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Incendio di Milano: in una casa distrutta, si salva solo il crocifisso

Posté par atempodiblog le 4 septembre 2021

Incendio di Milano: in una casa distrutta, si salva solo il crocifisso
Lo ha raccontato il professor Lorenzo Spaggiari, non credente, direttore della chirurgia toracica dell’Istituto europeo dei tumori e docente all’università di Milano
di Gelsomino Del Guercio – Aleteia

Incendio di Milano: in una casa distrutta, si salva solo il crocifisso dans Articoli di Giornali e News Crocifisso

Crocifisso clamorosamente in salvo durante l’incendio di Milano. Una persona che abitava nello stabile distrutto dalle fiamme, racconta un piccolo “miracolo” che sarebbe avvenuto all’interno della sua abitazione, nei tragici momento del rogo.

«Se fossi credente mi sentirei davanti a un miracolo. Da trent’anni però opero chi è colpito dal cancro: i contorni della mia idea di fede si sono progressivamente offuscati. Così non posso che definire incredibile quello ho visto», dice a La Repubblica (3 settembre), il professor Lorenzo Spaggiari, 60 anni, emiliano, direttore della chirurgia toracica dell’Istituto europeo dei tumori e docente all’università di Milano, abitava con la famiglia l’ultimo piano della Torre dei Moro.

“Soltanto una cosa è salva…”
Il professore racconta così il momento in cui si è reso conto che durante l’incendio al grattacielo di Milano, l’unico oggetto che ne è uscito indenne, è stato il crocifisso.

«Il soffitto è crollato e abbiamo perso tutto – afferma Spaggiari -. Bruciata e sciolta dal calore anche la cassaforte inserita nel muro. Soltanto una cosa non solo è salva, ma intatta: un crocifisso. Lo conservavo in una bustina di plastica: come nuova anche quella. Incredibile: mia moglie si è messa quella croce al collo e non vuole toglierla più».

“Non è un episodio avvenuto da solo”
Ecco uno stralcio dell’intervista.

Perché è tanto colpito da questo episodio?
“Siamo proprietari del diciottesimo piano. In duecento metri quadri non è recuperabile uno spillo e ho visto la mia casa bruciare in diretta tivù. L’unico oggetto ad essere riemerso dalle macerie, in perfetto stato dentro una cassaforte liquefatta, è quella piccola croce d’oro. Inutile negarlo, la mia famiglia è scossa”.

Non può essere un caso?
“Se lo è, è un caso che turba. Anche perché non si è verificato da solo”.

Cosa intende dire?
“Domenica mia moglie voleva restare a casa. L’ho infine convinta ad andare qualche ora al mare in Liguria con i bambini. Non avevo mai insistito prima. Se non fossimo usciti, trovandoci al di sopra delle fiamme scoppiate più in basso, saremmo stati in trappola. Spesso nel fine settimana stavamo a giocare e a riposare nel soppalco al diciannovesimo piano. La coincidenza, grazie a cui siamo vivi, ci ha turbato: ritrovare poi tra i detriti solo una croce, sparata fuori dal muro, lascia increduli” (Milano, 3 settembre).

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Settimana liturgica nazionale: Mons. Maniago, “Nelle celebrazioni tutti si sentano a casa”

Posté par atempodiblog le 4 septembre 2021

Non sentirsi fuori posto, ma a casa propria
Settimana liturgica nazionale: Mons. Maniago, “Nelle celebrazioni tutti si sentano a casa”

Dopo il Covid, “non possiamo riprendere il cammino come prima; dobbiamo essere coraggiosi nell’affrontare in modo nuovo quello che per noi rimane essenziale, non tanto dando sfogo a chissà quale creatività, quanto piuttosto valorizzando la bellezza e la dignità delle assemblee e cercando vie nuove per proporre quello che in fondo è la consegna del Signore: ‘Fate questo in memoria di me’”, dice al Sir il presidente del Cal
di Gigliola Alfaro – Toscana Oggi

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La 72ª Settimana liturgica nazionale (Sln) sarà ospitata, nel 2022, dalla arcidiocesi di Salerno-Campagna-Acerno. È stato annunciato al termine della 71ª edizione, dal titolo “Dove due o tre sono riuniti nel mio nome. Comunità, liturgie e territori”, che si è svolta nella cattedrale di Cremona dal 23 al 26 agosto. Abbiamo chiesto di tracciare un bilancio dell’incontro a mons. Claudio Maniago, vescovo di Castellaneta e presidente del Centro di azione liturgica (Cal).

Eccellenza, com’è andata la 71ª Settimana liturgica nazionale, dopo lo stop imposto l’anno scorso dalla pandemia?
È stata una bella esperienza. Si partiva con una titubanza per il contesto ancora condizionato dalla pandemia, quindi non poteva essere una Sln secondo il vecchio modello ormai consolidato negli anni, ma doveva essere qualcosa di nuovo. Erano due i fronti che ci preoccupavano: uno organizzativo, l’latro contenutistico. Per il primo aspetto abbiamo avuto riscontri positivi perché, oltre a una presenza fisica di “settimanalisti” nella cattedrale a Cremona, attraverso le vie telematiche abbiamo superato i duemila contatti. È stato, infatti, un evento costruito anche per chi stava a casa e questa scommessa è stata vinta. Ed è stato bello sapere di comunità o persone, che non avrebbero mai potuto essere presenti a una Sln, come monasteri di clausura oppure o una residenza di sacerdoti anziani, che hanno potuto seguire la Settimana in streaming. Tutto questo ci fa dire che anche le prossime Sln – speriamo in un clima fuori dalla pandemia – dovranno tener conto di questo aspetto, con un uso più attento ai mezzi di comunicazione per ampliare la platea dei partecipanti. Rispetto ai contenuti, anche quest’anno gli interventi sono stati di valore. Il tema era molto significativo: paradossalmente scelto prima della pandemia, è diventato molto più importante adesso, perché ha toccato quel “convenire” così fortemente penalizzato durante la fase acuta della pandemia. Peraltro abbiamo celebrato la Settimana in una diocesi che è stata nell’epicentro dell’emergenza durante la prima ondata.

Cosa possiamo imparare dal digiuno liturgico vissuto l’anno scorso durante il lockdown?
Il digiuno è servito ai fedeli per capire quanto sia importante e necessario celebrare sia per accogliere la grazia di Dio, sia per viverla insieme come Chiesa. L’assemblea liturgica è manifestazione della Chiesa, è un’esperienza di popolo che si raduna intorno al Signore, alla Sua Parola e a quel Pane eucaristico che è vita nuova per tutti. L’esserne privati ci ha aiutato a capire di più quanto sono essenziali il celebrare in generale e l’Eucaristia domenicale in particolare. Dell’esperienza con cui si è cercato di attenuare quel digiuno, perché eravamo in una situazione emergenziale, va fatto un bel discernimento. Nessuno mette in dubbio la buona volontà di fondo, però alcune esperienze sono state eccessive, di cattivo gusto, una creatività che per certi aspetti ha fuorviato dall’importanza e dalla bellezza del celebrare. Invece, la valorizzazione della preghiera in famiglia, che integra l’esperienza liturgica, è un aspetto importante che è stato non solo recuperato, ma forse sperimentato in un modo significativo per la prima volta.

Dopo il lockdown non tutti i fedeli sono tornati in chiesa. Che fare adesso?
Questo interrogativo è stato al cuore della Sln. Il tornare a celebrare alla presenza del popolo ha messo in evidenza una situazione variegata e complessa che la Chiesa già viveva prima del lockdown, cioè di persone che sono ben consapevoli dell’importanza del celebrare e lo vivono come una dimensione essenziale della loro vita cristiana, altri che su questo sono un po’ più superficiali, altri che sono frequentatori occasionali, altri che devono ancora comprendere l’importanza della liturgia o che magari si sentono per certi aspetti restii a momenti istituzionali e rituali perché non hanno avuto la corretta formazione per comprenderne il valore. I primi a ritornare sono stati quelli che hanno vissuto il digiuno come un’assenza di qualcosa d’importante. Molti non sono tornati non perché avessero problemi con una dimensione liturgica ma avevano paura del Covid o perché essendo persone molto fragili avevano ricevuto l’invito a essere prudenti. Ci sono poi persone – e di questo noi siamo preoccupati – che debbono recuperare l’autentico spirito del celebrare, che non è formalità, mero ritualismo, esteriorità, piuttosto il cuore dell’esperienza cristiana. Nella Sln a questa domanda si è cercato di dare qualche risposta, intanto, chiedendo di valorizzare la bellezza e la semplicità della liturgia.

La pandemia ci ha molto scosso e provato, ma anche invitato a ritornare a quello che è essenziale.
Anche nel nostro celebrare c’è un essenziale che deve essere curato, che non ammette distrazioni da parte di chi presiede e di tutta la comunità che deve vivere, partecipare, animare una liturgia. Quindi una cura a celebrare con quell’ordine che manifesta una semplicità e una dignità che permette a tutti di vivere un’esperienza importante.

In questa ripartenza, dobbiamo fare in modo che nelle celebrazioni tutti si possano sentire a casa, non tanto per un ambiente superficialmente familiare: nella liturgia ci deve essere la consapevolezza di quello che si sta pregando perché appartiene a tutti. Ciò permette di non farci sentire fuori posto, ma di essere a casa nostra. Inoltre, l’accoglienza in chiesa, dovuta in questo momento per motivi sanitari, ci insegna che, anche dopo il Covid, sarà importante trovare sulla porta qualcuno che accoglie, saluta, aiuta le persone più fragili a trovare posto, regala un sorriso. Sono apparentemente piccole cose, ma sono quelle che rendono una celebrazione non una funzione a cui passivamente assistere, quanto un’azione familiare a cui partecipare.

Allo sbilanciamento generazionale delle assemblee come si può rispondere?
Nella ripartenza nelle celebrazioni i giovani sembrano i grandi assenti, se non altro quantitativamente, ma mancano anche delle fasce di adulti. La parte più consistente, invece, è costituita da “diversamente giovani”. Questo deve preoccuparci e nella Sln se n’è parlato, tanto che i giovani sono stati oggetto di una piccola tavola rotonda. La risposta è stata: non dobbiamo rincorrere i giovani diluendo lo specifico dell’esperienza cristiana in forme giovanilistiche che alla fine non soddisfano nessuno. I giovani hanno bisogno di autenticità, quindi le nostre comunità, se vogliono aprirsi e accogliere i giovani, devono cercare di vivere il Vangelo senza compromessi, senza sconti. I giovani su questo, giustamente, sono molto esigenti. Inoltre, è necessario che la vita delle nostre comunità non sia attenta ai giovani, ma sia una vita anche “con” i giovani, per farli sentire parte integrante. Il loro posto non è una gentile concessione ma è un posto importante di cui c’è bisogno. Gli anziani, gli adulti, i bambini hanno bisogno della presenza dei giovani.

Nel suo messaggio alla Sln, il Papa ha suggerito di individuare linee di pastorale liturgica per evitare la marginalità della domenica, dell’assemblea eucaristica, dei ministeri…
Il Papa saggiamente ha chiesto degli orientamenti, non ricette, perché queste non solo non ci sono ma sarebbe presuntuoso cercarle o peggio proporle. Lo spirito che ha animato la Settimana è stato in linea con il messaggio del Papa che ha usato parole molto chiare per dire il pericolo che c’è: la marginalità di quanto invece deve stare al centro. Ma questa consapevolezza, durante la Sln, non è diventata – in questo ci sentiamo di aver interpretato bene il Papa – lamentazione sterile, un ripiego nostalgico del passato, ma si è  cercato con umiltà di individuare alcune prospettive. Non possiamo riprendere il cammino come prima; dobbiamo essere coraggiosi nell’affrontare in modo nuovo quello che per noi rimane essenziale, non tanto dando sfogo a chissà quale creatività, quanto piuttosto valorizzando e cercando vie nuove per proporre quello che in fondo è la consegna del Signore. Infatti, il convenire domenicale, il ritrovarsi intorno alla Parola e al Pane di vita è quello che ha chiesto il Signore: “Fate questo in memoria di me”. La Chiesa non può che rimanere fedele su questo. Perciò, la Sln non finisce ma la riflessione, con gli stimoli interessanti e forti che sono stati dati a Cremona, dovrà continuare.

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La tavola e quella giusta distanza tra di noi

Posté par atempodiblog le 4 septembre 2021

La tavola e quella giusta distanza tra di noi
Tratto da: Pane e focolare

La tavola e quella giusta distanza tra di noi dans Articoli di Giornali e News tavola-rotonda

Per ben tre volte, nella stessa giornata, leggo in tre contesti diversi il concetto della giusta distanza. Non può essere un caso, è chiaramente un segnale che mi viene lanciato e non posso ignorarlo. In effetti di fronte alle cose che guardiamo possiamo essere troppo lontani, così da non vedere praticamente nulla, oppure troppo vicini, con la conseguenza di concentrarci su qualche dettaglio ma con il rischio di perdere la visione d’insieme. Questo accade non solo di fronte ad un quadro o ad un avvenimento, ma anche tra le persone. C’è chi soffre per la nostra lontananza, non solo fisica ma anche affettiva, per la mancanza di empatia e di vero interesse per la sua vita. E ci sono persone che al contrario sono infastidite se stiamo loro troppo addosso, se entriamo a piedi uniti nelle loro giornate con un’invadenza poco rispettosa.

Una meditazione dell’episodio del Vangelo che ha come protagonista Zaccheo mi ha sollecitato riflessioni anche sul fatto che davanti alle cose o alle persone siamo non solo troppo lontani o troppo vicini, ma potremmo essere anche troppo in basso o troppo in alto. Conosciamo la storia di Zaccheo: sa che Gesù passerà per la sua città, Gerico, ma essendo piccolo di statura teme di non vederlo, tra la folla che si accalca; allora si arrampica su un sicomoro. Esiste una distanza sbagliata quando siamo troppo piccoli davanti alle cose e queste ci passano davanti senza che ce ne accorgiamo; quella piccolezza può essere magari il simbolo di una frustrazione, di un’insicurezza, di quella spiacevole sensazione di essere sempre inadeguati e con uno spiacevole complesso di inferiorità che ci blocca nel rapporto con gli altri, che vediamo sempre sopra di noi. Zaccheo non si arrende e reagisce salendo sulla pianta, una strategia creativa ed apprezzabile per vedere il Messia ma la visione è sempre ad una distanza sbagliata: dall’alto lo vede ma non entra in nessuna vera relazione con lui. Pensiamo a quello che accade quando siamo superbi, quando guardiamo tutti dall’alto in basso, quando pensiamo di conoscere la realtà solo perché siamo persone importanti e occupiamo poltrone di prestigio. Il mondo passa sotto di noi, crediamo di sapere tutto ma non cogliamo in profondità il significato di ciò che sta accadendo.

La soluzione viene da quel genio della comunicazione che è Gesù: «Zaccheo, scendi dalla pianta, perché oggi devo fermarmi a casa tua». Un autoinvito in piena regola, di quelli che a volte mettono in crisi una padrona di casa che deve in quattro e quattr’otto mettere qualcosa sul fornello, inventandosi un menu con un po’ di creatività e improvvisazione. Ma la soluzione proposta da Gesù è proprio azzeccata: seduti a tavola la distanza è perfetta, ci si guarda negli occhi, nessuno è in posizione di superiorità o di inferiorità rispetto all’altro. Si può finalmente parlare su un piano di parità, ci si può conoscere intimamente senza filtri sbagliati. Ci può essere un capotavola per l’ospite di riguardo, ma i piatti sono gli stessi, il cibo è lo stesso, la comunità intorno a quel desco può sentirsi davvero unita. E’ un genio re Artù che vuole una tavola rotonda per sé e i suoi cavalieri, per indicare la pari dignità e la fratellanza tra quei commensali.

La tavola è davvero un luogo dove realizzare quella giusta distanza che ci permette di guardare le cose come sono, di essere davvero noi stessi senza imbarazzi. Rispetto agli amici o ai familiari seduti con noi non siamo né troppo lontani né troppo invadenti, nessuno è inferiore né superiore agli altri. Come ricorda il mantra del mio blog: “Se mangi con qualcuno, passi subito ad un livello più alto di amicizia”. (E magari se l’ospite è Gesù ci scappa anche una straordinaria conversione di un peccatore incallito come Zaccheo!).

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