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Lo stupore di Goethe per il festeggiamento del Natale a Napoli

Posté par atempodiblog le 28 décembre 2023

Lo stupore di Goethe per il festeggiamento del Natale a Napoli
Fonte: Pane e focolare

Lo stupore di Goethe per il festeggiamento del Natale a Napoli dans Charles Dickens Preghiera-di-Natale

Wolfgang Goethe nel 1787 compie un lungo viaggio in Italia, quel Grand tour che era quasi d’obbligo per tutti coloro che desideravano conoscere il mondo, la cultura, l’arte, la bellezza. Ne resterà segnato, emozionato, diverrà un entusiasta ammiratore della nostra penisola. Sarà anche stupito per tante espressioni della nostra cultura, evidentemente lontane da quelle della sua Germania austera e un po’ fredda non solo nel clima meteorologico, come quando arriva a Napoli proprio in occasione del Natale. Scrive nel suo diario: «Per Natale la città diventa una specie di Paese di Cuccagna. Lungo le strade sono sospese ghirlande di cibi e si ammirano corone di salsicce legati con nastri rossi. I tacchini portano tutti sul sedere una banderuola rossa: mi dicono che se ne sono venduti 30.000, senza contare quelli ingrassati privatamente nelle case. Ogni anno un ufficiale della polizia percorre a cavallo la città, accompagnato da un trombettiere, e annuncia nelle piazze e agli incroci quante migliaia di buoi, di vitelli, di capretti, di agnelli di maiali i napoletani hanno consumato. Il popolo si rallegra a sentire quei grossi numeri, e ognuno ricorda con soddisfazione la parte che ha avuto in tale godimento».

Il suo stupore mi ricorda quello delle austere sorelle calviniste del Pranzo di Babette, che guardano sconvolte la cuoca francese che prepara il ricco banchetto. Peraltro, sappiamo che saranno trasformate positivamente da quella tavola generosa, così come Goethe tornerà a casa pieno di entusiasmo e ammirazione per la nostra Italia.

L’Artusi, nei suoi consigli per il pranzo di Natale, suggerisce ben tre portate di carne: il cappone, «animale che per sua bontà si offre nella solennità di Natale in olocausto agli uomini», un pasticcio di lepre e la faraona. Nel racconto di Charles Dickens “Il Canto di Natale” lo Spirito del Natale Presente è seduto su una specie di trono fatto da tacchini, oche, cacciagione, salame, porcellini. La signora Cratchit cucina per la sua famiglia, povera ma dignitosa, l’oca con patate e salsa di mele, e quando Scrooge si risveglia cambiato, con un’esplosione di amore nel cuore e voglia di fare del bene, la prima cosa che fa è comprare un gigantesco tacchino per la famiglia Cratchit.

La carne è quindi al centro del pranzo di Natale, da secoli. Oggi ci sono altre sensibilità, alcuni chef propongono addirittura menu natalizi vegetariani per venire incontro a tutte le esigenze, ma ricordiamo che un tempo la carne era un lusso che pochi si potevano permettere, ed era quindi al centro del desiderio alimentare dei ceti meno abbienti. Le famiglie, costrette per necessità a essere morigerate ogni giorno dell’anno, risparmiavano tutto il possibile in vista del pranzo di Natale, perché quel giorno la tavola doveva essere ricca e generosa. E la carne, che raramente veniva consumata, soprattutto quella pregiata, diventava il cibo principe del pranzo della festa.

E voi cosa avete mangiato a Natale? Mio figlio e mia nuora hanno cucinato un gigantesco tacchino ripieno al forno, davvero eccezionale. Abbiamo fatto onore alla tavola, come si deve. E come dice il Piccolo Tim: “Dio ci benedica, quanti siamo”!

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Uno sguardo al Natale con mons. Landucci

Posté par atempodiblog le 28 décembre 2023

Uno sguardo al Natale con mons. Landucci
di Fabio Fuiano –  Corrispondenza Romana

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Ed eccoci, dopo un altro anno, arrivati al Natale. Giova qui proporre alcune riflessioni alla meditazione dei lettori, facendoci aiutare dal Servo di Dio, Pier Carlo Landucci (1900-1986), che ha mirabilmente descritto questo evento nel suo capolavoro Maria SS. nel Vangelo (Edizioni San Paolo, pp. 140-149). Dapprima, descrive il difficoltoso viaggio di san Giuseppe e della Santissima Vergine verso Betlemme per il censimento voluto dall’Imperatore. L’Evangelista san Luca descrive così il supremo avvenimento dell’universo: «E diede alla luce il suo figliolo primogenito, e lo avvolse in fasce, e lo adagiò in una mangiatoia: poiché non v’era posto per loro nell’albergo» (Lc 2, 7). Mons. Landucci riflette su queste brevi parole, analizzandole puntualmente, a partire dall’inciso «poiché non v’era posto per loro nell’albergo». Per poter rispondere alla domanda sul perché san Giuseppe e Maria SS.ma non trovarono posto è necessario chiarire dapprima cosa sia questo “albergo” di cui parla l’Evangelista. Si trattava di un antico “caravanserraglio”, cioè, secondo la descrizione che ne dà Giuseppe Ricciotti (1890-1964) «un mediocre spazio a cielo scoperto recinto da un muro, piuttosto alto e fornito di un’unica porta; internamente, lungo uno o più lati del muro, correva un portico di riparo […] le bestie erano ricoverate in mezzo, nel cortile a cielo scoperto e i viandanti si ricoveravano sotto il portico o nello stanzone finché c’era posto, altrimenti s’accampavano tra le bestie: le camerette più piccole se esistevano erano riservate a chi poteva permettersi qualche comodità pagando … E là, tra quell’ammasso di uomini e di bestie, tutto alla rinfusa, si cantava, si dormiva, si mangiava … tutto tra quel sudiciume e quel lezzo che appestano ancor oggi gli accampamenti dei beduini palestinesi in viaggio» (Vita di Gesù Cristo, Rizzoli, 1946, § 242).

Continua Landucci, citando sempre il Ricciotti: «san Giuseppe cercò certamente di trovar lì un riparo, ma non c’era posto: non vi era posto “per loro. […] È difficile ammettere che la Vergine SS. non avesse potuto trovare un posticino in mezzo a quelle persone ammassate con gli animali nel modo suddetto ed è difficile anche pensare che, a suon di buoni denari, in via eccezionale, proprio in vista della sua imminente maternità, non si potesse liberare una di quelle stanzette che forse c’erano. Ma alla prima soluzione ostava il casto riserbo e la soprannaturale segretezza di cui Maria voleva circondare la nascita di Gesù; alla seconda ostava la loro povertà. Povertà e castità celestiale: ecco le cause del diniego di ospitalità».

Seppur nel tremendo dolore di un padre di famiglia che non può assicurare un riparo alla sua Immacolata Sposa e al Divin Redentore, san Giuseppe dovette volgere l’occhio ad una piccola grotta che fungeva da stalla. Afferma mons. Landucci che questo è sicuro «perché san Luca dice una sola parola, ma tremendamente rivelatrice: parla di una mangiatoia! Ora la mangiatoia rivela una stalla. Né v’è ragione di pensare che non servisse, anche attualmente, a tale uso, in un periodo di sì grande affluenza non solo di uomini portati, ma di giumenti portanti. Tanto più che san Luca non avrebbe mancato forse, nel caso contrario, di notarlo, egli che, narrando la morte del Signore, si preoccuperà di rivelare la particolare mondezza del sepolcro ove fu deposto il corpo Divino, perché nuovo: “dove niuno mai era stato ancora messo” (Lc 23, 53). Tale stalla era dunque presumibilmente occupata da bestie, tetra come ogni grotta e sudicia come ogni stalla – salvo quella sistemazione alla buona, che avrà cercato di dargli Giuseppe – ma alquanto discosta dal villaggio e quindi solitaria e tranquilla: ciò bastava alla futura Madre».

Nel sublime momento del parto, san Luca presenta la Vergine SS.ma completamente sola. È Lei a darlo alla luce, ad avvolgerlo in panni, a deporlo nella mangiatoia. La Madonna non aveva infatti bisogno di quegli aiuti che sono soliti darsi alle figlie di Eva colpite dalla sentenza «tra doglie partorirai figlioli» (Gn 3,16). Ricorda mons. Landucci, coerentemente con la Dottrina della Chiesa sulla Immacolata Concezione che «ben diversa dalle altre dovette essere la sublime nascita di Gesù da Maria SS. la quale era preservata dal peccato originale e aveva concepito per opera di Spirito Santo. E inoltre sconveniva che Gesù, sorgente di vita, producesse una qualsiasi cruenta menomazione alla Madre sua, nell’atto di nascere». La Vergine SS.ma conservò dunque una completa integrità: mons. Landucci sottolinea, giustamente, che ella dovette avere una particolare rivelazione da parte di Gesù, del preciso momento del parto verginale, mancando in esso «gli immediati prodromi delle consuete “doglie” e l’ordinario suo sensibile svolgimento». Citando l’illustre teologo Adolphe Tanquerey (1854-1932), Gesù «come risorse dal sepolcro sigillato ed entrò dai discepoli a porte chiuse, così nascendo venne alla luce senza violazione del sigillo verginale; come il raggio di sole traversa il cristallo senza alcuna lesione di esso, così Gesù, dal seno della madre senza alcuna lesione della sua verginità venne alla luce» (Brev. Syn. Th. Dogm., n. 837 b). Si tratta della verginità “nel parto” che, assieme a quella “avanti” e “dopo”, costituiscono la triplice corona della maternità di Maria. In quella nascita divina dunque – dice l’Angelico – «non vi fu alcun dolore né alcuna corruzione bensì massima letizia per il fatto che l’uomo Dio era nato nel mondo» (S. Th. III, 35, 6 c.).

Qui mons. Landucci si ferma a contemplare quel mirabile momento in cui lo sguardo celestiale della Madonna «si posa per la prima volta sulle adorate sembianze del Divino Infante e le sue mani immacolate lo portano al cuore e al primo bacio delle sue materne labbra». Molti santi ebbero il privilegio dell’apparizione del Bambinello (es. san Gaetano di Thiene), di stringerlo realmente fra le braccia (il santo Simeone), o di esultare alla sua presenza seppur celato nel grembo materno (santa Elisabetta). Ma questi avevano il cuore di Santi, mentre la Vergine il Cuore Immacolato della Regina dei Santi! Ella andava a Gesù «non solo con divina carità sospingente al Divino Signore, come i santi – tanto più infiammata però quanto incomparabilmente più abbondante era in Lei la grazia – ma anche con traboccante tenerezza materna verso di Lui, immensamente più grande essa pur d’ogni tenerezza di madre, quanto più sensibile era il suo Immacolato Cuore e più amabile il suo Figliolo: palpiti dolcissimi di figlia dunque per il suo Dio e palpiti tenerissimi di madre per il suo Gesù».

Infatti, ribadisce Landucci, «Gesù era il suo tesoro perché nato da Lei, ma suo in modo tutto speciale ed inimitabile, perché Egli non aveva avuto alcun padre naturale terreno: ed era il tesoro suo, ma di valore veramente infinito perché concepito di Spirito Santo e quindi capolavoro di Dio: anzi Uomo-Dio».

Del supremo dolore che si congiunse nella Vergine all’immenso gaudio della nascita del Redentore, si è già accennato in un articolo precedente, dedicato appositamente alla Madonna Addolorata. Ci soffermiamo quindi sulle ultime parole dell’Evangelista, commentate da mons. Landucci «e lo adagiò in una mangiatoia». Afferma l’autore che la Madonna prese Gesù «tra le sue immacolate mani e lo depose, con inenarrabile e lacerante dolcezza, in quella incredibile culla. Nessuna ribellione suona nelle parole del Vangelo, anzi tutto spira serenità e pace. Sembra che Gesù sia stato deposto nel luogo a Lui più conveniente». Ciò sembra in contrasto con la sua dignità di Re, nato per sedere sul trono di gloria. Ma, a ben vedere, il trono del Signore sarebbe stato la Croce. Osserva Landucci che quella deposizione nella mangiatoia di legno «era il preannuncio della deposizione sulla Croce e del completo olocausto del Calvario. La Vergine SS. – ben consapevole – adagiandovi Gesù con le sue stesse mani, intonava tale tragico preludio, uniformandosi perfettamente al cuore del Divino Bambino che interiormente si offriva: come un giorno sul Calvario, nell’offerta eroica che Ella farà del figlio, spiritualmente lo deporrà sopra la Croce e la divina sinfonia della Redenzione raggiungerà la pienezza».

Ma c’è un’altra bellissima anticipazione di quella mangiatoia! Giustamente, afferma mons. Landucci: «Il dolce Bambino, non era inoltre il pane di vita? Perciò nacque a “Betlemme” che vuol dire “casa del pane” e non fu messo in un mucchietto qualsiasi di paglia, ma nel luogo destinato agli animali per mangiare. Perché anch’Egli sarebbe stato mangiato: si sarebbe dato cioè a tutti, senza riserve, nella sua attività apostolica, fino a consumarsi interamente per noi sopra la Croce; e sacramentalmente ci avrebbe nutrito – Pane di Vita – nella SS. Eucarestia». All’anima pensosa della Vergine SS.ma «non sarà probabilmente sfuggito, nel deporre Gesù lì a Betlemme, nella mangiatoia, il simbolo di Gesù che si sarebbe dato interamente a noi, si sarebbe consumato per noi». Concludendo, Landucci dedica un ultimo sguardo alle virtù dei personaggi della beata triade che occupa la grotta: «la povertà rifulge in S. Giuseppe che non poté trovare i mezzi per un ricovero migliore, la castità nella Vergine SS., l’umiltà in Gesù che, tutto prevedendo e regolando come Dio, elesse la suprema umiliazione di quella miserabile culla. Sono i tre colori del glorioso vessillo del Divino Re. E sopra è una grande parola che li abbraccia tutti e ne è il comune segreto: la parola amore».

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