Un lembo di cielo

Posté par atempodiblog le 30 août 2020

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“Cercate di conservare sempre un lembo di cielo sopra la vostra vita”.

Marcel Proust – Alla ricerca del tempo perduto

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Il Cardinale Comastri “presenta Miss Italia”

Posté par atempodiblog le 25 août 2020

Il Cardinale Comastri “presenta Miss Italia”
di Angelo Card. Comastri (Vicario Generale di Sua Santità per la Città del Vaticano)
Tratto dalla: Pontificia Parrocchia Sant’Anna in Vaticano

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Oggi c’è il culto della bellezza, si fanno gare di bellezza… ma cos’è la bellezza?

Ve lo dico con un episodio accaduto nella Piazza del Santuario di Loreto. Un pomeriggio durante la processione eucaristica notai uno strano movimento in fondo alla Piazza.

La gente si voltava, sorrideva, era distratta. Non capivo cosa stesse succedendo.

Al termine della processione domandai al Padre Cappuccino presente in Piazza, che cosa era accaduto. Mi rispose: “Sono venute da San Benedetto del Tronto un gruppo di ragazze che partecipano al Concorso di Miss Italia! Ed è saltato tutto!”.

Rimasi stupito e anche un po’ amareggiato, però mi venne subito un’idea.

Chiesi prontamente il microfono e invitai tutti a restare in piazza perché dovevo presentare la nuova Miss Italia. L’attenzione fu subito altissima. Chiamai una mamma calabrese che da tanti anni veniva a Loreto, portando con sé i suoi due figli handicappati mentali.

Li accudiva come due gioielli e veniva in pellegrinaggio per chiedere alla Madonna di farla morire un quarto d’ora dopo i suoi figli.

Sul suo volto brillava la bellezza dell’amore non sfiorato da nessuna ombra di egoismo. Era la bellezza vera!

“Ecco Miss Italia!”, gridai.

Questa è la bellezza che brillava sul volto di Maria… e partiva dal suo cuore veramente bello, perché immacolato.

L’Angelo giustamente le aveva detto:

“Gioisci, tu che sei stata riempita di bellezza! Il Signore è con te”.

Se non recuperiamo questa bellezza, il mondo si popolerà di mostri… con maschere di bellezza.

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Santa Giovanna Antida Thouret

Posté par atempodiblog le 24 août 2020

Compatrona di Napoli
Santa Giovanna Antida Thouret

Tratto da: Oltre i resti

Santa Giovanna Antida Thouret dans Stile di vita Santa-Giovanna-Antida-Thouret
24 agosto, memoria liturgica

Santa Giovanna Antida Thouret, patrona di Napoli, è stata una religiosa francese, fondatrice della congregazione delle Suore della Carità. Seguì da giovanissima le idee di San Vincenzo de’ Paoli a Parigi, ma dovette abbandonare la congregazione nel 1789, a causa dello scoppio della Rivoluzione francese.

Dopo un breve esilio in Svizzera e Germania, si stabilì di nuovo nelle sue terre a Besançon, dove aprì una scuola per fanciulle povere. L’11 aprile del 1799 diede vita ad una nuova congregazione, detta delle Suore della Carità, che, anche grazie all’appoggio di Letizia Ramolino, madre di Napoleone I, si diffuse rapidamente in Francia, Svizzera, Savoia e a Napoli. Entrata in conflitto con l’arcivescovo di Besançon Gabriel Cortois de Pressigny, la Thouret si ritirò a Napoli, presso il Monastero di Regina Coeli, dove si spense nel 1826.

La sua salma è esposta nella Chiesa di Santa Maria Regina Coeli. Monastero e chiesa venne costruito per le canoniche regolari lateranensi, ad opera di Giovanni Vincenzo Della Monica, secondo altri a Giovanni Francesco di Palma. La costruzione della chiesa fu conclusa nel 1594 sotto la supervisione di Luciano Quaranta. Molte altre trasformazioni si avranno nel ‘600 e durante il ‘700.

L’entrata è preceduta da una doppia rampa con pronao sorretto da pilastri e arcate, ed è stato affrescato dal pittore fiammingo Loise Croys, su quella che resta una facciata austera cinquecentesca; ad arricchire dilato si erge il campanile ottagonale. L’interno arricchito con opere di Massimo Stanzione, Luca Giordano, Micco Spadaro, Giovanni Battista Beinaschi, Pietro del Po’ e Girolamo Cenatiempo. Di rilievo anche la grande tela di Antonio Dominici, raffigurante La Resurrezione di Lazzaro, che si ammira sulla controfacciata.

Il chiostro, la cui entrata è in vico San Gaudioso, custodisce i busti di San Vincenzo de’ Paoli e di Santa Giovanna Antida Thouret, opera modificata dall’architetto Picchiatti, su cui affacciano le celle delle religiose lungo i due lati, al centro del giardino una fontana e alla fine del chiostro una Farmacia-spezieria creata dalla Santa Fondatrice. Infine, il salottino all’ingresso con affreschi settecenteschi di straordinaria manifattura, unito al meraviglioso Refettorio.

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Signora dei popoli e splendore degli angeli

Posté par atempodiblog le 22 août 2020

Signora dei popoli e splendore degli angeli
di Benno Scharf – L’Osservatore Romano

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La festa di Maria Regina fu istituita da Pio XII durante l’Anno mariano 1954. Fissata al 31 maggio, a concludere il mese mariano, venne poi spostata dalla riforma liturgica del concilio Vaticano II. La costituzione Lumen gentium dice: «Maria fu assunta alla gloria celeste e dal Signore esaltata come Regina dell’universo, perché fosse più pienamente conformata al suo Figlio». Nella pietà tradizionale ciò è ribadito dal quinto mistero glorioso nella corona del Rosario, mentre nelle Litanie lauretane per 13 volte si usa l’appellativo “Regina”. La devozione alla regalità della Madonna ha però le sue origini nel Medioevo e lo conferma la sua espressione nel canto.

Le antifone della sera
Una tradizione, ripresa nel Duecento da Jacopo da Varagine, narra che san Gregorio Magno in un giorno di Pasqua ebbe una visione di angeli che rendevano omaggio alla Madre di Dio cantando «Regina del cielo, rallegrati perché colui che tu meritatamente hai portato è risorto come aveva detto». La melodia, festosa e insieme solenne, restò nell’orecchio al Pontefice che la introdusse nel culto come antifona pasquale. In seguito vi aggiunse una richiesta: «Prega Dio per noi» e inserì l’invocazione «Hallelujah» tra una frase e l’altra. Secondo un’altra versione autore dell’antifona sarebbe il Papa Gregorio v (996-999). In ogni caso già nell’xi secolo il Regina coeli entrò nell’uso liturgico durante il periodo pasquale; Benedetto XIV lo rese obbligatorio nel 1743.

La Salve Regina è il più noto e popolare tra i canti dedicati alla regalità di Maria. Secondo la tradizione essa è opera di Ermanno il Contratto (= lo storpio, morto nel 1054), poeta, musicista e astronomo, monaco nell’abbazia di Reichenau, sul Lago di Costanza. Un’altra versione attribuisce il testo ad Ademaro, vescovo di Puy en Velay, morto nella prima Crociata nel 1099. Il canto semplice e ispirato piacque subito; a Cluny entrò nella liturgia come processionale nel 1135 e l’esempio fu seguito da altri ordini religiosi. Ripreso anche da molte confraternite, esso divenne popolare già dal XIII secolo in poi. Cristoforo Colombo narra che durante il suo primo viaggio attraverso l’Atlantico tutte le sere, al momento di ammainare le vele, i marinai di ognuna delle sue tre navi si radunavano in coperta e cantavano la Salve Regina. Oggi il testo conclude la preghiera della sera nel periodo tra la Santissima Trinità e l’Avvento.

Ave regina coelorum: «Le origini di questa preghiera sono misteriose e il suo autore è sconosciuto». Viene attribuita allo stesso Ermanno il Contratto oppure a san Bernardo. È riportata per la prima volta in un antifonario dell’abbazia di Saint Maur des Fosses, vicino a Parigi, risalente al XII secolo. Il breve canto di omaggio a Maria sovrana si conclude con la preghiera. Oggi la liturgia lo pone a concludere il giorno in Quaresima.

Maria Regina nelle culture nazionali
Le tre antifone citate sono entrate nella liturgia e hanno quindi valore per tutta la Chiesa. Ma nelle varie nazioni europee esse ispirarono numerose composizioni poetiche e musicali. La più antica dovrebbe essere la sequenza Ave Regina omnium, di origine scandinava, composta tra il XII e il XIII secolo e riportata nelle cinquecentesche Piae cantiones (1582).

Essa consta di tre strofe di dieci versi ognuna. «Ave regina di tutti, Maria, salvezza dei credenti, che hai voluto salvare i poveri» inizia la prima. «Tu sei il principio di ogni virtù, il rifugio e la consolazione dei poveri, tu hai dato al mondo la vera luce. Te loda l’esercito celeste degli angeli e tutta la schiera dei beati ti dà gloria, ti esalta e ti adora». La seconda strofa è una grande litania, mentre nell’ultima si passa alla preghiera, invocando il patrocinio di Maria per tutte le necessità della vita fino all’ultima ora. La melodia nel primo modo gregoriano è enfatica e solenne.

All’inizio del XIII secolo risale la bellissima canzone inglese Edi be thu heaven queene, in tre ottave a rima alternata. «Beata sei tu, regina dei cieli, signora dei popoli e splendore degli angeli. Vergine immacolata e madre pura, tu sei la più nobile tra tutte le donne. Mia dolce Signora, ascolta la mia preghiera, se questa è la tua volontà».

Con accenti tipicamente trobadorici l’ignoto autore (forse re Riccardo cuor di leone) chiede poi a Maria di essere il suo cantore, dedicando a lei la sua vita.

La melodia di questo canto, festosa nel sesto modo e con frequenti salti, è molto graziosa, al punto di essere considerata una delle più belle di tutto il Medioevo.

Negli stessi anni in Francia il monaco-troviere Gautier de Coincy dedica alla Royne celestre, la Regina dei cieli la diciottesima canzone dei suoi Miracles de notre dame. In tre lunghe strofe, ognuna di 36 versi, egli esalta le qualità di Maria, modello perfetto di ogni virtù. La visione trobadorica che idealizzava la donna vede nella Regina dei cieli il suo culmine. Ella è «figlia e madre del Figlio di Dio, nostro Signore». (Il concetto della «Vergine Madre, figlia del tuo figlio», reso celebre da Dante, è presente già nell’Alma Redemptoris mater, composta da Ermanno il Contratto verso il 1030 e prima ancora nella patristica con san Gregorio Nazianzeno).

Il poeta chiede a Maria di poter essere suo servitore, con un’affermazione di fondo: chi serve la Madre di Dio è certo della salvezza. Il detto Ad Jesum per Mariam, espresso nel Seicento da san Luigi Grignion de Montfort, era già molto sentito nella cultura trobadorica. La melodia nel terzo modo è solenne; il salto di quinta iniziale le conferisce un’enfatica grandiosità

Di poco posteriori sono le spagnole Cantigas de Santa Maria. Ben 7 di esse sono dedicate alla Regina dei cieli. «Dio ti salvi, gloriosa Regina Maria», «Ogni salvezza viene dalla Santa Regina», «La Regina gloriosa è modello di santità», «Ogni virtù è nella Regina» sono alcuni dei titoli; ma nelle 427 canzoni l’accenno alla regalità di Maria è frequente.

In Italia è da ricordare la lauda Regina sovrana de gran pietade, contenuta nel Laudario di Cortona (fine XIII secolo). In 8 quartine rimate si magnificano le qualità di Maria «Stella chiarita», «Sole lucente», «Fructo piacente», «Giardino ornato» e «Alta Raina de sole ammantata». La melodia è quella della nota lauda Altissima luce.

Nel mondo tedesco dal tardo Medioevo in poi nasce un vero florilegio di canti a Maria Regina; dalle cinquecentesche parafrasi e ampliamenti delle antifone latine a un vasto repertorio nel Romanticismo. Ancora in uso è la bella canzone di Guido Görres (1842) Maria Maienkönigin (“Maria Regina del maggio”). Con accenti spiccatamente romantici Maria è la «Regina di tutte le donne» e i fiori ne simboleggiano le virtù: la speranza, l’amore e la fede. A lei il poeta chiede che l’anima del devoto possa librarsi nel cielo come l’allodola cantando la lode di Dio.

Tre melodie furono composte per questo testo, rispettivamente da K. Aiblinger. A. Schubiger e J.H. Mohr. Max Reger ne fece una elaborazione a 4 voci.

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Fratel Roger e la continuità di un incontro

Posté par atempodiblog le 20 août 2020

Fratel Roger e la continuità di un incontro
Intervista al priore Alois a ottant’anni dalla fondazione della comunità di Taizé
di Charles de Pechpeyrou – L’Osservatore Romano

Fratel Roger e la continuità di un incontro dans Articoli di Giornali e News Taiz-fratel-Alois

Ottant’anni dopo la fondazione della comunità ecumenica in un piccolo villaggio della Borgogna, sono adesso i figli, i genitori e i nonni di tutti i continenti a pregare insieme a Taizé: un cammino comune di cui si rallegra l’attuale priore, fratel Alois, intervistato da «L’Osservatore Romano». Il monaco tedesco ricorda naturalmente il suo predecessore, Roger Schutz, morto il 16 agosto 2005 all’età di 90 anni, che ha voluto creare non un movimento organizzato quanto piuttosto «un luogo di passaggio per attingere insieme alle fonti della fede», insistendo sul fatto che le tre preghiere comuni rimanessero al centro degli incontri giovanili e che i fratelli fossero prima di tutto persone di ascolto nei confronti di chi partecipa a questi incontri. Commentando infine l’emergenza coronavirus, che ha necessitato alcuni misure speciali all’interno della comunità, fratel Alois auspica che prevalga l’unità, invece del ripiegamento su sé stessi.

Taizé celebra quest’anno il suo ottantesimo anniversario. Ci può raccontare cosa è cambiato — e cosa non è cambiato — nella comunità tra il 1940 e il 2020?
Nel 1940 fratel Roger era il solo a portare avanti il progetto di dare vita a una comunità. Oggi siamo un centinaio di fratelli. Questo è un grande cambiamento. Inoltre accogliamo ogni anno migliaia di giovani da tutti i continenti, e questo è un’altra grande evoluzione che ancora oggi stupisce noi stessi. Ciò che non è cambiato, invece, è il cuore della nostra vocazione. Quando fratel Roger arrivò a Taizé nell’agosto del 1940, la situazione mondiale aveva poco a che fare con quella di oggi. Tuttavia, la sua prima intuizione rimane profondamente attuale: inserire una vita spirituale, una ricerca di Dio, laddove si trovano le fratture del mondo. All’epoca si trattava di accogliere i rifugiati — in particolare gli ebrei — durante la seconda guerra mondiale. Ancora oggi accogliamo dei profughi a Taizé e alcuni nostri fratelli vivono in piccole fraternità in luoghi particolarmente indifesi nel mondo odierno. Negli anni che hanno seguito la creazione della comunità, i primi fratelli che si unirono a Roger vivevano del lavoro agricolo, in condizioni molto semplici. Oggi continuiamo a guadagnarci da vivere, in diversi modi, senza accettare donazioni, regali o eredità. La regola che il nostro fondatore scrisse all’inizio degli anni Cinquanta continua tuttora a ispirarci oggi: vi aveva annotato le intuizioni spirituali essenziali che aveva nei confronti dei suoi fratelli. Tra queste ne isolerei due: il desiderio di essere presenti nel nostro tempo, rimanendo sempre attenti alle chiamate che il Vangelo ci rivolge; e la ricerca dell’unità tra i cristiani, non come fine a se stessa, ma come testimonianza del Vangelo e anche come fattore di pace per tutta l’umanità. Ciò che non è mai cambiato, infine, è la regolarità della nostra preghiera comune, tre volte al giorno, anche se le sue forme di espressione si sono modificate, soprattutto attraverso quelli che vengono chiamati i canti di Taizé.

Come si articolano gli scambi tra le diverse generazioni che hanno frequentato e frequentano la comunità?
All’interno della comunità viviamo quotidianamente questo dialogo tra generazioni: tra i fratelli maggiori arrivati a Taizé sessanta o addirittura settant’anni fa e i più giovani, che per la maggior parte non hanno conosciuto fratel Roger, ci sono ovviamente differenze notevoli. Siamo molto riconoscenti alle prime generazioni che hanno saputo accompagnare i cambiamenti nella comunità, nell’accoglienza dei giovani o nelle opzioni liturgiche, per esempio. Con i pellegrini si crea naturalmente una bella piattaforma di dialogo: ogni settimana dell’anno i giovani sono i più numerosi, ma ci sono anche adulti, genitori con i figli, persone anziane. Ci sono tanti scambi tra di loro e questa dimensione dell’incontro mi sembra molto importante. E poi un altro aspetto mi rallegra: quando i giovani mi spiegano di essere venuti su suggerimento dei genitori o dei nonni, a volte anche con loro. Tre generazioni che trovano la loro strada verso la nostra piccola collina, questo ci colpisce.

Come si mantiene la continuità di Taizé negli anni mentre altri movimenti nati dal dopoguerra sembrano spegnersi con il passare del tempo?
Siamo i primi a meravigliarci di questa continuità. Non so come spiegarla, ma la vedo come una delle più belle eredità di fratel Roger: attraverso tutti i mutamenti avvenuti da una generazione all’altra, lui ha sempre insistito sul fatto che le tre preghiere comuni rimanessero al centro degli incontri giovanili e d’altra parte ci ha sempre chiamati a essere prima di tutto persone di ascolto nei confronti di chi partecipa a questi incontri. Non ha mai voluto creare un movimento organizzato, suggerendo piuttosto che Taizé restasse un luogo di passaggio per attingere insieme alle fonti della fede. Ogni sera in chiesa, dopo la preghiera comune, con i fratelli siamo a disposizione di tutti coloro che desiderano parlare a tu per tu. E sono colpito dalla profonda sete spirituale che molti esprimono. Oggi sembra che per le giovani generazioni la fede sia spesso legata a un impegno concreto. D’altronde, i più giovani sono molto consapevoli delle questioni ecologiche. Non solo ne parlano, ma vogliono impegnarsi concretamente per salvare l’ambiente. Spetta a noi, quindi, di camminare accanto a loro e aiutarli a stabilire un legame con la fede. Spesso aspettano dalla Chiesa parole forti su questi temi.

Giorni fa si è celebrato anche il quindicesimo anniversario della morte di fratel Roger, assassinato il 16 agosto 2005 da una squilibrata, proprio nella chiesa della Riconciliazione a Taizé. In che modo la sua eredità spirituale e umana è sempre presente?
È vero, questi due anniversari sono per noi una grande occasione per rendere grazie per la vita e l’opera del nostro fondatore. Non si tratta di guardare al passato, ma di rallegrarsi insieme per tutti i frutti che la sua vita continua a portare. Per quanto riguarda la Chiesa, il suo contributo più importante resta l’instancabile ricerca dell’unità. Fratel Roger ha avuto sin dall’inizio la volontà di porre la ricerca dell’unità al centro della comunità, affinché sperimentasse l’unità prima di parlarne. Anche oggi i fratelli, cresciuti in diverse Chiese e che ora vivono sotto lo stesso tetto, si sforzano così di anticipare l’unità del futuro. L’unità della famiglia umana è stata un’idea centrale, una preoccupazione che ha segnato tutta la vita di fratel Roger. All’indomani della seconda guerra mondiale, c’era un’emergenza: la riconciliazione tra popoli divisi. Sebbene ovviamente i problemi siano cambiati, credo che l’importanza dell’unità della nostra famiglia umana rimanga più urgente che mai. Un terzo contributo resta molto attuale: la testimonianza che non c’è contraddizione tra vita interiore e solidarietà, ma al contrario un legame profondo. Come ha detto il teologo ortodosso Olivier Clément, i giovani di Taizé possono fare questa sorprendente scoperta: niente è più responsabile della preghiera. Infine, all’interno della comunità, Roger Schutz ha insistito molto sulla vita fraterna: voleva che fossimo un solo corpo, per esprimere una “parabola di comunione”. Sono felice che continuiamo a vivere nutriti da questa intuizione. Non sarà mai il nostro obiettivo quello di diventare una grande istituzione, intendiamo invece rimanere una piccola comunità in cui i legami fraterni hanno la precedenza su tutto il resto.

Come hanno dovuto riorganizzarsi la comunità e il sito di Taizé di fronte alla pandemia di coronavirus? Quali misure sono state prese? Come vi siete adattati?
Noi fratelli, per limitare i rischi di contagio, ci siamo sin dall’inizio suddivisi in otto centri, e questo ci ha permesso di riscoprire diversamente la vita fraterna. È stato come un anno sabbatico, vissuto tutti insieme. Abbiamo dovuto adattarci a questa situazione senza precedenti in molti modi. Un esempio concreto: accogliamo tre famiglie yazide a Taizé, e un fratello ha aiutato i bambini a fare i compiti (con il confinamento tutto doveva essere fatto online). L’ospitalità fa parte del cuore di ciò che vogliamo vivere come comunità ed è stato quindi molto difficile rinunciarvi a metà marzo, quando è iniziato il lockdown. Questo ci ha stimolato a prendere diverse iniziative usando internet, in particolare la trasmissione, ogni sera in diretta, della preghiera da Taizé e anche un weekend “in rete” che ha riunito circa quattrocento giovani adulti. Il programma includeva meditazioni bibliche, condivisione in piccoli gruppi virtuali, workshop. Il riscontro è stato positivo e faremo una seconda proposta analoga nell’ultimo fine settimana di agosto. Da metà giugno a Taizé è stato ripristinato il servizio di accoglienza e sono state adottate una serie di misure sanitarie per garantire la massima protezione a tutti. Siamo in stretto contatto con le autorità civili per adattare le nostre direttive. I giovani si dimostrano molto responsabili in questa difficile situazione che stiamo attraversando tutti.

Cosa la preoccupa di più nella crisi del coronavirus?
Prima di tutto la sofferenza che tante persone sperimentano: la prova della malattia, la morte di una persona cara, la solitudine di tanta gente. Ci sono conseguenze molto dure che dovremo affrontare, siano esse economiche, sociali o anche psicologiche. Per esempio penso ai bambini che per mesi non hanno potuto abbracciare i nonni. Un’altra cosa che mi preoccupa è la tentazione di ripiegarsi su se stessi. Spero sinceramente che l’unità e la solidarietà prevarranno sulle accuse che vediamo incombere qua e là: non ci sarebbe niente di più inutile che cercare capri espiatori per la pandemia. Continuo a portare questo nella mia preghiera: che l’unità prevalga.

Di fronte alla crisi del covid-19, come può Taizé aiutare a mantenere la speranza mentre la società è una barca che fa acqua da tutte le parti?
Siamo tutti su questa barca. E non abbiamo risposte già pronte. Dobbiamo sempre tornare alla fonte della nostra speranza, che è la risurrezione di Cristo. Nel Vangelo non sono le previsioni apocalittiche che hanno l’ultima parola, ma l’orizzonte finale è la risurrezione. Risvegliare questa speranza attraverso la preghiera personale ma anche attraverso le nostre celebrazioni: questo ci aiuterà ad affrontare la realtà, non a edulcorarla. Vanno anche sottolineati tutti i gesti di solidarietà e i segni di speranza compiuti in questo periodo così difficile. Sono colpito da tutto quello che sento al riguardo. Sin dal mese di marzo abbiamo ricevuto messaggi molto forti da parte di alcuni amici, per esempio dal Nord Italia, che spiegavano come si era messa in moto questa solidarietà. Un altro recentissimo esempio è arrivato dal Libano, un paese tanto provato e al quale siamo strettamente legati: in seguito alle terribili esplosioni nel porto di Beirut, diverse famiglie sono scese dalle colline e dalle montagne circostanti per aiutare a sgomberare le macerie e ad accogliere famiglie le cui case erano state distrutte. In Europa ci sono nazioni e politici che scommettono su una maggiore solidarietà: noi vorremmo sostenerli. Ciò fa sperare in una maggiore fraternità tra i Paesi e anche con i diversi continenti. Sì, credo profondamente che la grande maggioranza delle persone abbia sete di fratellanza. E questo è un buon momento per rafforzare tale aspirazione. Nell’enciclica Laudato si’, Papa Francesco sottolinea l’essenziale «sviluppo di istituzioni internazionali più forti ed efficacemente organizzate». È vero: il virus non conosce confini, ma nemmeno la sete di solidarietà e di fraternità.

Cosa dicono e pensano i giovani di Taizé sulla crisi sanitaria, economica e sociale legata al covid-19?
Vorrei menzionare alcune preoccupazioni che avverto parlando con loro e che non sono solo legate all’attuale pandemia. C’è un’autentica paura di fronte al futuro tra molti giovani. Alcuni soffrono per le crescenti disuguaglianze, i cui effetti si possono già vedere a scuola. Come ho detto prima, noto anche una forte richiesta di cambiamento da parte delle generazioni più giovani di fronte all’emergenza climatica. Mi ricordo per esempio di uno scambio avvenuto una sera nella nostra chiesa con un giovane volontario portoghese che richiamava la mia attenzione sul crescente impegno di molti giovani a favore delle questioni ambientali. Il suo invito, come quello di altri ragazzi che vanno nella stessa direzione, ha dato vita, negli ultimi mesi, a una riflessione ecologica a Taizé, dove i giovani sono una forza trainante. Probabilmente siamo di fronte a un vero momento di conversione: semplificare tutto ciò che può essere nel nostro modo di vivere, senza aspettare che i cambiamenti vengano imposti dall’alto. Ricordandoci allo stesso tempo che la semplicità non significa mai assenza di gioia ma può anzi coincidere con uno spirito di festa. Mi sembra che la Chiesa abbia un ruolo importante da svolgere nel comunicare questi valori che provengono direttamente dal Vangelo.

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Discoteche chiuse: si muore anche senza Covid/ Non esiste libertà senza educazione

Posté par atempodiblog le 18 août 2020

Discoteche chiuse: si muore anche senza Covid/ Non esiste libertà senza educazione
Una ordinanza dichiara chiuse fino al 7 settembre le discoteche per rischio diffusione corona virus: ma si muore anche senza pandemia
di Paolo Vites – Il Sussidiario
Tratto da: Radio Maria

Discoteche chiuse: si muore anche senza Covid/ Non esiste libertà senza educazione dans Articoli di Giornali e News giovani-discoteca

Le discoteche, ora chiuse per paura di contagio del Covid, sono un luogo di morte ben prima dello scoppio della pandemia. Qualcuno ricorderà i tanti articoli, commenti, spreco di parole dedicati alle “stragi del sabato sera”. Erano i tempi, ma ci chiediamo se siano davvero finiti, quando i ragazzi che andavano in discoteche aperte da mezzanotte all’alba si ubriacavano e poi a bordo delle loro automobili si schiantavano morendo a dozzine. Si inventarono misure di sicurezza, minor vendita di alcolici e addirittura autobus speciali per portare e riportare a casa i ragazzi dalle nottate in discoteca. Poi arrivarono le droghe chimiche come l’ecstasy, spacciate in gran quantità in tutte le discoteche d’Italia, e anche qui i morti. Ragazzini e ragazzine che non sapevano nemmeno cosa ingoiassero. Qualche perquisizione, qualche chiusura (temporanea però) dei locali considerati a rischio e niente altro. Ci sono poi i rave party, cosiddette discoteche “alternative” all’aperto o in grandi magazzini, il cui luogo è tenuto segreto e comunicato solo per passaparola. Qui si radunano in migliaia, la musica è un rimbambimento totale, non è neanche più musica, ma una accelerazione di battiti elettronici sempre uguali, che da sola, senza neanche la droga che comunque circola in quantità industriale, rimbambisce chiunque. Alcuni di essi durano anche 24 ore consecutive. Non è più la cultura del divertimento, come erano le discoteche degli anni 70, ma la cultura dello sballo. Poi c’è la questione del sesso facile e anche degli stupri e delle risse, anche mortali, fuori della discoteca. Non stupisce quindi che un idolo dei discotecari, il dj Bob Sinclar, sintetizzi tutto con questa squallida frase di menefreghismo: “Il distanziamento sociale è l’opposto di quello che significa stare insieme. Come puoi chiedere a chi ama ballare di mantenere una certa distanza dagli amici? La regola è ‘goditi l’attimo’. Non ho un consiglio migliore”.

Ha ragione Linus, ex dj e direttore di Radio Deejay a dire che esistono altri modi per divertirsi, dopo aver letto sui giornali posizioni scandalizzate per la chiusura delle discoteche, “i ragazzi hanno diritto di vivere”. Vivere o morire? Rimbambirsi o provare la bellezza del divertimento autentico? Siamo onesti una volta tanto e diciamo che le discoteche, così come sono diventate, andrebbero chiuse sempre, non solo in pandemia. Ma no non si può, sarebbe lesivo della libertà. Ma cosa sia autentica libertà, oggi è un valore che ha perso ogni significato. Non esiste libertà senza una educazione, a cui ha abdicato chi di dovere, genitori, scuole, politici che danno esempi pessimi di comportamento ai giovani.

Ha ragione Linus a dire che “quale imbecille di politico, governatore, sindaco o questore poteva pensare che si potessero aprire e non avere assembramenti?!?”. Dietro le discoteche ci sono interessi economici enormi, ecco perché non sono state chiuse. Probabilmente anche ricatti a chi di dovere. Il tutto sulla pelle di ragazzini che hanno smarrito ogni capacità di divertirsi davvero. Ancora Linus: è una posizione «da paraculi», dice, perché “i ragazzi hanno migliaia di altri modi per divertirsi. Correndo qualche rischio, certo, perché è assurdo pensare di chiudersi in un bunker. Ma è stupido favorire i problemi”. Chi si occupa oggi dei problemi, in modo serio, per il bene del prossimo. Abbiamo paura che non sia nessuno a farlo.

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Santuario di Santa Maria a Parete dedicato all’Immacolata Regina delle Vittorie (Liveri)

Posté par atempodiblog le 17 août 2020

Santuario di Santa Maria a Parete dedicato all’Immacolata Regina delle Vittorie (Liveri)
di Fr. John Francesco Maria Lim – Madonna del giorno

Santuario di Santa Maria a Parete dedicato all'Immacolata Regina delle Vittorie (Liveri) dans Apparizioni mariane e santuari Santuario-di-Santa-Maria-a-Parete-dedicato-all-Immacolata-Regina-delle-Vittorie-Liveri

Il santuario di S. Maria a Parete è dedicato alla Immacolata Regina delle Vittorie e deve le sue origini alle apparizioni della Madre di Dio ad una giovane pastorella di Liveri di nome Autilia Scala. Tali apparizioni, tramandate da una veneranda e incontestabile tradizione, sono comprovate dalla seguente scritta che una volta si leggeva qui:

D.O.M. DEIPARAE VIRGINI CUIUS OLIM IMAGO SUB TERRA SEPTA VEPRIBUS AUTILIA SCALA DIVINO MONTI INDICANTE, MIRACULIS LATE CLARUIT ET A PARETE, IN QUO PICTA EST NOMEN HABUIT ANNO AB EILSDEM VIRGINIS PARTU MDXIV PIDIE IDUS APRILIS

Che tradotta in Italiano dice:

“Alla vergine Madre di Dio, la cui immagine, una volta sotto coperta di spine, fu dissepolta in seguito ad una rivelazione divina fatta ad Autilia Scala, ampiamente rifulse per miracoli e prese il nome della parete sulla quale è dipinta, il 12 aprile nell’anno dell’era volgare 1514”.

Secondo quanto viene tramandato, Autilia Scala, figlia di contadini, stava portando al pascolo le sue vacche quando ad un certo punto avrebbe visto la Madonna. Ella avrebbe detto:

“Autilia, ti ho scelta per una delle più alte imprese che compirai a mio nome, portati dal Conte Enrico Orsini, in Nola, e digli, che sotto quel cespuglio a destra della mia mano, vi è sepolta una mia immagine, da molti secoli; voglio che si scavi la terra e si edifichi in mio onore un Tempio”.

Recatasi dal conte, Autilia non fu creduta. Il giorno dopo (13 aprile) vi fu una seconda apparizione nello stesso luogo, e questa volta il volto della giovane fu segnato da un raggio di luce.

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Ritornata dal conte, questa volta fu presa sul serio, e con la collaborazione del vescovo monsignor Bruno, furono intrapresi degli scavi nel luogo indicato dalla Madonna. Qui fu ritrovato un dipinto che raffigurava la Vergine in mezzo a due angeli, la quale fu identificata come l’Immacolata Regina delle Vittorie.

Ai piedi della icona fu trovata la famosa “CAMPANELLA DELLA MADONNA”, del peso di circa quaranta chili, al cui suono la fede del popolo devoto associa un flusso continuo di grazie per i casi gravi ed urgenti della vita. Alle richieste quasi quotidiane del suono della campanella si unisce la preghiera solidale e fervente di quanti la ascoltano.

Sulla Campanella l’iscrizione: “SS. NICOLAS, CONFESSOR CHRISTI, MARIA VIRGO ORA PRONOBIS, KAROLUS DEI GRATIA REX SICILIAE”. Secondo alcune fonti, il Carlo citato nell’iscrizione sarebbe Carlo II d’Angiò, il quale, a seguito di qualche vittoria riportata in battaglia, avrebbe fatto costruire in quel luogo una cappella dedicata a San Nicola di Bari e alla Madonna. Dipinto e campana sarebbero quindi appartenenti a questa antica costruzione del XIII secolo.

Gli eventi di quei giorni rimasero un evento importante nella storia di Liveri, che da allora inizia un percorso da città mariana che si estende fino ad oggi. La vergine fece sentire ben presto ai suoi devoti la sua materna protezione con un abbondante pioggia di grazie per cui la devozione alla Regina delle Vittorie di Liveri si diffuse rapidamente. Circa tre mesi dopo le apparizioni Autilia morì. Alla pastorella è oggi dedicata la piazza adiacente al Santuario nella natìa Liveri.

La sacra immagine consiste in un affresco di scuola italo-bizantina, databile al sec. IX e raffigura la Madre del Signore con le mani congiunte in atteggiamento di preghiera, vestita in maniera regale, con il capo coperto e incoronato. Ai lati due Angeli, in espressione di servizio e di profonda venerazione, offrono alla Regina delle Vittorie il mondo, la palma e lo scettro, segni evidenti della efficacia e della universalità della sua mediazione materna.

L’immagine della Regina delle Vittorie venne incastonata in un magnifico tempietto ricoperto dentro e fuori di pitture di inestimabile valore. Il pellegrino che vi entra avverte immediatamente, in un clima di spiritualità e di misticismo, la soave presenza della madre celeste e, con fiducia e abbandono filiale, è portato ad affidare i suoi problemi e le sue ansie al suo Cuore Immacolato nell’intima certezza di essere accolto ed esaudito.

Al santuario convengono anche esteti e intenditori di arte, attratti dagli affreschi di artisti napoletani del seicento. Il tempietto a sua volta è sormontato dalle armoniche volte della Basilica rinascimentale.

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Non siamo degli abbandonati nel mondo, non siamo dei reietti, siamo figli del Padre celeste

Posté par atempodiblog le 16 août 2020

Dal Vangelo secondo Matteo
(Mt 15,21-28)

Partito di là, Gesù si diresse verso le perti di Tiro e Sidòne.
Ed ecco una donna Cananèa, che veniva da quelle regioni, si mise a gridare: «Pietà di me, Signore, figlio di Davide. Mia figlia è crudelmente tormentata da un demonio».
Ma egli non le rivolse neppure una parola.
Allora i discepoli gli si accostarono implorando: «Esaudiscila, vedi come ci grida dietro».
Ma egli rispose: «Non sono stato inviato che alle pecore perdute della casa di Israele».
Ma quella venne e si prostrò dinanzi a lui dicendo: «Signore, aiutami!».
Ed egli rispose: «Non è bene prendere il pane dei figli per gettarlo ai cagnolini».
«È vero, Signore, disse la donna, ma anche i cagnolini si cibano delle briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni».
Allora Gesù le replicò: «Donna, davvero grande è la tua fede! Ti sia fatto come desideri». E da quell’istante sua figlia fu guarita.

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La Cananea, esempio pratico di una grande virtù sotto umili apparenze
del servo di Dio don Dolindo Ruotolo

Gli scribi e farisei nelle loro opposizioni al Redentore non si contentavano solo di parole, ma tentavano passare ai fatti e ordivano congiure contro di Lui per liberarsene. Gesù Cristo, per impedire una recrudescenza del loro odio, si allontanò dalla pianura di Genesaret, dove si trovava, e passò nelle parti di Tiro e Sidone, cioè tra gente Cananea. Egli annunziava così col fatto che la parola della verità, rigettata dal popolo ebreo, sarebbe passata ai pagani; non andò in quei luoghi per evangelizzarvi il popolo, ma per indicare quello che sarebbe avvenuto in futuro e, conoscendo tutto, vi andò per mostrare con un esempio pratico agli apostoli, disorientati dalla propaganda farisaica, che cosa significasse avere fede. È evidente dal contesto che Egli stesso attrasse a sé la povera Cananea, che andò a supplicarlo per la figlia indemoniata, anzi può dirsi che sia andato esclusivamente per lei in quelle contrade, non avendovi operato altro.

La fama dei suoi miracoli si era sparsa in ogni luogo, e forse la Cananea aveva tante volte desiderato incontrarsi con Lui, per supplicarlo in favore della figlia. Forse aveva pregato con viva fede credendolo il Messia, il fatto si è che, appena saputo della sua presenza, gli corse incontro, chiamandolo Figlio di Davide e Signore, e confessandolo per Colui che doveva venire.

La sua preghiera fu semplicissima: essa espose il suo caso doloroso, e lasciò a Lui la cura di pensarci.

Pregò con fede nel chiamarlo Figlio di Davide, con umiltà nell’implorarne pietà e con fiducia esponendogli il suo caso doloroso tra grida di suppliche. Gesù non le rispose nulla, sembrò insensibile a quell’angoscia materna, Egli che aveva un cuore infinitamente tenero.

La donna non si scoraggiò, continuò a gridare e gli apostoli, presi dalla compassione, lo supplicarono a sbrigarla. Egli rispose che non era stato mandato che alle pecore perdute della casa d’Israele.

Con queste parole non intese dire di non voler esaudire la preghiera di quella donna, ma volle mostrare agli apostoli, in una durezza che li addolorava, quanto era contrario alla carità la durezza di chi s’irrigidiva in una legge esteriore senza tener conto del suo spirito.

Dal suo Cuore però partivano raggi di carità invisibili che colpirono la donna, la fecero più ardita e la fecero avvicinare a Lui implorando aiuto. Gesù rispose che non era bene prendere il pane dei figli e darlo ai cani. Chiamò cani i pagani, non perché l’amor suo li stimasse tali, ma perché così li riguardavano gli scribi e i farisei.

A bella posta volle far sentire agli apostoli, in un contrasto con una madre supplicante, quanto fosse ingiusto il disprezzo che gli Ebrei avevano dei pagani. Essi vedendo quel disprezzo in confronto con Lui, carità per essenza, ne distinguevano di più l’orrore. Egli poi, dicendo una parola così dura alla povera Cananea, le fece sentire contemporaneamente con quale carità la riguardava; il suo Cuore divino la provava e le dava la grazia per resistere alla prova. La Cananea, infatti, rispose con maggiore fede che anche i cagnolini mangiavano le briciole che cadevano dalle mense dei loro padroni. Era indegna del pane dei figli, e come cagnolina voleva raccogliere solo una briciola di quella potenza taumaturga con la quale Egli colmava di benefìzi tanti poveri infelici. Era questa la più grande espressione di una fede umile e sincera, e Gesù, mutando d’un tratto atteggiamento, ed elogiando tanta fede, la esaudì e, in distanza, con una parola di onnipotenza, le sanò la figlia.

La lezione era tutta rivolta agli apostoli titubanti; essi dovettero riconoscere che non avevano quella fede profonda che sa resistere alle prove; dovettero capire quanto superiore agli scribi e farisei era quell’umile donna, che aveva nel cuore un tesoro di fede sul Messia, e si sentirono rinfrancati nello spirito. Gesù poi, partito di là, e andato verso il mare di Galilea, cioè sulla riva orientale del lago di Genesaret, vi operò moltissimi strepitosi miracoli, confermando così la fede dei suoi apostoli.

Muti, ciechi, zoppi, storpi e molti altri infermi sperimentarono la sua potenza e ne furono consolati spiritualmente e corporalmente.

Quante volte, pregando, ci sembra che Gesù Cristo, la Madonna e i santi non ci ascoltino, e l’anima si disorienta a volte fino a sentirsi venir meno la fede! Quante volte, in questi momenti di tenebre, satana ci suggerisce che è vano pregare e ci getta in una cupa disperazione che è forse il tormento maggiore della vita! Eppure in quei momenti di oscurità, proprio allora, dobbiamo intensificare la preghiera, perché la fede esca ingigantita dalla prova ed ottenga grazie maggiori di quelle che ha richieste. Si può dire con assoluta certezza che nessuna preghiera è vana, e che quando non ci vediamo esauditi ci si prepara una consolazione più grande, temporale ed eterna. Non siamo degli abbandonati nel mondo, non siamo dei reietti, siamo figli del Padre celeste, ed Egli ci riserba il suo pane, cioè la ricchezza delle sue misericordie.

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Assunta perché è l’Immacolata

Posté par atempodiblog le 15 août 2020

Assunta perché è l’Immacolata

Assunta perché è l’Immacolata dans Apparizioni mariane e santuari Maria-assunta-in-Cielo

Ora, gli ultimi due dogmi mariani proclamati dalla Chiesa sono l’Immacolata Concezione e l’Assunzione. Sono fra loro interamente congiunti: Maria è stata assunta in Cielo, cioè è l’unica che, prima della fine del mondo, sia già in Paradiso con il Suo corpo glorioso, accanto a Cristo Risorto, proprio perché è l’Immacolata. La Madonna assunta in Cielo è già partecipe della gloria di Cristo perché Lei è stata redenta, prima e più perfettamente di ogni altra creatura, perché la Sua redenzione non consiste nella grazia del Battesimo come per noi, ma nell’essere preservata dal peccato originale. Si tratta dunque di una redenzione preventiva, poiché è stata resa immune dal peccato originale, sempre piena di grazia e mai sfiorata dal serpente o sotto la sua dittatura di peccato e di morte, neppure per un istante. Ora, proprio perché la Madonna è la prima e la più perfetta creatura redenta, Lei ha il privilegio di essere l’Assunta in Cielo, la prima a essere partecipe della vittoria di Cristo Risorto. Direi quindi che il dogma dell’Immacolata Concezione di Maria ci fa capire perché la Madonna è stata assunta in Cielo in anima e corpo.

Tratto da: L’Aldilà nei messaggi di Medjugorje. La Regina della Pace chiama l’umanità alla salvezza. Di Padre Livio Fanzaga con Diego Manetti. Ed. PIEMME

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La dormizione di Maria

Posté par atempodiblog le 14 août 2020

La dormizione di Maria
Rivelazione della Madonna sulla sua assunzione al Cielo

La dormizione di Maria dans Fede, morale e teologia Dormizione-Maria

[...] riguardo alla questione se sia morta prima di essere assunta in Cielo, la Regina della pace è stata categorica.

Proprio nel giorno della solennità dell’Assunta, così rispose: “Mi chiedete della mia assunzione. Sappiate che io sono salita al Cielo prima della morte” (15-8-1981).

L’affermazione della Madonna si pone così nel solco della tradizione più antica che parla della “Dormizione” della Beata Vergine Maria, intesa come momento di grazia nel quale la Madre di Dio “è stata pienamente conformata al Figlio suo Risorto, il vincitore del peccato e della morte” (Catech. C. C. 966).

“Nella tua maternità hai conservato la verginità, nella tua dormizione non hai abbandonato il mondo, o Madre di Dio; hai raggiunto la sorgente della Vita, tu che hai concepito il Dio vivente e che, con le tue preghiere, liberi le nostre anime dalla morte” (Liturgia bizantina).

di Padre Livio Fanzaga

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Maria assunta in Cielo

Posté par atempodiblog le 14 août 2020

Maria assunta in Cielo
Tratto da: Missionarie dell’Immacolata Padre Kolbe

Maria assunta in Cielo dans Fede, morale e teologia Kolbe-e-l-Immacolata

Riportiamo una riflessione di san Massimiliano Kolbe sul significato dell’Assunzione di Maria al Cielo.

Il giorno 15 di questo mese la santa Chiesa, festeggiando l’Assunzione della santissima Vergine Maria, canta con esultanza: «Maria è assunta in cielo, si rallegrano gli angeli, lodano e benedicono il Signore». Spontaneamente in tal giorno noi ci sforziamo di riprodurre nella nostra immaginazione il paradiso tanto atteso; tuttavia, malgrado ogni nostro sforzo, non siamo ancora soddisfatti. Noi ci diciamo che lassù dovrà essere, in certo modo, diverso da come ci raccontano o da quel che leggiamo nei libri. E giustamente; in realtà in paradiso le cose non saranno diverse solo «in un certo modo», ma, si può affermare, in modo del tutto diverso da quello che noi possiamo immaginare. E perché?
Perché noi traiamo tutti i nostri concetti dalle cose che ci circondano, dalle realtà materiali che vediamo qui su questa nostra terra oppure in mezzo agli spazi del firmamento, e solo partendo da tutto ciò noi ci formiamo, mediante i concetti di somiglianza e di casualità, qualche idea a proposito del paradiso. Si tratta, comunque, di un’idea molto e molto imprecisa.
Tutto ciò che ci circonda, fossero anche le cose più belle e più attraenti, è però sempre e da ogni punto di vista limitato. Non esiste qui una bellezza infinita né immutabile.

Tutto ciò che vediamo, sentiamo e proviamo non soddisfa appieno i nostri desideri. Noi vogliamo di più, ma questo «di più» non c’è. Vogliamo che duri più a lungo, ma qui inesorabilmente e sempre sopraggiunge la fine. In paradiso sarà tutto il contrario.
Lì c’è il Bene, la Bellezza infinita: Dio è la felicità senza fine. La differenza, quindi, è assolutamente infinita.
Nella sacra Scrittura e nelle opere dei Padri della Chiesa troviamo molte similitudini tratte dalle nostre conoscenze terrene. Così, ad esempio, san Giovanni paragona il paradiso a una città felice e scrive: «La città non ha bisogno della luce del sole né della luce della luna, perché la gloria di Dio la illumina e la sua lampada è l’Agnello. Le nazioni cammineranno nella sua luce…» (Ap 21,23-24). Egli continua immaginando che essa sia costruita con i materiali più preziosi e più belli che si possano immaginare, con l’oro, quindi, e con le più diverse pietre preziose.
Sovente, poi, nelle prediche i sacerdoti si sforzano di abbozzare una raffigurazione del paradiso. Raccogliamo ciò che di più bello e di più buono vi è attorno a noi per comporre con esso il quadro, ma tutto questo è solamente un’immagine lontana, molto lontana, poiché si tratta di somiglianze infinitamente diverse.

In modo ancora migliore descrive il paradiso colui che, già in questa vita, fu rapito fino al cielo per breve tempo, cioè san Paolo, il quale afferma: «Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, queste ha preparato Dio per coloro che lo amano» (1Cor 2,9). È una descrizione ancora più vicina alla verità, poiché mostra l’infinita differenza che passa tra le idee che noi abbiamo circa il paradiso e la realtà.
A ogni modo, possono farsi un’idea di come sarà il paradiso coloro che già qui sulla terra hanno avuto la possibilità di pregustare un piccolo anticipo di paradiso. E ognuno lo può sperimentare. È sufficiente accostarsi alla confessione con sincerità, con diligenza, con un profondo dolore dei peccati e con il fermo proposito di emendarsi. Si sentirà subito una pace e una felicità in confronto alle quali tutti i piaceri fugaci ma disonesti del mondo sono piuttosto un odioso tormento. Ognuno cerchi di accostarsi a ricevere Gesù nel santissimo Sacramento con una buona preparazione; non permetta mai alla propria anima di rimanere nel peccato, ma la purifichi immediatamente; compia bene tutti i propri doveri; elevi umili e frequenti preghiere verso il trono di Dio, soprattutto per le mani della Vergine immacolata; abbracci con cuore caritatevole anche gli altri confratelli, sopportando per amore di Dio sofferenze e difficoltà; faccia del bene a tutti, compresi i propri nemici, unicamente per amore di Dio e non per essere lodato né tanto meno ringraziato dagli uomini, allora si renderà conto di ciò che vuol dire pregustare il paradiso e potrà trovare la pace e la felicità persino nella povertà, nella sofferenza, nel disonore, nella malattia.

Questo pregustamento di paradiso è altresì un sicuro annuncio della beatitudine eterna. In realtà non è facile dominare se stessi nel modo descritto sopra, allo scopo di conquistare questa felicità, ma ricordiamo che chi lo chiede con umiltà e perseveranza all’Immacolata, l’otterrà sicuramente, poiché Ella non è capace di rifiutare alcunché a noi, né il Signore Iddio è capace di rifiutare nulla a Lei.
A ogni modo, tra breve sapremo con esattezza come sarà in Paradiso. Sicuramente tra cent’anni nessuno di noi camminerà più su questa terra. Ma che cosa sono cento anni di fronte a ciò che abbiamo passato?… E poi, chi aspetterà ancora tanti anni?… Fra poco, dunque, purché ci si prepari bene, sotto la protezione dell’Immacolata. (SK 1065)

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Evitare il Purgatorio

Posté par atempodiblog le 14 août 2020

Evitare il Purgatorio
di Maria Tartaglino
tratto da: Amici di MARIA TARTAGLINO

Evitare il Purgatorio dans Fede, morale e teologia Maria-Tartaglino-e-Maria-Immacolata

«Ci saranno delle anime, tanto delicate, che diranno: “MA NON E’ QUESTA UNA VANA PRESUNZIONE, SPERARE DI EVITARE IL PURGATORIO, CHE NON E’ STATO SFUGGITO DA TANTI SANTI?”.  Io dico di sì, se l’anima si appoggiasse puramente su se medesima, sulla sua aspirazione, ma non già, invece, se quest’anima eccita, in se stessa, una sincera ed efficace risoluzione di voler essere tutta di Dio, convinta, però, appieno, di non avere, in ciò, le forze necessarie, tutta compresa della grande e stragrande bontà di Dio e della Sua onnipotenza e, rivolta a Lui con una semplice e filiale confidenza, dica: “O GESÙ, DOLCE MIO AMORE, AIUTAMI TU A METTERE IN PRATICA LA RISOLUZIONE CHE TU STESSO MI METTESTI IN CUORE, DI ESSERE TUTTA TUA, SCHIVARE PERFINO IL PURGATORIO….”: Una così generosa confidenza in Dio non può non essere grandemente accettata e però gradita a Dio stesso, più conforme al gusto del suo benefico cuore, e quindi capace di ottenere all’anima i più copiosi favori per arrivare felicemente ad avere ciò che essa confida nella sua aspirazione. Ma queste care anime potrebbero anche dire: “MA COME PUÒ QUESTO AVVENIRE SE, DA UNA PARTE, E’ INFINITA LA GIUSTA ESIGENZA DI DIO NEL NON TOLLERARE AL SUO COSPETTO NESSUN DIFETTO E, DALL’ALTRA PARTE, SI SA CHE E’ ANCHE INCONTESTABILE L’UMANA FRAGILITÀ, CHE E’ SEMPRE SOGGETTA A MILLE IMPERFEZIONI?”:  Io dico, per quello che ho capito, che questo è solo possibile per mezzo della perfetta ed intensa carità!!  E, difatti, non è forse vero essere parola di Dio, che la carità toglie la moltitudine dei peccati? Nella Chiesa si diedero sempre, e si danno, esempi tali di carità così perfetta ed efficace, nei quali tante persone, che, per il passato, si trovarono immerse in ogni sorta d’iniquità e, poi, in forza di tali atti di perfettissima carità e contrizione, colti anche improvvisamente dalla morte, passarono immediatamente alla visione di Dio, senza neppure toccare le fiamme del Purgatorio [...].

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San Massimiliano Kolbe: “Ave Maria” è la sintesi della sua vita

Posté par atempodiblog le 14 août 2020

San Massimiliano Kolbe: “Ave Maria” è la sintesi della sua vita
Oggi la Chiesa ricorda San Massimiliano Kolbe, francescano polacco ucciso ad Auschwitz il 14 agosto del 1941. Ripercorriamo la sua vita alla luce del profondo legame con Maria alla vigilia della Solennità dell’Assunta
di Amedeo Lomonaco – Vatican News

San Massimiliano Kolbe: “Ave Maria” è la sintesi della sua vita dans Articoli di Giornali e News Kolbe

“Ave Maria”. Sono queste le ultime parole che San Massimiliano Kolbe, nato in Polonia nel 1894, pronuncia ad Auschwitz, il 14 agosto del 1941, prima di morire. L’ultimo tratto della sua vita è un calvario condiviso con altri prigionieri del campo di sterminio. Dopo la deportazione, è spogliato del saio francescano ed è destinato ai lavori più umilianti, come il trasporto dei cadaveri al crematorio. Riceve il numero di matricola 16670. Dopo la fuga di un prigioniero, dieci detenuti vengono destinati al cosiddetto bunker della fame nel Blocco 13 e sono condannati a morire di fame. Padre Kolbe offre la sua vita in cambio di un padre di famiglia,  Franciszek Gajowniczek, che molti anni dopo ricorda quel drammatico momento con queste parole: “Kolbe uscì dalle fila, rischiando di essere ucciso sull’istante, per chiedere al Lagerfhurer di sostituirmi. Non era immaginabile che la proposta fosse accettata, anzi molto più probabile che il prete fosse aggiunto ai dieci selezionati per morire insieme di fame e di sete. Invece no! Contro il regolamento, Kolbe mi salvò la vita”.

Ave Maria
È appena cominciato il mese di agosto del 1941. Padre Kolbe viene rinchiuso nel “bunker della fame”, ad Auschwitz, insieme con altri nove prigionieri. In questo tragico luogo, la disperazione diventa una preghiera comune. Passano i giorni e il “coro” di voci oranti, guidate dal sacerdote francescano, perde di vigore e diventa un flebile sussurro. Dopo due settimane di indicibili sofferenze, solo quattro prigionieri sono ancora vivi. Tra loro, c’è anche padre Kolbe. Le guardie del campo di sterminio decidono allora di accelerare la fine delle loro vite con una iniezione di acido fenico. È il 14 agosto del 1941. Padre Kolbe tende il braccio e le sue parole prima di morire sono l’ultimo sigillo di una vita messa nelle mani di dell’Immacolata. Il giorno dopo, solennità dell’Assunzione della Beata Vergine Maria, il suo corpo viene bruciato nel forno crematorio e le sue ceneri si mescolano con quelle di tanti altri condannati a morte. Viene proclamato Santo il 10 ottobre del 1982 padre Kolbe dal Pontefice polacco San Giovanni Paolo II. Nell’omelia, Papa Wojtyła ricorda che l’ispirazione di tutta la vita di padre Kolbe “fu l’Immacolata, alla quale affidava il suo amore per Cristo e il suo desiderio di martirio. Nel mistero dell’Immacolata Concezione si svelava davanti agli occhi della sua anima quel mondo meraviglioso e soprannaturale della Grazia di Dio offerta all’uomo”.  Come i suoi predecessori, Papa Francesco nel corso della visita ad Auschwitz, il 29 luglio 2016 durante il viaggio apostolico in Polonia , ha sostato in preghiera silenziosa presso la cella del martirio del Santo polacco.

Una vita nelle mani dell’Immacolata
È dunque Maria ad ispirare la vita di Padre Kolbe. Nel 1917 fonda la “Milizia di Maria Immacolata”. Lo scopo è quello di « rinnovare ogni cosa in Cristo attraverso l’Immacolata ». Nel 1922, da inizio alla pubblicazione della rivista “Il Cavaliere dell’Immacolata”, per alimentare lo spirito e la diffusione della Milizia. Cinque anni dopo, nei pressi di Varsavia, nasce Niepokalanów, la “Città dell’Immacolata”. Nel 1930,padre Kolbe parte per il Giappone, dove fonda “Mugenzai no Sono” o “Giardino dell’Immacolata”, nella periferia di Nagasaki. Qui si rifugeranno gli orfani di questa città, dopo l’esplosione della bomba atomica. Dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale la città di Niepokalanów viene trasformata in un luogo di accoglienza per feriti, ammalati e profughi. Dopo aver rifiutato di prendere la cittadinanza tedesca, padre Kolbe  il 17 febbraio 1941 viene rinchiuso nella prigione Pawiak a Varsavia. Pochi mesi dopo, viene deportato nel campo di sterminio di Auschwitz.

Padre Kolbe e la medaglia miracolosa
Padre Massimiliano Maria Kolbe nel 1918, dopo essere ordinato sacerdote, celebra la sua prima Messa a Roma a Sant’Andrea delle Fratte. È il luogo dove, il 20 gennaio del 1842, l’Immacolata Concezione della medaglia miracolosa appare all’ebreo Alfonso Ratisbonne. Il giovane ebreo, che portava la medaglia al collo per scherno, si converte istantaneamente. La medaglia miracolosa è stata coniata per volontà della Madonna espressa a Santa Caterina Labouré nell’apparizione del 27 novembre del 1830. Padre Alfonso Longobardi, vice parroco di Sant’Andrea delle Fratte, ricorda il legame tra padre Kolbe con la chiesa romana non lontana da piazza di Spagna e con la medaglia miracolosa.

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Il Cardinale Piacenza: “Maria non si è minimamente allontanata da noi”

Posté par atempodiblog le 13 août 2020

Il Cardinale Piacenza: “Maria non si è minimamente allontanata da noi”
Omelia del Penitenziere Maggiore in occasione della Messa celebrata ieri sera presso la Grotta della Vergine della Rivelazione, a Roma, nel corso della novena per la Solennità dell’Assunzione.
di Marco Mancini – ACI Stampa

Il Cardinale Piacenza: “Maria non si è minimamente allontanata da noi” dans Apparizioni mariane e santuari cardinale-mauro-piacenza
Il Cardinale Mauro Piacenza, Penitenziere Maggiore
Foto: Alan Holdren – CNA

“Nella realtà dell’Assunzione corporea di Maria trova saldezza e conforto la nostra speranza per il futuro che ci attende oltre la morte e per il nostro tribolato presente”. Lo ha detto il Cardinale Mauro Piacenza, Penitenziere Maggiore, nell’omelia della Messa celebrata ieri sera presso la Grotta della Vergine della Rivelazione, a Roma, nel corso della novena per la Solennità dell’Assunzione.

“L’Assunzione della Madonna - ha proseguito il porporato - dà sostegno alla nostra fiducia nella vita futura, perché rappresenta la primizia e la concreta caparra della risurrezione dei nostri corpi”.

“Maria – ha ricordato ancora il Penitenziere Maggiore – è una di noi, e se dunque una di noi, dietro a Gesù, è entrata nel Regno dei cieli con l’integrità della sua persona, vuol dire che la redenzione del nostro corpo è già cominciata”.

“L’Assunta, pur nella sua straordinaria esaltazione, non si è minimamente allontanata da noi. Il cielo – ha sottolineato il Cardinale Piacenza – è il mondo invisibile e più vero, dove dimora Dio con i suoi angeli e i suoi santi: ed è vicinissimo a noi perché il Creatore non è mai lontano dalle sue creature”.

Concludendo l’omelia il Cardinale ha pregato affinché “la gravissima pandemia che affligge l’umanità richiami tutti ad una illuminata riflessione e alla necessità di conversione” impegnando “tutti alla preghiera e alla cristiana solidarietà”.

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LETTURE/ Il segreto dell’amicizia tra Dostoevskij e Solov’ëv

Posté par atempodiblog le 13 août 2020

LETTURE/ Il segreto dell’amicizia tra Dostoevskij e Solov’ëv
Il 13 agosto (calendario gregoriano) del 1900 moriva Vladimir Solov’ëv. Il filosofo aveva con Dostoevskij un rapporto di profonda amicizia
di Vincenzo Rizzo – Il Sussidiario

LETTURE/ Il segreto dell’amicizia tra Dostoevskij e Solov’ëv dans Amicizia Ivan-Kramskoi-ritratto-di-V-Solovev-1885-particolare
Ivan Kramskoi, ritratto di V. Solovev (1885), particolare

Qual è il segreto dell’amicizia e che esperienza fa vivere? Questa domanda scaturisce dal rapporto straordinario e generativo tra Dostoevskij e Solov’ëv: due grandi intellettuali distanti a livello generazionale (trentadue anni di differenza), che hanno lasciato un’eredità valida ancora oggi per cogliere ciò che “strappa dal nulla”.

Si può tentare di rispondere alle domande, non in maniera frontale e analitica, ma cercando di sorprendere alcuni aspetti che chiariscono il percorso della ricerca. Il legame tra i due scrittori, ad esempio, già dall’inizio (1873), non è un comodo rispecchiarsi dell’uno nell’altro, un’affinità di interessi o un’attenta benevolenza, ma un’asimmetria produttiva. Il giovane Solov’ëv guarda allo scrittore, già affermato e famoso, come una persona a cui porre domande significative e con cui confrontarsi su individualismo, razionalismo e positivismo. Ma, curiosamente, Dostoevskij vede in Vladimir, nonostante la giovane età, qualcuno di più grande e di autorevole. A Fëdor ricorda, infatti, Sidlovskij, una persona influente e significativa del suo passato. E, inoltre, il suo volto gli rammenta la “Testa di Cristo” di Annibale Carracci.

L’uno richiama all’altro, insomma, la memoria di qualcosa di più grande, con un invito a imparare. Non a caso, il grande scrittore nel 1878 si reca ad ascoltare le celebri Lezioni sulla Divinoumanità del filosofo: un richiamo al Dio vivente, al Dio tutto in tutti. Ognuno, ancora, vede nell’altro una specifica e opposta originalità che non è obiezione a sé, ma conferma di un misterioso legame nascosto. Dostoevskij indaga il sottosuolo e il basso dell’umano, fino ad arrivare agli  abissi dell’abiezione, alla morsa del tormento, al sussulto del tremore. Solov’ëv, invece, è preso dalle altezze mistiche della Sofia e da un riso, talvolta, stranamente contagioso. Entrambi considerano l’amicizia non come mero conforto, ma come compagnia al destino nei momenti cruciali della vita, proprio quando la vita urta e ferisce. È Solovëv, infatti, ad accompagnare Dostoevskij, dopo la morte dell’amato figlio Alëša, al monastero di Optina Pustyn. Così scrive Anna Snitkina in Dostoevskij mio marito: “pregai Solov’ëv, che in quei giorni di dolore veniva da noi molto spesso, di persuaderlo ad andare con lui a Optina Pustyn’ dove egli si proponeva di passare l’estate”.

Nel loro rapporto vive,  anche,  una comune certezza che fa sì, addirittura, che l’uno possa parlare a nome dell’altro, nel Nome dell’Altro. Rispondendo a una lettera di Peterson, riguardo alle idee di Fëdorov, il 24 marzo 1878, il genio russo scrive che lui e Solovëv credono in una letterale, effettiva e personale resurrezione e che essa avverrà sulla terra. Si tratta, qui, di una forte ed evidente vicinanza e consonanza spirituale. Volgin, a tal proposito, afferma in Poslednii God Dostoevkogo (L’ultimo anno di Dostoevskij) che Solov’ëv è stata una delle rare persone a cui lo scrittore si è sentito veramente vicino negli ultimi anni della sua vita. E certo colpisce, anche, la medesima e vibrante tensione dello sguardo dei due: insieme verso la stessa profondità, lo stesso abisso. Entrambi, alla ricerca delle cose ultime, scrutano il mysterium iniquitatis e ciò che lo vince. La falsificazione del bene operata dall’Anticristo e la correzione dell’opera di Cristo fatta dal Grande Inquisitore, nei loro celebri testi, non hanno l’ultima parola, non hanno il potere di cancellare la Bellezza suprema: essa è più forte, perché totalmente vera.

Si può dire, allora, a giusta ragione, che nella loro unità c’è una reciproca e feconda compenetrazione. L’uno è presente all’altro e nell’altro. Alcuni tratti del filosofo sono rinvenibili nell’Alëša de I fratelli Karamazov e di Anna Snitkina in Ivan Karamazov. E anche il tema del Dio vivente, caro al filosofo, è presente ne “Il visitatore misterioso” dei Karamazov. E c’è aria di parentela, certamente, tra l’universalismo cristiano dell’entusiasmante Discorso su Puškin (1880) di Dostoevskij e il centrale concetto di unitotalità di Vladimir Sergeevič. Per i due straordinari profeti v’è, innanzitutto, un punto di partenza: la condivisione ideale del cristianesimo come Avvenimento. Così scrive Solov’ëv in Opravdanie dobra (La Giustificazione del Bene): “il vero cristianesimo … è un avvenimento assoluto – rivelazione della personalità perfetta del Dio-Uomo, di Cristo risuscitato corporalmente”.

Tale avvenimento non è statico, ma dinamico: avviene con una forza attuale presente. Nei Tre discorsi in memoria di Dostoevskij (ed. La Casa di Matriona), scritti tra il 1881 e il 1883, ricorre numerose volte il termine sila (forza). Il filosofo parla di forza divina, forza interiore, forza spirituale, forza benefica. Non si tratta di un’affermazione intellettuale o di un termine ben pensato, ma di un’esperienza reale: “Avendo sperimentato la forza divina nell’anima – una forza che si manifesta vittoriosa attraverso ogni infermità umana – Dostoevskij è giunto alla conoscenza del Dio e del Dio-Uomo”. Secondo il filosofo,  la presenza di “un di più” è la cifra e la peculiarità dello scrittore. Un di più, segretamente, in movimento nelle loro vite, capace di unire, vincendo il nulla.

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