’adorante Vergine Madre che par non tocchi il “Pargolo”, quasi per timore di sciuparlo, dopo la divina ascesa alla maternità; nella Passione prega Maria “regina de’ mesti” perché il nostro “patire”, unito a quello del Figlio, sia “pegno” della eterna gioia; nella Risurrezione invita la Vergine, che fu “nido” di Dio, all’esultanza della Pasqua; nell’Ognissanti celebra l’Immacolata (la “tuttasanta”), cioè la piena di grazia; nei Promessi Sposi è attestata l’“umile” preghiera mariana del rosario, che dà l’avvio al sacrificante voto di Lucia prigioniera dell’innominato». Non solo: il nome di Maria “commuove la sua rozza carceriera, nel cui animo si illumina il rimorso di un passato che pareva perduto per sempre”, e fu poi il nome che, secondo la promessa di Renzo, fu dato alla bambina dei due sposi che venne alla luce prima che finisse l’anno del matrimonio.

Del resto – scrive sempre Colombo, che ci ha fatto da guida impareggiabile in questo commento – «in casa Manzoni si doveva conoscere questa predilezione del capo famiglia verso la Vergine Maria, se Giulietta, una sera del settembre 1827, in prossimità della festa liturgica del nome di Maria, insistette per avere – e ottenne – quei cantabili Versi improvvisati sopra il nome di Maria, e se in occasione della prima comunione della figlia Vittoria, le raccomandava la devozione alla Vergine, con queste parole commoventi per la fede con cui un tal padre le scriveva e per il recente angoscioso lutto della morte di Enrichetta: “Senti in questa felice tua e santa occasione, una più viva gratitudine, un più tenero affetto, una più umile riverenza per quella Vergine, nelle cui viscere il nostro Giudice s’è fatto nostro Redentore”».

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La storia dei “no” e dei “sì” della monaca di Monza

Posté par atempodiblog le 28 août 2015

La storia dei “no” e dei “sì” della monaca di Monza
della prof.ssa Francesca Procaccini (audio) - Radio Maria

monaca e padre

Gertrude è un personaggio storico ed è stata identificata in suor Virginia figlia di Martino de Leyva, feudatario di Monza. Se la figlia è interessante, molto di più lo è il padre, strettamente connesso con lei. Il padre, in ossequio alla legge del maggiorascato, aveva destinato al chiostro tutti i cadetti dell’uno e dell’altro sesso per lasciare l’intero patrimonio familiare al primogenito, chiamato a tenere alto il prestigio del casato.

Si possono già intuire gli elementi che campeggiano nel fosco scenario di questa drammatica storia. Condizionamenti socio-economici e culturali, fondati sull’orgoglio e su uno smodato desiderio di potere, trasformano il padre in un carnefice; sì, una parola forte ma appropriata. Carnefice, freddo e astuto. Egli agisce con una volontà lucida ed inflessibile, seguendo solo la logica del calcolo. Mette in atto le forme più sottili e subdole di violenza psicologica per costringere la figlia, verso la quale non prova alcun sentimento né di affetto né di pietà, a farsi monaca.

Vedremo come la sua strategia sia così demoniaca da far apparire necessarie e ineludibili le decisioni che lui prende contro la volontà della ragazza. Lo stesso Manzoni che è sempre tanto indulgente, sempre pronto a condannare il peccato ma non il peccatore, arriva a dire non ci regge il cuore di dargli il titolo di padre. Sono parole che la dicono lunga, tutto era fuorché un padre. Veramente un tiranno.

La rete tesa con tanto cinismo e spregiudicatezza, con la complicità di tutti, comprese le suore del convento, intrappolerà definitivamente la povera vittima.

[…] Leggiamo il dialogo tra la ragazza e il padre perché è una delle pagine dove l’ipocrisia di quest’ultimo raggiunge l’acme della perfidia, trasformandosi in bieco e palese ricatto.  Ci sono tutti gli estremi del ricatto più subdolo. Ecco, scorriamo qualche riga del testo:

Al legger quella lettera, il principe *** vide subito lo spiraglio aperto alle sue antiche e costanti mire. Mandò a dire a Gertrude che venisse da lui; e aspettandola, si dispose a batter il ferro, mentre era caldo. Gertrude comparve, e, senza alzar gli occhi in viso al padre, gli si buttò in ginocchioni davanti, ed ebbe appena fiato di dire: – perdono! – Egli le fece cenno che s’alzasse; ma, con una voce poco atta a rincorare, le rispose che il perdono non bastava desiderarlo né chiederlo; ch’era cosa troppo agevole e troppo naturale a chiunque sia trovato in colpa, e tema la punizione; che in somma bisognava meritarlo. Gertrude domandò, sommessamente e tremando, che cosa dovesse fare. Il principe (non ci regge il cuore di dargli in questo momento il titolo di padre) non rispose direttamente, ma cominciò a parlare a lungo del fallo di Gertrude: e quelle parole frizzavano sull’animo della poveretta, come lo scorrere d’una mano ruvida sur una ferita. Continuò dicendo che, quand’anche… caso mai… che avesse avuto prima qualche intenzione di collocarla nel secolo, lei stessa ci aveva messo ora un ostacolo insuperabile; giacché a un cavalier d’onore, com’era lui, non sarebbe mai bastato l’animo di regalare a un galantuomo una signorina che aveva dato un tal saggio di sé. La misera ascoltatrice era annichilata: allora il principe, raddolcendo a grado a grado la voce e le parole, proseguì dicendo che però a ogni fallo c’era rimedio e misericordia; che il suo era di quelli per i quali il rimedio è più chiaramente indicato: ch’essa doveva vedere, in questo tristo accidente, come un avviso che la vita del secolo era troppo piena di pericoli per lei…
- Ah sì! – esclamò Gertrude, scossa dal timore, preparata dalla vergogna, e mossa in quel punto da una tenerezza istantanea.
- Ah! lo capite anche voi, – riprese incontanente il principe. – Ebbene, non si parli più del passato: tutto è cancellato. Avete preso il solo partito onorevole, conveniente, che vi rimanesse; ma perché l’avete preso di buona voglia, e con buona maniera, tocca a me a farvelo riuscir gradito in tutto e per tutto: tocca a me a farne tornare tutto il vantaggio e tutto il merito sopra di voi. Ne prendo io la cura -. Così dicendo, scosse un campanello che stava sul tavolino, e al servitore che entrò, disse: – la principessa e il principino subito -. E seguitò poi con Gertrude: – voglio metterli subito a parte della mia consolazione; voglio che tutti comincin subito a trattarvi come si conviene. Avete sperimentato in parte il padre severo; ma da qui innanzi proverete tutto il padre amoroso.

Non ci sono commenti. Gertrude resta così inchiodata ad una decisione che aborrisce e diventerà spettatrice sgomenta di tutti i festeggiamenti preparati per il grande evento. Passiva, svuotata di qualsiasi volontà si reca l’indomani al monastero per chiedervi di essere ammessa, fingerà perfettamente anche con il vicario incaricato di appurare la sua reale vocazione. Oramai le sue resistenze sono tutte quante crollate. Lei non opporrà più nessuna resistenza.

Dopo dodici mesi di noviziato, pieni di pentimenti e di ripentimenti, si trovò al momento della professione, al momento cioè in cui conveniva, o dire un no più strano, più inaspettato, più scandaloso che mai, o ripetere un sì tante volte detto; lo ripetè, e fu monaca per sempre.

[…] Ci saranno altri “sì” della sventurata, ancora più gravi e inconfessabili.

[…] La sua può essere definita la storia di tanti “no” sognati, progettati, rimandati e mai pronunciati; e di tanti “si” detti per debolezza, per paura, per vergogna e per orgoglio. Ogni “sì” rappresenterà un passo in avanti verso il suo totale degrado morale.

Commenta Attilio Momigliano:

La fonte poetica dell’episodio è il senso di pietà diffuso con cui il Manzoni guarda il formarsi di quell’esistenza colpevole e triste e il sorgere della deformità spirituale di Gertrude; mirabile è la commossa imparzialità con cui segue l’intrecciarsi della colpa e della sventura in quella creatura. […] Dal principio alla fine della storia si svolge anello per anello, una catena che sembra fatale e non è, perché la volontà sicura di Gertrude potrebbe spezzarla in qualunque momento ma Gertrude è debole, e tutti i deboli nelle situazioni difficili sono travolti da un processo a catena, da una serie di atti di inerzia che li portano a scegliere l’unica soluzione di cui sia capace un debole: l’accettazione d’un destino aborrito.

Quindi pietà, tanta pietà, per una creatura a cui è stato negato l’amore. Violentata nelle sue aspirazioni più legittime. Abituata solo a fare dell’orgoglio, dell’ambizione e del potere i suoi punti di forza. […] Le colpe di Gertrude sono il difetto nella volontà, mancanza di responsabilità e rinuncia alla propria libertà interiore. Tutti capisaldi della concezione morale del Manzoni, ma anche capisaldi della morale cristiana. Quindi, lei viene ad essere priva di quello che è necessario per poter operare delle scelte responsabili e buone, nel senso di essere in sintonia con la volontà di Dio.

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L’assurdo crearsi di superstizioni e pregiudizi

Posté par atempodiblog le 7 juin 2015

Attraverso l’episodio il Manzoni mette in evidenza l’assurdo crearsi di superstizioni e pregiudizi, che in questo caso non ha avuto conseguenze, in altri casi ha portato ad atrocità di ogni genere.

di Mariateresa Sarpi e Adriana Tocco

L’assurdo crearsi di superstizioni e pregiudizi dans Alessandro Manzoni 1zx6yaw

La strada che Renzo aveva presa, andava allora, come adesso, diritta fino al canale detto il Naviglio: i lati erano siepi o muri d’orti, chiese e conventi, e poche case. In cima a questa strada, e nel mezzo di quella che costeggia il canale, c’era una colonna, con una croce detta la croce di sant’Eusebio. E per quanto Renzo guardasse innanzi, non vedeva altro che quella croce. Arrivato al crocicchio che divide la strada circa alla metà, e guardando dalle due parti, vide a dritta, in quella strada che si chiama lo stradone di santa Teresa, un cittadino che veniva appunto verso di lui.

«Un cristiano, finalmente!» disse tra sé; e si voltò subito da quella parte, pensando di farsi insegnar la strada da lui. Questo pure aveva visto il forestiero che s’avanzava; e andava squadrandolo da lontano, con uno sguardo sospettoso; e tanto più, quando s’accorse che, in vece d’andarsene per i fatti suoi, gli veniva incontro. Renzo, quando fu poco distante, si levò il cappello, da quel montanaro rispettoso che era; e tenendolo con la sinistra, mise l’altra mano nel cocuzzolo, e andò più direttamente verso lo sconosciuto. Ma questo, stralunando gli occhi affatto, fece un passo addietro, alzò un noderoso bastone, e voltata la punta, ch’era di ferro, alla vita di Renzo, gridò: – via! via! via!

- Oh oh! – gridò il giovine anche lui; rimise il cappello in testa, e, avendo tutt’altra voglia, come diceva poi, quando raccontava la cosa, che di metter su lite in quel momento, voltò le spalle a quello stravagante, e continuò la sua strada, o, per meglio dire, quella in cui si trovava avviato.

L’altro tirò avanti anche lui per la sua, tutto fremente, e voltandosi, ogni momento, indietro. E arrivato a casa, raccontò che gli s’era accostato un untore, con un’aria umile, mansueta, con un viso d’infame impostore, con lo scatolino dell’unto, o l’involtino della polvere (non era ben certo qual de’ due) in mano, nel cocuzzolo del cappello, per fargli il tiro, se lui non l’avesse saputo tener lontano. – Se mi s’accostava un passo di più, – soggiunse, – l’infilavo addirittura, prima che avesse tempo d’accomodarmi me, il birbone. La disgrazia fu ch’eravamo in un luogo così solitario, ché se era in mezzo Milano, chiamavo gente, e mi facevo aiutare a acchiapparlo. Sicuro che gli si trovava quella scellerata porcheria nel cappello. Ma lì da solo a solo, mi son dovuto contentare di fargli paura, senza risicare di cercarmi un malanno; perché un po’ di polvere è subito buttata; e coloro hanno una destrezza particolare; e poi hanno il diavolo dalla loro. Ora sarà in giro per Milano: chi sa che strage fa! -

E fin che visse, che fu per molt’anni, ogni volta che si parlasse d’untori, ripeteva la sua storia, e soggiungeva: – quelli che sostengono ancora che non era vero, non lo vengano a dire a me; perché le cose bisogna averle viste.

Renzo, lontano dall’immaginarsi come l’avesse scampata bella, e agitato più dalla rabbia che dalla paura, pensava, camminando, a quell’accoglienza, e indovinava bene a un di presso ciò che lo sconosciuto aveva pensato di lui; ma la cosa gli pareva così irragionevole, che concluse tra sé che colui doveva essere un qualche mezzo matto. «La principia male, – pensava però: – par che ci sia un pianeta per me, in questo Milano. Per entrare, tutto mi va a seconda; e poi, quando ci son dentro, trovo i dispiaceri lì apparecchiati. Basta… coll’aiuto di Dio… se trovo… se ci riesco a trovare… eh! tutto sarà stato niente».

Tratto dal CAP. XXXIV de ‘I promessi sposi’ di Alessandro Manzoni

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L’ipocrisia sociale in don Abbondio

Posté par atempodiblog le 2 juin 2015

L’ipocrisia sociale in don Abbondio
della prof.ssa Francesca Procaccini (audio) - Radio Maria

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[…] Il nostro Abbondio non nobile, non ricco, coraggioso ancor meno, s’era dunque accorto, prima quasi di toccar gli anni della discrezione, d’essere, in quella società, come un vaso di terra cotta, costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro. Aveva quindi, assai di buon grado, ubbidito ai parenti, che lo vollero prete. Per dir la verità, non aveva gran fatto pensato agli obblighi e ai nobili fini del ministero al quale si dedicava: procacciarsi di che vivere con qualche agio, e mettersi in una classe riverita e forte, gli eran sembrate due ragioni più che sufficienti per una tale scelta. […]

Don Abbondio si era, dunque, creato un suo sistema per vivere senza problemi né contrasti di sorta e ad un uomo di questa fatta capita ciò che mai avrebbe potuto immaginare. Gli accade, come tutti sanno, di essere aspettato, proprio al termine di quella tranquilla passeggiata, da due bravi:

[…] – Signor curato, – disse un di que’ due, piantandogli gli occhi in faccia.
– Cosa comanda? – rispose subito don Abbondio, alzando i suoi dal libro, che gli restò spalancato nelle mani, come sur un leggìo.
– Lei ha intenzione, – proseguì l’altro, con l’atto minaccioso e iracondo di chi coglie un suo inferiore sull’intraprendere una ribalderia, – lei ha intenzione di maritar domani Renzo Tramaglino e Lucia Mondella!
– Cioè… – rispose, con voce tremolante, don Abbondio: – cioè. […]

Diciamo noi: che cos’è questo “cioè”? E’ l’uomo che si mette subito nella posizione di chi ha torto, perché abituato a tremare davanti al più forte, il quale assume il tono del superiore, facendo sentire l’altro in uno stato di inferiorità, ovviamente.
Il prepotente ha il piglio minaccioso ed iracondo. Ed egli risponde con voce tremula, sottomessa. Quello, il prepotente, ha il tono di accusatore e don Abbondio si scusa, quello considera il celebrare il matrimonio come una colpa ed egli dice:

Lor signori son uomini di mondo, e sanno benissimo come vanno queste faccende. Il povero curato non c’entra: fanno i loro pasticci tra loro, e poi… e poi, vengon da noi, come s’andrebbe a un banco a riscuotere; e noi… noi siamo i servitori del comune.
– Or bene, – gli disse il bravo, all’orecchio, ma in tono solenne di comando, – questo matrimonio non s’ha da fare, né domani, né mai.
– Ma, signori miei, – replicò don Abbondio, con la voce mansueta e gentile di chi vuol persuadere un impaziente, – ma, signori miei, si degnino di mettersi ne’ miei panni. Se la cosa dipendesse da me,… vedon bene che a me non me ne vien nulla in tasca…
[…] – Ma, – interruppe questa volta l’altro compagnone, che non aveva parlato fin allora, – ma il matrimonio non si farà, o… – e qui una buona bestemmia, – o chi lo farà non se ne pentirà, perché non ne avrà tempo, e… – un’altra bestemmia. […]
–  Signor curato, l’illustrissimo signor don Rodrigo nostro padrone la riverisce caramente.

Questo nome fu, nella mente di don Abbondio, come, nel forte d’un temporale notturno, un lampo che illumina momentaneamente e in confuso gli oggetti, e accresce il terrore. Fece, come per istinto, un grand’inchino, e disse: – se mi sapessero suggerire…
– Oh! suggerire a lei che sa di latino! – interruppe ancora il bravo, con un riso tra lo sguaiato e il feroce. – A lei tocca. E sopra tutto, non si lasci uscir parola su questo avviso che le abbiam dato per suo bene; altrimenti… ehm… sarebbe lo stesso che fare quel tal matrimonio. Via, che vuol che si dica in suo nome all’illustrissimo signor don Rodrigo?
– Il mio rispetto…
– Si spieghi meglio!
– … Disposto… disposto sempre all’ubbidienza […]

Don Abbondio vorrebbe continuare a parlare, ma i due non lo ascoltano più e si allontanano. Sapete bene che il povero parroco una volta giunto a casa non riuscirà a tacere e tra mille titubanze e incertezze vuoterà il sacco con la sua perpetua. Ho voluto riportare tutto il dialogo perché si commenta da sé.
Ora riflettiamo un po’: in che consiste l’umorismo del personaggio? Come dice Luigi Pirandello, in un saggio dedicato a don Abbondio, consiste in “avvertimento del contrario” e successivamente nel “sentimento del contrario”.

Mi spiego meglio: ognuno coglie fin da subito la distanza abissale che separa il comportamento di questo prete da quello che si aspetterebbe da un pastore di anime. Addirittura egli accusa i poveri sposi di aver combinato pasticci e di essere andati da lui per riscuotere come si va in banca. Sta veramente farneticando. Vorrebbe convincere i bravi a dargli dei consigli per uscire da quella situazione, si dichiara disposto all’obbedienza nei confronti di chi commette un sopruso e che sopruso. Don Abbondio con i suoi atti timorosi, con i gesti impacciati, con le sue frasi reticenti e del tutto improprie, non può non apparire comico, anzi potremmo dire ridicolo o grottesco.

Tuttavia se riflettiamo un attimo, il personaggio da comico diventa patetico e ci suscita non più riso, bensì un misto di sdegno e di compassione. In quella circostanza ci sarebbe voluto un eroe e invece chi troviamo? Don Abbondio, antieroe per eccellenza. Ecco scattare il “sentimento del contrario”, cioè quella comprensione umana che ci permette di capire il dramma che si nasconde dietro questo povero cristo. Dietro la sua assurdità, per cui è più corretto parlare, sempre secondo Pirandello, di “umorismo”. Sicuramente Manzoni in don Abbondio ha voluto simboleggiare la debolezza della natura umana che non va approvata, ma neppure stigamatizzata come qualcosa che non ci appartiene. Quanti di noi avrebbero avuto il coraggio di disubbidire sapendo con certezza che la minaccia si sarebbe trasformata in azione?

Un altro momento topico del suo umorismo è il soliloquio della sua salita al castello dell’Innominato in compagnia dell’Innominato stesso, come molti ricorderanno. L’Innominato a seguito dell’incontro con il cardinale Federigo ha deciso di cambiar radicalmente vita, ma don Abbondio non credere alla conversione e non vorrebbe seguirlo per andare a confortare Lucia che era ancora presente nel castello dopo il rapimento. […]

Il nostro eroe, don Abbondio, se la prende con i santi che come birboni hanno l’argento vivo addosso, se la prende con don Rodrigo che avrebbe potuto andare in Paradiso in carrozza mentre voleva andare a casa del diavolo a pie’ zoppo, se la prende con l’Innominato che dopo aver messo a soqquadro il mondo con le sue scelleratezze, lo metteva sottosopra con la conversione, se la prende anche con il cardinale perché era troppo precipitoso e si giocava la vita di un povero curato a pari e dispari, come se lo avesse gettato nelle fauci di un leone ed, infine, se la prende con Lucia che era nata per la sua rovina…

Al ritorno dal castello, don Abbondio, teme che i bravi dell’Innominato vedendo il cambiamento del loro padrone possano scambiare lui per un missionario artefice della conversione, un prete che teme di essere scambiato per un missionario. Don Abbondio rimane la stessa povera creatura di sempre anche durante il colloquio con il cardinale Federigo che gli chiede spiegazioni sul matrimonio non celebrato, di fronte alle parole infiammate dallo spirito d carità del suo superiore, il povero prete non trova altra giustificazione che questa: “il coraggio, chi non ce l’ha non se lo può dare”. E
così lui si sente giustificato. [...] Il coraggio massimo lo ha dimostrato Gesù Cristo morendo sulla Croce per noi. [...] L’unica motivazione, l’unica sollecitazione, è l’amore: l’amore ci da il coraggio di agire.

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L’ipocrisia, il peccato sociale più grave
Ritornando al nostro don Abbondio, la sua era stata una scelta opportunistica, per lui farsi prete significava solo assicurarsi un futuro senza problemi, non c’era stata altra considerazione. Tutto ciò è senz’altro deprecabile, ma c’è una colpa ancora maggiore in don Abbondio ed è la sua ipocrisia.

Il peccato sociale più grave è proprio l’ipocrisia: che falsifica le sue relazioni con i potenti, ai quali rivolge un ossequio obbligato ed insincero, ovvio, ma l’ipocrisia anche con gli umili che cerca di ingannare con la sua superiorità culturale. Come non ricordare la scena in cui accampa scuse al povero Renzo che arriva tutto baldanzoso per fissare l’ora delle nozze. Prima il parroco finge di non ricordare che quello era il giorno stabilito, poi protesta di non sentirsi bene, accenna ad imbrogli e ad ostacoli, a formalità non ancora espletando, enumerando in latino tutti i motivi che rendono non valido il matrimonio. Poi chiede un posticipo delle nozze, sapendo benissimo che bastavano quattro giorni per sconfinare nel periodo dell’Avvento in cui la Chiesa, allora, impediva la celebrazione dei matrimoni. Don Abbondio con il suo latinòrum e, come dice Renzo, vorrebbe intimidire il povero ragazzo analfabeta, e quindi ingannarlo.

Si può cogliere una sorta di parallelismo tra don Rodrigo e don Abbondio. A parte le motivazioni che sono totalmente diverse, entrambi cercano, comunque, di schiacciare il più debole. Il primo con la violenza bieca e brutale, che conosciamo, ed il secondo con la cultura, uno strumento così nobile che diventa, in questo caso, strumento di oppressione del più debole. Questo è gravissimo, pensate quanto grave deve essere stato per il Manzoni che sentiva nella cultura uno strumento di elevazione morale. E’ interessare notare che il Manzoni pur considerando la Chiesa fondata da Cristo e depositaria del messaggio evangelico, come l’unica istituzione in grado di salvare la civiltà dalla catastrofe, non risparmia neppure gli uomini di Chiesa e accanto alla luminosità del cardinale e allo spirito missionario di fra’ Cristoforo pone un don Abbondio.
Luci e ombre si mescolano, ma queste ultime servono soprattutto per far risplendere ancora di più le prime, hanno una funzione. A questo punto mi piacerebbe parlarvi di Donna Prassede, ma lascio prevalere il buon senso e mi fermo qui, comunque dico per chi volesse conoscere questa “santa di mestiere” o rispolverare questo personaggio che basta leggere i capitoli XXV e XXVII.

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Falasca: per Bergoglio “Promessi Sposi” romanzo della speranza cristiana

Posté par atempodiblog le 28 mai 2015

Falasca: per Bergoglio “Promessi Sposi” romanzo della speranza cristiana
di Radio Vaticana, 27/05/2015

Leggete “I Promessi Sposi”, non lasciate da parte questo “capolavoro sul fidanzamento” della letteratura italiana. E’ l’originale invito che Papa Francesco ha rivolto ai giovani, e non solo, all’udienza generale in Piazza San Pietro. Una conferma di quanto il Pontefice argentino di origini italiane ami il capolavoro di Alessandro Manzoni. Su questa particolare predilezione, Alessandro Gisotti ha intervistato l’editorialista di “Avvenire” Stefania Falasca, legata a Jorge Mario Bergoglio da una lunga amicizia:

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R. – Certamente l’opera manzoniana fa parte del suo milieu culturale insieme ai Fratelli Karamazov di Dostoevskij. Anzi direi che proprio in particolare I Promessi Sposi siano un « must » delle letture di Bergoglio. Fin dai tempi in cui l’ho conosciuto, da cardinale, gli chiesi quale delle opere ricordava di più della nostra letteratura e lui senza pensarci mi disse: “I Promessi Sposi, lettura che amo frequentare e l’avrò letto 5 o 6 volte”. Perché? Perché I Promessi Sposi per lui sono il romanzo della vita cristiana per eccellenza, sono il romanzo della speranza cristiana, che si incarna nella storia di questi ragazzi che attraverso le vicende alle quali sono sottoposti anche loro malgrado, ritroviamo alla fine del romanzo che sono anche cresciuti in una consapevolezza diversa. E’ proprio la storia sofferta che poi culmina con quella saggezza di Lucia stessa che dice: “I guai quando vengono, senza colpa o con, la fiducia in Dio li raddolcisce e li rende utili per un vita migliore”.

D. – Il Papa ultimamente in un’intervista al quotidiano argentino « Voz del Pueblo » ha confidato che non vede la televisione da tanti anni che però prima di addormentarsi la sera dedica sempre un po’ di spazio alla lettura…

R. – Sì. La sua biblioteca è una biblioteca che ha nella mente e anche se poi nelle omelie mattutine di Santa Marta non fa espliciti riferimenti o citazioni, ma sono – a ben vedere – piene di riferimenti a letture che lui ha assimilato e ce ne sono molte. Certamente è un lettore molto attento.

D. – Papa Francesco è molto popolare anche tra i giovani. In qualche modo forse domani mattina i professori nei vari licei si sentiranno anche un po’ più incoraggiati nel dire ai propri ragazzi, ai propri studenti di leggere con passione I Promessi Sposi

R. – I Promessi Sposi sono da considerare come un libro attualissimo di speranza, di speranza che è sempre attualizzata a quella che è la condizione. I Promessi Sposi sono in fondo – “il sugo della storia” – un cammino: la storia di un cammino di due ragazzi che crescono. Rileggerlo alla luce degli avvenimenti, anche presenti, certamente, sta anche al professore a porgerlo in una maniera che dica qualcosa ai ragazzi di adesso.

D.  – Forse questa nota che ha toccato il Papa, il « capolavoro sul fidanzamento », una esperienza che proprio nell’adolescenza si prova ed è così forte, può essere effettivamente una chiave di lettura che può attrarre alle lettura dei Promessi Sposi

R. – Sì, sempre in questa dimensione, che abbiamo detto prima, del cammino insieme, del crescere insieme e dell’amore che è il grande protagonista del romanzo e della loro vicenda stessa. Su quello che riguarda il fidanzamento, certo, i due, Renzo e Lucia, facevano parte di un’epoca che era cristiana. Adesso ci troviamo in un’altra condizione ma possono dirci molto anche per quello che riguarda la vita di adesso.

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Prender per Cielo il proprio cervello

Posté par atempodiblog le 16 avril 2015

Prender per Cielo il proprio cervello dans Alessandro Manzoni 1zwofis

[...] Era donna Prassede una vecchia gentildonna molto inclinata a far del bene: mestiere certamente il piú degno che l’uomo possa esercitare; ma che purtroppo può anche guastare, come tutti gli altri. Per fare il bene, bisogna conoscerlo; e, al pari d’ogni altra cosa, non possiamo conoscerlo che in mezzo alle nostre passioni, per mezzo de’ nostri giudizi, con le nostre idee; le quali bene spesso stanno come possono. Con l’idee donna Prassede si regolava come dicono che si deve far con gli amici: n’aveva poche; ma a quelle poche era molto affezionata. Tra le poche, ce n’era per disgrazia molte delle storte; e non eran quelle che le fossero men care. Le accadeva quindi, o di proporsi per bene ciò che non lo fosse, o di prender per mezzi, cose che potessero piuttosto far riuscire dalla parte opposta, o di crederne leciti di quelli che non lo fossero punto, per una certa supposizione in confuso, che chi fa piú del suo dovere possa far piú di quel che avrebbe diritto; le accadeva di non vedere nel fatto ciò che c’era di reale, o di vederci ciò che non c’era; e molte altre cose simili, che possono accadere, e che accadono a tutti, senza eccettuarne i migliori; ma a donna Prassede, troppo spesso e, non di rado, tutte in una volta.

Al sentire il gran caso di Lucia, e tutto ciò che, in quell’occasione, si diceva della giovine, le venne la curiosità di vederla; e mandò una carrozza, con un vecchio bracciere, a prender la madre e la figlia. Questa si ristringeva nelle spalle, e pregava il sarto, il quale aveva fatta loro l’imbasciata, che trovasse maniera di scusarla. Finché s’era trattato di gente alla buona che cercava di conoscer la giovine del miracolo, il sarto le aveva reso volentieri un tal servizio; ma in questo caso, il rifiuto gli pareva una specie di ribellione. Fece tanti versi, tant’esclamazioni, disse tante cose: e che non si faceva così, e ch’era una casa grande, e che ai signori non si dice di no, e che poteva esser la loro fortuna, e che la signora donna Prassede, oltre il resto, era anche una santa; tante cose insomma, che Lucia si dovette arrendere: molto piú che Agnese confermava tutte quelle ragioni con altrettanti “sicuro, sicuro”.

Arrivate davanti alla signora, essa fece loro grand’accoglienza, e molte congratulazioni; interrogò, consigliò: il tutto con una certa superiorità quasi innata, ma corretta da tante espressioni umili, temperata da tanta premura, condita di tanta spiritualità, che, Agnese quasi subito, Lucia poco dopo, cominciarono a sentirsi sollevate dal rispetto opprimente che da principio aveva loro incusso quella signorile presenza; anzi ci trovarono una certa attrattiva. E per venire alle corte, donna Prassede, sentendo che il cardinale s’era incaricato di trovare a Lucia un ricovero, punta dal desiderio di secondare e di prevenire a un tratto quella buona intenzione, s’esibì di prender la giovine in casa, dove, senz’essere addetta ad alcun servizio particolare, potrebbe, a piacer suo, aiutar l’altre donne ne’ loro lavori. E soggiunse che penserebbe lei a darne parte a monsignore.

Oltre il bene chiaro e immediato che c’era in un’opera tale, donna Prassede ce ne vedeva, e se ne proponeva un altro, forse piú considerabile, secondo lei; di raddirizzare un cervello, di metter sulla buona strada chi n’aveva gran bisogno. Perché, fin da quando aveva sentito la prima volta parlar di Lucia, s’era subito persuasa che una giovine la quale aveva potuto promettersi a un poco di buono, a un sedizioso, a uno scampaforca insomma, qualche magagna, qualche pecca nascosta la doveva avere. Dimmi chi pratichi, e ti dirò chi sei. La vista di Lucia aveva confermata quella persuasione. Non che, in fondo, come si dice, non le paresse una buona giovine; ma c’era molto da ridire. Quella testina bassa, col mento inchiodato sulla fontanella della gola, quel non rispondere, o risponder secco secco, come per forza, potevano indicar verecondia; ma denotavano sicuramente molta caparbietà: non ci voleva molto a indovinare che quella testina aveva le sue idee. E quell’arrossire ogni momento, e quel rattenere i sospiri… Due occhioni poi, che a donna Prassede non piacevan punto. Teneva essa per certo, come se lo sapesse di buon luogo, che tutte le sciagure di Lucia erano una punizione del cielo per la sua amicizia con quel poco di buono, e un avviso per far che se ne staccasse affatto; e stante questo, si proponeva di cooperare a un così buon fine. Giacché, come diceva spesso agli altri e a se stessa, tutto il suo studio era di secondare i voleri del cielo: ma faceva spesso uno sbaglio grosso, ch’era di prender per cielo il suo cervello. Però, della seconda intenzione che abbiam detto, si guardò bene di darne il minimo indizio. Era una delle sue massime questa, che, per riuscire a far del bene alla gente, la prima cosa, nella maggior parte de’ casi, è di non metterli a parte del disegno. [...]

Tratto dal CAP. XXV de ‘I promessi sposi’ di Alessandro Manzoni

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I pregiudizi: il cielo e il cervello

«Le idee fisse sono come i crampi ai piedi: il rimedio migliore è camminarci sopra». (Soeren Kierkegaard)

La maggior parte delle persone crede di pensare, mentre in realtà organizza semplicemente i propri pregiudizi. «Con le idee donna Prassede si regolava come dicono che si deve far con gli amici: n’aveva poche; ma a quelle poche era molto affezionata. Tra le poche, ce n’era per disgrazia molte delle storte; e non erano quelle che le fossero meno care». Così ironizzava Alessandro Manzoni su un personaggio minore del suo capolavoro, I promessi sposi.

Il profilo di donna Prassede affiora idealmente anche nell’osservazione del filosofo e psicologo statunitense William James (1842-1910) che oggi proponiamo. Egli punta su quella deviazione del pensiero che è il pregiudizio. Se è vero che il concetto elaborato attraverso il pensiero è fondamentale nella ricerca, è altrettanto vero che molto spesso il punto di partenza è un preconcetto e attorno ad esso si elabora un pensare che in realtà si trasforma in un circolo vizioso. In pratica si gira attorno alla propria idea fissa per difenderla, sostenendola con argomentazioni faziose. Dobbiamo riconoscere che un po’ tutti abbiamo «talora inconsapevolmente» i nostri pregiudizi intoccabili, che non verranno mai scalfiti dalle obiezioni altrui.

Lo scrittore francese Anatole France di un suo personaggio, un illustre accademico, notava che «si lusingava di essere un uomo senza pregiudizi; e questa pretesa è già di per sé un grande pregiudizio». Cerchiamo, allora, con coraggio di vagliare le nostre idee, soprattutto quelle più care, confrontandole con quelle ad esse antitetiche per scoprire se resistono alla luce di un vero, spietato, fondato giudizio.

di Mons. Gianfranco Ravasi – Avvenire

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Quando nel romanzo compare donna Prassede, non può non venire in mente qualche nostra vecchia zia un po’ brontolona e saccente, alla quale in fondo vogliamo bene, anche se… preferiamo stare alla larga, se possibile: è il risultato di alcune sapienti pennellate con le quali il Manzoni tratteggia questo indimenticabile personaggio, messo là apposta a… perseguitare la povera Lucia.

L’avvio è come di consueto molto tranquillo e assolutamente non fa presagire questo ulteriore dramma per la nostra protagonista femminile: “Poco distante da quel paesetto, villeggiava una coppia d’alto affare”…ma poi arriva subito la frecciatina: “Era donna Prassede una vecchia gentildonna molto inclinata a far del bene” [naturalmente il Manzoni riporta i giudizi di quel popolo che nella sua semplicità si basava unicamente sulle apparenze… e le cose non sono molto cambiate: tutti i tempi si assomigliano!]. Ma leggiamo subito dopo il giudizio benevolo e anche tagliente dell’autore: “mestiere certamente il più degno che l’uomo possa esercitare; ma che purtroppo può guastare, come tutti gli altri”. Certo che se il far del bene diventa un mestiere part time, può guastare. E vediamo ora l’affondo quasi impietoso, se non fosse in un contesto così pacifico e inoffensivo: “Per fare il bene, bisogna conoscerlo; e, al pari d’ogni altra cosa, non possiamo conoscerlo che in mezzo alle nostre passioni, per mezzo de’ nostri giudizi, con le nostre idee; le quali bene spesso vanno come possono. Con le idee donna Prassede si regolava come dicono che si deve fare con gli amici: n’aveva poche; ma a quelle poche era molto affezionata: Tra le poche, ce n’era per disgrazia molte delle storte; e non eran quelle che le fossero men care…”.

Una gentildonna come lei, dunque, molto inclinata a far del bene, e certamente abbastanza partecipe degli eventi del tempo, appena sa di Lucia e della sua prodigiosa liberazione, decide di avere anche lei la sua piccola parte in questi fatti così inusitati. A dire il vero, il suo proposito non è del tutto gratuito e disinteressato; il suo bravo interesse l’aveva anche se in assoluta buona fede: Oltre il bene chiaro e immediato che c’era in un’opera tale, donna Prassede ce ne vedeva, e se ne proponeva un altro, forse più considerabile, secondo lei; di raddrizzare un cervello, di metter sulla buona strada chi n’aveva bisogno.

Ed ecco la nobile missione di raddrizzare il cervello e mettere sulla buona strada la povera Lucia: fin da quando aveva sentito la prima volta parlar di Lucia, s’era subito persuasa che una giovine che aveva potuto promettersi a un poco di buono (…), qualche magagna, qualche pecca nascosta la doveva avere. Dimmi chi pratichi e ti dirò chi sei: ancora il solito proverbio, che altrove abbiamo definito come espressione della mediocrità di un popolo, e che qui diventa ancor più evanescente perché si basa su delle premesse alquanto labili: il “sentito dire” generico delle notizie sensazionali che via via si arricchiscono di particolari di assoluta fantasia.

Risulta inoltre interessante lo sguardo che donna Prassede ha nei confronti di Lucia; sguardo fortemente condizionato da quelle passioni, quei giudizi, quelle idee, poche ma tenaci, che ormai facevano parte della sua forma mentis. Ed ecco una descrizione di Lucia assolutamente superficiale, ma ritenuta esauriente dalla anziana e testarda nobildonna: non che in fondo non le paresse una buona giovine; ma c’era molto da ridire. Quella testina bassa, col mento inchiodato sulla fontanella della gola, quel non rispondere, o rispondere secco secco, come per forza, potevano indicar verecondia; ma denotavano sicuramente caparbietà: non ci voleva molto a indovinare che quella testina aveva le sue idee.


Dove sta l’errore di donna Prassede? E come evitare un simile errore di valutazione?

Il primo errore consiste nel fatto che la nostra nobildonna parte da un’ipotesi negativa nel giudicare i fatti; e questo è un punto di partenza che chiude il cuore e l’intelligenza alla comprensione della realtà.
Quanto all’errore di valutazione, c’è da rilevare una notevole imprudenza, nonostante l’età avanzata, nel valutare sulla base di pregiudizi non verificati seriamente.

Autore: Pinna, Maria Vittoria  Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele
Fonte:
CulturaCattolica.it ©

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Le parole fanno un effetto in bocca, e un altro negli orecchi

Posté par atempodiblog le 7 septembre 2014

Le parole fanno un effetto in bocca, e un altro negli orecchi dans Alessandro Manzoni vp9ego

[Renzo] Prima d’allora era stato un po’ lesto nel sentenziare, e si lasciava andar volentieri a criticar la donna d’altri, e ogni cosa. Allora s’accorse che le parole fanno un effetto in bocca, e un altro negli orecchi; e prese un po’ più d’abitudine d’ascoltar di dentro le sue, prima di proferirle.

Alessandro Manzoni - I promessi sposi
Tratto da: Congregazione per il clero

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Il Cardinal Federigo Borromeo, testimone della tenerezza della Chiesa

Posté par atempodiblog le 2 novembre 2013

L’Innominato e il Cardinal Federigo
Proviamo ad immedesimarci con lo stato d’animo dell’Innominato; anzi entriamo nella scena sostituendoci a lui.
di Maria Vittoria Pinna. Curatore: Don Gabriele Mangiarotti – Cultura Cattolica

Il Cardinal Federigo Borromeo, testimone della tenerezza della Chiesa dans Alessandro Manzoni ynjeIl cuore è sconvolto, non capisco nulla, quell’uggia iniziale si è trasformata, dopo l’incontro con la fragile Lucia, in disperazione. Poi, quando tutto sembrava finire in una resa totale al nulla, quello strano duplice pensiero: e se l’altra vita non esiste?… e se invece esiste?
Era un’oscurità davvero insopportabile che un colpo di rivoltella non avrebbe risolto… Poi quell’immagine inspiegabilmente autorevole che sembrava schiacciarmi e ripeteva a voce non più supplichevole, ma decisa, autorevole e foriera di una strana speranza: Dio perdona tante cose per un’opera di misericordia… Quindi il proposito di liberare la giovane: ma la pace all’animo tormentato non arrivava. Non ho nemmeno fatto in tempo a ripiombare nella disperazione che quello scampanio, quella folla gioiosa per le strade proprio sul far dell’alba, lungi dall’infastidirmi come un ostacolo al mio rimuginare, mi incuriosisce, nonostante il dispetto. Il bravo incaricato, mi spiega l’arcano: è in visita pastorale al paese il cardinal Federigo… un uomo… ma chissà cosa avrà quest’uomo che sembra dar tanta gioia alla gente… Ma… può darsi che abbia la capacità di dirmi qualcosa che plachi anche il mio tormento… (che strano: sono tanti piccoli fatti, ma passano in un secondo e mi resta soltanto il cuore pieno di angoscia e… di una speranza inspiegabile…)

Ebbene, ci andrò. Cammino inquieto senza la mia solita scorta e non mi importa della stranezza della cosa per chi mi vede: nessuno ha in cuore il diavolo che mi tormenta…
Son qui nell’atrio in mezzo a una brigata di tonache nere che mi guardano con sospetto. A dire il vero nemmeno me ne accorgo, meglio: non mi preoccupo affatto. Voglio vedere quest’uomo e lo vedrò (ho sempre fatto quello che volevo e nessuno me lo ha impedito!)
Ecco che il Cappellano crocifero mi introduce nella stanza in cui il Cardinale aspetta di celebrare gli uffizi divini. Non so cosa farò, non so cosa dirò, ma ora sono davanti a lui . Un attimo e lui mi viene già incontro con fare premuroso e pieno d’affetto a braccia spalancate, come con una persona desiderata.
Non ho parole, ma anche lui mi guarda e tace: ma perché sono qui? Il tormento mi dilania… ma non ho nemmeno voglia di parlare. Sollevo lo sguardo e… avverto un… sentimento di venerazione imperioso e insieme soave, che, aumentando la fiducia, mitiga il dispetto, e senza prender l’orgoglio di fronte, l’abbatte, e… gli impone silenzio.
Ha anche lui uno sguardo penetrante e dopo un po’ mi dice: “Oh!(…) Che preziosa visita è questa! E quanto vi devo esser grato di questa preziosa risoluzione; quantunque per me abbia un po’ del rimprovero!”.
“Rimprovero” ,
ma cosa mi dice… “Certo, m’è un rimprovero (…) ch’io mi sia lasciato prevenir da voi; quando, da tanto tempo, tante volte, avrei dovuto venir da voi io”.
Ma lo sa chi sono io? Sì, lo sa, ma come può essere così accogliente per me? Ecco, mi parla: ma cos’è questo strano sentimento che mi allarga cuore e polmoni togliendomi quella oppressione insostenibile? e come mai non mi indispettisce il sentirmi ricordare le mie malefatte?… Nella sua voce non c’è rimprovero, c’è una dolcezza, una pacatezza, una sicurezza che nemmeno la mia cattiveria possono turbare… Mi accoglie per quello che sono!!! No, non lo merito… che faccio: piango? Ma come è liberante questo pianto… mi conosco… ora, ora capisco cosa sono stato veramente… Dio mio, perdono… ma come potrò rimediare a tanto male fatto?

Ormai la conversione per l’Innominato ha avuto il sigillo del confronto con una Presenza carica di messaggio: dentro la Chiesa questo tipo di conforto avviene dentro un sacramento, segno efficace del perdono di Dio alla nostra miseria.

Ciò detto invito tutti a leggere con attenzione queste pagine bellissime che testimoniano la tenerezza della Chiesa, incaricata da Dio di accogliere e abbracciare nel perdono tutti i suoi figli.
Con una raccomandazione. Non lasciatevi impressionare dalle espressioni del cardinale, che paiono un po’… auliche: tenete presente che siamo nel ’600 e gli ecclesiastici parlavano allora così. Quello che conta e commuove e dà speranza a chiunque è quell’atteggiamento pieno di premura, di attenzione, di accoglienza, di perdono, che solo la presenza di Cristo, vivo e presente nella Chiesa può dare.

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Capitolo XXIII de I Promessi Sposi freccetta.jpg L’Innominato e il Cardinal Federigo

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Dio giudice e Misericordioso

Posté par atempodiblog le 2 novembre 2013

Dio giudice e Misericordioso dans Alessandro Manzoni cfbw

Si parlava della celebre frase di Dostoevskij: “Se Dio non esiste, tutto è permesso”. La pensava così anche il suo contemporaneo Alessandro Manzoni.

Nei “Promessi sposi”, infatti, uno dei personaggi più riusciti è utilizzato dal Manzoni proprio per rendere visibile questo concetto. Parlo dell’Innominato. Quest’uomo malvagio, indurito, ma non per sempre, dai suoi crimini, viene infatti introdotto dal poeta attraverso il paesaggio che lo circonda. L’Innominato infatti abitava “a cavaliere a una valle angusta e uggiosa” e “dall’alto del castellaccio non vedeva mai nessuno al di sopra di sé, né più in alto”. Questa breve descrizione, apparentemente geografica, dice già tutto quello che Manzoni pensa di Dio e della morale: l’uomo che non vede nulla “al di sopra di sé”, cioè l’uomo che si pone al di sopra del bene e del male, eliminando Dio dal suo orizzonte, vive già tutti i presupposti per divenire una creatura senza scrupoli e piena solo di se stessa. L’uomo che scarta Dio, in altre parole, siede al suo posto e rifiuta un giudizio su di sé, in nome della sua completa autonomia.

All’Innominato avviene dunque come ad un personaggio di  Dostoevskij, Sigalev: “Sono partito dalla libertà illimitata e finisco nel dispotismo assoluto”. Non vendendo mai alcuno “al di sopra di sé, né più in alto”, l’Innominato finisce inevitabilmente per porre se stesso sopra i propri simili.

Diciamolo subito. Si può finire male anche credendo in Dio. Don Abbondio ne è un esempio, così come lo è un personaggio di Chesterton che è solito passeggiare nella parte sopraelevata della sua chiesa, essendo un pastore. Di lì osserva, dall’alto al basso, tutti gli altri. Sino al punto di ritenere che la sua “bontà” gli permetta di ergersi a giudice di un suo fratello, ubriacone e peccatore; sino al punto di fulminarlo, dall’alto, lasciandogli cadere un martello in testa. 

Perché chi crede in Dio può benissimo farne una sorta di soprammobile, come fa don Abbondio, oppure può essere tentato di sentirsi buono e giusto (lui), in un mondo di peccatori (gli altri). La superbia, male per eccellenza, è dunque sempre in agguato. Per questo Dostoevskij fa dire a padre Zosima, ne “I fratelli Karamazov”: “Amate l’uomo anche con il suo peccato, perché questo riflesso dell’amore divino è il culmine dell’amore sopra la terra”. Non facile, certo.

Ma torniamo al nostro Innominato. Manzoni ne descrive in modo esemplare la conversione. Dice infatti che all’epoca del rapimento di Lucia da lui ordinato, l’Innominato è pervaso da una certa “paura”, “terrore” , “una non so qual rabbia di pentimento”. Cosa è successo di nuovo? Manzoni lo fa capire bene: ci si può credere dio, sino ad un certo punto; si può fare come se Dio non esistesse, finché si è forti, finché si ha successo, finché si calca la scena tra gli applausi del mondo.

Ma poi arriva la vecchiaia, si incomincia ad intravedere la morte, e sentirsi ancora dio si fa difficile. Come Dorian Gray: si può mettere la coscienza del peccato in soffitta per tanto tempo, ma poi ad un certo punto diventa insopprimibile la domanda: e poi?

L’Innominato vorrebbe scacciare i suoi pensieri, vorrebbe rituffarsi nell’azione, che tacita il rimorso e la paura, ma si trova “ingolfato nell’esame di tutta la sua vita”. Finché è colto da una considerazione che ci riporta all’inizio: ma se Dio esiste, quale sarà la mia sorte nell’eternità? Però, “se quella vita (nell’aldilà) non c’è, se è una invenzione dei preti; che fo io? Cos’importa quello che ho fatto? Cos’importa?”.

Se Dio non c’è, infatti, esiste solo la giustizia umana; ma sulla terra vince spesso la forza, l’ingiustizia: e l’Innominato, che lo sa, se lo chiede: “io vinco, che importa dunque il pentimento, il rimorso? Nessuno potrà mai chiedermi conto della mia vita. Neppure dopo la morte”. Ma il dubbio, la paura sono forti. E se invece Dio esiste?

Manzoni descrive sapientemente questi dilemmi, e decide di descrivere l’Innominato sul punto di suicidarsi, in preda alla disperazione. La tentazione umana, come quella di Giuda, è la mancanza di speranza; è la tentazione di fare ancora una volta come se Dio non esistesse, ergendosi a padroni della propria vita sino all’ultimo.  E’ stato il demonio a suggerirti il suicidio, dirà infatti Federigo Borromeo all’Innominato. Come avviene, allora la conversione? In due fasi. Anzitutto la disperazione di chi si riconosce finalmente malvagio, viene incrinata da una frase di Lucia: “Dio perdona tante cose per un’opera di misericordia”.

E’ una frase dolcissima, teneramente cristiana: perdono e misericordia sono possibili al Dio che è giudice, quando non sembrano neppure più possibili all’uomo che sta, per la prima volta, giudicando se stesso. La verità di Dio Giudice, non può però essere separata dalla verità di Dio Misericordioso. Pronto a perdonare chiunque, sempre, sino all’ultima ora. Se c’è pentimento.  Poi, dopo le parole di Lucia, che riaccendono la speranza, un incontro: con Federigo che lo abbraccia e rende presente quel perdono. La Fede si diffonde per contagio.  Contagiano coloro che vivono un Dio giusto e misericordioso. Contagiano talora anche coloro che per una vita si sono seduti sul trono di Dio.

Francesco Agnoli – Il Foglio

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Napoleone vinto anche da Dio

Posté par atempodiblog le 29 octobre 2013

Napoleone vinto anche da Dio
del Card. Giacomo Biffi – Avvenire

Napoleone vinto anche da Dio dans Alessandro Manzoni NapoleoneMaterialista e saccheggiatore di chiese e di conventi, miscredente e fedifrago, anticlericale e sequestratore del papa: questa è l’opinione che molti hanno di Napoleone Bonaparte, opinione tanto diffusa quanto acriticamente accolta. Se andiamo alle fonti, e in particolare a queste conversazioni, scopriamo qualcosa di strabiliante. Napoleone grida con fierezza: «Sono cattolico romano, e credo ciò che crede la Chiesa».

Durante gli anni di isolamento a Sant’Elena Napoleone si intratteneva spesso con alcuni generali, suoi compagni di esilio, a conversare sulla fede. Si tratta di discorsi improvvisati che – come rivela uno dei suoi più fidati generali, il conte de Montholon – furono trascritti fedelmente e poi dati alle stampe da Antoine de Beauterne nel 1840. Dell’autenticità e della fedeltà della trascrizione possiamo essere certi, visto che, quando de Beauterne pubblica per la prima volta le conversazioni, sono ancora in vita molti testimoni e protagonisti di quegli anni di esilio. Napoleone ammette con candida onestà che quando era al trono ha avuto troppo rispetto umano e un’eccessiva prudenza per cui «non urlava la propria fede». Ma dice anche che «allora se qualcuno me lo avesse chiesto esplicitamente, gli avrei risposto: “Sì, sono cristiano”; e se avessi dovuto testimoniare la mia fede al prezzo della vita, avrei trovato il coraggio di farlo».

Soprattutto attraverso queste conversazioni impariamo che per Napoleone la fede e la religione erano l’adesione convinta, non a una teoria o a un’ideologia, ma a una persona viva, Gesù Cristo, che ha affidato l’efficacia perenne della sua missione di salvezza a «un segno strano», alla sua morte sulla croce. Perciò non ci stupiamo se Alessandro Manzoni nell’ode Cinque Maggio dà prova di conoscere la sua fisionomia spirituale quando scrive: «Bella Immortal! Benefica/ Fede ai trïonfi avvezza!/ Scrivi ancor questo, allegrati;/ che più superba altezza/ al disonor del Golgota/ giammai non si chinò». L’imperatore si sofferma a lungo con il generale Bertrand, dichiaratamente ateo e ostile alle manifestazioni di fede del suo superiore, regalandoci un’inaudita prova dell’esistenza di Dio, fondata sulla nozione di genio, una lunga conversazione sulla divinità di Gesù Cristo. Degni della nostra ammirazione sono anche le considerazioni sull’ultima Cena di Gesù e i confronti tra la dottrina cattolica e le dottrine protestanti.

Alcune affermazioni di Napoleone mi trovano singolarmente consonante. Ad esempio, quando dice: «Tra il cristianesimo e qualsivoglia altra religione c’è la distanza dell’infinito», cogliendo così la sostanziale alterità tra l’evento cristiano e le dottrine religiose. Oppure la convinzione che l’essenza del cristianesimo è l’amore mistico che Cristo ci comunica continuamente: «Il più grande miracolo di Cristo è stato fondare il regno della carità: solo lui si è spinto ad elevare il cuore umano fino alle vette dell’inimmaginabile, all’annullamento del tempo; lui solo creando questa immolazione, ha stabilito un legame tra il cielo e la terra. Tutti coloro che credono in lui, avvertono questo amore straordinario, superiore, soprannaturale; fenomeno inspiegabile e impossibile alla ragione».

Alla luce di queste pagine non possiamo non ammettere che Napoleone non solo è credente, ma ha meditato sul contenuto della sua fede maturandone una profonda e sapienziale intelligenza. Questa a sua volta si è tradotta in fatti molto concreti: ha domandato con insistenza al governo inglese di ottenere la celebrazione della Messa domenicale a Sant’Elena; ha espresso gratitudine verso sua madre e de Voisins, vescovo di Nantes, perché da loro è stato «aiutato a raggiungere la piena adesione al cattolicesimo»; ha concesso il suo perdono a tutte le persone che lo hanno tradito. Infine, le conversazioni riferiscono le convinzioni di Napoleone sul sacramento della confessione e i suoi rapporti con il papa Pio VII, rivelando che «quando il papa era in Francia (…) era esausto per le calunnie in base alle quali si pretendeva che io lo avessi maltrattato, calunnie che smentì pubblicamente». Queste conversazioni non solo hanno lasciato un segno indelebile nella memoria dei generali compagni di esilio, ma hanno anche concorso alla loro conversione.

Divisore dans San Francesco di Sales

Freccia dans Viaggi & Vacanze Alcune considerazioni di Napoleone nei suoi giorni d’esilio a Sant’Elena

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Intervista al Papa: «La Chiesa, un ospedale da campo»

Posté par atempodiblog le 20 septembre 2013

Il direttore di «Civiltà Cattolica» padre Antonio Spadaro intervista Papa Francesco: «Non possiamo insistere solo sulle questioni legate ad aborto, matrimonio omosessuale e uso dei metodi contraccettivi»
di Andrea Tornielli – Vatican Insider

Intervista al Papa: «La Chiesa, un ospedale da campo» dans Alessandro Manzoni tu6a

«Io vedo con chiarezza che la cosa di cui la Chiesa ha più bisogno oggi è la capacità di curare le ferite e di riscaldare il cuore dei fedeli, la vicinanza, la prossimità. Io vedo la Chiesa come un ospedale da campo dopo una battaglia. È inutile chiedere a un ferito grave se ha il colesterolo e gli zuccheri alti! Si devono curare le sue ferite. Poi potremo parlare di tutto il resto. Curare le ferite, curare le ferite… E bisogna cominciare dal basso».

È il cuore del messaggio contenuto nella lunga intervista (ben 29 pagine della rivista) che Papa Francesco ha concesso al direttore di «Civiltà Cattolica» padre Antonio Spadaro. Un colloquio di sei ore avvenuto il 19, il 23 e il 29 agosto. Jorge Mario Bergoglio traccia un identikit inedito di se stesso, che include anche le sue preferenze artistiche; analizza il ruolo della Chiesa oggi e indica le priorità dell’azione pastorale.

Non insistere solo sui valori non negoziabili
«Non possiamo insistere solo sulle questioni legate ad aborto, matrimonio omosessuale e uso dei metodi contraccettivi. Questo non è possibile. Io non ho parlato molto di queste cose, e questo mi è stato rimproverato. Ma quando se ne parla, bisogna parlarne in un contesto. Il parere della Chiesa, del resto, lo si conosce, e io sono figlio della Chiesa, ma non è necessario parlarne in continuazione».

«Una pastorale missionaria non è ossessionata dalla trasmissione disarticolata di una moltitudine di dottrine da imporre con insistenza. L’annuncio di tipo missionario si concentra sull’essenziale, sul necessario, che è anche ciò che appassiona e attira di più, ciò che fa ardere il cuore, come ai discepoli di Emmaus…».

«La Chiesa a volte si è fatta rinchiudere in piccole cose, in piccoli precetti. La cosa più importante è invece il primo annuncio: “Gesù Cristo ti ha salvato!”. E i ministri della Chiesa devono innanzitutto essere ministri di misericordia». «L’annuncio dell’amore salvifico di Dio è previo all’obbligazione morale e religiosa. Oggi a volte sembra che prevalga l’ordine inverso».

A proposito dei gay
«Dobbiamo annunciare il Vangelo su ogni strada, predicando la buona notizia del Regno e curando, anche con la nostra predicazione, ogni tipo di malattia e di ferita. A Buenos Aires ricevevo lettere di persone omosessuali, che sono “feriti sociali” perché mi dicono che sentono come la Chiesa li abbia sempre condannati. Ma la Chiesa non vuole fare questo. Durante il volo di ritorno da Rio de Janeiro ho detto che, se una persona omosessuale è di buona volontà ed è in cerca di Dio, io non sono nessuno per giudicarla. Dicendo questo io ho detto quel che dice il Catechismo. La religione ha il diritto di esprimere la propria opinione a servizio della gente, ma Dio nella creazione ci ha resi liberi: l’ingerenza spirituale nella vita personale non è possibile».

«Una volta una persona, in maniera provocatoria, mi chiese se approvavo l’omosessualità. Io allora le risposi con un’altra domanda: “Dimmi: Dio, quando guarda a una persona omosessuale, ne approva l’esistenza con affetto o la respinge condannandola?”. Bisogna sempre considerare la persona. Qui entriamo nel mistero dell’uomo. Nella vita Dio accompagna le persone, e noi dobbiamo accompagnarle a partire dalla loro condizione. Bisogna accompagnare con misericordia. Quando questo accade, lo Spirito Santo ispira il sacerdote a dire la cosa più giusta».

«La mia certezza: Dio è nella vita di ogni persona»
«Chi oggi cerca sempre soluzioni disciplinari – ha affermato Francesco – chi tende in maniera esagerata alla “sicurezza” dottrinale, chi cerca ostinatamente di recuperare il passato perduto, ha una visione statica e involutiva. E in questo modo la fede diventa una ideologia tra le tante. Io ho una certezza dogmatica: Dio è nella vita di ogni persona, Dio è nella vita di ciascuno. Anche se la vita di una persona è stata un disastro, se è distrutta dai vizi, dalla droga o da qualunque altra cosa, Dio è nella sua vita. Lo si può e lo si deve cercare in ogni vita umana. Anche se la vita di una persona è un terreno pieno di spine ed erbacce, c’è sempre uno spazio in cui il seme buono può crescere. Bisogna fidarsi di Dio».

Dio è più grande del peccato
«Come stiamo trattando il popolo di Dio? Sogno una Chiesa Madre e Pastora. I ministri della Chiesa devono essere misericordiosi, farsi carico delle persone, accompagnandole come il buon samaritano che lava, pulisce, solleva il suo prossimo. Questo è Vangelo puro. Dio è più grande del peccato. Le riforme organizzative e strutturali sono secondarie, cioè vengono dopo. La prima riforma deve essere quella dell’atteggiamento. I ministri del Vangelo devono essere persone capaci di riscaldare il cuore delle persone, di camminare nella notte con loro, di saper dialogare e anche di scendere nella loro notte, nel loro buio senza perdersi. Il popolo di Dio vuole pastori e non funzionari o chierici di Stato. I vescovi, particolarmente, devono essere uomini capaci di sostenere con pazienza i passi di Dio nel suo popolo in modo che nessuno rimanga indietro, ma anche per accompagnare il gregge che ha il fiuto per trovare nuove strade».

La Chiesa è il popolo di Dio
«Il popolo è soggetto. E la Chiesa è il popolo di Dio in cammino nella storia, con gioie e dolori. Sentire cum Ecclesia dunque per me è essere in questo popolo. E l’insieme dei fedeli è infallibile nel credere, e manifesta questa sua infallibilitas in credendo mediante il senso soprannaturale della fede di tutto il popolo che cammina… Quando il dialogo tra la gente e i vescovi e il Papa va su questa strada ed è leale, allora è assistito dallo Spirito Santo. Non è dunque un sentire riferito ai teologi… Non bisogna dunque neanche pensare che la comprensione del « sentire con la Chiesa » sia legata solamente al sentire con la sua parte gerarchica». E la Chiesa non va ridotta a «una piccola cappella che può contenere solo un gruppetto di persone selezionate. Non dobbiamo ridurre il seno della Chiesa universale a un nido protettore della nostra mediocrità».

«Sono un peccatore»
Il Papa definisce se stesso «un peccatore». E ricordando la straordinaria immagine caravaggesca della vocazione di Matteo afferma: «Ecco, questo sono io: “un peccatore al quale il Signore ha rivolto i suoi occhi”. E questo è quel che ho detto quando mi hanno chiesto se accettavo la mia elezione a Pontefice».

Per fare le riforme serve tempo
«Molti pensano che i cambiamenti e le riforme possano avvenire in breve tempo. Io credo che ci sia sempre bisogno di tempo per porre le basi di un cambiamento vero, efficace. E questo è il tempo del discernimento. E a volte il discernimento invece sprona a fare subito quel che invece inizialmente si pensa di fare dopo. È ciò che è accaduto anche a me in questi mesi».
«Ecco, invece diffido delle decisioni prese in maniera improvvisa – ha spiegato il Papa a « Civiltà Cattolica » – Diffido sempre della prima decisione, cioè della prima cosa che mi viene in mente di fare se devo prendere una decisione. In genere è la cosa sbagliata. Devo attendere, valutare interiormente, prendendo il tempo necessario. La sapienza del discernimento riscatta la necessaria ambiguità della vita e fa trovare i mezzi più opportuni, che non sempre si identificano con ciò che sembra grande o forte».

Perché uso un’auto modesta
«Il discernimento si realizza sempre alla presenza del Signore, guardando i segni, ascoltando le cose che accadono, il sentire della gente, specialmente i poveri. Le mie scelte, anche quelle legate alla normalità della vita, come l’usare una macchina modesta, sono legate a un discernimento spirituale che risponde a una esigenza che nasce dalle cose, dalla gente, dalla lettura dei segni dei tempi. Il discernimento nel Signore mi guida nel mio modo di governare».

Sono un indisciplinato… nato
Della Compagnia di Gesù, Francesco dice: «mi hanno colpito tre cose: la missionarietà, la comunità e la disciplina. Curioso questo, perché io sono un indisciplinato nato, nato, nato. Ma la loro disciplina, il modo di ordinare il tempo, mi ha colpito tanto».

Non vado nell’appartamento papale perché lì si entra col contagocce
«E poi – ha aggiunto – una cosa per me davvero fondamentale è la comunità. Cercavo sempre una comunità. Io non mi vedevo prete solo: ho bisogno di comunità. E lo si capisce dal fatto che sono qui a Santa Marta… Ho scelto di abitare qui, nella camera 201, perché quando ho preso possesso dell’appartamento pontificio, dentro di me ho sentito distintamente un “no”. L’appartamento pontificio nel Palazzo Apostolico non è lussuoso. È antico, fatto con buon gusto e grande, non lussuoso. Ma alla fine è come un imbuto al rovescio. È grande e spazioso, ma l’ingresso è davvero stretto. Si entra col contagocce, e io no, senza gente non posso vivere. Ho bisogno di vivere la mia vita insieme agli altri».

Carattere decisionista ma non sono di destra
«Nella mia esperienza di superiore in Compagnia… il mio governo all’inizio aveva molti difetti… Mi son trovato Provinciale ancora molto giovane. Avevo 36 anni: una pazzia. Bisognava affrontare situazioni difficili, e io prendevo le mie decisioni in maniera brusca e personalista. Sì, devo aggiungere però una cosa: quando affido una cosa a una persona, mi fido totalmente di quella persona. Deve fare un errore davvero grande perché io la riprenda. Ma, nonostante questo, alla fine la gente si stanca dell’autoritarismo. Il mio modo autoritario e rapido di prendere decisioni mi ha portato ad avere seri problemi e ad essere accusato di essere ultraconservatore. Ho vissuto un tempo di grande crisi interiore quando ero a Cordova. Ecco, no, non sono stato certo come la Beata Imelda, ma non sono mai stato di destra. È stato il mio modo autoritario di prendere le decisioni a creare problemi».

Voglio consultazioni reali, non pro forma
«Col tempo ho imparato molte cose. Il Signore ha permesso questa pedagogia di governo anche attraverso i miei difetti e i miei peccati. Così da arcivescovo di Buenos Aires ogni quindici giorni facevo una riunione con i sei vescovi ausiliari, varie volte l’anno col Consiglio presbiterale. Si ponevano domande e si apriva lo spazio alla discussione. Questo mi ha molto aiutato a prendere le decisioni migliori. E adesso sento alcune persone che mi dicono: “non si consulti troppo, e decida”. Credo invece che la consultazione sia molto importante. I concistori, i Sinodi sono, ad esempio, luoghi importanti per rendere vera e attiva questa consultazione. Bisogna renderli però meno rigidi nella forma. Voglio consultazioni reali, non formali. La Consulta degli otto cardinali, questo gruppo consultivo outsider, non è una decisione solamente mia, ma è frutto della volontà dei cardinali, così come è stata espressa nelle Congregazioni Generali prima del conclave. E voglio che sia una Consulta reale, non formale».

Così vedo la Curia
«I dicasteri romani sono al servizio del Papa e dei vescovi: devono aiutare sia le Chiese particolari sia le Conferenze episcopali. Sono meccanismi di aiuto. In alcuni casi, quando non sono bene intesi, invece, corrono il rischio di diventare organismi di censura. È impressionante vedere le denunce di mancanza di ortodossia che arrivano a Roma. Credo che i casi debbano essere studiati dalle Conferenze episcopali locali, alle quali può arrivare un valido aiuto da Roma. I casi, infatti, si trattano meglio sul posto. I dicasteri romani sono mediatori, non intermediari o gestori».

Collegialità e primato di Pietro
«Si deve camminare insieme: la gente, i vescovi e il Papa. La sinodalità va vissuta a vari livelli. Forse è il tempo di mutare la metodologia del Sinodo, perché quella attuale mi sembra statica. Questo potrà anche avere valore ecumenico, specialmente con i nostri fratelli Ortodossi. Da loro si può imparare di più sul senso della collegialità episcopale e sulla tradizione della sinodalità. Lo sforzo di riflessione comune, guardando a come si governava la Chiesa nei primi secoli, prima della rottura tra Oriente e Occidente, darà frutti a suo tempo».

La donna nella Chiesa e il «machismo in gonnella»
«È necessario ampliare gli spazi di una presenza femminile più incisiva nella Chiesa. Temo la soluzione del “machismo in gonnella”, perché in realtà la donna ha una struttura differente dall’uomo. E invece i discorsi che sento sul ruolo della donna sono spesso ispirati proprio da una ideologia machista. Le donne stanno ponendo domande profonde che vanno affrontate. La Chiesa non può essere se stessa senza la donna e il suo ruolo. La donna per la Chiesa è imprescindibile. Maria, una donna, è più importante dei vescovi. Dico questo perché non bisogna confondere la funzione con la dignità. Bisogna dunque approfondire meglio la figura della donna nella Chiesa. Bisogna lavorare di più per fare una profonda teologia della donna. Solo compiendo questo passaggio si potrà riflettere meglio sulla funzione della donna all’interno della Chiesa. Il genio femminile è necessario nei luoghi in cui si prendono le decisioni importanti».

Il Concilio e la messa antica
«Il Vaticano II è stato una rilettura del Vangelo alla luce della cultura contemporanea. Ha prodotto un movimento di rinnovamento che semplicemente viene dallo stesso Vangelo. I frutti sono enormi. Basta ricordare la liturgia. Il lavoro della riforma liturgica è stato un servizio al popolo come rilettura del Vangelo a partire da una situazione storica concreta. Sì, ci sono linee di ermeneutica di continuità e di discontinuità, tuttavia una cosa è chiara: la dinamica di lettura del Vangelo attualizzata nell’oggi che è stata propria del Concilio è assolutamente irreversibile. Poi ci sono questioni particolari come la liturgia secondo il Vetus Ordo. Penso che la scelta di Papa Benedetto sia stata prudenziale, legata all’aiuto ad alcune persone che hanno questa particolare sensibilità. Considero invece preoccupante il rischio di ideologizzazione del Vetus Ordo, la sua strumentalizzazione».

Se uno ha una risposta per tutto, Dio non è con lui
«Se una persona dice che ha incontrato Dio con certezza totale e non è sfiorata da un margine di incertezza, allora non va bene. Per me questa è una chiave importante. Se uno ha le risposte a tutte le domande, ecco che questa è la prova che Dio non è con lui. Vuol dire che è un falso profeta, che usa la religione per se stesso. Le grandi guide del popolo di Dio, come Mosè, hanno sempre lasciato spazio al dubbio. Si deve lasciare spazio al Signore, non alle nostre certezze; bisogna essere umili. L’incertezza si ha in ogni vero discernimento che è aperto alla conferma della consolazione spirituale».

La dottrina non è un monolite da difendere
«Ci sono norme e precetti ecclesiali secondari che una volta erano efficaci, ma che adesso hanno perso di valore o significato. La visione della dottrina della Chiesa come un monolite da difendere senza sfumature è errata… Le forme di espressione della verità possono essere multiformi, e questo anzi è necessario per la trasmissione del messaggio evangelico nel suo significato immutabile».

Il pericolo della fede-laboratorio
«C’è sempre in agguato il pericolo di vivere in un laboratorio. La nostra non è una fede-laboratorio, ma una fede-cammino, una fede storica. Dio si è rivelato come storia, non come un compendio di verità astratte. Io temo i laboratori perché nel laboratorio si prendono i problemi e li si portano a casa propria per addomesticarli, per verniciarli, fuori dal loro contesto. Non bisogna portarsi la frontiera a casa, ma vivere in frontiera ed essere audaci».
«Quando si parla di problemi sociali, una cosa è riunirsi per studiare il problema della droga in una villa miseria, e un’altra cosa è andare lì, viverci e capire il problema dall’interno e studiarlo».

«Sono vivo grazie a una suora»
«Le frontiere sono tante. Pensiamo alle suore che vivono negli ospedali: loro vivono nelle frontiere. Io sono vivo grazie a una di loro. Quando ho avuto il problema al polmone in ospedale, il medico mi diede penicillina e streptomicina in certe dosi. La suora che stava in corsia le triplicò perché aveva fiuto, sapeva cosa fare, perché stava con i malati tutto il giorno. Il medico, che era davvero bravo, viveva nel suo laboratorio, la suora viveva nella frontiera e dialogava con la frontiera tutti i giorni. Addomesticare le frontiere significa limitarsi a parlare da una posizione distante, chiudersi nei laboratori. Sono cose utili, ma la riflessione per noi deve sempre partire dall’esperienza».

I Promessi Sposi sul comodino
«Ho amato molto autori diversi tra loro. Amo moltissimo Dostoevskij e Hölderlin. Di Hölderlin voglio ricordare quella lirica per il compleanno di sua nonna che è di grande bellezza, e che a me ha fatto anche tanto bene spiritualmente. È quella che si chiude con il verso « Che l’uomo mantenga quel che il fanciullo ha promesso ». Mi ha colpito anche perché ho molto amato mia nonna Rosa, e lì Hölderlin accosta sua nonna a Maria che ha generato Gesù, che per lui è l’amico della terra che non ha considerato straniero nessuno. Ho letto il libro « I Promessi Sposi » tre volte e ce l’ho adesso sul tavolo per rileggerlo. Manzoni mi ha dato tanto. Mia nonna, quand’ero bambino, mi ha insegnato a memoria l’inizio di questo libro»

Il film di Fellini
«La strada di Fellini è il film che forse ho amato di più. Mi identifico con quel film, nel quale c’è un implicito riferimento a san Francesco. Credo poi di aver visto tutti i film con Anna Magnani e Aldo Fabrizi quando avevo tra i 10 e 12 anni. Un altro film che ho molto amato è Roma città aperta. Devo la mia cultura cinematografica soprattutto ai miei genitori che ci portavano spesso al cinema».

LINK
http://www.laciviltacattolica.it

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Riflessioni sul tema del perdono

Posté par atempodiblog le 15 septembre 2012

“Riflessioni sul tema del perdono”
intervento di Sua Eminenza il Cardinale Carlo Caffarra all’incontro con padre Aldo Trento “L’ultima parola non è il peccato. È la misericordia!”
Bologna, Aula Magna Santa Lucia, 16 novembre 2010
Tratto da: caffarra.it

Riflessioni sul tema del perdono  dans Alessandro Manzoni

1. Mi è difficile prendere la parola di fronte ad un testimone che ricostruisce quotidianamente con l’abbraccio del perdono umanità devastate. La mia parola, nella sua povertà, servirà solo a mettere in luce la testimonianza seguente.
L’uomo oggi – intendo l’uomo occidentale – sta male, anche se cerca di vivere gaiamente il suo malessere, perché si è interdetto l’esperienza del perdono da parte di Dio, e quindi l’esperienza della sua misericordia. L’uomo non può vivere una buona vita senza questa esperienza.
Egli è capace di agire male, ma è incapace di liberarsi dal male compiuto. Non dico di porre rimedio alle conseguenze che la sua azione ha causato in sé e su gli altri. C’è un testo manzoniano che ci aiuta a capire questo paradosso dell’uomo che può agire male e non può liberarsi dal male compiuto.
È la famosa notte dell’Innominato, nel momento in cui egli passa in rassegna tutte le sue scelleratezze. Erano tutte sue; erano lui: l’orrore di questo pensiero, rinascente a ognuna di quelle immagini, attaccato a tutte, crebbe fino alla disperazione [Promessi Sposi, cap. XXI]. Ed anche nelle Osservazioni sulla morale cattolica: il reo sente nella sua coscienza quella voce terribile: non sei più innocente; e quell’altra più terribile ancora, non potrai esserlo più [VIII, 3].
Colle proprie scelte ciascuno di noi genera se stesso, e diventa genitore di se stesso: sei quello che decidi di essere. Gli atti di ingiustizia non erano solo atti di cui l’Innominato era responsabile: erano lui. Esiste una misteriosa ma reale progressiva identificazione del nostro io colle scelte della nostra libertà. Se penso ad un triangolo, non divento un triangolo. Se compio un furto, divento un ladro.
Posso certo e devo restituire ciò di cui mi sono indebitamente impossessato, ma ciò non toglie il mio essere stato ciò che sono stato. Esiste come un’identificazione della persona coi suoi atti: attaccata a tutti, come dice Manzoni.

2. La soluzione, la via di uscita sarebbe quella di un ricominciare da capo, come una sorta di rinascita e di rigenerazione. Ma come può un uomo nascere quando è vecchio? Può forse entrare una seconda volta nel grembo di sua madre e rinascere? [Gv 3,4].
Ma poiché l’uomo non può compiere questo miracolo, ha elaborato ed inventato altre vie palliative di liberazione dal male. Sono stati inventati vari surrogati dell’unico atto che potrebbe rigenerare l’uomo: il perdono di Dio. Non li enumero tutti. Mi limito a qualche riflessione sul tentativo più tragico, più disperato che l’uomo abbia mai compiuto di vivere senza il perdono di Dio: la negazione del male morale.
È un tentativo che è andato di pari passo con la negazione [dell’esistenza] di Dio. Intendo dire di un Dio coinvolto nel destino della persona umana.
Ciò non è avvenuto per caso. La negazione di Dio non ha coinciso casualmente con la negazione del male morale. I due, esistenza del male morale nell’uomo ed esistenza di Dio, stanno o cadono insieme.
Nessuno come Dostoevskij ci ha fatto riflettere su questo, soprattutto in due grandiosi romanzi, Delitto e castigo e I fratelli Karamazov. Se Dio non esiste tutto è permesso: il frutto della negazione di Dio per il vero ateo è la liberazione da ogni legge morale. Ma cosa accade in uomini come Raskolnikov o come Ivan Karamazov? Vengono distrutti, alla fine, dal delitto che hanno compiuto. Elimina Dio dalla vita e la voce della coscienza si farà sempre meno imperiosa. Non sono certo la società e lo Stato ad impegnare la coscienza dell’uomo, a legare la sua libertà. È il cuore del dramma dell’uomo di oggi.
Ma c’è qualcosa nell’uomo che ha peccato che gli impedisce alla fine di accontentarsi dei vari surrogati al perdono di Dio. È il trovarsi con se stesso, con un se stesso divorato dalla potenza distruttiva del rimorso. Il castigo che segue al peccato – come hanno ben visto Manzoni e Dostoevskij – precede la condanna di ogni tribunale ed è più terribile di ogni condanna. È questo castigo la prova di Dio. Il peccatore può non riconoscere Dio nel suo castigo, ma se l’uomo non può impunemente offendere la legge, senza che il delitto ricada su di lui, la distruzione psicologica che segue al delitto afferma ugualmente la divinità della legge [D. Barsotti, Dostoevskij. La passione per Cristo, Edizioni Messaggero, Padova 1996, 182].
Ma forse oggi si è già imboccata un’altra strada. Si cerca di spiegare l’emergere del nostro essere coscienti di noi stessi, in prima persona, e quindi l’emergere della nostra libertà da una realtà di tipo neurobiologico, come si spiega un effetto con la sua causa.
Il mistero della coscienza verrà progressivamente rimosso quando risolveremo il problema biologico della coscienza [J. Searle, Il mistero della coscienza, Cortina, Milano 1998, 166].

3. L’evento cristiano è la possibilità offerta all’uomo di essere rigenerato mediante il perdono di Dio: di nascere di nuovo e di cominciare di nuovo. Il cristianesimo è la possibilità di dire in qualunque circostanza: ora ricomincio da capo, perché è il perdono di Dio sempre offerto all’uomo, ad ogni uomo.
Dire Dio perdona non significa: Dio decide di non tenere in conto le scelte della tua libertà, con una sorta di dissimulazione. Egli prende tremendamente sul serio le nostre scelte sbagliate, e ne assume il peso fino in fondo. L’assunzione di tutte le scelte sbagliate di ogni uomo è la Croce di Cristo.
Ma nello stesso tempo il perdono di Dio consiste nell’azione di Dio che trasforma la nostra libertà e rinnova alla radice il nostro io. Questo atto è più divino, è più grande dello stesso atto della creazione. All’accusa degli uomini, al loro peccato, Dio risponde col suo perdono. Esiste un limite contro
il quale si infrange la potenza del male: il perdono e la misericordia di Dio.
Ancora Dostoevskij ha espresso mirabilmente la forza rigeneratrice del perdono di Dio, nel discorso di un ubriaco, incapace di liberarsi dal vizio del
bere che ha portato la sua famiglia nella miseria più nera: nel discorso di Marmeladov, il padre di Sonia, in Delitto e castigo. Marmeladov chiede
pietà.
«Colui che ebbe pietà di tutti gli uomini, colui che tutto e tutti comprese, avrà pietà di noi, egli è il solo giudice, egli verrà nell’ultimo giorno … Tutti
saranno giudicati da lui ed egli perdonerà a tutti: ai buoni e ai tristi, ai santi e ai mansueti … E quando avrà pensato agli altri, allora verrà il nostro
turno: Avvicinatevi anche voi, ci dirà, avvicinateci, voi beoni, avvicinatevi, voi disperati. E ci avvicineremo tutti senza timore…
E i saggi e i benpensanti diranno: Signore, perché accogli costoro?. Io li accolgo … Perché nessuno di loro si è creduto degno di questo favore. E ci
tenderà le braccia e noi ci precipiteremo e scoppieremo in singhiozzi e comprenderemo tutto … E capiremo tutto … Signore venga il tuo Regno”».
La pagina, a mio giudizio fra le più alte della letteratura cristiana di ogni tempo, sembra la filigrana della pagina evangelica che narra il pianto della
prostituta perdonata che ha solo il coraggio di baciare i piedi del Signore. E chi vide quell’incontro non poté non accusare Cristo di comportarsi come fosse Dio. È nella sua misericordia che Egli rivela la sua divinità.

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Pasolini, Schettino e noi: quale rimedio al nostro moralismo?

Posté par atempodiblog le 21 février 2012

Pasolini, Schettino e noi: quale rimedio al nostro moralismo?
di Valerio Capasa – Il Sussidiario

Pasolini, Schettino e noi: quale rimedio al nostro moralismo? dans Alessandro Manzoni

A cosa serve la poesia, se poi la realtà ci sbatte contro con violenza? Non ci interessa appena se uno studente possa farsene qualcosa domani nel mondo del lavoro, ma se ci aiuta a guardare diversamente le cose che succedono: per esempio la tragedia della Costa Concordia.
A me sembra, come a Calvino, che essa sia un’occasione insostituibile, per la «sopravvivenza di quel che si chiama umano in un mondo dove tutto si presenta inumano»: e non è forse inumana la dilagante indignazione a buon mercato, fondata sul presupposto manicheo secondo cui i mostri sono sempre altri e mai noi? In queste settimane, per esempio, ci si è svelato uno stuolo di insospettabili esperti di navigazione, sedicenti capitani coraggiosi e senza peccato pronti a scagliare la (prima?) pietra contro il comandante Schettino. Un mio alunno quattordicenne, che voleva murarlo vivo “perché non ha compiuto il proprio dovere”, dimenticava però che qualche minuto prima si era giustificato perché non aveva fatto i compiti.
Di questa mancanza di realismo, di questa rimozione della nostra fragilità, quanto è responsabile un certo modo di leggere a scuola? Prendiamo don Abbondio: insegnanti e studenti pronti da un paio di secoli a dargli del vile, comodamente seduti dietro cattedre e banchi, con lo stesso atteggiamento di chi guarda in poltrona gli errori arbitrali alla moviola: ma quanti, se terrorizzati da due tipi loschi, sarebbero così coraggiosi da opporsi? In balia di quante connivenze ci adeguiamo perfino in circostanze più soft?
Come ha osservato Pirandello, «noi dovremmo tutti provar disprezzo e indignazione per don Abbondio», «eppure siamo indotti al compatimento, finanche alla simpatia». Come mai? Perché Manzoni «ascolta entro di sé anche la voce delle debolezze umane», alla luce dell’«esperienza della vita» anziché di princìpi astratti («forse lo stesso don Abbondio, in astratto, parlando, predicando della missione del sacerdote, avrebbe detto su per giù le stesse cose» del cardinal Borromeo). «Ora, io non nego, don Abbondio è un coniglio»: ma «noi non possiamo, se non astrattamente, sdegnarci di lui», e infatti «il poeta non si sdegna», perché sa che l’«ideale non si incarna se non per rarissima eccezione». Non è che lo giustifichi, quasi prendesse la «debolezza per misura del dovere», e anzi «ne fa strazio» senza risparmiarci un briciolo di quella colpevole «paura»: «quella pietà, in fondo, è spietata», ma «il poeta, in somma, ci induce ad aver compatimento del povero curato, facendoci riconoscere che è per umano, di tutti noi, quel che costui sente e prova, a passarci bene la mano su la coscienza».
È che «il coraggio, uno non se lo può dare». Si difende così don Abbondio, «agnello tra i lupi», e il cardinal Borromeo sembra d’accordo, aggiungendo tuttavia che è anche vero che il coraggio che non abbiamo possiamo chiederlo. Non sapete che «c’è Chi ve lo darà infallibilmente, quando glielo chiediate? Credete voi che tutti que’ milioni di martiri avessero naturalmente coraggio?». Non è un caso se Lucia, il personaggio più coraggioso del romanzo, è anche quello più aiutato a viverlo (da Renzo a fra Cristoforo, dall’innominato alla compagna in lazzaretto).
Troppo cristiano? Nell’Iliade gli eroi – mica i deboli – pregano continuamente. Quando Patroclo va a combattere, Achille chiede a Zeus di «rafforzargli il cuore nel petto», perché consapevole che «la mente di Zeus è sempre più forte degli uomini: mette in fuga anche un valoroso e gli toglie facilmente la vittoria; altre volte lo spinge egli stesso a combattere». Perfino Ettore, dopo dieci anni e ventidue canti pieni di eroismo, appena vide Achille «fu preso dal tremito e non poté più resistere: si lasciò indietro le porte e si mise in fuga», girando per tre volte intorno alla città di Troia come un cerbiatto «atterrito» da un leone.
Nell’uomo convivono la tensione alla gloria e – in agguato – la debolezza; dentro ciascuno c’è Ettore e c’è don Abbondio. Non accorgersene vuol dire guardarlo non come un mistero, con la pietas che merita, ma come un meccanismo.
È un habitus che assorbiamo a poco a poco. A volte penso che insegnare le funzioni di Propp possa abituare a non sentire più il bisogno di penetrare nell’esperienza di un racconto, come se bastasse individuare, in ogni narrazione, l’eroe, l’antagonista e gli altri ruoli; analogamente per i fatti di cronaca – si tratti di Sarah Scazzi o dell’isola del Giglio – ci servono un eroe, una vittima, un colpevole e una malafemmina, nonché un pizzico di sospetto su tutto. Forse disturbano troppo quelle domande sterminate sulla vita e sulla morte apertesi improvvisamente come lo scafo della Concordia nell’impatto con gli scogli della realtà, ci sentiamo naufragare in quell’angoscia senza parole, intravedendo un mistero troppo profondo per essere sondato: e allora saltiamo nella scialuppa degli schemi semplificatori, accontentandoci che chi ha sbagliato paghi e che il relitto venga rimesso a posto, perché la nostra personale crociera, fatta anche di celentaneschi richiami morali, must go on.
Nel ’47 Pasolini fotografava lucidamente uno dei grandi equivoci dell’insegnamento dell’italiano: «la preoccupazione moraleggiante, la costante didascalica… Ahimé, quale grigiore! Non si pensa dunque che l’assassino leggendo la storia di un assassino terrà sempre per la vittima?».
Quanti brani – magari letterariamente inconsistenti – vengono fatti leggere, quanti incontri con gli autori vengono organizzati, col solo scopo di cavarne un messaggio edificante: contro la guerra, contro la camorra, contro il razzismo, per la legalità, per sentirsi cittadini attivi ed europei.
«I ragazzi, udita la favola, hanno esaurito il loro interesse: indi si inchinano, o innocenti!, davanti alla morale; è un modo come un altro per ignorarla. Ma la morale: ossia il conclusivo e l’utile, non si trova in altro luogo che nel linguaggio stesso della favola, è tutt’uno con la curiosità suscitata. Nel caso che una “morale” indelicatamente applicata fosse: la favola insegna che non bisogna uccidere, sarebbe in effetti inutile: sì che, nonché essere sottintesa nel nesso, andrebbe piuttosto sottintesa nella compassione sollevata, per esempio, non verso la vittima, ma verso l’assassino».
C’è qualcuno che prova compassione verso l’assassino, verso chi abbandona la nave, verso noi, complici del male per debolezza? Come quella che Dante ebbe per il suo nemico Buonconte di Montefeltro, che l’ultimo istante prima di morire fu salvato eternamente soltanto «per una lagrimetta».

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Una gioia più certa e più grande

Posté par atempodiblog le 4 juillet 2011

Una gioia più certa e più grande dans Alessandro Manzoni alessandromanzoni

« Dio non turba mai la gioia dei suoi figli, se non per prepararne loro una più certa e più grande ».

Alessandro Manzoni

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