Nel contesto della piega drammatica della guerra in Ucraina, in bilico tra l’autodistruzione e la riconquista reciproca delle terre contese da secoli, aumenta la tensione anche nel campo bellico-ecclesiale, altra dimensione del confronto senza fine tra i due volti del mondo russo e della stessa Europa. Si segnalano casi sempre più frequenti di sacerdoti insofferenti alla retorica militar-patriottica ammantata di aureole trinitarie, e allo stesso tempo s’irrigidisce la sacra cintola dell’inquisizione patriarcale, che soffoca sempre più spesso l’aspirazione di sacerdoti, monaci e fedeli a professare una religione di pace.
La goccia che sta facendo traboccare il vaso è stato il trasferimento forzato dell’icona della Trinità di Rublev dal museo alla chiesa, non soltanto per i possibili danni al capolavoro dell’arte russa, che sembrano per ora limitati, ma per il contesto di autoritarismo e sfruttamento propagandistico di un simbolo della spiritualità e dell’amore reciproco, trasformato in bandiera dell’unione aggressiva di trono e altare. È uno degli episodi che più dimostra fino a che punto può arrivare lo stravolgimento di tutta l’autentica tradizione della religione e della cultura russa, addirittura nel nome della “difesa dei valori tradizionali”. L’aspetto più indigesto della vicenda, soprattutto per il clero ortodosso, è stato il brutale allontanamento del protoierej Leonid Kalinin, presidente del consiglio di esperti del patriarcato di Mosca per l’arte ecclesiastica e il restauro, una figura molto rispettata e amata, che è stato addirittura sospeso a divinis “per la sua opposizione al trasferimento dell’icona nella cattedrale di Cristo Salvatore”.
Il povero padre Leonid, dopo che la scure dell’iracondo patriarca Kirill si è abbattuta su di lui, si è scusato pubblicamente dichiarando che “evidentemente mi sono sbagliato, se è stata presa questa decisione, significa che ci hanno pensato bene”, suscitando ulteriori reazioni di sdegno verso coloro che hanno così brutalmente eliminato il parere dell’ecclesiastico più competente in materia. Egli stesso ha assicurato di “accogliere in pace la decisione, e chiedo le preghiere di tutti coloro che mi conoscono e mi vogliono bene, io cerco di fare quello che ritengo giusto, ma posso sempre sbagliare”. Alla fine l’icona è stata sistemata in una capsula stagna preparata esattamente secondo le istruzioni di Kalinin, rendendo ancora più paradossale l’anatema patriarcale.
Nel frattempo si moltiplicano le “radiazioni canoniche” di membri del clero russo, con l’accusa di “eresia pacifista”, la risposta di Kirill a chi dal resto del mondo ortodosso lo indica come sostenitore del “filetismo”, l’identificazione della religione ortodossa con la causa nazionale, che Costantinopoli aveva condannato nella prima metà dell’Ottocento per contrastare i movimenti di rivolta contro l’impero ottomano. Allora a essere tacciati di eresia erano stati i greci e i bulgari, che aprirono la strada all’accettazione del principio etnico della “Chiesa nazionale”, poi diventato il sistema organizzativo di tutte le Chiese ortodosse. In realtà il principio era stato introdotto dai russi fin dalla proclamazione del patriarcato della “Terza Roma”, la vera origine dell’eresia filetista.
Non può quindi sorprendere che Kirill si scagli contro il pacifismo “ecumenico”, che nega non soltanto l’appoggio alla “operazione militare speciale” in Ucraina, ma le fondamenta stesse della ideologia ecclesiastica russa. Del resto, questa discussione aveva infiammato gli animi di tutta la Russia agli inizi del Novecento, quando venne lanciato l’anatema contro Lev Tolstoj, lo scrittore più religioso-umanista, e anticlericale allo stesso tempo, di tutta la letteratura russa. Il 22 febbraio 1901 l’autore di Guerra e Pace fu scomunicato dal Sinodo della Chiesa, allora senza patriarca, sotto la presidenza del ministro zarista del culto (oberprokuror) Konstantin Pobedonostsev, il “Torquemada” russo della disperata difesa della Santa Russia poco prima delle rivoluzioni. Si dimise infatti poco dopo, nel 1905, dopo un’insensata guerra della Russia contro il Giappone, che tanto ricorda l’attuale rovinosa campagna in Ucraina: i russi pensavano di sottomettere l’impero del Sol Levante in una settimana, rimanendo bloccati tra le isole e i porti per settimane, prima di soccombere all’intrepida controffensiva giapponese. Anche allora, una buona parte dei soldati e marinai russi era costituita da ex-detenuti inviati a forza dai lager a redimersi nella guerra, che non seppero opporre alcuna resistenza ai samurai, essendo in buona parte in preda ai fumi dell’alcool, come i soldati russi di Bakhmut e Kherson.
Alla guerra rovinosa fece seguito la prima rivoluzione russa, annunciata fin dal mese di gennaio dalla manifestazione popolare guidata dal pope Gapon, un sacerdote di simpatie socialiste che aveva chiesto a tutti i gruppi di togliere le bandiere e le scritte politiche e polemiche, avanzando verso il palazzo d’Inverno innalzando le sacre icone processionali. Gapon voleva che lo zar Nicola II scendesse a incontrare il popolo, e sarebbe bastata una sua apparizione per accontentare le folle, ma i generali e i parenti avevano convinto lo zar a rifugiarsi nel castello di Tsarskoje Selo, lontano da San Pietroburgo, e aprirono il fuoco sulle masse dei pacifici dimostranti disarmati. Il governo dichiarò 130 morti, altre fonti ne contarono tra i 600 e i 2000, e fu l’inizio della fine del regime zarista.
Lo scomunicato Tolstoj alzò la sua voce contro le stragi, affermando anche che “mai le persecuzioni religiose furono così frequenti e feroci come oggi”, e fa impressione che nelle accuse patriarcali odierne ai preti pacifisti si parli esplicitamente di “eresia tolstojana”. Lo scrittore aveva in effetti ispirato una nuova variante di religione pacifista, chiamata appunto tolstojanstvo e spregiativamente tolstovščina, proprio il termine utilizzato in questi giorni da propagandisti e predicatori putiniani per esporre al pubblico ludibrio i preti contrari alla guerra. Lo ieromonaco Afanasij (Bukin), che era in servizio alla missione russa a Gerusalemme, era stato allontanato lo scorso febbraio, quando si era espresso contro l’operazione militare in occasione del suo primo anniversario. In questi giorni ha spiegato su Facebook di essere stato ridotto allo stato laicale dal tribunale ecclesiastico con motivazioni estremamente aggressive, come recita la sentenza: “il chierico ha tradito il giuramento ecclesiastico e le regole apostoliche, con motivazioni ancora più depravate, non solo per le parole espresse, ma per il rifiuto a sottomettersi all’autorità ecclesiastica”.
Un altro ieromonaco, padre Jakov (Vorontsov), ha spontaneamente abbandonato la metropolia ortodossa russa del Kazakistan, prima di essere a sua volta cacciato, affermando delle autorità ecclesiastiche che “il Maligno si è impossessato dei loro cuori, che ormai sono incapaci di distinguere il bene dal male… possibile che i santi russi abbiano compiuto invano i loro grandi miracoli e sacrifici? Possibile che la cultura russa sia diventata terreno fertile per la crescita dell’Anticristo? Io credo di no, e confido nei tanti russi che non vogliono la guerra, anche se non hanno il coraggio di dirlo apertamente”.
Non è un caso che a parlare chiaro siano dei monaci, per lo più in sedi periferiche. La maggior parte dei loro confratelli vive infatti in comunità guidate da fedeli esecutori delle direttive patriarcali, e il clero parrocchiale è frenato dalle numerose famiglie, essendo uxorato per tradizione. La grande maggioranza dei preti deve proteggere i tanti figli, molti dei quali proseguiranno la missione dei genitori, diventando a propria volta popy e popady, preti e mogli di preti, secondo le “tradizioni di casta” restaurate dopo l’inverno sovietico. Del resto, anche sotto il regime ateista erano le poche famiglie sacerdotali a conservare la fede ortodossa, tanto che lo stesso patriarca Kirill è figlio e nipote di preti.
Uno dei pochi sacerdoti che ha avuto il coraggio di rischiare anche i destini della propria famiglia è il parroco di Kostroma, 500 chilometri a nord di Mosca, Viktor Burdin, chiamato anche il “Savonarola di Kostroma”. 51 anni, sacerdote dal 2015, all’inizio era il vicario della chiesa del villaggio di Karabanovo, il cui parroco era uno storico dissidente religioso anti-sovietico, padre Georgij Edelštein, oggi 91enne, con il quale ha firmato diverse lettere di protesta già prima dell’invasione dell’Ucraina, e fu tra i promotori della lettera di 300 sacerdoti dopo l’inizio dell’operazione. Anch’egli è ormai ridotto allo stato laicale, con l’accusa formale di “pacifismo menzognero” o “pseudopacifismo”, da distinguere da quello “autentico” che definisce la pace secondo gli interessi del popolo russo e delle vittime del “genocidio ucraino nel Donbass”, secondo il verbale patriarcale della sua condanna.
Padre Viktor ha fatto ulteriormente infuriare il patriarca Kirill, cercando di trasferirsi al servizio della Chiesa ortodossa in Bulgaria, e la scomunica pretende oggi di avere “valore universale”. Burdin risponde con la domanda “chi può impedire di servire a Dio?”, che ripete spesso nelle sue omelie un altro sacerdote ortodosso di Mosca, l’italiano padre Giovanni Guaita, giunto in Russia trent’anni fa con il movimento dei Focolari e diventato membro del patriarcato, spinto dalle convinzioni ecumeniche e dall’amore per la Russia. Una sua intervista sta spopolando su YouTube, “l’unico peccato che non si può perdonare”, quello di usare la fede per infliggere la morte.
La fede non è proprietà di funzionari dello Stato e della Chiesa, neanche dei più illustri e potenti: è la via della pace, come sanno in realtà i sacerdoti e i fedeli del mondo intero.