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Letture, come ai tempi dei Promessi Sposi sarà il Bene ad avere l’ultima parola

Posté par atempodiblog le 7 mars 2020

La visione manzoniana del Male sconfitto sempre dalla fede
Letture, come ai tempi dei Promessi Sposi sarà il Bene ad avere l’ultima parola
di Caterina Maniaci – ACI Stampa

Letture, come ai tempi dei Promessi Sposi sarà il Bene ad avere l'ultima parola dans Alessandro Manzoni I-promessi-sposi

Dall’autunno del 1629 al maggio 1630 Milano e buona parte della Lombardia sono flagellate dalla peste. Che viene considerata un pericolo minore, all’inizio, dalle autorità, e che rapidamente si  propaga e stermina una gran parte della popolazione. Questa, fra le tante epidemie che hanno costellato la vita del nostro Paese, viene ricordata in modo particolare perché Alessandro Manzoni l’ha mirabilmente rievocata nel suo romanzo capolavoro, I Promessi Sposi.

In questi giorni difficili e angoscianti che oggi in Italia, e ormai ovunque nel mondo, stiamo vivendo per via dell’epidemia diffusa dal famigerato coronavirus, vorremmo suggerire di riaprire quel romanzo, e in particolare il capitolo XXXI. In queste settimane spesso è stato citato e qui si vorrebbe farlo non tanto per rintracciare in questa cronaca remota le comparazioni, o le grandi differenze, con quello che stiamo affrontando oggi. Rileggere Manzoni e I Promessi Sposi può rappresentare invece l’occasione non solo per riscoprire la bellezza di questa storia e la grandezza del suo autore, ma per ritrovare consolazione e saggezza, una “guida” per affrontare con autentico spirito cristiano quello che accade ora quotidianamente.

Il Bene non viene sconfitto, alla fine, nonostante i percorsi difficili, i travagli, le pene e le ingiustizie subite. Il Bene si propaga forse più lentamente del Male, ma in modo più capillare e duraturo. La malattia, la pestilenza,  non sono quelle che avranno l’ultima parola, invece avranno una fine e i “buoni”, gli umili. Coloro che hanno sempre anteposto l’amore per gli altri a quello per sé stessi, potranno dire l’ultima parola. Perché la vita terrena, breve e piena di affanni, non è il fine ultimo del nostro destino, la nostra vera esistenza comincerà dopo la morte. Si tratta, a ben vedere, di un messaggio non tanto consolatorio, ma realistico, basato sulla evidenza della ragione di speranza che offre il cristianesimo e su quello che possiamo sperimentare quotidianamente noi stessi.

Manzoni racconta con forza, passione e commozione il sacrificio di tanti, conosciuti e sconosciuti, che nel momento della grande paura, dell’infuriare della pestilenza reagiscono e fanno fronte al dilagare del male e della morte. Le autorità sottovalutano il pericolo, lo nascondono e poi, quando non possono più negare l’evidenza, schiacciati sotto il peso della situazione precipitata, si affidano ai religiosi. Qui il racconto intreccia elementi storici a intuizioni personali. Il lazzaretto di Milano viene affidato ai padri cappuccini, sotto la guida di padre Felice Casati, noto per la vita caritatevole e molto stimato, affiancato da padre Michele Pozzobonelli, più giovane ma altrettanto animato da fervore caritatevole. Manzoni rileva la « stranezza » di un’autorità governativa che rinuncia al proprio compito per cederlo a uomini religiosi, ma sottolinea come questa situazione sia occasione del manifestarsi del potere infinito della carità cristiana, così come è bello che i frati abbiano accettato questo gravoso incarico quando nessun altro voleva accollarselo, senza altro fine che quello di servire il prossimo e  senza altra speranza che quella di una morte invidiabile in quanto viatico per la vita eterna. Molti confratelli, infatti, si ammalano e perdono la vita, anche padre Casati viene colpito dalla peste, ma guarisce e continua a prodigarsi nella vita terribile del lazzaretto.

Non si può, suggerendo una rilettura dei Promessi Sposi,  e in particolare degli ultimi capitoli dedicati appunto alla pestilenza e alle sue conseguenze sui vari protagonisti – ricordiamo che Renzo e Lucia si ritrovano proprio nel lazzaretto milanese – non citare uno dei più famosi episodi manzoniani, tra i più commoventi. Quello che ha come protagonista la piccola Cecilia e  la sua mamma.

Nel capitolo XXXIV Renzo vaga per la Milano sconvolta dalla peste. Si trova in una zona che oggi possiamo individuare come via Montenapoleone e vede una giovane donna uscire da un portone e dirigersi verso il carro dei monatti  (gli uomini che raccoglievano i cadaveri delle vittime di casa in casa, di strada in strada)  fermo lì vicino, portando in braccio un corpo immobile  quello che poi si scoprirà essere quello della sua figlioletta, una bimba di nove anni, Cecilia, appena spirata.  Uno dei monatti si avvicina per prendere il corpo e gettarlo insieme agli altri accatastati sul carro. Ma la madre si rifiuta di cederlo, è lei stessa che lo vuole posare sul carro, dare un’ultima carezza a quel viso tanto amato e già appassito. Mette in mano all’uomo dei denari in cambio della promessa che la figlioletta sarà sepolta sottoterra “così com’è vestita”, senza toglierle neanche un filo. Vuole insomma che la sua bimba mantenga bellezza e dignità anche nella morte, che non è la fine di tutto e non è nato separazione definitiva, perché, le mormora prima di lasciarla andare, si rivedranno presto in cielo, lei insieme all’altra sorella.

Umanità e bellezza anche nel caos, nella disperazione, nella paura. Un messaggio che non dobbiamo e non possiamo ignorare.

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Restare umani e non dimenticare chi fugge da guerra e fame

Posté par atempodiblog le 7 mars 2020

Restare umani e non dimenticare chi fugge da guerra e fame
L’editoriale del direttore mette in guardia: tutti così impegnati a parlare di corona virus, delle paure per la salute ma soprattutto per l’economia, che pochi si rendono conto di quanto succede non molto lontano dalle nostre coste
di Domenico Mugnaini – Toscana Oggi

Restare umani e non dimenticare chi fugge da guerra e fame dans Articoli di Giornali e News Bimbo-siriano-in-preghiera

C’è un rischio di cui quasi nessuno parla, impegnati come siamo a guardare solo nel nostro orto. Tutti così impegnati a parlare di corona virus, delle paure per la salute ma soprattutto per l’economia, che pochi si rendono conto di quanto succede non molto lontano dalle nostre coste. Le immagini dei militari turchi, che quasi spingono in mare i profughi siriani, e quelle della guardia costiera greca impegnata a evitare gli sbarchi sulle coste, in altri momenti avrebbero forse fatto salire l’indignazione.

Avrebbero fatto dire, giustamente, che questa è un’altra prova del fallimento di un’Europa – ma Russia e Stati Uniti non sono da meno – impegnata solo a spostare, ogni tanto, l’attenzione di un’emergenza umanitaria ben più grave di quella del corona: qualche mese è la Libia e quindi in prima linea c’è l’Italia, poi il problema si sposta in Turchia e quindi in Grecia. La verità è che se tutto il mondo, giustamente, è impegnato a cercare il vaccino – e tutti ci auguriamo che presto si trovi una soluzione – nessuno si preoccupa di chi è costretto da una guerra infinita, dalla fame e dalla povertà ad abbandonare la propria casa, la sua città per cercare di dare un futuro ai figli. Rischiando e, troppo spesso, pagando con la vita.

Ma è da capire quale futuro possa avere chi scappa dalla Libia (dove arrivano i profughi di mezza Africa) o dalla Siria (al centro di un braccio di ferro internazionale), in un mondo che ha perso la capacità di indignarsi davanti a certe immagini. Ancora una volta i profughi sono usati per scopi politici: dal leader turco Erdogan, che da anni ottiene miliardi di euro minacciando l’Europa di lasciar partire i profughi (sembra 3 milioni di persone che vivono sotto tende fatiscenti quando non all’aperto, al freddo, sotto la neve), ai signori della guerra in Libia. E intanto in quei campi si continua a morire e nessuno si preoccupa di sapere se anche lì è arrivato il corona virus e magari stanno morendo anche per questo.

In Italia, poi, lo spettacolo dato da alcuni, per esempio il mondo del calcio, è ancora peggiore, con le società di Serie A, tutte, che guardano solo ai loro interessi, quasi che intorno fosse sempre domenica. Eppure non è così. E allora bisogna trovare il colpevole che, ancora una volta, è stato da molti individuato nell’informazione. Ne ha tante di responsabilità. Ma non si possono non dare notizie e in questa emergenza abbiamo l’obbligo di darle. Noi per primi, anche in questo numero, diamo molto spazio mantenendo però – e speriamo di esserci riusciti – l’obiettivo di non esagerare e di essere soprattutto corretti con chi ci legge. Le colpe dei media, invece, sono altre. E forse al primo posto c’è proprio il dimenticare le altre emergenze, come quella che in questi giorni si svolge ai confini della Turchia o, ancora, nel Mar Mediterraneo. Ma anche in altri Paesi come la Nigeria, come racconta [...] un giovane sacerdote nigeriano che svolge il suo servizio alle porte di Firenze. Il suo grido di allarme noi lo abbiamo raccolto e speriamo di trasmetterlo a chi dovrebbe intervenire (forse le Nazioni Unite?). Per primi però vogliamo trasmetterlo ai nostri lettori convinti che tutti dobbiamo ricordarci di essere umani, di avere la capacità di discernere quanto ci succede vicino. Perché, come ha dimostrato anche il corona virus, il mondo è uno solo e le altre Nazioni non sono così lontane.

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