Il relativismo etico contraddistingue tanta parte della cultura contemporanea

Posté par atempodiblog le 26 février 2013

Il relativismo etico contraddistingue tanta parte della cultura contemporanea dans Aborto giovannipaoloii

In ogni caso, nella cultura democratica del nostro tempo si è largamente diffusa l’opinione secondo la quale l’ordinamento giuridico di una società dovrebbe limitarsi a registrare e recepire le convinzioni della maggioranza e, pertanto, dovrebbe costruirsi solo su quanto la maggioranza stessa riconosce e vive come morale. Se poi si ritiene addirittura che una verità comune e oggettiva sia di fatto inaccessibile, il rispetto della libertà dei cittadini — che in un regime democratico sono ritenuti i veri sovrani — esigerebbe che, a livello legislativo, si riconosca l’autonomia delle singole coscienze e quindi, nello stabilire quelle norme che in ogni caso sono necessarie alla convivenza sociale, ci si adegui esclusivamente alla volontà della maggioranza, qualunque essa sia. In tal modo, ogni politico, nella sua azione, dovrebbe separare nettamente l’ambito della coscienza privata da quello del comportamento pubblico.

Si registrano, di conseguenza, due tendenze, in apparenza diametralmente opposte. Da un lato, i singoli individui rivendicano per sé la più completa autonomia morale di scelta e chiedono che lo Stato non faccia propria e non imponga nessuna concezione etica, ma si limiti a garantire lo spazio più ampio possibile alla libertà di ciascuno, con l’unico limite esterno di non ledere lo spazio di autonomia al quale anche ogni altro cittadino ha diritto. Dall’altro lato, si pensa che, nell’esercizio delle funzioni pubbliche e professionali, il rispetto dell’altrui libertà di scelta imponga a ciascuno di prescindere dalle proprie convinzioni per mettersi a servizio di ogni richiesta dei cittadini, che le leggi riconoscono e tutelano, accettando come unico criterio morale per l’esercizio delle proprie funzioni quanto è stabilito da quelle medesime leggi. In questo modo la responsabilità della persona viene delegata alla legge civile, con un’abdicazione alla propria coscienza morale almeno nell’ambito dell’azione pubblica.

Comune radice di tutte queste tendenze è il relativismo etico che contraddistingue tanta parte della cultura contemporanea. Non manca chi ritiene che tale relativismo sia una condizione della democrazia, in quanto solo esso garantirebbe tolleranza, rispetto reciproco tra le persone, e adesione alle decisioni della maggioranza, mentre le norme morali, considerate oggettive e vincolanti, porterebbero all’autoritarismo e all’intolleranza.

Ma è proprio la problematica del rispetto della vita a mostrare quali equivoci e contraddizioni, accompagnati da terribili esiti pratici, si celino in questa posizione.

È vero che la storia registra casi in cui si sono commessi dei crimini in nome della «verità». Ma crimini non meno gravi e radicali negazioni della libertà si sono commessi e si commettono anche in nome del «relativismo etico». Quando una maggioranza parlamentare o sociale decreta la legittimità della soppressione, pur a certe condizioni, della vita umana non ancora nata, non assume forse una decisione «tirannica» nei confronti dell’essere umano più debole e indifeso? La coscienza universale giustamente reagisce nei confronti dei crimini contro l’umanità di cui il nostro secolo ha fatto così tristi esperienze. Forse che questi crimini cesserebbero di essere tali se, invece di essere commessi da tiranni senza scrupoli, fossero legittimati dal consenso popolare?

In realtà, la democrazia non può essere mitizzata fino a farne un surrogato della moralità o un toccasana dell’immoralità. Fondamentalmente, essa è un «ordinamento» e, come tale, uno strumento e non un fine. Il suo carattere «morale» non è automatico, ma dipende dalla conformità alla legge morale a cui, come ogni altro comportamento umano, deve sottostare: dipende cioè dalla moralità dei fini che persegue e dei mezzi di cui si serve. Se oggi si registra un consenso pressoché universale sul valore della democrazia, ciò va considerato un positivo «segno dei tempi», come anche il Magistero della Chiesa ha più volte rilevato. Ma il valore della democrazia sta o cade con i valori che essa incarna e promuove: fondamentali e imprescindibili sono certamente la dignità di ogni persona umana, il rispetto dei suoi diritti intangibili e inalienabili, nonché l’assunzione del «bene comune» come fine e criterio regolativo della vita politica.

Alla base di questi valori non possono esservi provvisorie e mutevoli «maggioranze» di opinione, ma solo il riconoscimento di una legge morale obiettiva che, in quanto «legge naturale» iscritta nel cuore dell’uomo, è punto di riferimento normativo della stessa legge civile. Quando, per un tragico oscuramento della coscienza collettiva, lo scetticismo giungesse a porre in dubbio persino i principi fondamentali della legge morale, lo stesso ordinamento democratico sarebbe scosso nelle sue fondamenta, riducendosi a un puro meccanismo di regolazione empirica dei diversi e contrapposti interessi.

Qualcuno potrebbe pensare che anche una tale funzione, in mancanza di meglio, sia da apprezzare ai fini della pace sociale. Pur riconoscendo un qualche aspetto di verità in una tale valutazione, è difficile non vedere che, senza un ancoraggio morale obiettivo, neppure la democrazia può assicurare una pace stabile, tanto più che la pace non misurata sui valori della dignità di ogni uomo e della solidarietà tra tutti gli uomini è non di rado illusoria. Negli stessi regimi partecipativi, infatti, la regolazione degli interessi avviene spesso a vantaggio dei più forti, essendo essi i più capaci di manovrare non soltanto le leve del potere, ma anche la formazione del consenso. In una tale situazione, la democrazia diventa facilmente una parola vuota.

Giovanni Paolo IIEvangelium Vitae

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«Nel mondo c’è posto per tutti»

Posté par atempodiblog le 27 janvier 2013

Leandro Aletti, ginecologo che ha lavorato soprattutto in Mangiagalli a Milano, è noto alle cronache per le battaglie contro l’aborto e per le denuncie fatte e ricevute nel corso del suo impegno. Durante l’intervista il rischio di aver in mente un articolo “già fatto” in cui far rientrare le parole dell’intervistato è fortissimo: farsi raccontare tutti i fatti, le ingiustizie e spiegare tutte le sue motivazioni. Ma per fortuna la verità è più forte di tutti i pezzi già scritti in testa e Leandro Aletti racconta solo alcuni fatti che hanno segnato la sua storia, per il resto “lascia la scena” a Cristo, vero fondamento.
di Benedetta Consonni – La nuova Bussola Quotidiana

«Nel mondo c'è posto per tutti» dans Aborto neonatipostopertutti

“Il 28 dicembre 1936 il Cardinal Schuster consacrò l’altare della Chiesa di San Giuseppe in Policlinico ai Santissimi Innocenti – racconta Aletti – Sempre il 28 dicembre, ma del 1988, dalle pagine del quotidiano Avvenire, io e il collega Luigi Frigerio abbiamo denunciato la pratica di un aborto terapeutico al quinto mese di gravidanza all’interno della clinica Mangiagalli. La bambina aveva un’anomalia fetale, un cromosoma in più, che significa che rischiava di nascere sterile. La bambina era normalissima». Una denuncia a cui seguirono diverse tribolazioni per il medico Aletti, che però non si sofferma su questo, ma va dritto al punto. «Fino a quando avrò fiato non mi interessa giustificarmi perché chi mi giustifica è un Altro. Il punto è il fondamento da porre, cioè Gesù Cristo, se non avessi fatto questo, avrei passato il mio tempo a giustificarmi» dice il ginecologo, che ha potuto contare il genetista e servo di Dio Jérôme Lejeune tra i suoi difensori.

Gli scappa solo un anedotto. “Ad un processo mi è stata fatta questa domanda per inquadrare la mia personalità: lei in che cosa crede? Io ho risposto una cosa molto semplice: mettete a verbale il Credo della Chiesa Cattolica, che io dico tutte le domeniche, per intero per favore. Allora si alzò il presidente dicendo che la domanda non era pertinente, perciò agli atti del processo non figurò mai questa domanda. Fui assolto”.

Leandro Aletti ha 8 figli e 8 nipoti, forse l’obiettivo ricercato da chi ama tanto la vita, eppure racconta Aletti: “Io non volevo niente. Semplicemente quando uno si sposa, si esprime con il corpo che ha e se tu dici a una donna che la ami, lo esprimi anche con il tuo corpo. Non c’è da censurare nulla. Oggi si fa la censura con la pillola contraccettiva. La mentalità è ormai questa, poi si può sbagliare anche 120.000 volte e non sta a me giudicarlo, però non posso non dire che la strada è un’altra”. Infatti Aletti è un ginecologo obiettore di coscienza. “La storia dell’obiezione di coscienza è molto semplice, – spiega – tutti gli uomini sono nati da una donna e tutti sono passati da un organo che si chiama utero, anche quelli nati con l’embryo transfer, ovvero la fertilizzazione artificiale. Nel Te Deum si canta: Non horruisti uterum virginis, che significa: non hai avuto orrore di passare attraverso l’utero di una donna. Questo ginecologicamente è interessantissimo, perché significa che attraverso Gesù, che è vero Dio e vero uomo, l’infinito è entrato nel ventre di una donna”. Una visione che lascia trasparire tutta la sacralità, dolcezza e mistero della maternità. Continua Aletti: “Se tu guardi bene tutti in faccia, a qualsiasi latitudine e longitudine, sai che tutti hanno una mamma. Di tutti questi uomini, nessuno ha chiesto il permesso di venire al mondo, me compreso. Soltanto Uno ha chiesto il permesso di venire al mondo e che cos’è successo? Che l’Angelo del Signore portò l’annuncio a Maria. E quella donna di 15 anni è stata messa in cima al Duomo di Milano e io lo dico ai miei figli e a tutti quelli che incontro che quella è la mia mamma. Questo lo dico abbassando il capo, perché non sono degno di guardare quella donna e mi debbo convertire”.

La Madonna è un modello di accoglienza per tutte le mamme, anche per quelle per cui la gravidanza costituisce un momento di prova. «Il problema è che la diagnostica prenatale – spiega Aletti – tesa ad individuare embrioni malformati da sopprimere con aborto selettivo è razzismo, mentre al mondo c’è posto per tutti, sani e non sani. Tutti quelli che sono venuti al mondo hanno una mamma e quindi il punto qual è? L’accoglienza, di cui la Madonna è il paradigma». Maria, che con il suo sì ha detto sì alla vita. «Quando non accogli ti schieri con la morte e purtroppo una donna che non dice sì alla vita vivrà un tormento per tutta la vita. Le donne vanno aiutate e non lasciate sole». Continua Aletti: “In Italia con la legge 194 sono stati fatti 6 milioni di aborti: per avere questo dato basta prendere i dati della relazione annuale al Parlamento del Ministero della Salute e sommare tutti gli aborti da quando esiste la legge. Questi 6 milioni di persone che mancano hanno una notevole ripercussione economica: significa che in Italia manca una generazione e mezza e il mercato è fermo perché manca l’utenza. Madre Teresa di Calcutta, quando ritirò il premio Nobel per la pace disse: l’aborto creerà più danni della bomba atomica”.

Due incontri speciali hanno segnato la vita di Aletti, con Arturo e con Leandro, due bimbi morti subito dopo la nascita, di cui il ginecologo ci racconta la storia per far sapere a tutti che esistono anche Arturo e Leandro. “Erano le due di notte – ricorda Aletti – ed è nato un bambino alla quindicesima settimana, che sai benissimo che muore, anzi è campato 10 minuti di orologio l’Arturo. Ho chiesto alla mamma: lo vogliamo battezzare? La mamma mi ha detto di si. Signora possiamo chiamarlo Arturo? Bene, io ho battezzato l’Arturo, non lo so perché proprio Arturo. Se avessi chiamato il cappellano sarebbe morto prima del suo arrivo. Un collega, che passava di lì, mi dileggia e mi dice: Aletti non buttare l’acqua su quel bambino, cosa fai? Io gli ho risposto: l’Arturo è campato 10 minuti, ha cercato di fare un vagito appena, ma l’ho battezzato perché riconosco che l’Arturo come me (e l’ho chiesto anche alla mamma naturalmente) è chiamato allo stesso destino mio”.

Al secondo incontro speciale invece Aletti dà il suo nome, Leandro. “Leandro è nato al quinto mese ed è ricoverato in una struttura di cui io ero il direttore. Il medico che lo ha ricoverato giustamente ha scritto aborto inevitabile. La situazione purtroppo era così. Il medico ha fatto notare questo alla madre, che ha disconosciuto il figlio, cioè non lo ha voluto perché era un aborto. Non le interessava la sepoltura. Quindi questo bambino è completamente abbandonato. I medici non sapevano cosa fare e lo avevano messo in un bidoncino. Quando sono arrivato mi hanno fatto presente la situazione. Io mi sono fatto portare dell’acqua e ho detto: come potete vedere questo è un uomo. Leandro io ti battezzo nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Leandro è campato un giorno. E’ stato messo in una piccola culletta, dove ogni tanto qualcuno andava a bagnargli le labbra. E’ morto la sera stessa”.

Due storie apparentemente tristi, ma che sono storie di vita, anche se dura soltanto dieci minuti. “Siamo rimasti in tre gatti a dire queste cose, ma non importa, io sono felice. Non è questione di coraggio, io non ho nessun coraggio e non sono un eroe, lo scriva, anzi davanti a queste questioni è meglio mettersi in ginocchio e farci aiutare dalla Madonna” conclude Aletti. E così mi capita di terminare un’intervista coma mai avevo fatto prima. Aletti mi dice: preghiamo. Fa il segno della croce e diciamo insieme un’Ave Maria alla Madonna, nelle cui mani ricolme di grazie affido l’intervista che ho appena raccolto.

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Abortiti da vivi. Le nuove “idee” sull’infanticidio e la scienza di Carlo Bellieni per alleviare il dolore dei feti.

Posté par atempodiblog le 19 janvier 2013

Abortiti da vivi
Le nuove “idee” sull’infanticidio e la scienza di Carlo Bellieni per alleviare il dolore dei feti.
di Francesco Agnoli - Il Foglio (8-03-2012)
Tratto da: Marcia per la vita

Abortiti da vivi. Le nuove “idee” sull’infanticidio e la scienza di Carlo Bellieni per alleviare il dolore dei feti. dans Aborto aborto

[...] due soggetti italiani, momentaneamente all’estero (quando la fuga dei cervelli coincide con la fuga del cervello), Alberto Giubilini e Francesca Minerva, hanno proposto, su un giornale scientifico di rilievo, il Journal of Medical Ethics, un articolo a sostegno dell’infanticidio, intitolato: “Aborto dopo la nascita, perché il bambino dovrebbe vivere?”. Giusto! Perché? Minerva e Giubilini, dall’alto della loro “filosofia” e delle loro prestigiose collaborazioni, Oxford compresa, se lo chiedono.

E poi danno senza imbarazzo, risposte chiare, precise: c’è chi può (vivere) e chi non può. E’ il miracolo del relativismo: in nome dell’assenza di ogni Verità, due soggetti che un signore tedesco, non bello, con i baffi, anni Trenta, avrebbe forse corteggiato per uno dei suoi progettini di miglioramento della specie comminano pene di morte ai loro simili rei soltanto di esistere.

Detto questo, per accennare al fatto che tutto si tiene, vorrei notare che i due soggetti sopra indicati, a cui non posso togliere lo status di “persone” che invece loro negano ai feti e ai neonati (i quali non avrebbero “lo status morale di una reale persona umana”), fanno parte di un comitato di bioetica presieduto da quel Maurizio Mori che è stato il grande consigliere di Beppino Englaro e che viene spesso omaggiato sulla grande stampa italiana. La stessa che sbeffeggia, o meglio ignora, quei poveri retrogradi dei bioeticisti cattolici.

Ma perché farci il sangue amaro con questi attardati fans della rupe Tarpea e del monte Taigeto? Meglio soffermarsi su un vero cervello, nostrano, che continua ad abitare in Italia, ma viene consultato di continuo all’estero, nei paesi più svariati del mondo, dal Giappone all’Arabia Saudita, non per le sue biocretinerie filosofiche senza fondamento, ma per la sua serietà, per i suoi lavori scientifici sui bambini, dentro e fuori l’utero materno.

Sto parlando di Carlo Bellieni, noto neonatologo, membro della Pontifica Accademia per la vita, collaboratore di prestigiose riviste scientifiche di tutto il mondo (oltre che di vari quotidiani italiani, dall’Osservatore Romano ad Avvenire). Il lavoro di Bellieni incomincia nel 2000 dall’osservazione di quanto i piccoli feti nati precocemente (anch’essi “non persone”, per Minerva e soci), vanno incontro ad interventi dolorosi e, all’epoca, con scarsa attenzione al loro dolore, non solo in Italia, ma in tutto il mondo. Bellieni inizia così a fare studi su come certe manovre senza l’uso di farmaci possano vincere questo dolore; e vede come prima cosa che se gli si danno una serie di stimoli, assieme alla somministrazione di una soluzione di zucchero, il dolore sparisce: chiama tutto ciò “saturazione sensoriale”, espressione  che oggi è entrata nelle linee-guida in diversi Paesi.

Togliere il dolore a questi piccoli feti prematuri è il primo passo; il secondo è misurarlo, con l’aiuto di alcune esperte di ingegneria e di fisica, analizzando lo spettro vocale del pianto del feto prematuro e del neonato a termine, per creare delle scale di misurazione (e degli apparecchi appositi).

Lavorando con feti fuori dal pancione, Bellieni comincia a chiedersi: cosa proverebbero se fossero ancora dentro? La risposta diventa possibile iniziando a misurare le risposte che i bambini già nati danno a certi stimoli, e vedendo se differenti risposte sono legate a differenti esperienze prenatali. Bellieni inizia studiando un gruppo di bambini nati dopo che le loro mamme sono state tenute ferme a letto in gravidanza per motivi clinici; poi studia i figli di mamme ballerine, che hanno continuato a praticare danza durante la gestazione: i loro figli richiedono di essere cullati più energicamente degli altri per addormentarsi, segno evidente della continuità tra la vita uterina e quella post uterina.

Un ulteriore studio di Bellieni è poi verificare come il feto nel pancione reagisca agli stimoli e soprattutto se si abitua ad essi, come succede ai bambini già nati, che, dopo un brusco stimolo, alla terza o quarta volta che gli si propone, non trasaliscono più. Con l’osservazione ecografica di una ventina di feti di circa 30 settimane di gestazione, nota che dando uno stimolo rumoroso attraverso il pancione, il feto strizza gli occhi e gira la testa dall’altra parte, proprio come un bambino più grande, e proprio come questo smette di farlo dopo un certo numero di stimoli.

Di qui e da altri esperimenti nascerà il testo “Sento, dunque sono” (Cantagalli), che raccoglie quello che al mondo si sa sulle sensazioni fetali. Tra i sensi fetali c’è proprio il dolore. C’è nel neonato e c’è già nel feto! Per raccontarlo Bellieni, insieme al professor Giuseppe Buonocore, ha raccolto in un altro testo, in inglese, quanto anche in questo campo i maggiori studiosi mostrano nella loro pratica clinica: “Neonatal pain: pain, suffering and risk of brain damage in the fetus and newborn” (Springer Ed).

Ai predicatori dell’infanticidio manca, non solo il cuore, ma anche la scienza… due cose che vanno, spesso, insieme.

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“Mio figlio Justin Bieber? E’ nato per un fallito aborto”

Posté par atempodiblog le 30 septembre 2012

Durante l’intervista a un network statunitense le dichiarazioni shock della madre del rapper canadese, idolo delle teenagers
di Giuseppe Brienza – vaticaninsider.lastampa.it

 “Mio figlio Justin Bieber? E’ nato per un fallito aborto” dans Aborto

La madre del noto cantante ed attore canadese Justin Bieber ha confessato, durante un talk-show, di aver tentato di abortirlo durante i primi mesi della sua gravidanza e che, quindi, l’idolo di tutte le teenagers americane è nato solo a causa del fallimento del tentato aborto.

Pattie Mallette l’ha dichiarato alla presentatrice Kathie Lee Gifford durante la sua trasmissione in onda su una delle più famose televisioni americane, la «NBC», giustificando il suo gesto anche con la fragilità del percorso esistenziale vissuto fin dall’infanzia. La Mallette, infatti, ha confessato di aver subito abusi sessuali fin dai quattro anni, e di essersi perciò sempre sentita in colpa per la sua situazione, cadendo nella depressione, l’alcolismo e la droga durante l’adolescenza.

Dopo aver tentato persino il suicidio, a 17 anni è rimasta incinta e, tossicomane e sola al mondo, decise di abortire anche per una pressione ambientale e psicologica subita in tal senso un po’ da tutti quelli che gli erano attorno. Ma nel 1993 il medico che in Canada cercò di eseguirle l’aborto fallì nel suo intervento. Fu in quel momento che decise, come ha dichiarato in diretta TV, «semplicemente che non doveva più farlo, non doveva più abortire. Dovevo cercare di fare del mio meglio. E fui decisa a fare tutto quello che c’era da fare per farlo vivere» (cit. in «Justin Bieber a failli être victime d’une ‘IVG’», «Le blog de Jeanne Smits», http://leblogdejeannesmits.blogspot.it/, 19  settembre 2012). La madre lo ha quindi allevato da sola in un alloggio a basso reddito, consentendogli comunque di imparare a suonare, fin da giovanissimo, il pianoforte, la batteria, la chitarra e la tromba.

Durante il suo attuale tour negli Stati Uniti,  Justin Bieber si è attirato le critiche dei media liberal quando ha espresso la sua personale contrarietà alla legalizzazione dell’aborto. Il cantante, oggi diciottenne, ha poi deprecato la circostanza per cui i giovani americani, fin dalla più tenera età, sono sottoposti ad un “indottrinamento” insegnandoli quando ancora non è il momento che l’aborto è un «diritto» (cfr. “Bieber Revs Up for Big ‘Believe’ Tour”, in “USA Today”, 19 settembre 2012).

Infatti, secondo gli attuali programmi di educazione sessuale vigenti nelle scuole americane, conformati alle linee guida emanate nel 2004 dal “Consiglio nazionale dell’educazione e dell’informazione sessuale”-“Siecus” (“Sexuality Information and Education Council of the United States”), fra gli obiettivi “educativi” da perseguire per i bambini di età compresa tra i 9 ed i 12 anni, si insegna, normalmente e senza ulteriori spiegazioni, che «Negli Stati Uniti è legale abortire fino a un certo punto della gravidanza».

L’album di Bieber “My World 2.0”, pubblicato nel 2010, ha ottenuto un successo strepitoso in tutto il mondo, debuttando in prima posizione ed entrando nella “Top Ten” di dieci Paesi, e conquistando il disco di platino negli Stati Uniti. Per accompagnare il suo ultimo disco “Believe”, uscito nel 2012, il cantante sarà anche in Europa a febbraio per alcuni concerti. Collegato al tour mondiale vi è anche un progetto di solidarietà promosso da Bieber, il “Believe Charity Drive”, con il quale sono beneficate associazioni che aiutano i parenti ed amici di bambini con il cancro come “Acreditar” e l’italiana « La Grande Casa di Peter Pan Onlus », che ha sede a Roma (cfr. “Join Justin in his mission to donate $10,000,000 to people in need”, http://www.justinbiebermusic.com/mobile/).

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L’aborto imposto a Trento e l’ »educazione all’affettività »

Posté par atempodiblog le 13 décembre 2011

L'aborto imposto a Trento e l'

I frutti avvelenati della riduzione dell’autentica dimensione degli affetti a una miscela di tecnica sanitaria e di sociologismo. I danni prodotti dal connubio di ideologie pedagogiche diffuse non solo in ambito laico ma anche, e largamente, nel mondo cattolico e, più in generale, religioso

Per leggere l’articolo di Giorgio Israel per Il Foglio cliccare sul link sottostante:

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Fonte: Tracce.it

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La menzogna dell’aborto che cura

Posté par atempodiblog le 19 novembre 2011

La menzogna dell'aborto che cura dans Aborto abortiontshirt

«Di fatto, per la donna sana con un matrimonio felice, l’aborto è più spesso veramente terapeutico». Con questa frase il dottor Malcolm Potts a pagina 227 del suo saggio scientifico dedicato all’aborto pubblicato per le edizioni dell’Università di Cambridge nel 1977, « demitizzava » il presunto danno per la madre derivante dall’aborto volontario. Chi era il dottor Potts? Si può rispondere che per decenni, assieme a Christopher Tietze, Mary Calderone, Alan Guttmacher, egli abbia costituito la punta di lancia dello schieramento militante di medici abortisti, risultato determinante per la legalizzazione dell’aborto in America e nell’occidente. Fondatore della prima clinica per la contraccezione giovanile a Cambridge, primo uomo ad operare alla clinica per aborti londinese Marie Stopes, primo direttore medico di una delle maggiori organizzazioni abortiste, la International Planned Parenthood Federation, ancora oggi dalla cattedra dell’Università di Berkley il professor Potts è attivo promotore di iniziative volte alla diffusione del controllo delle nascite e all’espansione dell’accesso all’aborto. Difficile immaginare qualcosa di diverso, se si è convinti che abortire faccia bene alla salute delle donne.

In effetti l’abortismo libertario, per utilizzare una categoria del giurista Lombardi Vallauri
, si è sempre affermato attraverso il tentacolo umanitario. Perché in moltissime legislazioni, compresa quella italiana, le donne possono liberamente abortire? Per salvaguardare, si dice, la loro salute, identificata nella quasi totalità dei casi, con la salute psichica. Negli anni della lotta per giustificare l’aborto legale come riconoscimento di un diritto alla salute, fu molto importante per il movimento abortista potere disporre di studi che dimostravano alti livelli di ansia tra le donne con gravidanza non programmata ed il miglioramento che seguiva l’interruzione volontaria della gravidanza. La frase citata in apertura, che semplicemente riprendeva una pubblicazione medica del 1970, può essere considerata un esempio di quell’azione ideologica camuffata da avanzamento nelle acquisizioni scientifiche.

In effetti sarebbe stato strano che l’ansia connessa alla gravidanza
e dalla preoccupazione per un livello in genere ad elevato contenuto emozionale, non si mostrasse mitigata nel breve periodo dopo l’aborto, ma che cosa succedeva guardando le cose con una prospettiva di puù lungo termine? In effetti nel corso degli anni ha cominciato a emergere una realtà assai diversa rispetto al quadro idilliaco di psico-terapeuticità dell’aborto: un certo numero di donne stavano male, alcune uscivano da quell’esperienza a pezzi e avevano cominciato a rivolgersi a psicologi, psichiatri, sacerdoti in cerca di una qualche forma di aiuto, per un malessere che non voleva saperne di abbandonarle. Dopo una serie di studi risalenti in maggioranza agli inizi degli anni 2000, nel 2004 giunse uno dei colpi più forti alla teoria fino a quel momento sostenuta da uno studio molto ampio della durata di 14 anni condotto confrontando tutte le donne che dal 1987 al 2000 avevano abortito volontariamente con le altre che invece avevano patito un aborto spontaneo o invece avevano portato a termine la gravidanza con la nascita del figlio. Lo studio venne pubblicato sulla rivista dei ginecologi americani e mostrò che l’aborto volontario si associava ad una mortalità tripla e addirittura, se si andavano a contare le morti da causa violenta, l’incidenza risultava aumentata di ben sei volte. Dopo quello studio non si poteva più sostenere che le donne avessero una saluta migliore dopo l’aborto.

Colto in fallo il movimento abortista mise immediatamente al lavoro i propri tecnici
, per depotenziare l’esplosività di quel dato e questi riuscirono a tirare fuori dal cilindro una soluzione, seppure parziale: quel risultato non attestava la pericolosità dell’aborto per la salute mentale delle donne per due motivi sostanziali, il primo perché il confronto sarebbe dovuto essere svolto confrontando le donne che abortiscono non con tutte le donne che partoriscono, ma con solo quelle che portano a termine una gravidanza non programmata o espressamente indesiderata, la seconda ragione che inficiava il risultato consisteva nella mancanza di controllo della salute mentale prima dell’aborto. Si formò così piuttosto velocemente la linea del Piave dell’abortismo psichiatrico e ginecologico: le donne che abortiscono non stanno psicologicamente peggio a causa dell’aborto, ma i problemi psichici sono presenti tra queste in maggiore misura prima dell’aborto e determinano un maggiore rischio di aborto; se si considerano questi fattori l’aborto non esercita alcun impatto negativo sulla salute mentale delle donne che ad esso si sottopongono. Nel 2006 un altro ricercatore, il neozelandese Fergusson, non credente, schierato su posizioni pro-choice, pubblica i risultato di un’indagine in cui più di mille bambini vengono seguiti dalla nascita fino l’età di 25 anni. Pur tenendo di conto di numerosissimi altri fattori che teoricamente potevano influenzare il risultato emerge che le ragazze con esperienza di aborto volontario mostravano un’incidenza di ansia, depressione e pensieri suicidari significativamente superiore alle coetanee che non erano mai rimaste incinte ed a quelle che, incinte, avevano fatto nascere il bambino.

C’è di più, il dottor Fergusson, dopo la pubblicazione dell’articolo, rivela al pubblico
di avere subito pressioni affinché quei dati non fossero pubblicati. Si trattava di una realtà scomoda, un non credente non poteva essere accusato di confessionalismo. Come un orologio il movimento abortista si mise di nuovo al lavoro e trovò la soluzione nella pubblicazione di revisioni della letteratura, la più importante delle quali, nel 2008, ad opera niente di meno che della potente associazione degli psicologi americani, una realtà dove il pensiero relativista è pressoché un dogma di fede. Che tra i sei revisori almeno due, Brenda Major e Nancy Felipe Russo fossero esponenti dichiarati dell’ideologia abortista, ed altri, come Linda Beckman, appartenenti al fronte pro-choice, è dettaglio da non trascurare, tanto che già a nomine appena avvenute, il mondo pro-life esprimeva la certezza di un pronunciamento negazionista. E questo è infatti quanto avvenne; attraverso un sapiente gioco di selezione degli studi e di valutazione differenziata delle problematiche metodologiche a seconda del risultato degli studi, la commissione giunse a concludere che «tra le donne che hanno un singolo aborto legale nel primo trimestre per una gravidanza non programmata per ragioni non terapeutiche, il rischio relativo di problemi mentali non è maggiore del rischio tra le donne che portano a termine una gravidanza non programmata».

Nel 2011 è infine apparsa una medesima revisione del collegio degli psichiatri inglesi
che, seppure in maniera più sfumata, afferma che «i risultati per la salute mentale sono probabilmente gli stessi, indipendentemente che la donna con gravidanza indesiderata opti per l’aborto o la nascita», aggiungendo però uno spunto precauzionale: «se le donne che abortiscono mostrano una reazione emotiva negativa all’aborto, o fanno esperienza di eventi vitali stressanti, dovrebbe essere offerto sostegno e controlli poiché con maggiore probabilità di altre sviluppano un problema di salute mentale». La saga potrebbe sembrare finita qui, ma in effetti non è così. Con una articolo « bomba » apparso sul numero di settembre della rivista degli psichiatri inglesi Priscilla Coleman, specialista con lunga esperienza di studio ed assistenza alle donne in difficoltà psicologica dopo l’aborto, pubblica una revisione dei dati su poco meno di novecentomila donne che per la prima volta assembla le risultanze numeriche provenienti da 22 studi ed il risultato è chiaro: rischio aumentato di ansia, raddoppio dell’abuso di alcool, uso di marijuana più che triplicato, rischio suicidarlo aumentato di due volte e mezzo; nel complesso un aumento dell’81% di problemi psichici a carico delle donne che abortiscono.

L’articolo ha suscitato un prevedibile polverone, accuse di incompetenza scientifica e faziosità
sono state apertamente rivolte all’autrice, critiche al processo scientifico che ha portato all’accettazione dell’articolo da parte sulla rivista e invito al ritiro dello studio hanno caratterizzato il contenuto di numerosi commenti. Accanto a questi, la difesa del prof. Fergusson che ha anticipato un prossimo studio realizzato con lo stesso approccio della Coleman, ma tenendo conto delle critiche rivolte al suo lavoro. Il risultato?  Considerando anche i soli studi in cui le condizioni psichiche erano valutate anche prima dell’aborto, vengono confermati l’incremento del rischio per la salute delle donne che abortiscono (+36%), l’aumento del disturbo d’ansia, dell’abuso di sostanze, dei comportamenti suicidari.

In conclusione credo che la lezione da trarre sia la stessa che abbiamo scritto
al Bristish Journal of Psychiatry che l’ha pubblicata tra le lettere: allo stato delle conoscenze è incontestabile anche per gli stessi abortisti che l’aborto non è per niente terapeutico; a livello di salute pubblica costituisce una procedura per le donne di nessuna utilità al fine della salvaguardia della loro salute mentale, si tratta in sostanza di una procedura futile. A livello fattuale il « serio pericolo per la salute della donna » posto a giustificazione della richiesta di aborto dalla legge italiana non riceve alcuna mitigazione dall’aborto. Vorrà il mondo della politica, dell’informazione, della cultura, della legge prenderne atto e trarne le logiche conseguenze? C’è da dubitarne, ma qui si gioca una buona fetta dell’onestà intellettuale di tanti attori sulla scena; hic Rhodus, hic saltus.

di Renzo Puccetti – La Bussola Quotidiana

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«Femminista, dico basta agli aborti»

Posté par atempodiblog le 18 novembre 2011

Intervista (del 4 dicembre 2005) di Stefano Lorenzetto, per ‘Il Giornale’, ad una ginecologa che ha praticato molti aborti.

«Femminista, dico basta agli aborti» dans Aborto vitar

Mentre parla, sottovoce e con fatica, la ginecologa Rossana Cirillo tiene gli occhi bassi. La parola che ricorre con più frequenza nel suo racconto è «pesante», declinata in tutte le varianti: «peso», «pesantezza», «pesava». In due ore e 51 minuti me la annoterò sul taccuino 15 volte. Dalle pareti dello studio sorridono in fotografia decine di neonati: «Una piccola parte di quelli che ho fatto nascere». Il contrasto con la tormentata mimica facciale della dottoressa è stridente.

Dirigente di primo livello nella divisione di ostetricia e ginecologia dell’ospedale Villa Scassi a Genova, il medico Rossana Cirillo ha deciso dopo 25 anni di togliersi un peso, quel peso, dal cuore: non esegue più aborti. È diventata obiettrice di coscienza nel 2004. Dal 22 maggio 1978, quando entrò in vigore la legge 194, ha praticato fino a 12 interruzioni di gravidanza la settimana. Dagli Anni 90, con l’ondata immigratoria di extracomunitarie, il numero degli interventi è raddoppiato. Per un quinquennio s’è trovata in sala operatoria da sola. È ragionevole supporre che nell’arco di 1.300 settimane abbia effettuato dai 13.000 ai 23.000 aborti. Forse l’istinto d’autoconservazione le ha impedito di tenere la tragica contabilità. Lei non ne parla, io non trovo il coraggio di chiedere.

La dottoressa Cirillo ha deposto cannula d’aspirazione e curette (il cucchiaio) ma non è diventata antiabortista. Anzi, continua a ritenere la 194 una buona legge, nonostante si rifiuti d’applicarla in prima persona. L’impressione è che la coerenza intellettuale faccia aggio sul travaglio interiore. Non può comportarsi altrimenti: entrerebbe in contraddizione con se stessa, con la sua storia di donna e di medico. Ai tempi dell’università animava con le compagne un gruppo d’autocoscienza. È stata tra le fondatrici del collettivo femminista permanente del Manifesto. Ha fatto la ginecologa per sei mesi in Nicaragua col Fronte sandinista. Benché non abbia mai sfogliato Il Giornale in vita sua, ha accettato l’intervista. Prima però è passata dalla pasticceria e al cronista venuto da 300 chilometri di gelo e nebbia fa trovare in ambulatorio tre brioche, due olandesine alla crema e un paio di focacce liguri: indipendentemente dal mio quintale di peso, non posso fare a meno di scorgere un tratto di tralignata generosità nel suo agire.

È nata in una famiglia «cattolica e conservatrice». Da bambina frequentava gli scout. Al liceo era impegnata nel volontariato. Confessa d’aver militato in Gioventù studentesca, ma quando le faccio notare che quel movimento fu fondato da don Luigi Giussani e si trasformò poi in Comunione e liberazione ancora una volta il suo istinto d’autoconservazione ha il sopravvento: «No, no, impossibile! Ma scherza? Non c’entrava nulla, era un’altra cosa». Inevitabile che confluisse nei cattolici del dissenso. «Andavamo a far visita alla comunità dell’Isolotto di don Enzo Mazzi a Firenze, cercavamo di convincere il cardinale Giuseppe Siri che Gesù era povero, quelle cose lì…». Quando le fu chiaro che l’arcivescovo di Genova non avrebbe preso lezioni di catechismo da lei, abbandonò la Chiesa.

Ha figli?
«Due, di 23 e 22 anni. E sono già nonna di una nipotina, Matilde, che ha un anno e mezzo».
Come s’è sentita dopo aver preso la decisione di non praticare più aborti?
«Serena».
Perché ha smesso?
«Preferisco dirglielo alla fine».
In che modo hanno reagito i colleghi che continuano a praticare interruzioni di gravidanza?
«Sono stati comprensivi. Nessuno mi ha giudicata. Hanno capito che non potevo più andare avanti così. Chi mi conosce sa quali pesi ho portato sulle spalle. Per un lungo periodo sono stata l’unico medico di Villa Scassi a fare aborti. Dopo aver preso la decisione, ho aspettato sei mesi prima di smettere. Volevo essere sicura di non danneggiare il servizio».
E adesso?
«Vanno avanti i quattro colleghi non obiettori. Altri otto medici sono obiettori».
In famiglia che cosa le hanno detto?
«Sono stati solidali. Negli ultimi tempi i miei figli spesso mi chiedevano se non mi pesava troppo quello che facevo».
Hanno sempre saputo del suo lavoro?
«Sì, non sono cresciuti con un’educazione cattolica, non hanno il concetto di colpa, di peccato. Però il più grande nutriva qualche perplessità. È contento che abbia smesso».
È lui il padre di Matilde?
«Sì. È ancora studente. La sua ragazza è rimasta incinta».
Si sono chiesti se abortire?
«No, erano molto contenti. Hanno deciso fin da subito di tenersela. Per fortuna non c’erano di mezzo problemi economici ed è nata questa bambina stupenda».
Tornerebbe per qualche motivo a eseguire aborti?
«Be’, se si creassero le condizioni per cui non è garantito il servizio, dovrei riconsiderare la mia decisione».
Quindi non è una decisione definitiva.
«Niente è definitivo nella vita».
A parte la morte.
«Ogni giorno impariamo qualcosa. Le persone che hanno sicurezze assolute non mi convincono. Bisogna stare 25 anni in prima linea per capire… Chi parla pro o contro l’aborto questa realtà non la conosce».
L’Oms calcola che negli ultimi vent’anni siano stati praticati nel mondo un miliardo di aborti. Non le sembra una cifra impressionante?
«Penso che non sia l’unico male del mondo. Esistono anche le guerre, la fame. Negli Stati Uniti gli antiabortisti sono arrivati ad ammazzare i ginecologi che praticano le interruzioni di gravidanza».
In Italia si registrano ogni anno 540.000 nascite e 136.000 aborti. Il rapporto è di una vita soppressa ogni quattro.
«È un dato che dovrebbe far riflettere non solo le donne, ma anche qualcun altro».
Chi?
«I parlamentari che gestiscono le politiche familiari».
Giuliano Ferrara sostiene che finché l’aborto era clandestino faceva parte della legge morale individuale, quella che è «in me» secondo Kant. Un miliardo di aborti legali è diverso: esce da «me» e diventa «noi», ci riguarda, tutti.
«È una responsabilità collettiva anche il fatto che tante donne non possano permettersi d’avere un bambino».
Lo sa che l’aborto libero e legale fu introdotto per la prima volta con la rivoluzione d’ottobre del 1917 in Russia e per la seconda volta nel 1933 con l’avvento al potere del nazionalsocialismo in Germania?
«Non vedo collegamenti con l’Italia, dove è diventato legale sulla base di un movimento d’opinione molto ampio. L’aborto esiste ed esisterà sempre».
Qual è l’identikit della donna che abortisce?
«Ceto medio, età 35-40 anni, sposata, due figli».
Quali sono i motivi per cui una donna rifiuta il bambino?
«Sono cambiati nel tempo. All’inizio influiva molto l’impossibilità d’assicurare al nascituro rapporti affettivi stabili. La gravidanza arrivava in una situazione familiare turbata, con i coniugi che litigavano. Tante pazienti erano giovanissime o tossicomani o avevano deciso a priori di non avere figli. Aggiungerei una ristretta minoranza di donne d’elevato livello culturale nelle quali agiva il desiderio inconscio di dimostrare a se stesse d’essere fertili. Soddisfatto quello…».
Aberrante.
«È un aspetto dell’animo umano».
E oggi?
«Si abortisce perché tutto dev’essere previsto e calcolato: il benessere economico, la carriera professionale, l’acquisto dei beni di consumo. Perciò si decide di fare un figlio solo in età avanzata. Del resto le giovani coppie vivono nella precarietà più totale, non hanno un lavoro fisso, non dispongono dell’alloggio».
Mi sta dicendo che si abortisce per soldi?
«Oggi prevalgono quelli. Negli Anni 80 contava di più l’aspetto interiore, il non sentirsi pronte, il non avere un compagno affidabile. Anche se ultimamente noto un aumento di coppie che, benché prive di sicurezze materiali, decidono di portare avanti la gravidanza. I venticinquenni sono più fiduciosi, positivi, aperti alla vita dei trentacinquenni».
E le immigrate perché ricorrono numerose alla 194?
«Non possono permettersi una gravidanza. Devono lavorare per mandare i soldi in patria, dove magari hanno già dei figli. Africane e ragazze dell’Est vengono qui a prostituirsi, per loro restare incinte è un incidente. Mi sono trovata ad affrontare 30-40 extracomunitarie al colpo, tutte di lingua diversa, assistita da una sola infermiera. Io parlo male l’inglese, ma anche le nigeriane non scherzano. Era impossibile capirsi. Spesso stentavo persino a comprendere se volevano abortire o no».
Il suo collega professor Claudio Giorlandino sostiene d’aver visto donne scegliere l’aborto solo perché il feto aveva sei dita ai piedi, una malformazione operabilissima.
«Io le avrei mandate dallo psichiatra per una consulenza. E comunque, trascorsi i primi 90 giorni, il medico può rifiutare l’intervento. Ho respinto richieste di aborto a 24 settimane. Da questo punto di vista mi sento pulita, in serena coscienza posso dire di non aver mai deciso se un bimbo malformato o mongoloide dovesse nascere oppure no. Era sempre e comunque una scelta della donna, non mia. Tra la madre e il bambino chi vogliamo salvare? Sottovalutare il disagio psichico della gestante significava mettere in conto il rischio di un suicidio. Così avrei perso entrambi».
L’embrione è una persona?
«Eeeh…». (Sorride nervosa). «L’embrione è una persona…». (Riflette). «No, fino a quando non ha una vita autonoma dalla madre».
Il feto è una persona?
«Il feto è una persona…». (Riflette). «Quando può vivere fuori dall’utero».
Cioè quando?
«Già a 24 settimane, più o meno. Dal 1978 a oggi le possibilità di vita autonoma si sono ampliate grazie alla neonatologia».
Le è capitato di praticare aborti a 23-24 settimane?
«Sì, ma in tempi molto remoti».
Che cosa provava nel ritrovarsi fra le mani esserini dai caratteri umani evidenti?
«Eh be’… Diciamo che…». (Tace per 21 secondi). «È una situazione piuttosto pesante. Ma anche vedere le mamme provate lo è. Non me la sentivo di far prevalere il mio disagio sui bisogni di queste donne».
Il feto a chi appartiene?
«A se stesso nella misura in cui è autonomo e alla madre nella misura in cui dipende da lei per la sopravvivenza».
Però la sua struttura vitale è diversa da quella della madre, tant’è vero che se le membrane placentari si rompono, e viene a stabilirsi un contatto diretto fra embrione e gestante, l’organismo di quest’ultima sviluppa degli anticorpi.
«Sì, però qui entriamo nel merito di questioni… Diciamo…». (Riflette). «È come dimostrare o meno l’esistenza di Dio. Chi può stabilire con certezza quando comincia il diritto alla vita?».
La madre dovrebbe essere in grado di autofecondarsi per affermare che il feto le appartiene.
«È vero. Però la donna porta avanti la gravidanza e partorisce. Se l’uomo non vuol partecipare, esce di casa per comprarsi le sigarette e non torna più. La donna ha più responsabilità reali».
Chi le ha insegnato a praticare gli aborti?
«L’isterosuzione col metodo Karman l’ho imparata da sola. Non è una pratica molto diversa dalla revisione della cavità uterina che si esegue nel 95% dei casi di aborto spontaneo. Cinque-dieci minuti in anestesia locale ed è tutto finito».
E dopo il terzo mese?
«Dalle 14 settimane in su la somministrazione delle prostaglandine induce l’aborto e le contrazioni dell’utero, con l’espulsione di un feto non vitale».
Le prostaglandine uccidono il feto?
«A volte sì, a volte no».
Quindi a volte esce vivo?
«Vivo ma non vitale per una manciata di secondi. Per fortuna è da anni che non vedo queste situazioni».
Ha detto «per fortuna».
«Non è una cosa piacevole per nessuno. Non è normale. È un dramma. È un dolore per i medici, per le ostetriche, per tutti. Chi pratica l’aborto non è un irresponsabile incapace di consigliare una scelta diversa. I medici non obiettori sono stati lasciati da soli in trincea, hanno il merito d’aver garantito l’applicazione di una legge dello Stato».
È favorevole alla presenza di volontari antiabortisti nei consultori?
«Ho più probabilità io, che non sono pregiudizialmente contraria all’aborto, di convincere una donna a tenersi il bambino. Sono più credibile».
Ma lei ci provava a convincere le gestanti a rinunciare all’aborto?
«Agli inizi, finché mi è stato possibile, sì».
Con quali argomenti?
«Uno solo: signora, non ho mai conosciuto una donna dispiaciuta d’aver scelto di far nascere un figlio».
E in seguito?
«L’impossibilità, per mancanza di tempo, d’instaurare un rapporto umano è diventata un peso insopportabile. Non avere la certezza che la donna di fronte a me era consapevole di ciò che comportava un aborto, mi ha spaventato. Mi sono chiesta: che cosa sto facendo?».
Ha mai prospettato a una gestante la possibilità di far nascere il figlio e di non riconoscerlo, come ammette la legge?
«No, assolutamente no».
Perché?
«La ritengo una forma di crudeltà. Come si fa a dirle di partorirlo e poi abbandonarlo? Non l’ho mai neppure pensato».
Se torna con la memoria al momento in cui entrava in sala operatoria per interrompere una gravidanza qual è la prima sensazione che le viene in mente?
(Ci pensa). «Ripetitività. Pesante».
Le sono capitati casi di donne che si sono pentite d’aver abortito?
«Sì. Spesso poi hanno avuto un altro figlio».
E donne la cui psiche è rimasta segnata per sempre?
«Ho visto persone soffrire per molti anni fino ad ammalarsi di tumori alla mammella. Più di un caso di questo genere, ho visto».
Dopo aver praticato un aborto è mai stata sfiorata dal dubbio d’aver commesso un omicidio?
«Sì».
Quante volte?
«Tutte le volte che mi sono sentita…». (Riflette). «…che ho sentito la distanza fra me e la donna, che non c’era dialogo con questa persona. Non usiamo la parola omicidio… Qualcosa che non aveva senso, qualcosa di non giusto».
Se tornasse indietro rifarebbe tutto quello che ha fatto?
«Sì».
Adesso può dirmi perché ha smesso di eseguire interruzioni di gravidanza?
«Ho cominciato a non credere più nelle ideologie, a dare importanza a quello che sentivo come vero. Ho aderito a me stessa, a ciò che è giusto e che mi fa star bene».
L’aborto non la faceva star bene.
«No, non mi faceva più star bene. Sono andata a un corso di meditazione tibetana con un maestro tedesco, nelle Marche. Di solito ti mettono in fondo a un pozzo e ti tirano su dopo tre settimane. Io sono rimasta da sola in silenzio per tre giorni e mezzo, chiusa in una stanza buia, le orecchie tappate, gli occhi tappati. Una deprivazione sensoriale totale. Essendo costretti a stare con se stessi, si va oltre se stessi. E lì non ho « pensato » che non me la sentivo più di praticare aborti: ho « sentito » che non me la sentivo più».
Capisco.
«Contemporaneamente è nata Matilde. Una gioia incredibile, un’emozione grandissima. Vedere che la vita continua… Non è stata facile, la mia vita. Il mio primo marito è morto a 33 anni. Però la mia nipotina…». (Piange). «Ho sentito quanta vita c’è».

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Medjugorje e l’aborto

Posté par atempodiblog le 4 novembre 2011

Medjugorje e l'aborto dans Aborto abortoz

P. Livio - [...] Senti, Antonio, tu finisci con un riferimento a Medjugorje, dove la Madonna, che come sappiamo, non ha mai fatto riferimento preciso a dei peccati concreti, però dell’aborto ha detto che è un grave peccato. Che i bambini abortiti sono come angeli in cielo. E poi ha anche detto che chi pratica l’aborto ne risponderà a Dio. Ma nel medesimo tempo c’è anche un episodio bellissimo che desidererei che tu leggessi e che vogliamo dedicare a tutte quelle donne – e sono tantissime – che hanno abortito, e che sanno quale ferita lancinante sia rimasta nella loro anima, perché sia di grande consolazione per loro.

Socci – Si, è tratta da uno dei libri di P. Laurentin, dedicato a Medjugorje, e che dice così: «Una donna profondamente ferita venne a trovare Marija Pavloviç, e le dice: « Vengo da te perché non ho il coraggio di andare da un prete. Non oso confessarmi. Ho abortito otto volte, e ho paura che il prete si arrabbi con me e mi cacci dal confessionale, ma penso che tu possa fare qualcosa. Puoi chiedere alla Santa Vergine di aiutarmi. Non riesco più a dormire. Sono depressa. Ho tanti disturbi e soffro terribilmente. Tu capisci, mio marito era talmente contrario alla vita… avevamo molti mezzi, ma ora non posso più avere figli. Puoi confidare tutto questo alla Madonna? »».

Marija, che si è sempre mostrata attiva nel fare amare e proteggere la vita – fra l’altro a quel tempo Marija era incinta – Marija ascolta quella donna con amore, e la sera stessa la affida alla Vergine. «Allora la Madonna ci ha sconvolto ancora una volta con la straordinaria speranza che sa infondere in noi suoi figli, soprattutto quando tutto sembra umanamente impossibile». Infatti la Madonna rispose a Marija: «Ora sarà lei a portare la vita per aiutare gli altri». Infatti la donna si riconciliò con Dio, si confessò, e il suo cuore venne così trasformato, che oggi testimonia con forza la guarigione di tutta se stessa, ottenuta per la misericordia di Dio. Ora prova una gran gioia di vivere e fa un gran bene con la sua testimonianza che ha già incoraggiato molte madri a tenere il bambino che aspettano. È in questo modo che Maria desidera agire in ognuno di noi. Delle nostre ferite di morte vuole fare fonti di vita. Se solo noi offriremo a Gesù tutto il male che ci si è accumulato dentro, Lui ci guarirà attraverso le sue piaghe eternamente gloriose».

P. Livio – Molto bello! E così, solo così, il mondo sarà salvo! Quindi è una luce di speranza davanti a noi!

Socci – Posso dire che sono rimasto impressionato nel vedere come queste parole della Madonna sono praticamente le stesse papa Giovanni Paolo II aveva usato nell’Evengelium vitae? Ed egli si rivolgeva alle donne che avevano abortito. È impressionante la tenerezza con cui il Papa parla loro. Anche la consolazione che dà loro dicendo che « i vostri bambini sono accanto al Signore ». E poi dice: «Non lasciatevi prendere dallo scoraggiamento e non abbandonate la speranza. Sappiate comprendere piuttosto ciò che si è verificato e interpretatelo nella sua giusta verità. Se ancora non l’avete fatto, apriteli con umiltà e fiducia al pentimento. Il Padre di ogni misericordia vi aspetta per offrirvi il suo perdono e la sua pace nel sacramento della Riconciliazione. Vi accorgerete che nulla è perduto. E potrete chiedere perdono anche al vostro bambino, che ora vive nel Signore. Aiutate dal consiglio e dalla vicinanza di persone amiche e competenti, potrete essere, con la vostra sofferta testimonianza, tra i più eloquenti difensori del diritto alla vita di tutti!». Esattamente le stesse parole che ha detto la Madonna!

P. Livio – Si, normalmente, anche oggi, il Papa e la Madonna dicono le medesime cose, e questo per noi è un grande segno.

Il genocidio censurato – Conversazione di Padre Livio con Antonio Socci
Presentazione del libro « Il genocidio censurato. Aborto: un miliardo di vittime innocenti ».

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Degna sepoltura per i bimbi non nati

Posté par atempodiblog le 31 juillet 2011

Degna sepoltura per i bimbi non nati dans Aborto fetobambinochedorme

La notizia non è nuova, ma ha ora un certo rilievo sui grandi media: a Caserta, l’associazione Difendere la vita con Maria, fondata e presieduta da don Maurizio Gagliardini, ha siglato un protocollo di intesa, approvato con delibera del 22 luglio 2011, con l’Azienda ospedaliera Sant’Anna e San Sebastiano, per promuove il seppellimento dei «bambini non nati».

Il sindaco della città ha dato la propria disponibilità a concedere un apposito spazio nel cimitero cittadino, ma, come sempe in questi casi, si è levata, violenta e intollerante, la voce di alcuni protestatari – rappresentati dal sindacato medico Fp-Cgil Medici – che sono divenuti, per il Corriere della Sera, « i medici » tout court. Il che non dovrebbe essere, dal momento che nel nostro Paese la maggioranza dei ginecologi sono obiettori e quindi ritengono l’aborto quantomeno qualcosa di negativo. Secondo il sindacato di sinistra, si tratterebbe di «violenza psicologica sulle donne da fermare».

A queste lamentazioni, si è unito, puntuale e immancabile, l’anatema dei Radicali, con un comunicato di Maria Antonietta Farina Coscioni, che comincia così: «Apripista è stata la regione Lombardia di Formigoni, che ha varato provvedimenti che vanno ben oltre le sue competenze disponendo la sepoltura dei feti come fossero esseri umani e mettendo in essere una vergognosa speculazione». Perché tanta rabbia, tanto ingiustificato livore?

A Caserta, infatti, non è successo nulla di nuovo, sia perché la sepoltura dei feti, morti per aborto spontaneo, o uccisi tramite ivg, è già realtà in varie zone del nostro paese, come, appunto, la Lombardia, sia perché nulla cambia, dal punto di vista della legge 194, in quanto l’aborto procurato rimane libero e gratuito, esattamente come prima. Cerchiamo di capire come stanno i fatti.

Nel nostro Paese è previsto il seppellimento dei feti superiori alle 20 settimane, le cui fattezze umane così evidenti e visibili impediscono anche ai più cinici di gettare questi resti umani nell’inceneritore. Un dpr del 21 ottobre 1975, n. 803, stabilisce, all’articolo 7, «su richiesta dei genitori il seppellimento anche dei prodotti di concepimento abortivi di presunta età inferiore alle 20 settimane». Proprio sulla base di questo dpr, l’allora ministro alla Sanità Donat Cattin emanò la circolare telegrafica n.500/2/4 del 13 marzo 1988, tutt’ora in vigore, in cui si stabiliva la sepoltura di feti anche in assenza di richiesta dei genitori, e si ricordava che «lo smaltimento attraverso rete fognante o i rifiuti urbani ordinari costituisce violazione del Regolamento di polizia mortuaria e del Regolamento di igiene», mentre lo «smaltimento attraverso la linea dei rifiuti speciali, seppur legittimo, urta contro i principi dell’etica comune».

Il dpr n. 285 del 1990 prevede ugualmente che i bambini, definiti «prodotti abortivi», di età gestazionale dalle 20 alle 28 settimane vengano sepolti a cura della struttura ospedaliera. A richiesta dei genitori possono essere raccolti nel cimitero, con la stessa procedura, i resti di «prodotti del concepimento» di età inferiore alle 20 settimane. In questo caso i genitori, a titolo proprio, o associazioni come quella fondata da don Gagliardini, attraverso convenzioni mirate, possono raccogliere i resti dei bambini non nati e chiedere all’unità sanitaria locale i relativi permessi del trasporto e del seppellimento. Infine dovranno accordarsi con i servizi cimiteriali, per l’atto di pietà dell’inumazione.

Riassumendo: i feti oltre le 20 settimane hanno automatico diritto alla sepoltura, anche se sovente questo avviene con ben poca cura (in modo anonimo, cumulativo, senza possibilità di conoscere il luogo), mentre per quelli più piccoli sarebbe richiesta un’analoga pietas, trattandosi pur sempre di resti umani, ma nella realtà dei fatti essi finiscono spesso bruciati nell’inceneritore insieme ai « rifiuti speciali », quando non buttati, come un tempo avveniva sicuramente più spesso, nelle fogne.

«La nostra associazione – spiegano Maria Luisa e Francesca, dell’associazione Life di Ospedaletto Euganeo, che si occupa proprio della sepoltura dei feti – è cominciata agli inizi del 2000 in seguito alla richiesta di una madre, che aveva perso il proprio bambino nelle prime settimane di gestazione. Questa madre desiderava sapere se poteva salutare il suo bambino attraverso un rito religioso. Da allora abbiamo capito l’importanza di venire in aiuto al dolore di alcune madri, e nello stesso tempo di compiere un atto dovuto a creature umane. Proprio in questi giorni una famiglia che si trova nel dolore per la perdita del proprio figlio, ha richiesto di poter seppellire il proprio bambino, morto a 18 settimane di gestazione, e ha richiesto il nostro aiuto. Il rito ha avuto luogo giovedì 12 maggio alle ore 8.30 presso l’ospedale di Monselice», che è uno dei tanti, oltre a quello di Caserta, ad aver riconosciuto questa possibilità.

La sepoltura dei feti non è però, come si potrebbe pensare, un sollievo solo per le madri che hanno visto morire un bambino desiderato, e che per questo sentono il dovere di tributargli un ultimo gesto di affetto. Può esserlo anche per quelle che, essendosi sottoposte all’aborto procurato (spesso spinte da qualcuno, dalla solitudine, dalle circostanze, da una cultura disumana…), sono poi cadute, come spesso accade, in un profondo stato di desolazione, e cercano quantomeno un luogo in cui piangere, per non essere del tutto impotenti di fronte al fantasma del loro bambino, rimpianto e perduto, ma non scomparso dal loro cuore.
Rimangono a questo punto da proporre alcune considerazioni.

La prima: gli abortisti aborrono la sepoltura dei feti, tirando in ballo contro di essa ora « i costi », ora la « violenza psicologica sulle donne », perché seppellire un feto significa riconoscergli una dignità. Significa riconoscere che è un essere umano.
Invece la mentalità abortista, ben esemplificata nella frase menzognera della Coscioni («…feti come fossero esseri umani…»), vuole che questo non avvenga: lotta perché nell’immaginario collettivo, nonostante le evidenze scientifiche, accessibili con qualsiasi ecografia, un feto rimanga un « grumo di cellule », un qualcosa di indistinto, di inumano; lotta perché abortire o partorire siano due decisioni esattamente equivalenti, in ogni circostanza. Per questo gli abortisti devono negare completamente la realtà del bambino nell’utero materno, ad ogni stadio, e anche dopo la morte.

La seconda considerazione porta un po’ più lontano, al senso stesso della vita e della morte, e quindi anche della sepoltura. Un poeta ateo come Ugo Foscolo notava che «dal dì che nozze tribunali ed are dier alle umane belve esser pietose di se stesse e d’altrui», gli uomini provvidero a seppellire i loro morti, sottraendoli alle ingiurie degli animali e degli agenti atmosferici. Foscolo riteneva che gli uomini fossero solo materia: eppure, dimostrando una lodevole e significativa incoerenza, negava potesse essere « civile » una società che sottrae ai suoi morti un ultimo tributo. La sepoltura è infatti un segno chiaro della dignità umana.

Solo gli uomini, infatti, seppelliscono i loro simili, dalla notte dei tempi. Le bestie mortali non lo fanno. Uno scienziato contemporaneo, anch’egli ateo, come Edoardo Boncinelli sostiene che tutto ciò che esiste, in un universo, anche umano, solo materiale, è sempre in vista di qualche utilità concreta. Eppure, nota in un suo libro, il fatto che gli uomini abbiano sempre seppellito i loro defunti, è, da un punto di vista puramente naturalistico e materialistico, ingiustificabile, incomprensibile. A meno che, diciamo noi, non si riconosca che l’uomo, da sempre, ha visto nei suoi cari qualcosa di più della loro carne, della loro materia: cioè una vita spirituale, un destino eterno, immortale.

Ecco, coloro che seppelliscono oggi i feti abortiti, spontaneamente o in modo procurato, saranno un giorno ricordati per la loro coraggiosa testimonianza: si dirà che in un’epoca di disumanità – che ha partorito lager e gulag, guerre mondiali e sperimentazioni sugli uomini, tentativi di clonazione e pompe Karman per fare a pezzi i bambini -, qualcuno ha lottato, con gesti simbolici e umanizzanti, per affermare la dignità di ogni singolo uomo, piccolo o grande, di 20 settimane o di 25, sano o malato che fosse. Si dirà che in tempi di feroce ateismo, quando la legge di Dio è stata sostituita dal capriccio e dall’arbitrio di ogni singolo uomo, cioè dalla legge del più forte, qualcuno ha voluto tener viva la sacra pietas e, con essa, la differenza che corre tra le cose e le persone, tra un tumore strappato dalla carne, e gettato nel water o tra i “rifiuti speciali”, e un bimbo, strappato, suo malgrado, dal grembo di sua madre e dal cuore di suo padre.

di Francesco Agnoli – La Bussola Quotidiana

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Il bambino nato tre volte

Posté par atempodiblog le 13 juin 2008

Il miracolo del piccolo Finley, il bambino nato tre volte
La madre prendeva la pillola. Quando ha scoperto di essere incinta ha provato ad abortire: però il bimbo è sopravvissuto
di Luca Doninelli, da “il Giornale” del 9 giugno 2008

Il bambino nato tre volte dans Aborto vitar

La prima cosa che il mondo ha saputo, a proposito di Finley Crampton, è che ha le orecchie a sventola. Le ha prese da papà. Dalla mamma ha preso invece il colore chiaro degli occhi.

Finley non si trova qui da ieri. Ha già sei mesi, sta piuttosto bene ed è cittadino inglese. E, se il buongiorno si vede dal mattino, possiamo stare certi che di lui sentiremo parlare ancora.

Finley infatti è vivo perché né la pillola anticoncezionale né un aborto terapeutico sono riusciti a sradicarlo dal grembo nel quale aveva cominciato a esistere, 19 settimane prima di apparire davanti agli occhi stupefatti dei medici di un ospedale del Nottinghamshire, gli stessi che 11 settimane prima avevano cercato di toglierlo di mezzo.

Quella di Jodie, la mamma, è una storia dolorosa. Jodie è portatrice di una malattia genetica che le è costata la perdita del primo figlio, a solo venti minuti dalla nascita, e la grave menomazione del secondo, di un anno maggiore di Finley. Per questo aveva deciso di non avere più figli, cominciando ad assumere sistematicamente la pillola. Accortasi, con stupore, di essere nuovamente incinta, era tornata in ospedale per abortire, ci ha provato e il risultato di tutta questa vicenda è che Finley è qui. Non si tratta, come si vede, di una storia di accanimento terapeutico, ma solo di una storia dolorosa con un inaspettato lieto fine, e questo non è perciò un articolo antiabortista, nel senso che la vita va ben oltre l’antiabortismo. La vita, che tendiamo a dare per scontata, e che richiede viceversa la nostra massima attenzione.

Quello che Finley ha da insegnarci, è per tutti. Ci insegna che la vita non è un «principio», un’idea, un’astrazione, ma un fatto, una cosa. Ricordate – dice Finley – che la vita è questa cosa che i medici del Nottinghamshire si son trovati davanti, restando con un palmo di naso dopo aver fatto il possibile per eliminarla. Certo, l’aborto può essere stato eseguito male, e il dosaggio delle pillole mal calibrato. Posso spingermi a pensare che la regolarità di Jodie nell’assunzione della pillola non sia stata esemplare, e che Jodie, nel fondo del cuore, desiderasse ardentemente altri figli dopo i primi due.

Nulla toglie però che si debba fare chapeau davanti alla vita, che diventa non solo trifoglio o mosca o gallina, ma uomo: alla sua tenacia, alla sua dura volontà, alla sua irriducibilità. La vita non coincide con i nostri programmi, è quello che è. Dirle di sì è l’accettazione di quello che tutta la cultura in cui siamo immersi ci insegna a odiare, perché la cultura in cui siamo immersi ci dice che la vita ha un senso solo se è come noi vogliamo.

E in questo, scusatemi se insisto, fa poca differenza l’ideologia di riferimento. Un cattolico sa bene,se non ha perso il cervello, com’è facile anche per lui accontentarsi della sua vita cattolica «bell’e fatta», come diceva Péguy. E la cultura dominante non si esprime tanto nell’abortismo (che è solo una conseguenza), quanto piuttosto in questa mediocrità, che spesso rimane anche quando ci si trasforma in fanatici e urlanti difensori dei più sacri principi.

La vita è il contrario di questo. Soprattutto in quello che è, come si diceva, il suo esito più inimmaginabile e in qualche modo più inaccettabile: l’uomo (un bel gattino è molto più accettabile).

Scrisse Hannah Arendt: «Gli uomini, nella misura in cui sono qualcosa in più che un fascio di reazioni animali e un adempimento di funzioni, sono del tutto superflui per il regime. Questo infatti non mira a un governo dispotico sugli uomini, bensì appunto a un sistema che li renda superflui».

Perciò che Dio benedica te e le tue orecchie a sventola, Finley, e con te questa cosa imperfetta, sporca, piena di guai, ma tenace e invincibile, che è la vita. Il solo augurio umano che possiamo fare a noi stessi è di riuscire ad affrontare fatiche e dolori nello stesso modo in cui tu hai affrontato i tuoi.

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Lettera di un bambino abortito alla madre

Posté par atempodiblog le 14 janvier 2008

E’ stata:
· Letta a Radio Maria
· Pubblicata sulla rivista telematica Pathway Journal di ottobre 1999
· Pubblicata sulla rivista Teologica n.23
· Pubblicata sulla Rivista « Medjugorje Torino »
· Pubblicata nel sito lavoce.an.it
· Pubblicata nel sito genitoricattolici.org

Cara mamma,

tu non mi conosci in quanto, quand’ero ancora nel tuo grembo, hai deciso che la mia vita venisse soppressa con l’aborto. Ma, rifiutato dagli uomini, sono stato raccolto dal Signore che ha detto: « Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se queste donne si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai » (Is. 49,15). E Dio d’amore, in virtù dei meriti di Gesù Cristo e delle preghiere della Chiesa e di tutti i santi, mi ha portato nel Paradiso.

Essendo morto da piccolo, non in grado quindi di compiere il bene ed il male e di discernerlo, non sono stato sottoposto al giudizio come invece accadrà a te ed agli altri uomini nel momento della morte. Io so che sei stata sedotta da certi falsi maestri che, come Lucifero con Eva, ti hanno fatto credere che si trattava « solo di un’interruzione della gravidanza », mentre il Papa con l’enciclica « Evangelium vitae » ha chiarito che invece è un peccato mortale. So che non hai mai letto la Bibbia e neppure tale enciclica, mentre preferivi passare ore davanti alla televisione, strumento utile ma che gli uomini hanno reso un moderno vitello d’oro. Se tu avessi letto la Parola di Dio avresti meditato il libro sapienziale del Qoelet che insegna « Per ogni cosa c’è il suo momento, il suo tempo per ogni faccenda sotto il cielo« . Avresti quindi atteso il momento propizio per compiere quegli atti d’amore che mi hanno dato vita in un momento per te indesiderato. Credendoti libera ed emancipata secondo le teorie del mondo, ti sei trovata « prigioniera » della mia presenza che ti avrebbe impegnata in compiti e responsabilità per le quali non ti sentivi matura. Nonostante i consigli di chi, ispirato da Dio, ti stimolava ad affidarti comunque alla Sua provvidenza, come fece Agar nel deserto ed altre donne bibliche antesignane di Maria Santissima che ha avuto la massima fiducia in Dio, tu hai preferito sbarazzarti di me. Padre Pio, durante la confessione di una donna che aveva abortito, le mostrò in visione un papa osannato dalle folle dicendole che Dio aveva progettato per suo figlio un tale ruolo. Ma io, dal Paradiso, ti amo lo stesso e prego perché tu ti salvi. In molti casi la preghiera dei bambini abortiti è l’unica orazione, unita a quella di qualche familiare, recitata incessantemente a favore della loro madre. Se sentirai dei rimorsi, sappi che, come è successo a tante madri che hanno abortito, tali rimorsi sono una grazia che va accolta e perfezionata con la confessione del tuo grave peccato, che il Signore d’infinita misericordia arde dal desiderio di perdonare; ma non può farlo senza il tuo pentimento. Non trascurare tale grazia ed affrettati a sbarazzarti del grave peccato. Da tale peccato devi liberarti il più presto possibile per la tua serenità e per la gioia di Dio che ha detto « Così, vi dico, ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione » (Lc. 15,7). Poiché ti amo non desidero che tu, incurante dei richiami alla conversione ed al pentimento, finisca nell’inferno che esiste ed è esattamente come la Madonna, mia Madre in cielo, l’ha mostrato ai veggenti di Fatima e di Medjugorje. Anche se andrai da medici o psicologi per tentare di allontanare il « rimorso provvidenziale », nessun di loro potrà mai cancellare la tua colpa, ma un sacerdote sì.

Tuo figlio mai nato.

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