Il diritto (e il dovere) del Logos. “La fede è una festa della ragione”. L’errore di quelli che attaccano il Papa e l’errore di ‘Avvenire’ nella risposta

Posté par atempodiblog le 25 octobre 2013

Il diritto al Logos
Da un cattolico la cui fede è “festa della ragione” prima che dei sentimenti. Il giornale dei vescovi ha sbagliato nella polemica con i tradizionalisti

Il diritto (e il dovere) del Logos. “La fede è una festa della ragione”. L'errore di quelli che attaccano il Papa e l'errore di 'Avvenire' nella risposta dans Alessandro Gnocchi ncwaAl direttore - Mi spiace per Gnocchi e Palmaro, ma un cattolico non può irridere il Papa o accusarlo di eresia con la leggerezza di un articoletto di giornale. Certo, la chiesa non è una caserma e – nella libertà dei figli di Dio – si può dire tutto, ma con rispetto e responsabilità. Magari anche con dolore. Si può e si deve brindare prima alla propria coscienza e poi al Papa, come insegnava il cardinale Newman. Ma trasformando la propria “Opinione” nel magistero supremo si rischia di mettersi da soli fuori dalla chiesa (non solo fuori da Radio Maria).

Quanto all’ormai famosa omelia di Francesco del 17 ottobre, contro il cristiano che trasforma la fede in ideologia, penso si tratti anzitutto di una messa in guardia da una certa mentalità lefebvriana, la quale sostituisce il Vangelo con il Denzinger (“Enchiridion symbolorum, definitionum et declarationum de rebus fidei et morum”, pubblicato nel 1854, ndr). E ritengo sia un richiamo prezioso. Perché la salvezza è una persona: Gesù Cristo. Non una formula. Ma ciò non significa affatto che il Papa insegni una fede che fa a meno dell’ortodossia. Lo dimostra il suo magistero. Dunque non si può liquidare spensieratamente il tema della dottrina come sembra fare l’editoriale di Avvenire di venerdì scorso.

In quell’articolo, Stefania Falasca, presentata come esegeta del Papa, con un’impropria citazione di De Lubac squalifica come “specialisti del Logos” coloro che si richiamano all’ortodossia dottrinale (che comprende la morale), contrapponendo a essi una generica “tenerezza”, come se Gesù Cristo, che è la misericordia fatta carne, non avesse affermato la sua pretesa divina davanti al mondo: “Io sono la verità” (Gv 14,6). Il documento di ieri sui divorziati risposati del prefetto della Dottrina della fede Müller (chiaramente voluto dal Papa) è esemplare su questo. E mette in guardia da “un falso richiamo alla misericordia”, dimostrando che la contrapposizione di “tenerezza” e dottrina, fatta da Avvenire, non corrisponde al magistero di Francesco. Né al magistero costante della chiesa e dei papi. Infatti lei, direttore, aveva giustamente risposto ad Avvenire che “uno specialista universalmente riconosciuto del Logos abita orante le emerite stanze del Vaticano” (è Joseph Ratzinger).

Il Papa del Concilio Vaticano II, Paolo VI (che è anche il papa dell’Humanae vitae) nel discorso del 19 gennaio 1972, mettendo in guardia da “errori che hanno circolato e tuttora affiorano nella cultura del nostro tempo, e che potrebbero rovinare totalmente la nostra concezione cristiana della vita e della storia”, spiegava: “Il modernismo rappresentò l’espressione caratteristica di questi errori, e sotto altri nomi è ancora d’attualità. Noi possiamo allora comprendere perché la chiesa cattolica, ieri e oggi, dia tanta importanza alla rigorosa conservazione della Rivelazione autentica, e la consideri come tesoro inviolabile, e abbia una coscienza così severa del suo fondamentale dovere di difendere e di trasmettere in termini inequivocabili la dottrina della fede; l’ortodossia è la sua prima preoccupazione; il magistero pastorale la sua funzione primaria e provvidenziale; l’insegnamento apostolico fissa infatti i canoni della sua predicazione; e la consegna dell’Apostolo Paolo: Depositum custodi (1 Tim. 6, 20; 2 Tim. 1, 14) costituisce per essa un tale impegno, che sarebbe tradimento violare. La chiesa maestra non inventa la sua dottrina; ella è teste, è custode, è interprete, è tramite; e, per quanto riguarda le verità proprie del messaggio cristiano, essa si può dire conservatrice, intransigente; e a chi la sollecita di rendere più facile, più relativa ai gusti della mutevole mentalità dei tempi la sua fede, risponde con gli Apostoli: Non possumus, non possiamo (Act. 4, 20)”. Già prima, in un discorso del 20 maggio 1970, aveva mostrato che la drammatica crisi della fede era provocata non solo da cattiva teologia, ma da cattiva filosofia, cioè da un relativismo che distrugge la razionalità: “Oggi la verità è in crisi. Alla verità oggettiva, che ci dà il possesso conoscitivo della realtà, si sostituisce quella soggettiva: l’esperienza, la coscienza, la libera opinione personale, quando non sia la critica della nostra capacità di conoscere, di pensare validamente. La verità filosofica cede all’agnosticismo, allo scetticismo, allo ‘snobismo’ del dubbio sistematico e negativo. Si studia, si cerca per demolire, per non trovare. Si preferisce il vuoto. Ce ne avverte il Vangelo: ‘Gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce’ (Io. 3, 19). E con la crisi della verità filosofica (oh! dov’è svanita la nostra sana razionalità, la nostra philosophia perennis?) la verità religiosa è crollata in molti animi, che non hanno più saputo sostenere le grandi e solari affermazioni della scienza di Dio, della teologia naturale, e tanto meno quelle della teologia della rivelazione; gli occhi si sono annebbiati, poi accecati; e si è osato scambiare la propria cecità con la morte di Dio”.

Paolo VI proseguiva: “Così la verità cristiana subisce oggi scosse e crisi paurose. Insofferenti dell’insegnamento del magistero, posto da Cristo a tutela e a logico sviluppo della sua dottrina, ch’è quella di Dio (Io. 7. 12; Luc. 10, 16; Marc. 16, 16), v’è chi cerca una fede facile vuotandola, la fede integra e vera, di quelle verità, che non sembrano accettabili dalla mentalità moderna, e scegliendo a proprio talento una qualche verità ritenuta ammissibile (selected faith); altri cerca una fede nuova, specialmente circa la chiesa, tentando di conformarla alle idee della sociologia moderna e della storia profana (ripetendo l’errore d’altri tempi, modellando la struttura canonica della chiesa secondo le istituzioni storiche vigenti); altri vorrebbero fidarsi d’una fede puramente naturalista e filantropica, d’una fede utile, anche se fondata su valori autentici della fede stessa, quelli della carità, erigendola a culto dell’uomo, e trascurandone il valore primo, l’amore e il culto di Dio; ed altri finalmente, con una certa diffidenza verso le esigenze dogmatiche della fede, col pretesto del pluralismo, che consente di studiare le inesauribili ricchezze delle verità divine e di esprimerle in diversità di linguaggio e di mentalità, vorrebbero legittimare espressioni ambigue ed incerte della fede, accontentarsi della sua ricerca per sottrarsi alla sua affermazione, domandare all’opinione dei fedeli che cosa vogliono credere, attribuendo loro un discutibile carisma di competenza e di esperienza, che mette la verità della fede a repentaglio degli arbitri più strani e più volubili. Tutto questo avviene quando non si presta l’ossequio al magistero della Chiesa, con cui il Signore ha voluto proteggere le verità della fede (Cfr. Hebr. 13, 7; 9, 17)”. Concludeva richiamando al coraggio della testimonianza: “Ma per noi che, per divina misericordia, possediamo questo scutum fidei, lo scudo della fede (Eph. 6, 16), cioè una verità difesa, sicura e capace di sostenere l’urto delle opinioni impetuose del mondo moderno (Cfr. Eph. 4, 14), una seconda questione si pone, quella del coraggio: dobbiamo avere, dicevamo, il coraggio della verità. (…) E aggiungeremo che questo coraggio della verità è domandato principalmente a chi della verità è maestro e vindice, esso riguarda anche tutti i cristiani, battezzati e cresimati; e non è un esercizio sportivo e piacevole, ma è una professione di fedeltà doverosa a Cristo e alla sua chiesa, ed è oggi servizio grande al mondo moderno, che forse, più che noi non supponiamo, attende da ciascuno di noi questa benefica e tonificante testimonianza”.

C’è un’ultima illuminante pagina di Paolo VI, dove faceva un amaro bilancio del Concilio, conclusosi da cinque anni, constatando che le attese erano state deluse. Scrisse: “Ecco che molti fedeli sono turbati nella loro fede da un cumulo di ambiguità, d’incertezze e di dubbi che la toccano in quel che essa ha di essenziale. Tali sono i dogmi trinitario e cristologico, il mistero dell’Eucaristia e della presenza reale, la Chiesa come istituzione di salvezza, il ministero sacerdotale in mezzo al popolo di Dio, il valore della preghiera e dei sacramenti, le esigenze morali riguardanti, ad esempio, l’indissolubilità del matrimonio o il rispetto della vita umana. Anzi, si arriva a tal punto da mettere in discussione anche l’autorità divina della Scrittura, in nome di una radicale demitizzazione. Mentre il silenzio avvolge a poco a poco alcuni misteri fondamentali del cristianesimo, vediamo delinearsi una tendenza a ricostruire, partendo dai dati psicologici e sociologici, un cristianesimo avulso dalla Tradizione ininterrotta che lo ricollega alla fede degli Apostoli, e ad esaltare una vita cristiana priva di elementi religiosi”.

Condividendo questo giudizio storico di Paolo VI, due uomini del Concilio come Wojtyla e Ratzinger hanno improntato i loro pontificati al ritrovamento del vero Concilio, sulla linea della ininterrotta tradizione della Chiesa. E la rinascita cristiana che è iniziata dagli anni Settanta mostra che la fedeltà all’ortodossia è tutt’altro che chiusura. Chi ci è stato maestro nella fede – penso a don Giussani – non è stato un “paladino del picchetto” (per usare una formula della Falasca). Ma l’esatto contrario. Proprio perché radicato nell’ortodossia cattolica ha potuto insegnarci un’apertura totale a ciò che è umano, permettendo a migliaia di giovani post ’68 di scoprire e amare Cristo. Con una fede piena di ragioni che sa parlare al nostro tempo. Non a caso don Giussani è stato amico di altri maestri del Logos come Ratzinger, De Lubac e Balthasar, ai cui scritti ci siamo poi abbeverati.

C’è un piccolo episodio rivelatore nella monumentale biografia del Gius, appena pubblicata da Alberto Savorana. Giussani un giorno raccontò che aveva in una sua classe del liceo il figlio dello scultore Pio Manzù. Il giovanotto tornava a casa con pagine e pagine di appunti delle vertiginose lezioni del Gius, che faceva battere i loro cuori con le grandi domande dell’umano, da Pavese a Leopardi a Beethoven, che parlava di Gesù (l’unico ad aver detto: Io sono la risposta) a quei ragazzi alla ricerca del senso delle cose. Il suddetto figlio di Manzù era però amico di un altro prete il quale vedendo quegli appunti prese ad aizzarlo contro il Gius dicendogli: “Vedi quanto complica (questo Giussani)… invece la religione è semplice”. Egli sosteneva che “le ragioni complicano”. E “quanti direbbero così!”, commentava il Gius, che poi aggiungeva con forza: “Invece no, la ricerca delle ragioni non complica, ma illumina!”. Quel prete antagonista del Gius, che già allora ce l’aveva con i maestri del Logos, degradava il cristianesimo a banale sentimentalismo, incapace di rispondere alla sete di verità degli uomini. Giussani commentava: “E’ per quella impostazione che Cristo non è più autorità, ma un oggetto sentimentale e Dio è uno spauracchio e non un amico”. E per questo “la fede diventa arida e difficile, perché diventa un peso e un condizionamento invece che una strada su cui correre”. E qui Giussani se ne uscì con un’immagine bellissima: “La fede è una festa della ragione”. Ovvero, una festa del Logos. In perfetta consonanza con Paolo VI, Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e tutto il magistero. Compreso Francesco.

Bergoglio del resto ha scoperto don Giussani negli anni Novanta e ha dichiarato di averlo sentito subito come una ventata di aria fresca. Perché quella tracciata da Giussani, come ebbe a dire Papa Wojtyla, è la strada.
Anche la storia della cristianità dimostra che sa aprirsi e sa andare verso le periferie esistenziali chi è davvero radicato nella fede ortodossa della chiesa. Per esempio uno come san Vincenzo de’ Paoli, il grande padre dei più poveri e delle “periferie”, diceva: “Ho temuto tutta la vita di veder nascere qualche eresia. Consideravo la devastazione che aveva fatto quella di Lutero e Calvino e quante persone di ogni condizione ne avevano succhiato il pernicioso veleno, volendo gustare le false dolcezze della loro pretesa riforma. Ho avuto sempre timore di vedermi circuito dagli errori di qualche nuova dottrina, prima di accorgermene. Sì, l’ho temuto per tutta la vita”. Oggi però c’è chi ha in mente un “nuovo cristianesimo” che – dopo duemila anni – accantona il Logos, il dogma e la dottrina.

Secondo il professore Pietro L. Di Giorni – redattore di Testimonianze – si tratta di “un fenomeno che coinvolge ormai anche il cattolicesimo, specie in America latina, ove si manifestano e prendono sempre più forza movimenti carismatici, comunitari, de-istituzionalizzati, con forme di culto mistico-emozionali, che non sopportano dogmi, apparati, liturgie ordinate, nel nome di un esplicito rifiuto di un cristianesimo europeo-occidentale eccessivamente snervato dal razionalismo post illuministico, e che sembrano ripetere, in modo quasi concorrenziale, il pentecostalismo carismatico americano che si avvia a divenire nuova religione globale proprio perché culturalmente sempre più neutra”.

Ecco. Con la polemica di Avvenire contro il Logos si rischia di sprofondare in queste paludi. Sarebbe l’ultimo atto di quella che Paolo VI chiamava “autodemolizione dall’interno” della chiesa. E della fede cristiana. Perché – come ha spiegato Ratzinger a Ratisbona – Dio “agisce mediante il Logos, che è insieme ragione e parola, una ragione che è creatrice e capace di comunicarsi, appunto, come ragione”. Quindi anche come dottrina della fede. Sconcerta che Avvenire pretenda di arruolare per quell’impresa anti Logos una grande mente cattolica come il padre Henri De Lubac, il quale, con Ratzinger, Giussani, Wojtyla, Balthasar, Guardini, dalla fede ha saputo trarre ricchezza di ragioni e cultura.

De Lubac, con la formula “specialisti del Logos” citata dalla Falasca, non fulminava affatto i cattolici su cui si scaglia l’editoriale di Avvenire, ma – al contrario – proprio certi intellettuali laici – nuovi gnostici – simili a quelli che oggi piacciono tanto nelle sacrestie progressiste del Cortile dei gentili. Ecco la citazione che si trova in “Meditazioni sulla chiesa” del gesuita francese (e ditemi voi se questo ritratto non ricorda i Cacciari, gli Scalfari e i Mancuso):  “Da quando esiste, la chiesa si è sempre attirata il disprezzo di una élite. Filosofi o spirituali, molti spiriti superiori, preoccupati d’una vita profonda, le rifiutano la loro adesione. Alcuni le sono apertamente ostili. Come Celso essi sono disgustati da ‘questa accozzaglia di gente semplice’. […] Molti altri, invece, tra questi saggi, sono convinti di rendere giustizia alla chiesa e protestano quando si sentono definire suoi avversari. Sarebbero disposti a proteggerla all’occorrenza! […] Ma conservano le distanze. Non sanno che farsene di una fede che li accomunerebbe a tutti i miserabili, di fronte ai quali si sentono senz’altro superiori per la loro cultura estetica per la loro capacità di ragionamento, o per la loro preoccupazione d’interiorità. Sono ‘aristocratici’ che non intendono affatto mescolarsi con il gregge. La chiesa, secondo loro, conduce gli uomini per vie troppo comuni. (…) La trattano con molta degnazione, si attribuiscono il potere di enucleare, senza il suo consenso, mediante una ‘trasposizione metafisica’, il senso profondo delle sue dottrine e dei suoi atti sacri”.

E ancora: “Al di sopra della sua fede essi mettono la loro intuizione… Si potrebbero chiamare degli ‘specialisti del Logos’, che però non hanno letto in san Paolo che il Logos ‘respinge ogni altezza che si levi contro la conoscenza di Dio’. Sono dei saggi, ma chi è che non vede realizzarsi dopo venti secoli la profezia: ‘Perderò la sapienza dei sapienti’? Sono dei ricchi che hanno ancora da sentire la voce della prima Beatitudine”. Qualcuno di loro – conclude De Lubac – si trasforma “in capo-scuola o capo-setta”. Pure in fondatore e direttore di giornali-partito.

Da padre De Lubac s’impara dunque a non fare concessioni a questi salotti gnostici. Che poi sono l’opposto delle “periferie” verso cui vuole portarci Papa Francesco con un grande slancio missionario. Un appello il suo da accogliere con tutto il cuore. Del resto il Papa è un figlio spirituale di sant’Ignazio e nessuno come Ignazio è stato un maestro del Logos e dell’ortodossia, paladino della retta dottrina, lui che arrivava a scrivere a san Pietro Canisio, il 13 agosto 1554: “Non si dovrebbe tollerare nessun curato, nessun confessore sospetto di eresia: e se li si riconosce colpevoli dovrebbero esser privati immediatamente di tutte le rendite ecclesiastiche. E’ meglio per un gregge essere senza pastore che avere per pastore un lupo”.

di Antonio Socci – Il Foglio

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Campioni della Fede

Posté par atempodiblog le 2 mai 2013

Campioni della Fede
Da Gino Bartali a Paolo Bettini, da felice Gimondi a Eddy Merckx, da Francesco Moser a Vincenzo Torrioni: un filo doppio lega molti protagonisti del ciclismo al cattolicesimo. Perché per muovere una bicicletta le gambe non bastano.
di Alessandro Gnocchi – Il Timone

Campioni della Fede dans Alessandro Gnocchi Corridori

Quando gli sono stati chiesti lumi sulla lunghezza di questo pezzo, il direttore ha detto senza indugi «Novemila battute, non una di più». Se conoscete un direttore che al numero delle battute aggiunge «non una di meno», passate parola.
Punto a capo, per dire che, di quelle novemila battute, seicentonovanta vanno cedute alla seguente perla firmata Gianni Brera: «Il Redefossi nasceva dal Naviglio. Era un canale di scarico e di protezione insieme, perché lambiva le mura. Oggi è tutto coperto e ci sferraglia sopra il tram di circonvallazione. Ritorna alla luce molti chilometri oltre Porta Romana.
Vi sbocca la fogna, impossibile sognarci. Ma quando nacqui vi si specchiava il cielo. Ed era il mio oceano.
Le donne di corso Lodi vi andavano a lavare i panni e le stoviglie, sgurandole con la sabbia quarzosa. I lavatoi erano fatti con una semplice tavola di pioppo che quattro gambe da panchetto reggevano fissandosi al fondo. Ho in mente una lunga fila di dorsi ricurvi, di sottane rimboccate e di piedi rossi. Ma le donne cantavano ed era assai bello».
Un gioiello così sta bene proprio in questo posto e non altrove per il semplice motivo che il Gioanbrerafucarlo non sta facendo il sentimentale, ma sta parlando di ciclismo. Vedere alla voce Biciletta, addio, gran libro, annata 1964.
Bicicletta, addio suona un po’ come “Addio monti” dei Promessi sposi. È pur vero che Manzoni a Brera non garbava così tanto: gli dava del coniglio perché si era rifugiato nel romanzo storico. Ma, ciò nonostante, ei due addii, si legge lo stesso sentimento di qualcosa che se ne sta andando e chissà, forse, potrebbe tornare, ma solo se lo vorrà Qualcuno che non ha da rendere conto agli uomini. Ovvio quindi che Eberardo Pavesi, classe 1883, protagonista dell’addio breriano, sia stato un ciclista naturaliter religioso cattolico, così come è naturaliter cattolica Lucia Mondella, protagonista dell’addio manzoniano. Magari un po’ malgarbato, Pavesi, ma cattolico. Solo un accidentaccio d’uomo simile, una volta detto addio alla bicicletta, avrebbe potuto fare il direttore sportivo di Gino Bartali. Del Bartali baciapile, si intende. Del Bartali che mandava fuori dai gangheri i comunisti mangiapreti per quanto amava la Madonna e per la sua predilezione per i santi del Carmelo. Vuoi mettere un santino di Santa Teresina nel portafogli incollato alla coscia sudata mentre pedali in salita contro uno di Togliatti in cabina elettorale? E i comunisti mangiapreti, là dove Dio li vedeva e Stalin no, erano costretti a riconoscerlo.
Per tornare a Pavesi, solo uno come lui poteva sopportare un Bartali inginocchiato sui gradini freddi delle chiese a dire le orazioni mandando a ramengo un’ora abbondante di massaggi e di riscaldamento. «Brutt bojon, Gino se te fet?» gli urlava. Chi non comprende il milanese vada a senso perché la traduzione laicizzerebbe irrimediabilmente l’amore per l’uomo inginocchiato e il rispetto per Colui che stava al di là del portone.
Il “brutt bojon” se ne è andato nel 2000 portando indosso il mantello bianco dei Carmelitani Scalzi. Era un terziario dell’ordine di Santa Teresa, di San Giovanni della Croce e di Santa Teresina. E qualcosa della piccola Teresa lo aveva replicato nella sua vita. Lei a girare il mondo dopo morta, testimone di Cristo con il suo corpo senza vita. Lui a girare il mondo ciclisticamente conosciuto, testimone di Cristo con ciò che un vero atleta può esibire senza vergogna, il suo corpo vivo.
Solo i santi e solo i ciclisti possono farlo. Un bacio della reliquia e una pacca sulla schiena, una giaculatoria e un “vai Gino che sei solo”, l’invocazione di una grazia e la domanda di un sorriso.
Quanto è dura la salita del Carmelo, Gino? Si vede che tocca ai toscani rispondere. Paolo Bettini, campione olimpico nel 2004, campione mondiale nel 2006 e 2007, un fratello morto a 42 anni in un incidente di macchina, dice che è dura. È dura come la vita, ma a lui lo aiuta padre Raffaele, un carmelitano che non disdegna di andargli dietro qualche volta in bicicletta. Bettini è venuto su lungo la vecchia Aurelia, dove arriva senza fatica il sale del mare. Non diresti che si possa essere cattolici in questo incrocio di anticlericalismo toscano e di sogno americano che ha per nome La California, una manciata di case buttate giù in qualche maniera poco lontano dai cipressi di Bolgheri alti e schietti. Invece lui è cattolico e dice che gli piace Papa Benedetto XVI, un regolarista come Gimondi.
Già, Felice Gimondi da Sedrina, terra bergamasca all’imbocco della Val Brembana. Terra dura che si sfalda a contatto con il Brembo, là dove il fiume si inserpentisce in giravolte che paiono tornanti del Passo San Marco e liscia i sassi e i rami di castagno che porta verso valle, e li tira bianchi come la veste di un domenicano.
Terra cattolica e, fino a due o tre decenni fa, bastava nascerci per venir su con la vera fede nei polmoni.
Felice ne aveva negli Anni Sessanta e Settanta, quando andava in bicicletta e Brera scriveva che, di profilo, pareva un capo indiano. E ne ha ancora oggi, in un mondo matto dove anche il ciclismo sembra fatto per far perdere la pazienza a un santo.
Dicono che pare ostrogoto, ma, a parlarlo in fretta, il bergamasco sembra quasi latino. Lingua liturgica alla portata di tutti, una giaculatoria un soldo, per dire la fatica lungo la strada, nei campi, in fabbrica. Lingua liturgica buona nei giorni feriali, fin sul sagrato, perché, ai tempi in cui Felice correva per le salite di Sedrina ad aiutare la mamma a portare la posta, in chiesa usava il latino.
Il bergamasco introduceva al mistero e il latino lo celebrava. E il mistero entrava fin nelle ossa. Non si spiega diversamente che Felice, sul palchetto di un Giro d’Italia dei primi Anni Settanta, invece che salutare la mamma e gli amici del Bar Sport, dicesse senza neanche riprendere fiato che per lui, anche quando si arriva primi, in realtà si è sempre secondi perché davanti a tutti c’è Qualcuno di più grande. E all’intervistatore deciso ad avere lumi perché non aveva capito che nel parlato latino-bergamasco di Gimondi Qualcuno aveva la “Q” maiuscola, lui rispose semplicemente «Non so, è un mistero».
Forse, il povero intervistatore, avrà pensato a Eddy Merckx, il fiammingo con gli occhi a mandorla, il Cannibale, l’incubo di un Gimondi che, pure, riuscì a vincere tutto, mondiale compreso. Non ci fosse stato Merckx, chissà quanto sarebbe lungo il suo albo d’oro. Ma Merckx c’era, e anche lui andava ad Ave Maria. Muscoli, testa, cuore e fegato, certo. Ma anche Ave Maria. E ogni vittoria dedicata alla Madonna. 525 corse vinte di cui 426 da professionista. Fate il conto di quanti Rosari ci ha cavato il Cannibale, e tutti fatti con rose di prima scelta, tappe del Giro, del Tour, della Vuelta, Mondiali, Lombardia, Sanremo, Rubaix. Questi sì, che sono Rosari.
Quando cominciava a menare pedate sui pedali, incurvava la schiena, abbassava la testa ed era talmente prostrato che pareva una vecchia inginocchiata all’ultimo banco in chiesa per chiedere una grazia. E lui chi era per non chiedere nulla? Non bastava essere Eddy Merckx per farcela sempre.
Nel 1969, venne squalificato dal Giro per un sospetto di doping dopo la tappa di Savona. Ma aveva bisogno di doping uno così? La tv andò a pescarlo in albergo. Il Cannibale piangeva, steso sul letto, con addosso ancora i pantaloncini da ciclista marchiati Faema e la canottiera. «Mi sono ripreso solo perché ho fede» disse dopo essere tornato il Cannibale.
«Perché ho fede e perché i fiamminghi non cedono».
Non cedono i fiamminghi, non cedono i bergamaschi, non cedono i toscani.
Nessuno cede, quando sa di portare la bandiera della sua terra. Ma è chiaro che non tutti i ciclisti sono fatti così. Quelli che lasciano il segno, però, sono quelli che parlano la lingua della loro terra. Per questo, difficilmente dicono stupidaggini davanti a un microfono spianato.
Francesco Moser, razza trentina e cattolica, ne diede dimostrazione durante uno dei tanti Giri d’Italia in cui battagliava con Giuseppe Saronni. A cavallo tra gli Anni Settanta e Ottanta, la Rai mandò un paraintellettuale, nel senso di intellettuale di apparato, a democratizzare una bestia rustica come la carovana capitanata dal cattolico Vincenzo Torriani. E lui, il paraintellettuale, si diede da fare smontando un linguaggio formato in decenni di fatica, di gioia, di dolore: di sapienza, insomma. Si inventò una neolingua e la propose agli interessati. Perché, chiedeva, continuare a usare il termine “gregario”, così discriminatorio, così razzista? Proviamo ad usare “aiutatore”, che è molto più democratico. Si stenta a credere, ma giuro che è tutto vero.
Per farla corta, Saronni il cittadino quasi milanese e progressista disse che, sì, si poteva fare. Il contadino Moser disse che, no, meglio lasciar perdere, perché si è sempre detto gregario e il gregario deve chiamarsi gregario, altrimenti diventa un’altra cosa. E senza citare Orwell.
I ciclisti, quelli veri, hanno sempre qualcosa di cattolico. Grazie a Dio.
Novemila battute. Fine.

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Una dottrina propria

Posté par atempodiblog le 13 novembre 2012

Una dottrina propria dans Alessandro Gnocchi Catechismo-Chisa-Cattolica

La maggior parte dei cattolici ormai oggi, in totale buona fede, pensando di continuare ad essere cattolici, dicono “mah, si la Chiesa… sono d’accordo su quasi tutto, però su questa cosa per esempio no”, sulla questione dei divorziarti-risposati no, oppure sulla questione dell’aborto no, oppure sulla questione del divorzio no, oppure sulla questione dell’eutanasia no, oppure su tutte queste cose insieme no. Quindi su tutta una serie di questioni i cattolici si fanno una morale, una teologia, una dottrina propria. E’ ovvio che chiunque dissenta in qualche cosa che riguarda la struttura fondamentale della fede, della dottrina… non è più cattolico, però questo sembra  difficile da far capire oggi.
Spesso le persone più disorientate dalla ferma dottrina che sta ribadendo Benedetto XVI sono tanti cattolici, i quali non si rendono conto di come un Papa possa dire delle cose che non vanno discusse, vanno imparate. Questo verbo “imparare” piace molto poco.

Alessandro Gnocchi – Radio Maria

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Il sacerdote deve essere riconoscibile

Posté par atempodiblog le 5 novembre 2012

Stralcio di una conversazione sulla figura del sacerdote, ai microfoni di Radio Maria, tra il Prof. Palmaro e il dott. Gnocchi

Il sacerdote deve essere riconoscibile dans Alessandro Gnocchi Prete-sempre-riconoscibile

Prof. Mario Palmaro: «Eravamo a un convengo insieme [con il dott. Gnocchi] e si discorreva con un sacerdote che era vestito con la sua bella talare, come si conviene a un sacerdote cattolico, e mentre si parlava… a un certo punto si è avvicinata una persona e ha detto: “scusi padre ha 10 minuti per confessarmi?”. Ecco queste sono le scene che fotografano meglio di tante parole che cos’è un prete; un prete è uno che si rende innanzitutto riconoscibile da tutti e che quindi in qualsiasi momento è al servizio dei fratelli perché non ha un momento in cui agisce privatamente e nello stesso momento può fare questa cosa grande che è assolvere i peccati».

Dott. Alessandro Gnocchi: «Questo episodio me ne ricorda un altro assolutamente simile, ma che ci tengo a raccontare: qualche anno fa ero a Firenze per una conferenza ed eravamo stati a mangiare qualcosa in una trattoria con un sacerdote che aveva la sua brava talare, come si potrebbe dire, e mi ricordo che uscendo, era sera, verso le 11:00 – 11:30, si è avvicinata una donna, era una barbona, una donna che viveva sotto i ponti e ha chiesto a questo sacerdote di essere confessata… Siccome questa donna non era sicuramente in buone condizioni e poteva morire di lì a poco…. poteva anche capitarle qualcosa… se non avesse riconosciuto un sacerdote non avrebbe potuto confessarsi».

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Gino il pio

Posté par atempodiblog le 4 novembre 2012

Campione della bicicletta, Bartali fu anche un simbolo dell’Italia cattolica del dopoguerra. Un fratello morto a vent’anni correndo in bicicletta. I Tour de France e i Giri d’Italia, l’ingresso nell’ordine carmelitano come terziario, la famiglia, la guerra e la ricostruzione. La sua vita sembra un racconto omerico, all’ombra della fede.
di Alessandro Gnocchi – Il Timone

Gino il pio dans Alessandro Gnocchi Gino-il-Pio-Bartali

Nel 1935, per chi amava il ciclismo, dire Olmo o Guerra era come evocare gli eroi di Omero. Eppure, nella Milano-Sanremo di quell’anno, un pivello di ventun’anni li aveva mollati sul Berta e viaggiava da solo in testa con due minuti di vantaggio. Allora, Emilio Colombo, della “Gazzetta dello Sport”, fece accelerare la sua macchina, raggiunse il ragazzino e lo intervistò in corsa. In realtà, non gli importava un fico secco di Gino Bartali, che stava andando a vincere il mondiale di primavera. Quel gran marpione voleva solo che il giovanotto toscano perdesse tempo, concentrazione e, con quelli, la Milano-Sanremo: altrimenti, addio tiratura per la “Gazzetta”. Al traguardo, Bartali arrivò quarto dietro Olmo, Guerra e Cipriani. Anche troppo per un gregario.
Nel 1997, sessantadue anni dopo, Gino Bartali ne aveva fatte tante da non essere semplicemente Gino Bartali. Da tempo era divenuto “Bartali” tra virgolette, quello della canzone di Paolo Conte: polaroid di un’Italia in bianco e nero che molti cominciano a rimpiangere. Era il “Bartali” di un Italia in cui, alla morosa che faceva i capricci per andare al cinema, un uomo era nel suo buon diritto spiegandole il senso della vita come recita la ballata contiana: «E tramonta questo giorno in arancione/ e si gonfia di ricordi che non sai/ mi piace restar qui sullo stradone/ impolverato, se tu vuoi andare, vai…/ e vai che io sto qui e aspetto Bartali».
Fu proprio quel “Bartali” che, un giorno di marzo del 1997, due amici portarono a un concerto dell’avvocato cantante. L’incontro tra i due avvenne durante l’intervallo. L’eroe fece due sorrisi al suo Omero e disse: «Senti Conte, la canzone mi piace, ma la fa meglio Jannacci. Eppoi, te lo devo dire, c’è una strofa che non mi garba: cos’è questa storia del na-so triste come una salita? Io a naso non sto male, ma te ti sei visto che nappa ti ritrovi?». Poi girò i tacchi e se ne andò: «Non ho tempo da perdere io. Devo tornare a casa presto, mia moglie ha questo dannato morbo di Amsterdam e non posso lasciarla sola, ha bisogno di me».
Gino e la signora Adriana hanno vissuto insieme più di sessant’anni e, alla fine, è stato lui a mollare per primo. In attesa che glielo portassero via, lei lo ha vegliato seduta su una seggiola nella loro vecchia stanza. Sopra la testata del letto, la Madonna. Verso la finestra, inclinata, una ribaltina, con una lampada accesa e due libri. Sulla parete opposta, una tela ottocentesca. Vicino alla stanza da letto, un piccolo locale adibito a cappelletta, con la statua di Santa Teresa del Bambin Gesù e due immagini di padre Pio. Lui indossava la sua divisa vera, il saio bianco avorio da terziario carmelitano, e teneva nella mano destra un rosario di legno.
La vera storia di Gino Bartali è tutta qui dentro. Potrebbe sembrare niente, però basta agitarla un attimo e diventa una fantasmagoria di petali svolazzanti come quelle bocce di tanti anni fa, che bastava girarle sottosopra per incantarsi davanti alla neve finta intenta a cadere dal cielo.
Basta una piccola scossa, e dal cielo di Bartali viene giù di tutto. Il fratello morto a vent’anni correndo in bicicletta, i Tour de France e i Giri d’Italia, la polvere appiccicata in faccia come una maschera di bellezza, la voglia di piantar rogne un metro dopo il traguardo, la famiglia, la guerra e la ricostruzione. E poi quel Fausto Coppi che avrebbe preso volentieri a cazzotti se, alla fine, non gli avesse voluto bene come a un fratello.
L’affetto tra due rivali non si può misurare con il metro dei giorni feriali. Un’imprecazione e uno sguardo di sbieco valgono una carezza: e, forse, anche più di una borraccia passata di mano lungo una salita. Quello che divideva vera-mente Coppi da Bartali era l’appartenenza a due universi inconciliabili. In un mondo che si avviava al divismo crocefiggendo la vita di Coppi, Bartali provava la voglia struggente di essere normale.
Fausto andava sui rotocalchi per via della Dama Bianca, e lui si infilava nelle chiese a baciare le reliquie. Fausto diventava suo malgrado il simbolo di un’Italia in via di emancipazione, e lui testimoniava un cattolicesimo pacelliano alla “Bianco Padre che da Roma, ci sei meta, luce e guida”. Fausto dominava un ciclismo quasi scientifico, e lui pigiava sui pedali mischiando furore e giaculatorie.
Ma il problema non era Coppi. Il problema era il mondo che stava cambiando e non certo in meglio. Bartali non si era mai avventurato in profezie sul destino della società perché non era suo compito: ma aveva previsto dove sarebbe finito il ciclismo affamato di record e di soldi.
Era troppo pio per non arrivarci. Però non tutti, nell’ambiente, riuscivano a capire quella specie di Sant’Ignazio in groppa a un cavallo d’acciaio. Non comprendevano che i giudizi azzeccati sulle cose della vita erano frutto della devozione. «Brutt bojon» ringhiava Eberardo Pavesi mentre lui si inginocchiava sul marmo delle cattedrali. «Su de lì Ginetto, fa’ minga el bamba, che così ti freddi i muscoli».
Gianni Brera cominciò a prenderlo male. Non riusciva a mettere insieme il fatto che un uomo potesse essere così materiale e così spirituale allo stesso tempo. Poi si ricredette in una splendida “Lettera a Gino Bartali”: «Da qualche anno, conoscendoti meglio, mi sono fatta la convinzione che tu sia una specie di Bertoldo devoto. Non sei, intendo, il Tartufo ipocrita e astuto che una morale ormai fuori del tempo costringe a irritante doppiezza: quando ti chiamo frate Cipolla, pensando alle margniffate di quel personaggio boccaccesco che tu forse non sai, voglio semplicemente coprire una mia debolezza. Hai avuto molto coraggio nell’esser pio. Questo è il lato più eroico».
Per quanto gli fu dato, e senza volerlo, Bartali rappresentò l’Italia cattolica del dopoguerra. E forse non lo sarebbe stato in modo così convincente se non avesse avuto come contraltare Coppi. Perché quell’Italia era fatta di Kiryeleison, di santini, di devozione, di fede, di processioni, ma anche di dispute in tuta alla mensa della fabbrica o in maniche di camicia al bar. Gli italiani si esaltavano al cospetto di una rivalità che confinava con la guerra. Fra i tavolini dei caffé scorrevano fiumi di aperitivi. Le scommesse simboleggiavano duelli che in altre epoche avrebbero fatto correre sangue. Ma era un modo di stare uniti.
Quando, nel 1948, spararono a Togliatti fu evidente a tutti. La vittoria di Bartali a una tappa del Tour non evitò una rivoluzione che nessuno avrebbe fatto. Però servì a placare animi la cui eccitazione aveva superato la soglia di attenzione. Ancora oggi, vecchi democristiani e vecchi comunisti raccontano di essersi abbracciati improvvisamente alla notizia dell’impresa del loro campione. Forse è vero solo in parte. Ma, a maggior ragione, con quella mezza bugia testimoniano la voglia di appartenere a un’Italia cattolica che non c’è più.
Non è la più grande, ma questa, fra le imprese di Gino il Pio, è la più duratura. Di suo, lui ci aveva messo solo l’ostinazione di guardare in Cielo quando le tentazioni lo avrebbero voluto volentieri con gli occhi puntati in terra. Il resto dipendeva tutto dalla stoffa di cui lo aveva fornito il Buon Dio, un sarto che non sbaglia mai. Se il Padreterno ci avesse ritagliato un’altra forma, ne avrebbe cavato comunque qualche cosa di memorabile. Uno scrittore sul genere di Papini o di Giuliotti. O un predicatore capace di mettere spalle al muro eretici di ogni risma. O un pittore incantato davanti alle vite dei santi. Invece ne ha fatto solo un corridore: forse per rivederlo più in fretta il giorno in cui gli avrebbe detto di tornare a casa.

Scheda biografica

Figlio di Torello e Giulia Sizzi, Gino Bartali nasce a Ponte a Ema, in provincia di Firenze, il 18 luglio del 1914. Ha due sorelle più anziane di lui, Anita e Natalina,e un fratello, Giulio.
A 10 anni, Prima Comunione e iscrizione all’Azione Cattolica: «Dio, famiglia, amici sono stati i cardini della mia vita» dirà sempre. Sposa Adriana Bani il 14 novembre del 1940, da cui avrà tre figli: Andrea, Luigi e Biancamaria.
È morto il 5 maggio del 2000 nella sua casa di Ponte a Ema.

Queste le sue vittorie più importanti:

2 Tour de France (1938, 1948);
3 Giri d’Italia (1936, 1937, 1946);
4 Milano-Sanremo (1939, 1940, 1947, 1950);
3 Giri di Lombardia (1936, 1939, 1940);
2 Giri di Svizzera (1946, 1947);
4 maglie di campione d’Italia (1935, 1937, 1940, 1952);
1 Coppa Bernocchi (1935);
1 Tre Valli Varesine (1938);
1 Giro di Romandia (1949);
1 Giro dei Paesi Baschi (1935).
Tra il 1931 e il 1954 corse 988 gare, ne vinse 184, 45 per distacco.

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La vita dell’uomo non è una tragedia, ma un felice ritorno a casa

Posté par atempodiblog le 30 octobre 2012

Piccolo grande hobbit
di Alessandro Gnocchi – Il Timone

Con i suoi antieroi protagonisti, Tolkien celebra l’immutabile saldezza della verità sul bene e sul male. Una grande fiaba che ci parla del peccato e della Grazia, della fede e delle opere. Con una certezza finale: la vita dell’uomo non è una tragedia, ma un felice ritorno a casa

La vita dell’uomo non è una tragedia, ma un felice ritorno a casa dans Alessandro Gnocchi Hobbit

«Egli trasse un profondo sospiro. “Sono tornato”, disse».
Ci voleva un genio per chiudere con una simile riga le 1.258 pagine di un capolavoro come Il Signore degli Anelli. In quell’ultima riga, di cui Samvise Gamgee è protagonista assoluto, si racchiude il segreto dell’immortalità letteraria. Perché la grande epopea, la grande poesia, il grande romanzo, alla fine, non sono altro che il grande racconto del ritorno a casa. Non sono altro che la riscrittura della parabola del figlio prodigo. Perché la grande epopea, la grande poesia, il grande romanzo, alla fine, non sono altro che riti letterari dell’unica vera religione, che è quella cattolica.
L’incauto hobbit Samvise Gamgee, partito da Hobbiville per fedeltà a padron Frodo e nella speranza di incontrare gli Elfi, diventa protagonista di un’epocale battaglia contro Sauron, il Nemico. Una vera e propria epopea al termine della quale sembrerebbe che nulla possa più essere come prima. E invece no: «“Sono tornato” disse». Perché ciò che conta non muta mai. Lo spiega re Aragorn, a Eomer, nipote del Re del Mark: «Il bene e il male sono rimasti immutati da sempre, e il loro significato è il medesimo per gli Elfi, per i Nani e per gli Uomini. Tocca a ognuno di discernerli».

Epifania del sacro
Il mondo fiabesco del capolavoro di Tolkien vive nell’epifania luminosa del sacro, nel bagliore che rivela definitivamente ciò che gli uomini troppo a lungo hanno dimenticato. Per questo, nella Terra di Mezzo, può essere segno di un destino anche il semplice incontro con un Ramingo, un Re, un mago, un Elfo, un nano. L’improvvisa apparizione di queste o chissà quali altre creature producono nelle anime dei personaggi e del lettore un ordine liturgico che, improvvisamente, colloca al loro posto le cose e le parole. Frutto di sapienza letteraria che Tolkien, nel celebre saggio Sulle fiabe, chiama «subcreazione», arte di utilizzare gli elementi della realtà quotidiana per costruire un mondo coerente e vero: «Costruire un Mondo Secondario dentro il quale il sole verde risulti credibile, imponendo Credenza Secondaria, richiederà probabilmente fatica e riflessione, e certamente esigerà una particolare abilità, una sorta di facoltà magica. Pochi si cimentano in compiti così ardui; ma quando li si affronta e li si attua in misura maggiore o minore, si ottiene un risultato artistico senza pari: arte narrativa, insomma, elaborazione di racconti nella forma primaria e più pregnante».
Nella sua spregiudicatezza antiletteraria, un inventore di fiabe come Tolkien non si preoccupa della parola, se non per considerarla un seme che, affondato nel terreno, sparisce per liberare alla luce il fiore di cui era, misteriosamente, portatore. Nasce in tal modo un linguaggio che esorta alla contemplazione e alla comunione con il divino. In cui le parole, usurate dall’incuria degli uomini, possono compiere il loro ufficio solo riattingendo alla propria forza originaria.

Il «nome delle cose»
Per questo anche le cose hanno un nome nel mondo di Tolkien. «Anduril, Fiamma dell’Occidente» la spada forgiata dagli Elfi per Aragorn, il Re destinato a tornare sul trono. «Pungolo» lo spadino che il vecchio Bilbo consegna a Frodo prima che la Compagnia dell’Anello parta per la propria missione. Anche le cose hanno un nome perché, attingendo alla forza delle origini, assolvono compiti che vanno ben oltre il profano. Si compongono in cerimonia: ciò che trasforma in scrittura una bella prosa. «Alta scrittura senza cerimonia non fu possibile mai», scrive in proposito Cristina Campo nel saggio Parco dei cervi «fosse pure occultata la cerimonia nella convenzione di un sottovoce». «Hai l’aspetto di un normalissimo Hobbit» dice Bilbo a Frodo dopo averlo convinto a indossare sotto gli abiti una cotta di maglia forgiata dalla sapienza dei Nani. «Ma adesso vi è in te più di quanto appaia in superficie». Cos’è, questo, se non puro, rituale sottovoce? Discorso che, per stupire, non ha bisogno di convocare dai quattro punti cardinali legioni di angeli e di demoni da contrapporre in lamenti grandiosi.

Nel mondo c’è qualcosa di sacro
Perché la fiaba è fatta così. Spesso si pensa che nasca dalla sazietà di un’anima al cospetto di una fantasmagoria infinitamente più grande di tutte le delizie attese per tanto tempo. E, invece, sgorga dallo stupore che si prova quando il destino ha avuto cura di disporre una realtà un poco inferiore all’aspettazione. L’artista che se ne sappia abbeverare avrà trovato una fonte di ispirazione perenne. Territorio tutt’altro che rassicurante, dato che racconta i segreti, anche quelli dolorosi della vita.
Su questo tema, nel saggio Della fiaba, scrive Cristina Campo: «A un bambino che legge viene promessa l’apparizione del re: parola rutilante. Ma la scaltra, veggente fiaba la sa più lunga di lui: “Gli araldi diedero fiato alle trombe, le porte d’oro si spalancarono. Apparve il re, pallido e triste, senza scettro né corona, tutto vestito a lutto”». Dolorosa rivelazione che, per un istante, mozza il fiato. Ma, proprio nel momento in cui la vita rallenta fino quasi a fermarsi, il bambino coglie e custodirà per sempre l’idea che nel mondo c’è qualcosa di sacro e di grande.
«Sono tornato» dice Sam, dopo essere passato indenne fra le tentazioni del potere portate nel mondo dall’Anello proprio perché ha sperimentato che nel mondo c’è qualcosa di sacro e di grande. Ma non si giunge a tanta consapevolezza attraverso un viaggio allegro e giocondo. Il territorio delle fiabe si estende fra i poli della bellezza e della paura. Lo splendore soprannaturale del bello e del vero si mostra solo dopo il superamento di terrori concreti e carnali. Non è un caso se gli eroi più grandi di questo genere letterario sono i santi: interpreti di quella fiaba assoluta, quella fiaba delle fiabe, che è il Vangelo.

La presenza della Grazia
Su questo terreno letterario, la sapienza di Tolkien sta nel rendere appena meno visibile la presenza della Grazia per chiedere più forza al dire e al fare dei suoi personaggi. All’impallidire dell’intervento divino, gli uomini sono costretti a farsi persino violenti per andare alla conquista del regno dei cieli. Poi, giunti al limitare delle loro possibilità, dove l’aria è troppo pura per essere alimento di povere creature, ritrovano il sostegno della luminosità pastosa e concreta del soprannaturale.
In un racconto come Il Signore degli Anelli, l’orizzonte si pulisce e raccoglie vicende che sanno veramente dire qualcosa all’uomo. Quelle che chiedono l’esercizio dell’occhio, organo del tragico, e dell’orecchio, organo del comico. Su scenari tragici, passati con tinte violente, l’innesto di dialoghi comici segna l’ingresso della Grazia nelle cose terrene. E si manifesta la tragicommedia, il più cristiano dei generi letterari, il versante evangelico della fiaba.
Lasciata a se stessa, la tragedia racconta l’incontro dell’uomo con la sofferenza e la morte. Ma, allo stesso tempo, è qualche cosa di più della percezione dell’ineluttabilità del morire: è la disperata opposizione a questa crudeltà. La visione tragica del mondo nasce dalla comprensione della natura come grembo originario del prodursi e dell’irrimediabile risolversi di tutto ciò che esiste. Perciò, l’uomo tragico vive in un mondo senza orizzonte, dominato dall’eterno fluire del farsi e del disfarsi.
Il cristiano, per contro, è costituito dalla capacità di sperare contro ogni male, di attendere oltre il limite umano della sopportazione, di proclamare la liberazione da ogni delusione. Un atteggiamento come questo si fonda sulla constatazione delle alterne vicende della vita per cui ci si può sempre attendere il bene nel dolore e, più distrattamente, il male nella gioia. Ma sempre con un senso, dentro un orizzonte luminoso.

Eroismo a portata di tutti
Per questo Frodo arriva fino in fondo alla sua missione. Perché Tolkien gli ha messo nel cuore tutta la propria fiducia nella Grazia e tutta la propria consapevolezza di dovervi unire le buone opere, come dire la propria fede cattolica. È con questa fede che il piccolo hobbit si avvia verso la voragine di Monte Fato trascinando dietro quel povero essere devastato dalla schizofrenia spirituale che è Gollum. In quella salita dolorosa, Frodo, per conto di Tolkien, mostra come la fede cristiana produca qualcosa di inedito e per molti versi imponderabile. Sul ciglio di Monte Fato, non opera più la semplice speranza in ciò che ci si può ragionevolmente attendere, ma la certezza dell’inattingibile, dell’inaudito, convinzione che a Dio nulla è impossibile. Pur nel dolore e nel terrore, Frodo sa che non sarà sfigurato nel grido tremendo come gli eroi della tragedia, uccisi dalle stesse potenze che li avevano generati. Lui potrà durare indefinitamente persino nell’abiezione perché una potenza oscura, sovrana e silenziosa lo sorregge, anche se è lontana e latita.

Fiat voluntas tua
E non caso, il gesto ultimo è compiuto da un oscuro hobbit, invece che da Re Aragorn o da Gandalf il Bianco. La tradizione cristiana è costitutivamente “antieroica” non perché escluda l’eroismo dal suo orizzonte, ma perché lo generalizza. L’eroismo è alla portata di tutti e non è più necessario essere una personalità riuscita per attingervi. Basta pronunciare le poche parole dell’adorazione perfetta: Fiat voluntas tua. E tutto diviene possibile.
Nella fiaba vince il folle che ragiona a rovescio. Colui che, come il santo, crede al cammino sulle acque, alle mura traversate da uno spirito ardente. Colui che, come il poeta, trae dalle parole concreti e carnali concetti, come quel geniale «Sono tornato».

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