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Il “sacrificio” entra in scena al Festival di Sanremo

Posté par atempodiblog le 7 février 2020

Il “sacrificio” entra in scena al Festival di Sanremo
Sul teatro del politicamente corretto sale un rapper che colpisce Amadeus per la sua voglia di combattere pur inchiodato alla carrozzina con la Sla. Il giovane canta un inno alla vita, parlando della bellezza del sacrificio (l’amore dei suoi cari) e del Rosario che allontana il diavolo della disperazione. Chi soffre non può non essere rimasto colpito, e questo è sufficiente.
di Benedetta Frigerio – La nuova Bussola Quotidiana
Tratto da: Radio Maria

Il “sacrificio” entra in scena al Festival di Sanremo dans Articoli di Giornali e News Paolo-Palumbo

È proprio vero che il cuore dell’uomo, anche quello di chi non lo sa, anche quello di chi cerca la morte come via di fuga o di chi implora il diritto alla morte per timore della sofferenza è fatto per la vita.

A dimostrarlo è stato addirittura il Festival di Sanremo che della volgarità, della violenza e del politicamente corretto ha fatto la sua casa. In quanto a volgarità basti pensare ad Achille Lauro che ha scimmiottato san Francesco d’Assisi, che si denudò per spogliarsi di ogni bene ed offrire tutto a Dio. In quanto a violenza si pensi alla presenza del rapper Junior Cally, i cui testi sono di una ferocia vergognosa. In quanto a politicamente corretto, ricordiamo le polemiche che hanno accusato di sessismo Amadeus per aver parlato di Francesca Sofia Novello, fidanzata di Valentino Rossi, voluta dal presentatore «perché vedevo…intanto la bellezza, ma la capacità di stare vicino a un grande uomo stando un passo indietro malgrado la sua giovane età».

Ma allora che c’entra la celebrazione della vita in tutto questo? C’entra perché, nonostante fosse stato scartato alle selezioni, Paolo Palumbo è stato poi voluto sul palco dell’Ariston proprio da Amadeus. E Palumbo non è un rapper qualunque, perché è anche il più giovane malato di Sla d’Europa, che, oggi ventiduenne, si ammalò a diciassette anni. Ma sopratutto Palumbo non è un rapper qualunque perché, paralizzato e aiutato a respirare dalla trachesotomia, non solo canta la forza e la bellezza della vita, ma è riuscito a portare oltre il sipario di una cultura ormai mediamente ribelle a qualsiasi sofferenza la parola “sacrificio”. Spiegando il valore della rinuncia per ottenere qualcosa di più grande. Facendo cantare l’esistenza come una battaglia e dimostrando cosa significhi vivere virilmente. Così, inchiodato ad una carrozzina, Palumbo ha ricordato all’uomo l’altezza della sua natura.

E lo ha fatto prima scrivendo nella sua canzone così: «Nella vita di ognuno di noi c’è un sogno da realizzare, dicono però per avere ciò che vuoi devi lottare, non me la sento proprio di lasciarmi andare perché se esiste una speranza ci voglio provare». Successivamente, aiutato da un comunicatore vocale che leggeva i movimenti dei suoi occhi, ha spiegato che suo fratello «Rosario (che ha lasciato tutto per aiutarlo, ndr) e la mia splendida famiglia mi hanno insegnato cosa significa la parola sacrificio, dedicandomi la loro vita senza chiedermi nulla in cambio, se non di rimanere qui con loro». A dire che vale la pena fare fatica per vivere un’esistenza riempita dalla presenza di chi amiamo e che vale la pena soffrire i dolori della malattia per godere del bene più grande dei propri cari.

Ma Palunbo sfugge anche all’interpretazione relativista che solitamente inserisce questi testimoni fra un fenomeno da baraccone e l’altro, facendo così credere che ognuno possa scegliere indifferentemente di interpretare il personaggio che vuole. «Grazie al loro amore – ha continuato il giovane – ho scoperto una forza interiore che non sapevo di avere e che vorrei trasmettervi, perché sono convinto che ce l’abbiamo tutti, anche se non ce ne rendiamo conto». A dire che non c’è malato che abbia bisogno di chi lo voglia “compassionevolmente” eliminare, ma solo di essere sostenuto per scoprire la sua forza. Di qualcuno che appunto gli dica “tu vali le mie lacrime” e a cui lui possa rispondere “tu vali la mia pena”.

Infatti Palumbo ha tirato un’altra steccata alla cultura della morte che usa il termine “accanimento terapeutico” per abbandonare i malati e non rianimarli: «Poco più di un mese fa ho affrontato un momento difficile, una crisi respiratoria. Se non fosse stato per la bravura dei medici e il sostegno di tutti quelli che sono accanto a me, oggi non ci sarei. Quando mi sono risvegliato dalla rianimazione ho riflettuto sulla fortuna di essere vivi». Perciò il cantautore ha ricordato che il male più diffuso e grave non è quello che affligge il corpo, ma l’anima con l’egoismo: «Se abbiamo bisogno di un cambiamento è soprattutto nella mente, dove stagnano le disabilità più pericolose come la mancanza di empatia e tolleranza». Per questo nella sua canzone condanna chi giudica da fuori i malati o chi pronuncia frasi come “se fossi in quella condizione preferirei morire”: «Vedermi con la sedia a rotelle ti ha infastidito? – dice la sua canzone – Questa malattia fa paura vista fuori», invece «do speranza ad ogni malato».

Alla fine del testo il ragazzo ha voluto dire cosa sostiene tutto questo amore, sacrificio e vita. Cosa, in poche parole, lo fa essere lieto: «Credo e recito il rosario ed è proprio lui a tenere lontano il mio sicario», il tentatore che ci fa pensare il contrario: che il sacrificio sia più grande di ciò per cui vale. Conclusa la performance il pubblico si è alzato in piedi ad applaudire commosso. Certo, può anche essere che per molti la testimonianza di Palumbo sia passata come un puro spettacolo, come un’emozione suscitata da un giovane che ha fatto una sua scelta. Resta però sicuro che chi soffre non può non aver visto una luce. E questo, per il Festival di Sanremo, è più che sufficiente.

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