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Il Paradiso era tra le sue braccia

Posté par atempodiblog le 26 décembre 2024

Il Paradiso era tra le sue braccia dans Citazioni, frasi e pensieri Mamma-Maria-e-il-Bambino

Ogni madre, quando abbraccia una nuova vita nata da lei, alza gli occhi al cielo per ringraziare Dio del dono che ancora una volta ha reso giovane il mondo. Ma c’è una madre, la Madonna, che non alzò lo sguardo. Maria guardò in basso, verso Gesù Bambino, perché il Paradiso era tra le sue braccia.

del venerabile Fulton John Sheen

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Perché sant’Alfonso dice che i pastori, accorrendo alla mangiatoia, trovarono nel viso di Gesù un “morso” di Paradiso?

Posté par atempodiblog le 26 décembre 2024

Perché sant’Alfonso dice che i pastori, accorrendo alla mangiatoia, trovarono nel viso di Gesù un “morso” di Paradiso?
Fonte: Il Cammino dei Tre Sentieri

Perché sant’Alfonso dice che i pastori, accorrendo alla mangiatoia, trovarono nel viso di Gesù un “morso” di Paradiso? dans Canti Adorazione-dei-pastori

Una strofa del celebre canto Quanno nascette ninno di sant’Alfonso Maria de’ Liguori recita così: “Correttero i Pasture a la Capanna; Là trovajeno Maria / Co Giuseppe e a Gioja mia; / E ‘n chillo Viso / Provajeno no muorzo e Paraviso.” Che tradotto dal significa: “Corsero i Pastori alla Capanna e là trovarono Maria con Giuseppe e la Gioia mia e in quel viso provarono (cioè gustarono) un morso di Paradiso.”

Soffermiamoci sul termine “muorzo”, cioè “morso”. “Morso” sta significare “boccone”, ovvero un qualcosa che si gusta come antipasto. Ebbene, questa espressione alfonsiana ci presenta due importanti verità.

La prima verità è che scegliendo Cristo noi possiamo vivere un “morso”, cioè un “anticipo” di Paradiso già su questa terra. In che senso? Non nel senso che la vita cristiana faccia sparire qualsiasi prova o sofferenza, tutt’altro, visto che il cristiano deve uniformarsi al Cristo crocifisso, bensì che la sofferenza che comunque ci tocca, con Cristo, acquista senso e diventa alternativa a qualsiasi disperazione, cioè a qualsiasi assenza di speranza. Infatti, ciò che ci sembra negativo, alla luce di Dio, non è tale, anzi.

Giovanni Pascoli (1855-1912) nel suo La mia sera scrive: “O stanco dolore, riposa! / La nube del giorno più nera / fu quella che vedo più rosa / nell’ultima sera.” Certamente Pascoli, in considerazione delle sue idee, non alludeva alla risposta cristiana; ma è interessante come poeticamente ci dica che non bisogna mai disperare…perché anche un giorno “nero” può produrre una nube “rosa” nell’ultima sera.

La seconda verità che ci fa capire l’espressione alfonsiana “…in quel viso provarono un morso di Paradiso” è che la vita cristiana è gusto ed è bellezza, infatti il morso richiama l’assaporamento. La Verità cattolica è Bellezza. Cristo va conosciuto, ma non per collocarlo all’interno di una serie di grandi maestri e pensatori; no! Cristo va conosciuto (e bisogna conoscerlo: guai a costruirsi un Cristo a proprio uso e consumo), ma per amarlo, cioè per gustarlo. Con Lui, solo con Lui, la vita si illumina di splendore. Splende ciò che non ha in sé una luce propria, ma è capace di riflettere la luce che le viene donata. Lo splendore rende bello tutto, perché è quel luccichio che definisce e fa risaltare tutto, anche i dettagli più nascosti.

Diceva santa Teresina che è bello pensare che anche un piccolo ed insignificante gesto come raccattare un ago da terra, se fatto per amore di Cristo, rimane scolpito nell’eternità nella serie dei gesti santi. E quindi quel piccolissimo gesto diverrà nell’eternità più importante di qualsiasi gesto che il mondo avrà potuto ritenere eroico ma fatto senza l’amore di Cristo. Dunque, con Gesù la vita di ognuno di noi può splendere. Dunque, ecco perché sant’Alfonso dice che quando i pastori andarono alla capanna scoprirono nel viso di quel Bambino “…nu muorzo e Paraviso”.

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Natale: un calore che scioglie i cuori induriti

Posté par atempodiblog le 25 décembre 2024

Natale: un calore che scioglie i cuori induriti
L’intervento del Presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione: per quanto ci si impegni ad oscurarne il significato, questa rimane la festa che unisce tutti, credenti e atei
di Davide Prosperi – Corriere della Sera

Natale: un calore che scioglie i cuori induriti dans Articoli di Giornali e News Santo-Natale-di-Ges

Caro direttore,
in una recente intervista al Corriere, Lorenzo Jovanotti dice a un certo punto, commentando Imagine di John Lennon: «Un mondo senza religioni sarebbe peggiore, perché la fede è la cosa più umana di te. (…) Il punto non è liberarsi delle religioni; è liberarci». E più avanti: la Chiesa è «casa mia». In questo, Jovanotti descrive un’esperienza che è anche la mia. Ma soprattutto ha espresso una posizione rivoluzionaria rispetto al pensiero comune.

Le sue parole aprono interrogativi che credo riguardino tutti: in che senso la fede può liberarci? E in che modo la Chiesa, cioè una realtà umana fatta di persone limitate e fragili come tutti, può essere luogo di vera liberazione? Sembra solo una favola, o un’assurdità. C’è però un dato innegabile: tutti hanno il desiderio di essere davvero liberi. Liberi da quel sentimento d’essere niente, numeri casuali persi in una massa indistinta; un sentimento che neanche l’espandersi di una libertà fondata sui diritti e sulla tecnologia è in grado di sopire.

Ci ritroviamo così a sopprimere questo desiderio con svariate distrazioni, immersi in una cultura che fa di tutto per favorirle. E dunque? Scrive Italo Calvino, riferendosi a quella sorta di “inferno” che è spesso la vita quotidiana: «Due modi ci sono per non soffrirne; il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più; il secondo è rischioso ed esige attenzione ed approfondimento continuo, cioè cercare e saper riconoscere chi e che cosa in mezzo all’inferno non è inferno e farlo durare, e dargli spazio».

In apparenza, di fronte al moltiplicarsi di guerre e di episodi di intolleranza e violenza, di fronte all’aridità che spesso prevale nelle nostre giornate, viene la tentazione di rassegnarsi al primo modo. A meno che, in mezzo all’inferno, ci sia davvero qualcosa che inferno non è. Don Giussani commenta così la frase di Calvino: «“Chi e che cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno”. È accaduto, questo! (…) il Destino, il Destino nostro, si è reso Presenza. Ma Presenza come padre, madre, fratello, amico, come un compagno improvviso di cammino. Un compagno di cammino: Emmanuele, il Dio con noi! È accaduto questo!». In un momento preciso della storia, è accaduto qualcosa di nuovo che ha cambiato tutto. Eppure, senza apparentemente cambiare niente.

Ecco la cosa veramente “rivoluzionaria” del Natale. Che cosa può cambiare infatti un bambino che giace in una mangiatoia? Per quanto ci si impegni ad oscurarne il significato, questa rimane la festa che unisce tutti, credenti e atei. Quasi inconsciamente tutti sentono lo strano, paradossale calore che si sprigiona da quel neonato che giace al freddo. Un calore che scioglie i cuori induriti, che unisce e riconcilia, ridando speranza. Non credo sia un caso che il Natale si tenda a festeggiarlo con i propri cari. È proprio a Natale, davanti a questo Dio bambino che dorme tra le braccia di sua madre, che riscopriamo il potere che anche i nostri fragili corpi hanno di dirci gli uni gli altri ciò che è più essenziale, scambiandoci l’unica parola che davvero libera: sei amato. Don Giussani diceva che «occorrerebbe guardare alla famiglia come all’esempio più impressionante dell’Incarnazione».

Attraverso la pochezza apparente della nostra umanità continua a passare il calore della compagnia di Dio alla nostra vita: padre, madre, fratello, amico. Dante allude a tutto questo da par suo, nel XXX Canto del Purgatorio: “Io vidi già nel cominciar del giorno / la parte oriental tutta rosata, / e l’altro ciel di bel sereno addorno; / e la faccia del sol nascere ombrata, / sì che per temperanza di vapori / l’occhio la sostenea lunga fiata”. Come l’intensità abbagliante della luce del sole diviene all’alba sopportabile alla vista, grazie ai “vapori rosacei” che a quell’ora la “temperano”, così, l’amore divino, si rende afferrabile, percepibile, attraverso il “rosa” della nostra carne, attraverso cioè una compagnia umana. Non c’è un annuncio più paradossale e al tempo stesso più ragionevole. Ed io mi ritrovo a dire, con umile gratitudine, assieme a tanti altri amici, che questa compagnia guidata dal Papa, la Chiesa, “è casa mia”. Con il desiderio di darle spazio, offrendola a tutti.

L’autore è Presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione

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Giubileo, il Papa apre la Porta Santa: “Portiamo speranza nei luoghi profanati da violenze”

Posté par atempodiblog le 25 décembre 2024

Giubileo, il Papa apre la Porta Santa: “Portiamo speranza nei luoghi profanati da violenze”
Francesco compie il rito che dà inizio all’Anno Santo. Per primo attraversa il varco di San Pietro, dietro di lui oltre 50 pellegrini di ogni angolo del mondo in abiti tradizionali. Circa 25 mila persone in Piazza, altre 6 mila in Basilica dove il Pontefice celebra la Messa della Notte di Natale. Nell’omelia l’invito a “trasformare” un mondo piagato da povertà, schiavitù, conflitti: “Pensiamo ai bambini mitragliati, alle bombe su scuole e ospedali”
di Salvatore Cernuzio – Vatican News

Giubileo, il Papa apre la Porta Santa: “Portiamo speranza nei luoghi profanati da violenze” dans Articoli di Giornali e News Il-Santo-Padre-Francesco

In silenzio, sulla sedia a rotelle, con il capo chino in preghiera e l’espressione assorta. Due colpi alle valve di bronzo tra le formelle che narrano la storia della salvezza. La Porta Santa della Basilica di San Pietro si spalanca e Papa Francesco per primo la attraversa.

Inizia il Giubileo. Inizia l’Anno Santo della speranza. Inizia il tempo delle indulgenze, del perdono, della rinascita, del rinnovamento. Il tempo dell’impegno a “portare speranza là dove è stata perduta”.

Dove la vita è ferita, nelle attese tradite, nei sogni infranti, nei fallimenti che frantumano il cuore; nella stanchezza di chi non ce la fa più, nella solitudine amara di chi si sente sconfitto, nella sofferenza che scava l’anima; nei giorni lunghi e vuoti dei carcerati, nelle stanze strette e fredde dei poveri, nei luoghi profanati dalla guerra e dalla violenza

“Pellegrini di speranza” da ogni angolo del mondo
Il momento è solenne. I rintocchi delle campane accompagnano il lento incedere di Francesco. I fedeli – 25 mila fuori nella Piazza a seguire la celebrazione dai maxi schermi, circa 6 mila all’interno di San Pietro –, che fino a quel momento hanno atteso l’arrivo del Papa con la preghiera, rimangono per tutto il tempo in silenzio. Si uniscono alla Schola Cantorum intonando l’inno d’ingresso che risuona nell’atrio e all’esterno.

Cinquantaquattro pellegrini di diverse nazionalità, anche da Cina, Iran e zone dell’Oceania, attraversano la Porta Santa dopo il Papa. Si vedono copricapi piumati, cerchietti di fiori, sombrero, turbanti, mettersi in fila e attraversare il varco che il Pontefice chiuderà il 6 gennaio 2026. Sono i primi “pellegrini di speranza”, insieme a cardinali, vescovi, concelebranti, rappresentanti di altre religioni cristiane, autorità tra cui il sindaco di Roma, Roberto Gualtieri, e la premier Giorgia Meloni.

Il dolore per le guerre
“A ogni uomo e donna sia dischiusa la porta della speranza… che non delude”, scandisce Francesco durante il rito nell’atrio della Basilica. Ha il volto serio, ma negli occhi si legge la commozione. È al suo secondo Giubileo, dopo quello straordinario indetto nel 2016 per ricordare al mondo l’importanza della Misericordia. Questo è il XXVII Anno Santo ordinario della Chiesa cattolica, oltre mille anni dopo il primo, venticinque dopo il “grande Giubileo” di San Giovanni Paolo II che traghettò la Chiesa nel nuovo millennio. Ora un Papa ottantottenne, “venuto dalla fine del mondo”, vuole dare un’iniezione di speranza ad un mondo afflitto come mai negli ultimi decenni da crisi, violenze, guerre che costringono ad assistere a scene drammatiche come “bambini mitragliati” o “bombe su scuole e ospedali”, come Francesco denuncia – a braccio – nell’omelia della successiva Messa della notte di Natale.

Questa è la notte in cui la porta della speranza si è spalancata sul mondo; questa è la notte in cui Dio dice a ciascuno: c’è speranza anche per te! C’è speranza per ognuno di noi. Ma non dimenticatevi, sorelle e fratelli, che Dio perdona tutto, Dio perdona sempre

La speranza una promessa, non un happy end
La “speranza cristiana” che si fa dono nel tempo giubilare “non è un lieto fine da attendere passivamente”, “non è l’happy end di un film”, bensì “la promessa del Signore da accogliere qui e ora, in questa terra che soffre e che geme”, dice il Papa in una Basilica gremita, ornata di fiori, dove all’altare è esposta la statua della Madonna Madre della Speranza. Questa speranza è “qualcos’altro”; chiede di muoverci “senza indugio” verso Dio. “A noi discepoli del Signore, infatti, è chiesto di ritrovare in Lui la nostra speranza più grande, per poi portarla senza ritardi, come pellegrini di luce nelle tenebre del mondo”.

“La speranza non è morta, la speranza è viva, e avvolge la nostra vita per sempre!”

Trasformare il mondo
“Fratelli e sorelle, questo è il Giubileo, questo è il tempo della speranza!”, esclama Papa Francesco. L’Anno Santo “ci invita a riscoprire la gioia dell’incontro con il Signore, ci chiama al rinnovamento spirituale e ci impegna nella trasformazione del mondo, perché questo diventi davvero un tempo giubilare: lo diventi per la nostra madre Terra, deturpata dalla logica del profitto; lo diventi per i Paesi più poveri, gravati da debiti ingiusti; lo diventi per tutti coloro che sono prigionieri di vecchie e nuove schiavitù”.

“Senza indugio”
Il Papa invita a mettersi in cammino “senza indugio” così da “ritrovare la speranza perduta, rinnovarla dentro di noi, seminarla nelle desolazioni del nostro tempo e del nostro mondo”. Tante desolazioni: “Pensiamo alle guerre”, afferma il Papa. “Non indugiare”, “non trascinarci nelle abitudini”, “non sostare nelle mediocrità e nella pigrizia”, esorta ancora. La speranza “ci chiede di farci pellegrini alla ricerca della verità, sognatori mai stanchi, donne e uomini che si lasciano inquietare dal sogno di Dio, il sogno di un mondo nuovo, dove regnano la pace e la giustizia”.

La speranza che nasce in questa notte non tollera l’indolenza del sedentario e la pigrizia di chi si è sistemato nelle proprie comodità, e tanti di noi abbiamo il pericolo di sistemarci nelle nostre comodità. La speranza non ammette la falsa prudenza di chi non si sbilancia per paura di compromettersi e il calcolo di chi pensa solo a sé stesso; è incompatibile col quieto vivere di chi non alza la voce contro il male e contro le ingiustizie consumate sulla pelle dei più poveri

“Audacia”, “responsabilità”, “compassione”, sono le strade che indica il Vescovo di Roma in questo tempo speciale, a partire già da questa notte in cui si apre la “porta santa” del cuore di Dio: “Con Lui – conclude il Papa – fiorisce la gioia, con Lui la vita cambia”. Con Lui “la speranza non delude”.

Al presepe della Basilica
Al termine della Messa, il Papa, accompagnato da un gruppo di bambini di diverse nazionalità, si reca al presepe all’interno della Basilica per posare nella grotta la statua di Gesù Bambino. Anche lì qualche istante in preghiera dinanzi alla natività a cui ha esortato a guardare come riferimento per la vita. Poi un passaggio attraverso la navata centrale per salutare le due ali di fedeli.

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“Tu scendi dalle stelle”, storia di un canto che ha fatto la storia del Natale

Posté par atempodiblog le 24 décembre 2024

“Tu scendi dalle stelle”, storia di un canto che ha fatto la storia del Natale
Uno dei canti più popolari del Natale nasce dall’ispirazione che ebbe Sant’Alfonso Maria de’ Liguori
di Antonio Tarallo – ACI Stampa

“Tu scendi dalle stelle”, storia di un canto che ha fatto la storia del Natale dans Antonio Tarallo Tu-scendi-dalle-stelle

Natale vuol dire anche musica: note che entrano nel cuore. Una melodia aiuta sempre a pregare. Lo sapeva bene Sant’Agostino: “Chi canta prega due volte”. Ed è proprio vero. E fra i canti natalizi più conosciuti vi è il famoso “Tu scendi dalle stelle”: una melodia che commuove e muove l’animo alla grotta di Betlemme. 

La canzone ha origini antiche: il testo che tutti conosciamo deriva da un motivo scritto nel dicembre 1754, dal titolo “Quanno nascette Ninno” (chiamato anche con il nome “Pastorale »). Autore del brano, Sant’Alfonso Maria de’ Liguori (1696-1787). Fu scritto in lingua napoletana. Una grande novità per l’epoca: il primo testo di un canto religioso scritto in lingua partenopea. Quando fu pubblicato nel 1816, venne chiamato « “Per la nascita di Gesù ». 

Già i versi dell’incipit rendono bene l’idea: “Quanno nascette Ninno a Bettlemme / Era nott’e pareva miezo juorno. / Maje le Stelle – lustre e belle Se vedetteno accossí: / E a cchiù lucente / Jett’a chiammà li Magge all’Uriente. / De pressa se scetajeno l’aucielle / Cantanno de na forma tutta nova: / Pe ‘nsí agrille – co li strille, /  E zombanno a ccà e a llà; / È nato, è nato, / Decevano, lo Dio, che nc’à criato”. Proviamo a tradurre questo napoletano così antico in un moderno italiano per avere meglio il quadro della scena: « Quando nacque il Bambino a Betlemme / Era notte eppure sembrava mezzogiorno. / Le stelle così belle e lucenti non si videro mai così: / E la più lucente/ andò a chiamare i Re Magi dell’Oriente. / Velocemente si svegliarono gli uccelli / cantando in nuova forma: / così anche i grilli, con le stelle, / e saltellano qui e lì; / È nato, è nato, / così dicevano, il Dio che ci ha creato ». E’ la natura che parla e che partecipa a tutta la bellezza della nascita di un bambino, anzi del Bambino. Tutti partecipano a questa Natività, con stupore e meraviglia.

Ma come nasce “Quanno nascette Ninno”? In merito a questo racconto abbiamo diverse versioni. Una, ci parla della città campana di Nola, un’altra della città Scala o Santa Maria dei Monti; altra versione, quella che fa riferimento al convento della Consolazione di Deliceto, in provincia di Foggia. La versione che vede nascere la famosa canzone nei pressi di Nola è quella con più dettagli. “In questo palazzo S. Alfonso Maria de’ Liguori, ospite dei Rev.mi Canonici Giuseppe, Michele e Felice Zamparelli, nel corso della Novena alla Beata Vergine Maria nel dicembre del 1754 compose la celebre pastorale natalizia “Tu scendi dalle stelle”, presentata per la prima volta nella Cattedrale di Nola in occasione del Santo Natale”, così recita una targa posta nel 2010 nel palazzo dove si crede abbia soggiornato, per un periodo, il santo redentorista, ospite di un sacerdote del luogo, tale Don Michele  Zamparelli, citato nella targa.

Nel corso di una delle sue missioni popolari, nel 1754, Sant’Alfonso stava predicando a Nola, in provincia di Napoli. Poche ore prima della Santa Messa di Natale voleva comporre un nuovo inno natalizio. La famosa melodia – denominata “Pastorale” – fu scritta in presenza dello stesso don Zamparelli che fu il primo, in assoluto, ad ascoltarla. Il sacerdote, emozionato dall’evento, chiese subito al santo di poterla copiare. Il santo però si oppose, volendola prima farla stampare. Poco dopo, il santo scese per celebrare la Messa di Natale, lasciando i fogli del componimento in vista. Don Michele li copiò e nascose i preziosi foglietti nelle sue tasche. Aveva raggiunto l’ambizioso traguardo. Ora poteva andare a concelebrare. E fu in questo momento che accadde un episodio assai divertente. Sant’Alfonso era proprio nel momento di cantare quel canto che aveva composto poco prima, quando gli mancarono le parole. Ma si sa, i santi conoscono tutto e, allora, mandò un chierichetto a chiedere a don Zamparelli “quei fogli che stavano nel suo taschino”. La chiesa fu “riempita”, finalmente, dalle note del nuovo canto sacro. Era nata quella che noi oggi cantiamo come “Tu scendi dalle stelle”.

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Parigi. C’è un presepe di Napoli nella cattedrale di Notre-Dame

Posté par atempodiblog le 24 décembre 2024

Parigi. C’è un presepe di Napoli nella cattedrale di Notre-Dame
Esposto il capolavoro settecentesco appartenuto al collezionista Ravaglioli. L’allestimento potrà essere ammirato fino a inizio febbraio
di Daniele Zappalà – Avvenire
Tratto da: 
Radio Maria

Parigi. C'è un presepe di Napoli nella cattedrale di Notre-Dame dans Articoli di Giornali e News Parigi-C-un-presepe-di-Napoli-nella-cattedrale-di-Notre-Dame

Questo primo Natale celebrato a Parigi nella Cattedrale di Notre-Dame appena riaperta ha pure un sapore e colori un po’ italiani. Avanzando nella navata Nord, i fedeli e visitatori vengono presto attratti dall’incanto di un’isola di luce che suggerisce già a distanza il mistero fulgido della Natività. Si tratta proprio di uno splendido presepe di tradizione napoletana settecentesca, allestito grazie a una felice comunanza d’intenti fra i due versanti delle Alpi.

L’insieme si deve al critico d’arte e collezionista Alberto Ravaglioli, deceduto prematuramente l’anno scorso. Lungo i decenni, per studio e passione, aveva esplorato i segreti della nobile arte partenopea, instaurando un rapporto speciale proprio con le due botteghe artigianali all’origine del presepe esposto ora a Parigi: quella dei fratelli Sinno, per quanto riguarda le figure, e quella di Biagio Roscigno, per le scenografie.

Il sì della Cattedrale è giunto anche grazie all’impegno dell’Ambasciata di Francia presso la Santa Sede, prima di un sostegno offerto pure dall’Ambasciata d’Italia a Parigi. Allestito su una lunghezza di 6 metri, il presepe incanta tanto per il numero delle figure — circa 160, di un’altezza attorno ai 25 centimetri —, quanto per la pregevolezza di ogni singolo dettaglio, oltre che per la variopinta armonia d’insieme.

Destinato ad essere ammirato da oltre 2 milioni di persone fino a inizio febbraio, il presepe ha ricevuto venerdì scorso la benedizione di monsignor Olivier Ribadeau Dumas, rettore della Cattedrale, pronto a sottolineare pure il felice contesto di questa presenza dell’arte napoletana a Parigi:

«Papa Francesco, qualche giorno fa in Corsica, ha parlato della religiosità popolare, della necessità di vivere la nostra fede con dei segni. Il presepe è una manifestazione essenziale di questa religiosità popolare e permette alle persone di raccogliersi e di riconoscersi in questi pastori che illustrano così bene la vita di tutti i tempi, di tutti i giorni».

Per il rettore, la natura stessa dell’iniziativa ha un forte valore simbolico: «È un nuovo segno dell’amicizia fra la Francia e l’Italia. È un nuovo segno della cattolicità della Chiesa, cioè della sua universalità. La Chiesa è universale, tutte le tradizioni vi si ritrovano. E la tradizione napoletana di questo presepe ci dice magnificamente che è fatto affinché chiunque passi davanti possa pregare».

L’opera è stata posta ai piedi della Natività trecentesca rappresentata sulla facciata esterna del coro di Notre-Dame, all’insegna dunque pure di un felice gioco di corrispondenze artistiche fra Medioevo e Settecento.

Per la realizzazione del sogno di Alberto Ravaglioli di vedere il proprio presepe esposto a Notre-Dame si è molto speso il fratello Marco, già corrispondente Rai e deputato Dc: «Opere come queste sono pure straordinari biglietti da visita e strumenti dei rapporti internazionali. In un modo che resta al di sopra degli interessi contingenti, danno visibilità allo spirito italiano più autentico e genuino. Così, si porta nel mondo il messaggio della cultura e della spiritualità italiane». Al fianco della realizzazione, pure sponsor quali Banca Intesa San Paolo, Ferrero, Generali e World Cargo.

L’avvocato Agatino Alajmo, amico intimo di Alberto Ravaglioli, è un altro protagonista dell’iniziativa: «Si tratta innanzitutto di una promessa mantenuta. È stato un lavoro duro, ma pure un’esperienza bellissima, oltre che una grande soddisfazione. Il risultato è un messaggio di fede e di fiducia».

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Il valore apologetico del presepe napoletano

Posté par atempodiblog le 23 décembre 2024

Il valore apologetico del presepe napoletano
di Corrado Gnerre

Il valore apologetico del presepe napoletano dans Avvento Presepe-napoletano-del-700

Il presepe è una devozione autenticamente cattolica. Escludendo i cosiddetti presepi viventi che hanno avuto san Francesco come iniziatore, tra quelli classici il presepe napoletano è sicuramente il più famoso e, diciamolo anche francamente, il più bello.

Ci sono almeno sei fondamentali caratteristiche che rendono questo tipo di presepe non solo unico, ma anche fortemente apologetico, nel senso che esso più chiaramente esprime la verità cattolica.
Tutti i presepi sono autenticamente cattolici, ma quello napoletano lo è ancora di più.

La prima caratteristica cattolica del presepe napoletano è la collocazione della Natività sotto un rudere dell’antica civiltà romana. Il significato è chiaro: il Cristianesimo ha superato il paganesimo.
Chiediamoci: perché i presepisti napoletani del XVIII sec. – secolo di maggiore splendore di quest’arte – ci tennero ad esprimere questo messaggio? Perché proprio in quel tempo si voleva diffondere, ancor più che nel periodo umanistico-rinascimentale, l’idea della superiorità del mondo classico rispetto a quello cristiano; è il neoclassicismo. Era questa un’idea di cui si facevano maggiormente sostenitori gli intellettuali. Nel presepe napoletano, invece, il popolo basso ribadì attraverso l’arte presepiale che anche se intellettualisticamente si può dire quello che si vuole, resta che il Cristianesimo ha vinto e superato il paganesimo.

Il tempio rotto e incompleto sta proprio a significare il crollo di un mondo. Un semplice Bambino ha vinto la presunzione di secoli e secoli di cultura… che pur non raramente arrivava ad esprimere la sapienza naturale, figura, comunque, come qualcosa di incompleto rispetto alla Sapienza di tutte le sapienze, che è, appunto, il Verbo incarnato. A tal proposito si racconta che un Vanvitelli, o il padre Luigi o il figlio Carlo, entrambi neoclassicisti, soleva disprezzare i presepisti napoletani ritenendoli ignoranti.

Un particolare non secondario: sarà sempre il popolo basso, i cosiddetti lazzaroni e non gli intellettuali, a ribellarsi contro la laicizzazione imposta dalla giacobina repubblica partenopea del 1799 e sarà sempre il popolo basso, i cosiddetti briganti e non gli intellettuali, a ribellarsi ad un’altra laicizzazione, questa volta imposta dalla conquista piemontese.
La riaffermazione della Civiltà cristiana rispetto a quella pagana è autenticamente cattolica.

La seconda caratteristica del presepe napoletano è un’apparente contraddizione: da una parte il superamento del paganesimo, dato storico, e dall’altra l’utilizzazione della contemporaneità, dato metastorico. Chiarisco: abbiamo visto che in tale presepe si vuole sottolineare, in polemica con il neoclassicismo illuminista, che il Cristianesimo ha vinto il paganesimo e lo si fa ponendo la Natività sotto un rudere di un tempio romano. Ora ci si attenderebbe che per far questo il presepe napoletano riproduca fedelmente il dato storico, ovvero l’ambiente della Betlemme della nascita di Gesù, invece non è così.
Per quanto riguarda l’ambientazione il presepe napoletano è volutamente antistorico, anzi dovremmo essere più precisi: volutamente metastorico. L’ambiente, infatti, è quello della Napoli del ‘700.

Ci sono almeno due elementi che ne spiegano il motivo:
1) il mistero è nella contemporaneità: i presepisti napoletani sanno bene, e lo vogliono esprimere, che l’Incarnazione ha una dimensione di contemporaneità perché segna la possibilità della salvezza per tutti i giusti, tanto per quelli che erano già vissuti, tanto per quelli che stavano vivendo allora, quanto per quelli che sarebbero vissuti anche dopo;
2) il mistero è nella quotidianità: i presepisti napoletani sanno anche che l’Incarnazione riguarda tutti, non solo nella dimensione temporale – ieri, oggi e domani –, ma anche in quella spaziale: ricchi e poveri, colti e ignoranti. Tocca dunque tutto il reale con le sue innumerevoli sfaccettature. Tutto questo è ovviamente cattolico e autenticamente cattolico.

La terza caratteristica cattolica del presepe napoletano è il riferimento ad alcuni dati apocrifi. Teniamo presente che ci sono due tipi di vangeli apocrifi, quelli innocui che non stravolgono la figura di Gesù, ma la mitizzano solamente, e quelli più specificamente eretici perché deformano la figura di Gesù. I primi, quelli innocui, tendono al miracolismo e sono pieni di particolari anche per quanto riguarda la nascita e l’infanzia di Gesù. Ed è in questi apocrifi che si parla del bue e dell’asinello ed è in questi che si parla anche di due lavandaie, Salomé e Zelomi, che avrebbero aiutato la Madonna dopo la nascita del Bambino.
Ebbene, il presepe napoletano oltre al bue e all’asinello, che sono presenti i tutti i tipi di presepe, pone sempre due lavandaie vicino alla Natività: sono appunto Salomé e Zelomi.
Ora, questo voler riprodurre particolari che vanno oltre i dati scritturistici canonici, muove dalla convinzione che non tutto è contenuto nella Scrittura e questo è tipicamente cattolico e, quindi, alternativo al ‘sola Scriptura’ del luteranesimo, ovvero a quella convinzione protestante secondo cui l’unica fonte della rivelazione sia la Bibbia.

La quarta caratteristica cattolica del presepe napoletano è la presenza della dimensione mondana. In esso c’è sempre una locanda con dei tipici personaggi, fra cui il celebre Ciccibacco seduto su delle botti o con in mano dei fiaschi di vino, dal volto chiaramente brillo. E’ un personaggio che rappresenta l’uso del vino per perdere il controllo di sé e darsi ai vizi. Non a caso il nome popolare è il richiamo al dio Bacco presente nei rituali dionisiaci. In questo caso i presepisti napoletani vollero esprimere che la vita è una scelta tra la virtù e il vizio, e che non basta solo la fede. Ricordo che Lutero, che aveva appunto affermato la necessità della sola fede, era arrivato a legittimare la pratica di qualsiasi vizio: “pecca fortemente, l’importante è che tu creda ancor più fortemente”, aveva detto.
Il presepe napoletano, invece, ci dice che la fede deve essere sempre accompagnata dalle opere e dall’esercizio delle virtù. Quindi anche dalla temperanza.

Inoltre, a detta di alcuni studiosi, questa centralità del vino nel presepe napoletano, rappresentato dalle tante locande ed osterie, starebbe anche ad evidenziare come questa bevanda sarebbe stata poi trasformata e sublimata proprio da Cristo con l’istituzione dell’Eucarestia. Insomma il vino da bevanda di perdizione a bevanda di santificazione.

La quinta caratteristica cattolica del presepe napoletano è l’immancabile figura di Benino. Si tratta del famoso personaggio che dorme non lontano dalla Natività. Solitamente si dice che la sua presenza stia nel fatto che il presepe costituisca il suo sogno. Si tratta però di un’interpretazione che contraddice le palesi convinzioni da cui nasce il presepe napoletano. In realtà la spiegazione sembrerebbe essere un’altra: Benino è colui che rimane indifferente dinanzi alla Salvezza. Anche questo è tipicamente cattolico. Dinanzi a Dio ci possono essere l’accettazione, il rifiuto, ma anche l’indifferenza. Dipende da quella volontà libera dell’uomo che invece nel protestantesimo non è riconosciuta o, se lo è, lo è molto parzialmente.

Un’ultima caratteristica cattolica del presepe napoletano è l’attenzione al particolare. Un’attenzione che arriva fino all’esasperazione. Le rocce, gli intonaci screpolati delle case, le botteghe con le loro mercanzie, il volto dei pastori, tutto è di un realismo portato all’estremo. Si tratta di quella spiritualità tipicamente cattolica secondo cui non può sfuggire nessuna sfaccettatura. In alternativa alla convinzione già luterana, ma poi soprattutto calvinista, secondo cui vi sarebbe una sola discriminante fra eletti e non eletti: o si è scelti da Dio o no. Se questo fosse vero la realtà non sarebbe affatto complessa, ma estremamente semplice e lineare.
La visione cattolica, invece, è ben diversa. Tutti sono chiamati alla salvezza e le risposte a questa chiamata possono essere anche molto complesse e sfumate, ciò rende il reale esuberante e tutt’altro che riducibile a pura equazione matematica.

Un’ultima considerazione: questa attenzione al particolare del presepe napoletano rende evidente quanto la teologia cattolica sia tutta adagiata sulla prospettiva mariana. E’ proprio la psicologia femminile ad essere più attenta ai particolari. Nulla sfugge all’attenzione tipicamente materna.

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Novena di Natale, cos’è, quando nasce e cosa significa

Posté par atempodiblog le 15 décembre 2024

Novena di Natale, cos’è, quando nasce e cosa significa
Non è una preghiera ufficiale della Chiesa ma rientra tra le pie pratiche della pietà popolare. Si celebra dal 16 al 24 dicembre e l’obiettivo è quello di aiutare i fedeli a prepararsi spiritualmente alla nascita di Gesù. Fu eseguita per la prima volta in una casa di missionari vincenziani di Torino nel 1720
di Famiglia Cristiana

Una somiglianza che dice tutto dans Fede, morale e teologia Maria-e-Suo-Figlio

La Novena di Natale si celebra nei nove giorni precedenti la solennità del Natale cioè a partire dal 16 dicembre fino al 24. Comprende vari testi che vogliono aiutare i fedeli a prepararsi spiritualmente alla festa della nascita di Gesù. Fino al Concilio Vaticano II si celebrava in latino, dopo il Concilio ne sono state approntate traduzioni nelle varie lingue. In generale, le novene sono celebrazioni popolari che nell’arco dei secoli hanno affiancato le liturgie ufficiali. Esse sono annoverate nel grande elenco dei pii esercizi.
«I pii esercizi», afferma J. Castellano, «si sono sviluppati nella pietà occidentale del Medioevo e dell’epoca moderna per coltivare il senso della fede e della devozione verso il Signore, la Vergine, i santi, in un momento in cui il popolo rimaneva lontano dalle sorgenti della Bibbia e della liturgia o in cui, comunque, queste sorgenti rimanevano chiuse e non nutrivano la vita del popolo cristiano».

Le origini storiche
La Novena fu eseguita per la prima volta in una casa di missionari vincenziani di Torino nel Natale del 1720 nella chiesa dell’Immacolata che si trovava a fianco del Convitto Ecclesiastico che i missionari gestivano per la formazione del clero. Fra i missionari maggiormente stimati del Convitto vi era il padre Carlo Antonio Vacchetta (1665-1747), che era maestro di sacre cerimonie e prefetto della chiesa e del canto. Amico e frequentatore della casa dei missionari era il beato Sebastiano Valfré. Entrambi avevano una particolare pietà verso l’umanità di Gesù e ne propagavano la devozione invitando i fedeli a contemplare e ad adorare il mistero dell’Incarnazione e della Natività di Cristo.
È in questo ambiente particolarmente attento a vivere liturgicamente il Mistero di Gesù, Verbo Incarnato, che fu scritta e per la prima volta eseguita in canto la Novena di Natale. La tradizione attribuisce a padre Vacchetta la redazione dei testi e della musica. Grazie alle missioni popolari portate avanti dai vincenziani, la Novena fu diffusa in Piemonte, e da qui in tutta Italia. La diffusione fu facilitata dal fascino del suo canto e dalla semplicità della melodia.
A favorirne la devozione e la diffusione fu Gabriella Marolles delle Lanze, marchesa di Caluso. Questa, che aveva vissuto una giovinezza spensierata, e si era sposata prima con Carlo Agostino di Sale delle Lanze, e poi con il marchese di Saluzzo, rimasta vedova, e venuta ad abitare nei pressi della casa dei vincenziani di Torino, scelse come direttore spirituale il superiore, padre Domenico Amosso. E frequentando la chiesa dell’Immacolata restò particolarmente commossa dalle funzioni di preparazione al Natale, per cui stabilì nelle sue disposizione testamentarie che si facesse ogni anno et in perpetuo la suddetta Novena.

Il significato
Le profezie della nascita di Gesù furono tratte da brani dell’Antico Testamento e particolarmente dal profeta Isaia. In esse è espresso non solo il profondo desiderio messianico dell’Antico Testamento con il desiderio che Dio si faccia presente sulla terra, ma in maniera espressiva viene cantata la supplica per la venuta di Gesù, l’eterno Presente nella storia degli uomini.
Varie sono le metafore che alimentano la gioia dell’attesa nella Novena: Gesù verrà come luce, come pace, come rugiada, come dolcezza, come novità, come Re potente, come dominatore universale, come bambino, come Signore giusto.
La Novena vuole suscitare un atteggiamento nel credente: fermarsi ad adorarLo.

La forma tradizionale
La Novena di Natale, pur non essendo preghiera ufficiale della Chiesa, costituisce un momento molto significativo nella vita delle comunità cristiane. Proprio perché non è una preghiera ufficiale essa può essere realizzata secondo diverse usanze, ma un indiscusso primato spetta alla novena tradizionale, nella notissima melodia gregoriana nata sul testo latino ma diffusa anche nella versione italiana curata dai monaci benedettini di Subiaco.

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La Nazareth croata

Posté par atempodiblog le 12 décembre 2024

La Nazareth croata
Il Santuario mariano della Santa Casa a Tersatto, in Croazia, è il più antico e più importante della Croazia occidentale: è sorto sul colle ove nel 1291 venne posata la Santa Casa, ivi miracolosamente trasportata dagli angeli, poi scomparsa nel 1294 e ricomparsa, sempre misteriosamente, nei pressi di Ancona (ora nel Santuario di Loreto).
di Luigi Walter Veroi Radici Cristiane

La Nazareth croata dans Apparizioni mariane e santuari Tersatto

Tersatto (Trsat in croato) è un sobborgo a sud della città di Fiume (Rijeka), situato su una collina adiacente all’autostrada che sovrasta la città. Da lì si può ammirare un panorama sulla città di Fiume e sul prospiciente golfo del Quarnaro sino alle isole di Veglia (Krk) e Cherso (Cres).
Tersatto è noto anche come la “Nazareth croata”, per il Santuario mariano più antico e più importante della Croazia occidentale, sorto sul colle ove nel 1291 venne posata la Santa Casa, ivi miracolosamente trasportata dagli angeli, poi scomparsa nel 1294 e ricomparsa, sempre misteriosamente, nei pressi di Ancona (ora nel Santuario di Loreto).

«Venne la Casa della Beata Vergine Maria»
In ricordo di quella sosta vi è ancora una iscrizione scolpita all’inizio della scalinata di oltre 500 gradini, che dalla città sale al Santuario, detta Petar Kruži (nome del capitano croato che la fece costruire nel 1531 come ex voto per consentire ai marinai di accedere al Santuario). Il testo dell’iscrizione recita: «Venne la Casa della Beata Vergine Maria da Nazareth a Tersatto l’anno 1291 allì 10 di maggio et si partì allì 10 di dicembre 1294».
Durante le maggiori affluenze estive dei fedeli (non solo croati, ma anche sloveni, italiani, austriaci e tedeschi) le S. Messe vengono celebrate all’aperto, in una spianata di fronte all’attiguo convento dei Francescani.
Anche papa Giovanni Paolo II si recò qui pellegrino l’8 giugno 2003. A ricordo di quell’evento, sul piazzale che fronteggia la chiesa, vi è ora un’imponente statua del Pontefice in preghiera.
In un’apposita cappella sono conservati gli ex voto (comprese molte stampelle), che testimoniano la riconoscenza alla Madonna per le numerose guarigioni e per gli scampati naufragi per Sua intercessione.
Questo centro di spiritualità mariana della Croazia (secondo per numero di pellegrini, dopo quello di Marija Bistrica a nord di Zagabria) è stato riconosciuto dai vescovi della provincia ecclesiastica fiumana quale Santuario familiare per gli inizi legati alla presenza della Santa Casa, mentre nel 1930 papa Pio XI gli conferì il titolo di basilica minore.

Le approvazioni dei Pontefici
A partire da Clemente V (1305-1314), che con una Bolla del 18 luglio 1310 confermò indirettamente l’autenticità della Santa Casa, molti Papi fecero riferimento alla miracolosa traslazione.
Nel 1367 papa Beato Urbano V (1362-1370), di ritorno da Avignone, passò per Loreto, ove trovò molti pellegrini croati che erano venuti a pregare la Madonna, perché ritornasse presso di loro con la sua Casa. Commosso da tale fede, inviò a Tersatto il francescano padre Bonifacio da Napoli con una icona della Madonna con bambino di origine bizantina attribuita a S. Luca («per calmare il loro dolore»), ritenuta miracolosa, e da allora posta ed onorata sopra l’altare maggiore del Santuario di Tersatto (attualmente, per motivi di sicurezza, l’originale è custodito nel tesoro del convento). Nel 1715, un decreto del Vaticano autorizzò l’incoronazione di quell’immagine e sul capo della Madonna e del Bambino furono poste due corone alla presenza di una delegazione del Parlamento croato.
Nel 1419 papa Martino V concesse ai conti Frangipane di erigere il santuario, che avrebbero gestito i frati Francescani. In un documento pontificio chiamato Breve del 1° giugno 1515, papa Leone X dichiarò che la storia della traslazione miracolosa era comprovata da testimoni degni di fede. Si legge nel testo:

«È provato da testimoni degni di fede che la Santa Vergine, dopo aver trasportato per l’onnipotenza divina la sua immagine e la propria casa da Nazareth in Dalmazia, quindi nella foresta di Recanati e nel campo di due fratelli, la fece deporre per il ministero degli Angeli sulla pubblica via, ove trovasi tuttora e dove l’Altissimo, per i meriti della Santissima Vergine, continua a operare miracoli».

Papa Clemente XII (1730-1740) mandò una commissione a Nazareth e a Tersatto per verificare le misure dell’edificio, risultate tutte coincidenti, e concedendo ai pellegrini che visitavano Tersatto speciali indulgenze.

Il beato papa Pio IX (che nel 1854 dichiarò il dogma dell’Immacolata Concezione) fu nativo dell’anconetano e fu miracolato nella Santa Casa di Loreto, dove fece voto di abbracciare la vita ecclesiastica, se fosse stato guarito da una grave malattia. Proprio lui identificò a Tersatto il primo luogo in cui “sostò” la Santa Casa di Nazareth nel 1291, dopo la prima miracolosa traslazione. Questa la sua dichiarazione solenne nella Bolla Inter Omnia del 26 agosto 1852:

«Fra tutti i Santuari consacrati alla Madre di Dio, l’Immacolata Vergine, uno si trova al primo posto e brilla di incomparabile fulgore: la veneranda ed augustissima Casa di Loreto. A Loreto, infatti, si venera quella Casa di Nazareth, tanto cara al Cuore di Dio, e che, fabbricata nella Galilea, fu più tardi divelta dalle fondamenta e, per la potenza divina, fu trasportata molto lontano, oltre i mari, prima in Dalmazia e poi in Italia».

Papa Leone XIII, in occasione del VI centenario della traslazione nel 1894, pubblicò l’enciclica Felix Lauretana Civitate del 23 gennaio 1894, scrivendo che «per benignissimo consiglio di Dio fu trasportata miracolosamente in Italia». [...]

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La storia incredibile di Nadia Nadim, la dottoressa del calcio che ha segnato a San Siro

Posté par atempodiblog le 11 décembre 2024

La storia incredibile di Nadia Nadim, la dottoressa del calcio che ha segnato a San Siro
Fuggita a 11 anni dall’Afghanistan, con la mamma e le sorelle, dopo l’assassinio del padre per mano dei Talebani, ha scoperto il calcio in un campo profughi in Danimarca e non è finita lì
di Elisa Chiari – Famiglia Cristiana

La storia incredibile di Nadia Nadim, la dottoressa del calcio che ha segnato a San Siro dans Articoli di Giornali e News Nadia-Milan

C’è chi dice che la vita di Nadia Nadim, l’attaccante del Milan che dal 10 dicembre 2024, è la prima calciatrice straniera a segnare una rete a San Siro, sembra un romanzo o un film. Ma chi lo fa dimentica che spesso la realtà ha più fantasia di ogni arte e di ogni letteratura. La storia da 250 reti nel calcio femminile di questa donna tosta, che non disdegna di mostrarsi su Instagram in mille vesti, sportive e da sera, e anche da sposa quando nell’agosto scorso ha sposato in Turchia il fidanzato storico Idrees, è cominciata nel 1988, da secondogenita di una famiglia di cinque figlie femmine.

Nadia aveva sette anni quando i Talebani hanno preso il potere e ristretto la sua vita di bambina. Ne aveva 11, quando il padre, generale dell’esercito considerato espressione dell’esiliato governo di Burhanuddin Rabbani, è stato ucciso dai Talebani. In quel momento la madre ha preso il coraggio della disperazione ha venduto tutti gli averi di casa per partire con cinque bambine alla ricerca di un posto di mondo meno pericoloso in cui vivere, nell’immaginario c’era Londra, dove già c’era un pezzo di famiglia. Il destino ha deciso diversamente: attraverso il Pakistan, con passaporti falsi rimediati a Islamabad, sono arrivate fino all’Europa. Nelle tappe del viaggio anche Milano, quattro giorni in quello che nei suoi racconti di questi anni Nadia ha raccontato come uno scantinato freddo, buio e molto sporco. Di lì in clandestinità dentro un camion che si credeva diretto in Inghilterra e invece è approdato a Renders in Danimarca, dove prima di qualunque altra cosa hanno dovuto chiedere a un passante: “Dove siamo?”. Per poi approdare al primo posto di polizia a fare domanda di asilo. Una domanda accolta in tempi relativamente brevi e cominciata con l’umanità di un agente che a cinque bambine sedute ad aspettare la mamma che esponeva le sue ragioni alla Polizia, ha chiesto a gesti toccandosi la pancia: “avete fame?” e ha rimediato loro qualcosa da mangiare. Un ricordo capace di fissarsi nella mente di una bambina che ancora non aveva un posto nel mondo e di indirizzare in lei un desiderio ancora senza forma di fare qualcosa per aiutare gli altri.

Il calcio a quel tempo non era neanche nei calcoli: nessuna di quelle bambine aveva mai visto una ragazza giocare a pallone. È successo per la prima volta dietro la rete di un campo profughi danese, dove Nadia e la mamma e le sorelle sono state per qualche anno. Quel campo di calcio, in cui Nadia e le due sorelle più grandi sono entrate quasi per caso, è diventato presto l’emblema della libertà: dopo cinque anni in cui era stato loro vietato di uscire, di andare a scuola, di fare sport di fare qualunque cosa, passare la mattina a studiare la lingua del Paese che le aveva accolte e il pomeriggio a giocare, un gioco creduto da maschi, con le altre bambine rifugiate, significava un modo diverso di vedere la vita e cominciare a pensarsi in un mondo nuovo.

Una volta uscita dal campo profughi, e arrivata in una piccola vera casa, Nadia ha cominciato a giocare con una società di Skørping vicino a dove vivevano. Ma presto con la scoperta del talento è arrivata la proposta di una squadra di livello superiore l’Aalborg. Significava bicicletta, treno, autobus, ore di viaggio dopo la scuola. La madre non voleva saperne: dovete studiare, se non studiate vi perderete, il calcio non è un lavoro e poi non abbiamo i soldi. In una parola tutto il campionario di ragionevolezza che metterebbe davanti una madre sola con cinque figlie in un paese straniero. La società si offrì di pagare il viaggio rimuovendo il primo ostacolo, Nadia fece il resto mantenendo la promessa di portare a casa sempre i voti migliori. Era partita da una sequela di “non puoi”, a trasgredire i quali si rischiava la vita, nella sua nuova aveva deciso che avrebbe rimosso da sola gli ostacoli che erano solo questione di organizzazione e di buona volontà.

Questo ha fatto sì che oggi Nadia Nadim sia una stella del calcio femminile, la prima naturalizzata a far parte della Nazionale di calcio danese, che ha giocato nel Paris Saint Germain, nel Machester City e ora nel Milan, mettendo insieme oltre 250 reti.

All’università di Aarhus in Danimarca si è laureata in medicina, utilizzando il periodo in cui ha giocato negli Stati Uniti per studiare durante la stagione di gioco e concentrare i tirocini nella pausa dal campionato, più lunga che in Europa: c’è voluto più tempo del normale: un semestre all’anno invece di due, ma anche in questo Nadia ha mantenuto la promessa fatta alla madre e risposto a chi le diceva: “Non ce la farai mai”. Ripete di aver scelto la medicina in ossequio a quel desiderio di tornare un giorno utile a qualcuno.

La visibilità che ottiene sul campo da calcio le serve anche per promuovere nel mondo l’importanza dello sport e dell’istruzione per le bambine e i bambini dei Paesi più poveri. Quando le chiedono della parità nel calcio risponde: «Non sono femminista, ma umanista, nel senso che mi interessano le persone, e realista: so che non arriveremo facilmente alla parità con i maschi nel calcio ma possiamo crescere molto». E intanto si batte perché nessun bambino e nessuna bambina nel mondo davanti all’aula di una scuola o a un campo di calcio si senta sentire dire: «Non puoi». Al momento la sua residenza è la Danimarca, è lì che ha comprato la prima casa alla sua mamma, scomparsa nel 2022 investita da un camion. Ha detto che se mai tornerà in Afghanistan sarà come chirurga. Vuol dire che il mondo, quel mondo, deve fare ancora un pezzo di strada.

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Il miracolo della «tilma», tre fatti scientificamente inspiegabili sull’immagine di Guadalupe

Posté par atempodiblog le 11 décembre 2024

La prima manifestazione della Madonna in età moderna è quella di Guadalupe, in Messico, nel 1531: fu un episodio di portata storica enorme perché la “Morenita” apparve non ai cattolici ma agli indios, che avevano altri culti; e quella apparizione segnò l’inizio della conversione dell’America Latina. (René Laurentin)

Il miracolo della «tilma», tre fatti scientificamente inspiegabili sull’immagine di Guadalupe dans Apparizioni mariane e santuari San-Juan-Diego

Il miracolo della «tilma», tre fatti scientificamente inspiegabili sull’immagine di Guadalupe
di Aleteia Brasil –  Traduzione dal portoghese a cura di Roberta Sciamplicotti
Tratto da: Il Timone

Il 12 dicembre 1531 la Madonna apparve in Messico a un indigeno di 57 anni di nome Juan Diego, a cui chiese di raccogliere con la sua tilma, un mantello tipico fatto di un tessuto molto povero, delle rose che erano fiorite nonostante fosse inverno e di presentarle all’arcivescovo monsignor Juan de Zumárraga come prova delle apparizioni. Quando Juan Diego dispiegò il mantello con le rose davanti all’arcivescovo, i presenti si resero conto che sulla tilma dell’indigeno era impressa l’immagine che oggi tutti conoscono come Nostra Signora di Guadalupe.

L’immagine impressa sul mantello di San Juan Diego ha delle caratteristiche straordinarie che sfidano la scienza ormai da cinque secoli:

1 – L’immagine sul mantello non è dipinta ed è impossibile replicarla
Il manto, tessuto principalmente con fibre di cacto, è di qualità molto bassa. La sua superficie ruvida, già difficile da indossare, rende quasi impossibile la conservazione di qualsiasi immagine che vi sia dipinta sopra. L’immagine di Guadalupe, tuttavia, è intatta da 500 anni.
Gli scienziati e gli esperti di fotografia che l’hanno studiata garantiscono che non è stata usata alcuna tecnica di pittura adeguata a quel tessuto, e che non esistono tracce di pennello. Quello che si è invece scoperto è che l’immagine è stata letteralmente impressa, tutta allo stesso tempo, sul mantello, e che la sua colorazione non presenta elementi animali né minerali, oltre a cambiare leggermente di tonalità in base all’angolazione dalla quale si guarda. Come se non bastasse, anche se il mantello è ruvido, la parte di esso sulla quale è rimasta impressa l’immagine è diventata liscia come seta.
Non si è mai riusciti a replicare alcuna immagine con le stesse proprietà di quella impressa sul mantello di Juan Diego, a cominciare dal fatto che dura da 500 anni senza scolorirsi su un tessuto di pessima qualità. Le migliori approssimazioni sono state ottenute dall’artista Miguel Cabrera nel XVIII secolo, che ha descritto l’immensa difficoltà di ricreare quell’immagine anche sulle superfici migliori.

L’immagine contiene un’infinità di dettagli che colpiscono:

  •     I capelli sciolti della Madonna di Guadalupe sono un simbolo azteco di verginità.
  •     Una delle mani è più scura e l’altra più bianca, a indicare l’unione tra i popoli.
  •     Le 46 stelle impresse sul mantello rappresentano esattamente le costellazioni viste nel cielo la notte del 12 dicembre 1531.
  •     I raggi del sole, la principale divinità venerata dalla cultura azteca, si intensificano sul ventre di Maria, che è incinta.
  •     La luna sotto i piedi, oltre a evocare la “donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi” descritta nell’Apocalisse, richiama anche il nome del Messico in lingua azteca: “centro della luna”.
  •     L’angelo, rappresentato con ali di uccelli tipici della regione di Città del Messico, simboleggia l’unione tra la terra e il cielo.

2 – Il mantello ha le caratteristiche di un corpo umano vivo!
Nel 1979, il biofisico dottor Phillip Callahan, dell’Università della Florida, ha analizzato il mantello con una tecnologia a raggi infrarossi e ha scoperto che ha una temperatura costante tra i 36.6 e i 37 gradi Celsius, che è la temperatura normale di una persona viva.
Il medico messicano dottor Carlos Fernández de Castillo, che ha esaminato il tessuto, ha trovato sul ventre di Maria un fiore a quattro petali che gli aztechi chiamavano “Nahui Ollin”, simbolo del sole e della pienezza.
Proseguendo i suoi esami, il dottor Fernández de Castillo ha concluso che le dimensioni del corpo della Madonna nell’immagine erano le stesse di una gestante che deve partorire entro pochi giorni. Il 12 dicembre, giorno dell’apparizione, è decisamente vicino al 25 dicembre, Natale.
L’oculista peruviano dottor José Alte Tonsmann si è invece concentrato sullo studio degli occhi dell’immagine della Madonna di Guadalupe. Ingrandendoli 2.500 volte, ha identificato il riflesso di fino a 13 individui in entrambi gli occhi, con proporzioni diverse, esattamente come avviene quando l’occhio umano riflette un’immagine. Sembra che sia stato catturato il momento esatto in cui San Juan Diego ha dispiegato il mantello davanti all’arcivescovo Zumárraga e alle altre persone presenti in quell’occasione.

3 – Il mantello, nonostante la pessima qualità, sembra essere indistruttibile!
Nel 1785, in occasione della pulizia del vetro che protegge il mantello, del solvente con acido nitrico si è riversato su gran parte dell’immagine, che avrebbe dovuto corrodersi all’istante. L’immagine, tuttavia, si è restaurata da sola in 30 giorni e ancora oggi è intatta, con piccole macchie in alcune parti del mantello che non contengono l’immagine.
Nel 1921 un militante anticlericale ha posto davanti all’immagine, nella basilica di Nostra Signora di Guadalupe, un vaso di rose che in realtà conteneva 29 cariche di dinamite. L’esplosione ha fatto volare in aria dal pavimento all’inginocchiatoio di marmo, raggiungendo perfino finestre situate a 150 metri di distanza. Un pesante crocifisso di bronzo e i candelabri di metallo che erano ai lati dell’immagine si sono accartocciati per la forza dell’esplosione, ma l’immagine e il vetro che la proteggeva, che non era neanche a prova di pallottole, sono rimasti perfettamente intatti.

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Nigeria: a Kaduna è nata Radio Maria

Posté par atempodiblog le 10 décembre 2024

Nigeria: a Kaduna è nata Radio Maria
Tratto da: Notizie da Radio Maria nel mondo

Nigeria: a Kaduna è nata Radio Maria dans Articoli di Giornali e News Inaugurazione-Radio-Maria-Nigeria-a-Kaduna

Ieri, 9 dicembre 2024, a Kaduna è nata Radio Maria. Cinque vescovi e circa 100 sacerdoti hanno celebrato la Santa Messa d’inaugurazione.
È stato un evento per tutta la provincia ecclesiastica di Kaduna. In questa regione tristemente conosciuta per Boko Harakiri, Radio Maria è un mezzo per l’evangelizzazione, la promozione della pace e riconciliazione tra le diverse religioni e gruppi etnici.
Il Nunzio Apostolico della Nigeria ha inviato un prezioso messaggio di auguri.
Che la Madonna benedica gli italiani dal cuore così generoso con Radio Maria, che hanno reso possibile la realizzazione di questa Radio Maria importatissima!

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Davvero furono gli angeli a trasvolare la Santa Casa a Loreto? Quattro prove lo dimostrano

Posté par atempodiblog le 10 décembre 2024

Davvero furono gli angeli a trasvolare la Santa Casa a Loreto? Quattro prove lo dimostrano
Per la Santa Casa di Loreto, ovvero la Casa della Vergine Maria, dove Ella ricevette l’Annuncio dell’Angelo, negli ultimi decenni si è detto che essa sarebbe arrivata in Italia non miracolosamente, bensì smontata a pezzi da alcuni Crociati e che una nobile famiglia di nome de Angelis l’avrebbe da questi acquistata. In realtà questa teoria è falsa perché ci sono quattro inequivocabili prove che dimostrano la traslazione miracolosa della Santa Casa. Attingiamo dal prezioso libro: Miracolosa Traslazione a Loreto della dimora della Santissima Annunziata di Giuseppe M.Pace.
Tratto da: Il Cammino dei Tre Sentieri

Davvero furono gli angeli a trasvolare la Santa Casa a Loreto? Quattro prove lo dimostrano dans Angeli Memoria-Beata-Vergine-Maria-di-Loreto
Memoria facoltativa della Beata Vergine Maria di Loreto – Il 10 dicembre 1294 ci fu la traslazione della Santa Casa di Nazaret, 
trasportata in volo dagli angeli nel territorio delle Marche, allora parte dello Stato Pontificio

“Il Santuario della Santa Casa è il luogo privilegiato per contemplare il mistero dell’Incarnazione del Figlio di Dio”. (Papa Francesco)

Prima prova. La ripuliture delle pareti della santa Casa hanno permesso di scorgere su di esse e in modo chiaramente interpretabile una cinquantina di graffiti. A giudizio di specialisti quali il padre Bellarmino Bagatti e il padre Emmanuele Testa, alcuni raffigurano dei simboli religiosi giudeo-cristiani del II e del III secolo, analoghi a quelli che si leggono sulle pareti rocciose della Grotta dell’Annunciazione a Nazareth. Dal momento che la Santa Casa sarebbe stata riedificata a Loreto tale quale era a Nazareth con pietre sciolte, non si capisce come i muratori del tempo abbiano potuto ricomporre perfettamente questi graffiti. Infatti, tali graffiti attestano che non sono giunti a Loreto dispersi dentro un pietrame sciolto, ma su delle pareti integre e compatte.

Seconda Prova. Le ricerche sulla storicità della Santa Casa di Loreto, venerata da secoli come la dimora di Maria di Nazareth, si arricchiscono di una nuova e importante documentazione con gli studi compiuti dall’ingegnere marchigiano Nanni Monelli, pubblicati nel volume La Santa casa di Loreto – La Santa Casa di Nazareth, per la collana di studi lauretani diretta da padre Giuseppe Santarelli. L’ingegner Monelli ha confrontato pietre, planimetrie e tecniche di costruzione fra la Casa di Loreto e quella di Nazareth, giungendo a conclusioni convincenti: vi sono molte anomalie nella Casa di Loreto che contrastano con lo stile e le tecniche costruttive in uso nelle Marche e appartengono invece alla tradizione palestinese. La stessa lavorazione e finitura delle pietre (il cui impiego era sconosciuto nella regione di Loreto) è propria della cultura nabatea che ebbe influenza anche in Galilea. Infine il Monelli dimostra che queste anomalie scompaiono se la Casa lauretana viene trasportata idealmente davanti alla Grotta di Nazareth che costituiva, secondo la tradizione, un’unica abitazione.

Terza Prova. La Santa Casa è stata edificata in completa violazione della sensibilità urbanistica medioevale. E’ sufficiente solo ricordare il modo di costruire le case, per capire come sia stridente una costruzione sopra una strada, per di più nota perché di vecchissima origine, così come testimoniano i reperti archeologici. Tutta l’urbanistica e l’architettura medioevali marchigiane fanno di questa localizzazione una vera eccezione, un caso abnorme e come tale da porre fuori della prassi urbanistica comune. Se non ci fosse stata traslazione miracolosa, significa che l’autorità competente, prima di permettere la riedificazione della Chiesa Santa casa sulla strada, ostruendola, dovette portare a termine ed aprire al traffico il nuovo tronco di strada che sostituisse il tratto ostruito: tronco nuovo, lungo qualche centinaio di metri, a forma di “S” avvolgente in un’ansa a breve distanza il nuovo edificio. Perché mai l’autorità competente avrebbe dovuto affrontare una tale impresa? Non disponeva di un fazzoletto di terreno pubblico, infatti non se ne esigeva di più, e in posizione tale da rendere più visibile la Chiesa Santa Casa anche da lontano? Le sarebbe bastato riedificarla su uno dei due dossi che affiancavano la strada a soli 200 metri a occidente.

Quarta Prova. Non va inoltre dimenticato che la Santa Casa è deposta sulla strada senza fondamenta proprie. Solo quando si ritenne poco sicura la statica della Santa Casa, anche perché su terreno di scarsa consistenza, si inserirono delle sottofondazioni e poi la Casa venne circondata da un grosso muro. E’ contro il più elementare buon senso che l’autorità competente permetta di erigere un edificio su di una strada pubblica importante, a costo di rifare un tratto considerevole della medesima e che inoltre tale edificio sia senza fondamenta proprie; che si rimedi a tale supposta omissione con delle opere di sottofondazione molto più impegnative e costose di quanto sarebbero state le comuni fondamenta.

Per concludere basterebbe fare questa riflessione. Nella Santa Casa si è realizzato l’avvenimento più umanamente inimmaginabile della storia: l’Incarnazione del Verbo. Ora, se Dio si è fatto veramente uomo, tutto diventa possibile; anche che degli angeli, per evitare che la Santa Casa venisse profanata dai musulmani, l’abbiano trasvolata in Italia.

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L’Immacolata

Posté par atempodiblog le 8 décembre 2024

L’Immacolata dans Avvento Maria-e-Ges

La Madonna viene santificata fin dal primo istante della sua esistenza. Santificata significa essere immersa nel mondo di Dio.  E Lei ad un livello al di sopra di ogni altra creatura. Di questo si incaricherà, per parlare in modo umano, lo Spirito Santo che la riempirà di grazia; cioè di Dio, della vita stessa di Dio. In Maria tutto costituisce spazio: spazio tutto dedicato alla presenza di Dio. Da qui la preservazione dal peccato originale, Lei doveva essere sempre tutta posseduta da Dio. […]
Il concepimento immacolato di Maria non significa soltanto l’esenzione dal peccato originale, ma, soprattutto e prima di tutto, una speciale santità consona solo a Colei che era stata destinata a divenire la Madre di Dio. E dopo il concepimento di Gesù, ecco che Maria non solo fa parte della pienezza di Dio, ma assume uno specialissimo rapporto con Dio che a nessuna creatura sarà mai concesso. La presenza fisica del Verbo di Dio in Lei la introduce in un ordine speciale, quello stesso del Verbo Incarnato; dato che la natura umana del Figlio è presa tutta e soltanto da Lei. Doveva essere resa santa prima e più santa, se possiamo dire così, dal contatto fisico con il Verbo Incarnato. Gli scienziati ci assicurano che durante la gestazione non è soltanto la madre che dona al figlio, ma anche il figlio dona alla madre. […] E ci insegna a non separare mai la Madre dal Figlio e il Figlio dalla Madre.

di Padre Angelo Maria Tentori

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Preghiera per l’Avvento e il Natale alle soglie del Giubileo

Posté par atempodiblog le 3 décembre 2024

Preghiera per l’Avvento e il Natale alle soglie del Giubileo

Preghiera per l’Avvento e il Natale alle soglie del Giubileo dans Avvento Avvento

Signore Gesù, Figlio amato del Padre, Tu vieni a noi come il dono di Dio che ci fa creature nuove nell’amore. Fa’ che sappiamo accoglierti con fede viva, umile e profonda, nell’attenzione verso ogni persona, nella carità operosa, nell’impegno per la giustizia, la pace e la salvaguardia del creato, nell’ascolto fedele della Tua Parola, alimentati dai sacramenti della vita nuova e dalla preghiera fedele.

Venga in noi il Tuo Spirito e ci renda pellegrini di speranza, donandoci con la grazia del Giubileo la gioia dell’incontro con Te come sempre nuovo inizio della nostra vita in cammino verso la città celeste. E la Vergine Maria, Madre Tua e nostra, interceda per noi affinché non si spenga mai nel nostro cuore l’ardore dell’attesa, nel desiderio dei cieli nuovi e della terra nuova in cui Tu verrai e il mondo intero sarà la patria del Tuo amore senza fine. Vieni, Signore Gesù! Amen! Alleluja!

+ Bruno Forte
Arcivescovo di Chieti – Vasto

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