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La fede di Kobe, un fatto che dà speranza (di vera gloria)

Posté par atempodiblog le 28 janvier 2020

La morte del campione
La fede di Kobe, un fatto che dà speranza (di vera gloria)
di Ermes Dovico – La nuova Bussola Quotidiana

La fede di Kobe, un fatto che dà speranza (di vera gloria) dans Articoli di Giornali e News Kobe-e-Gianna-Maria

L’ex cestista americano, 41 anni, la figlia tredicenne e altre 7 vittime in un incidente in elicottero. “Non si può morire così”, scrivono alcuni. Tra fiumi d’inchiostro, pressoché ignorato il rapporto di Kobe con la fede cattolica. Che pure è stato decisivo nella sua vita terrena, come rivelò lui stesso, e richiama a ciò che conta davvero: l’eternità

Sono passate meno di 48 ore dalla notizia dell’incidente mortale di Kobe Bryant, 41 anni, e degli altri otto passeggeri del suo elicottero, compresa la tredicenne Gianna Maria, una delle quattro figlie del fuoriclasse della pallacanestro. Meno di 48 ore, ma si è già detto e scritto di tutto. All’incredulità e allo sgomento iniziali si sono aggiunte tante domande sul perché di una tragedia così, sulle sue cause. Si sono ricordati successi, record, aneddoti personali su Kobe, nonché i sogni della giovanissima figlia, un astro nascente del basket femminile.

Il Sikorsky S-76B su cui viaggiavano le nove vittime, decollate pochi minuti dopo le 9 di domenica 26 gennaio, era diretto alla Mamba Academy (l’accademia cestistica fondata da Bryant, detto “the Black Mamba”), proprio per un torneo a cui avrebbe dovuto giocare Gianna Maria. C’è chi, anche sui giornali, ha parlato di morte “assurda”, che non si può morire così, nel pieno della vita. Eppure si muore così e in mille altri modi che sfuggono alle possibilità di controllo di ogni essere umano. Povero o ricco, bambino o anziano, vip o sconosciuto, giusto o ingiusto, perché non sappiamo «né il giorno né l’ora» (Mt 25, 13), come disse Gesù nella parabola delle dieci vergini, invitando a vegliare in vista dell’incontro con lo Sposo. L’importante è allora come ci si è preparati per quell’incontro, che vale il luogo dove passeremo la nostra eternità.

La gloria terrena di Kobe è cosa nota. A livello di squadra, cinque titoli Nba con i Los Angeles Lakers e due ori olimpici con la nazionale statunitense. A livello individuale, una quantità enorme di allori. Per esempio: due volte miglior marcatore della stagione, due volte miglior giocatore delle finali, una volta miglior giocatore della stagione regolare, 11 volte nel miglior team di tutta l’Nba, il più giovane giocatore dell’All-Star Game (19 anni e 175 giorni), più tiri da 3 messi a segno in un tempo (8), l’unico giocatore nella storia della Nba ad aver segnato 60 punti nella sua ultima gara da professionista (a quasi 38 anni), 33.643 punti totali, il quarto di tutti i tempi nella storia dell’Nba: LeBron James gli ha soffiato il terzo posto pochi giorni fa e lui si era congratulato con l’amico via Twitter proprio la domenica dello schianto.

I giornali di casa nostra si sono soffermati anche sullo speciale rapporto che legava il campione all’Italia, dove Kobe ha vissuto dai 6 ai 13 anni, seguendo con la famiglia gli spostamenti del padre Joe, cestista anche lui, che giocò per le squadre di Rieti, Reggio Calabria, Pistoia e Reggio Emilia. Di qui, l’italiano fluente di Kobe e i nomi dati alle sue figlie: Natalia Diamante (2003), Gianna Maria (2006-2020), Bianka Bella (2016) e l’ultimogenita Capri Kobe (2019).

Molto meno conosciuto è invece il suo rapporto con la fede, anche in queste ore ignorato dal grande sistema mediatico, fatta salva qualche eccezione, prevalentemente di area cristiana.

Kobe era cresciuto in una famiglia cattolica e nella stessa fede ha voluto educare le sue figlie, nate dal matrimonio con Vanessa, cattolica anche lei e di quattro anni più giovane, sposata nel 2001 nella chiesa di Sant’Edoardo, a Dana Point (California).

Due anni più tardi, nel 2003, la nascita della primogenita ma anche uno scandalo che rischiava di travolgere per sempre la stella dell’Nba: una dipendente diciannovenne di un hotel del Colorado, dove Kobe aveva soggiornato, accusò il campione di averla stuprata. Seguì l’arresto, e la liberazione su cauzione. Bryant chiese pubblicamente perdono alla moglie, ammise l’adulterio, ma negò l’accusa dello stupro, sostenendo che si fosse trattato di un rapporto consensuale. Alcuni dei suoi maggiori sponsor rescissero il contratto con lui. Nel processo penale le accuse furono a un certo punto archiviate, mentre la causa civile venne risolta con un accordo tra le parti. Kobe aveva intanto fatto una dichiarazione pubblica di scuse alla ragazza e a tutte le persone offese dalla vicenda, sostenendo la linea del fraintendimento. Per lo stress dell’intera vicenda, la moglie Vanessa patì l’aborto spontaneo del loro secondo figlio.

In quella bufera personale e familiare, acuita dalla sovraesposizione mediatica, Kobe trovò la sua àncora di salvezza nella fede cattolica. Come spiegò in un’intervista a GQ nel 2015: «Avevo paura di andare in prigione? Sì. Amico, avevo 25 anni. Ero terrorizzato. L’unica cosa che mi ha davvero aiutato in quel processo – sono cattolico, sono cresciuto cattolico, i miei bambini sono cattolici – è stata parlare con un prete. In realtà è stato in qualche modo divertente. Lui mi guarda e dice: “L’hai fatto?”. E io dico: “Certo che no”. Poi chiede: “Hai un buon avvocato?”. E io: “Oh, sì, è fenomenale”. Allora lui mi disse solo: “Lascia correre, vai avanti. Dio non ti darà nulla che tu non possa affrontare, e ora è nelle Sue mani. Questo non è qualcosa che tu puoi controllare, quindi lascia correre”. E quello fu il punto di svolta».

Se l’affidamento a Dio lo salvò in quella circostanza, tuttavia le difficoltà e presumibilmente i vizi negli anni successivi riemersero, specie nel rapporto con la moglie. Nel 2011 Vanessa chiese il divorzio, parlando di “inconciliabili differenze”, come riferisce sempre GQ, ma il divorzio non si concretizzò e 13 mesi più tardi i due si riconciliarono, grazie anche alla volontà di Kobe di preservare il matrimonio: «Non ho intenzione di dire che il nostro matrimonio è perfetto […]. Noi lottiamo ancora, proprio come ogni coppia sposata. Ma sai, la mia reputazione di atleta è che sono estremamente determinato e che mi faccio un mazzo così. Come potrei farlo nella mia vita professionale se non fossi così nella mia vita personale, quando questa colpisce i miei figli? Non avrebbe alcun senso».

Kobe e sua moglie, come riporta la CNA, frequentavano regolarmente una parrocchia nella contea di Orange (California). E non solo per la Messa domenicale. La cantante Cristina Ballestero ha scritto un lungo post su Instagram sia per ricordare nella preghiera lui e la sua famiglia, sia per raccontare la sorpresa che ebbe nel vedere a Messa e ricevere l’Eucaristia, in un giorno infrasettimanale, Kobe Bryant.

Insieme alla moglie, il cestista ha dato vita a una fondazione per assistere in vari modi giovani senzatetto e dare una possibilità di crescita attraverso lo sport. Parlando di quest’opera nel 2012, spiegava di non voler un giorno guardare indietro e adagiarsi al pensiero: «Bene, ho avuto una carriera di successo perché ho vinto così tanti campionati e segnato così tanti punti», ma di voler lasciare un’eredità diversa, dicendosi: «Devi fare qualcosa che abbia un po’ più di peso, un po’ più di significato, un po’ più di scopo».

Padre David Barnes ha scritto su Twitter di aver saputo che domenica mattina, prima di prendere l’elicottero, Kobe è stato visto a Messa. E il sacerdote ha ricordato che «la Messa è adorazione di Dio. Il Paradiso è adorazione di Dio». Sa Dio dove si trova adesso Kobe. Per il resto, quel che è certo è che ora non serve chiedersi “perché” e rinchiudere lo sguardo dentro la sola prospettiva terrena, bensì offrire preghiere e suffragi per lui, gli altri defunti e per i loro cari rimasti quaggiù. Perché tutto cambia se si entra o no nell’unica ed eterna gloria, quella di Dio. Kobe, lo abbiamo visto, ci pensava. E si può credere che meditasse su questo passo: «Non accumulatevi tesori sulla terra, dove tignola e ruggine consumano e dove ladri scassinano e rubano; accumulatevi invece tesori nel cielo, dove né tignola né ruggine consumano, e dove ladri non scassinano e non rubano. Perché là dove è il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore» (Mt 6, 19-21).

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“Lager” di oggi: i famigerati laogai cinesi

Posté par atempodiblog le 28 janvier 2020

“Lager” di oggi: i famigerati laogai cinesi
I campi di concentramento non sono solo una triste realtà del passato ma, in diverse varianti, continuano ad esistere ancora oggi. Non si parla più di veri e propri campi di concentramento che, pure, sono ricomparsi durante la guerra nella ex Jugoslavia, ma di campi di lavoro o di rieducazione, come quelli ancora oggi in funzione in Corea del nord o nella Repubblica Popolare Cinese.
di Giovanna Fraccalvieri – Laogai.it

“Lager” di oggi: i famigerati laogai cinesi dans Fede, morale e teologia prigione-Xinyuan-Sichuan
Nella foto: prigione Xinyuan-Sichuan

I Laogai. I campi di concentramento cinesi risalgono a Mao che li volle per recludere, in primis, i dissidenti politici e, poi, i criminali comuni. Questo sistema concentrazionario è attivo ancora oggi e viene definito Laogai,  col qual termine si intende “rieducazione attraverso il lavoro”.  All’interno di queste strutture si consumano, ogni giorno, gravi violazioni dei diritti umani. Qui, milioni di persone, subiscono detenzioni arbitrarie, torture, condanne a morte, espianto d’organi.

Controllo totale. Lo scopo principale dei Campi è  quello di portare avanti un sistematico “lavaggio del cervello” degli internati al fine di controllarne anche il pensiero. Dopo lunghe ore di lavoro forzato, gli internati devono seguire delle “sessioni di studio” giornaliere finalizzate, appunto, all’indottrinamento. C’è poi, il momento del “mea culpa”,durante il quale bisogna mostrare la propria lealtà al Partito, “confessando” pubblicamente i propri errori e denunciando amici e parenti che, pure, si sono dimostrati “infedeli” allo Stato.

La Laogai Research Foundation, è stata la fondazione che ha messo in  luce il sistema dei campi di lavoro in Cina soprattutto, Harry Wu, un dissidente politico che vi è stato detenuto e che, una volta liberato, ha fondato la  Laogai Research Foundation di Washington, un’organizzazione che da oltre20 anni  raccoglie informazioni sui campi di lavoro cinesi. Harry Wu fu arrestato poco prima dell’inizio della Rivoluzione culturale ed è stato rinchiuso nei Laogai per 19 anni. Qui lavorava 18 ore al giorno ed era costretto a lunghi periodi di isolamento forzato, abbandonato senza cibo e torturato col metodo della deprivazione del sonno.

Non solo numeri. Secondo la Laogai Research Foundation,  in Cina sono presenti 1422 Laogai. Amnesty International e Human Rights Watch stimano che vi sono state segregate decine di milioni di persone. Un numero così elevato è determinato dal fatto che, secondo il sistema giudiziario cinese, chiunque può subire la detenzione amministrativa senza passare per un processo. Un altro numero aberrante è quello che riguarda i decessi. Dalla loro nascita, che risale agli anni ’50 del Novecento, diversi  milioni di reclusi sarebbero morti di stenti, malattie e in seguito ad esecuzioni sommarie nei Laogai.

Lavoro forzato. Gli scopi di questi  Campi sono fondamentalmente due: “riabilitare i criminali“ attraverso la rieducazione politica obbligatoria e utilizzare i prigionieri come manodopera a costo zero o quasi nullo, a seconda dei reati commessi,  sottoponendoli a ritmi di lavoro al limite dello schiavismo. Tutto ciò è reso possibile anche dal fatto che la Cina non ha mai ratificato la Convenzione dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ONU) del 25 giugno 1957  che vieta il lavoro forzato. I Laogai, dunque, oltre ad essere uno strumento per il controllo delle coscienze, rappresenta anche uno dei pilastri dell’economia cinese.

Torture. Nei “Gulag”  cinesi i prigionieri sono sottoposti a torture e maltrattamenti di ogni genere: seviziati con scariche elettriche, incatenati in posizioni dolorose, picchiati con bastoni e manganelli, legati con manette e catene alle caviglie,  privati di cibo e sonno, costretti a ritmi di lavoro disumani. Vittime “privilegiate” dei Laogai sono le donne che, molto spesso, subiscono violenze sessuali e, in caso di gravidanza, sono costrette ad abortire, anche nell’ultimo periodo di gestazione.

Traffico d’organi. In Cina, e non solo, viene ancora praticata la pena capitale.  Secondo Amnesty International, la Cina da sola giustizia più persone di tutto il resto del mondo messo insieme. Tra le altre efferatezze che vengono attribuite ai Laogai, c’è anche l’accusa di traffico degli organi dei reclusi condannati a morte. Il governo cinese ha ammesso la pratica dell’espianto sui condannati,  ma ha negato che venga eseguito senza il loro consenso. Dalle ultime indigini condotte da due osservatori indipendenti, David Matas (avvocato internazionale dei diritti umani ed ex membro di Amnesty International) e David Kilgour (ex parlamentare e segretario di Stato del governo del Canada), sembrerebbe che le accuse mosse alla Repubblica cinese siano fondate.

La comunità mondiale. Oltre che dalle ONG, sono giunte ferme condanne al sistema dei Laogai dai parlamenti di Australia, Italia, Germania, dal Congresso Statunitense e, naturalmente, anche da parte della Stampa Internazionale. Anche il Parlamento Europeo è intervenuto sulla questione affermando che «condanna l’esistenza dei campi di lavoro Laogai sparsi nel Paese, nei quali la Repubblica Popolare Cinese detiene attivisti favorevoli alla democrazia ed ai sindacati e membri di minoranze senza un giusto processo, costringendoli a lavorare in terribili condizioni e senza cure mediche. Su ogni bene esportato la Cina deve dare garanzia scritta che non è prodotto nei Laogai e, in mancanza di quest’assicurazione, la Commissione deve proibirne l’importazione nell’UE». Nonostante la riprovazione internazionale, i Laogai continuano ad essere una vergognosa realtà che sta segnando l’alba del Terzo Millennio. Bisogna impegnarsi di più, per far sì che la “Forma Campo” diventi solo un  lontano ricordo di un passato ignobile.

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«E non abbandonarci alla tentazione». Il Padre Nostro «cambia» a fine anno

Posté par atempodiblog le 28 janvier 2020

La Cei: nelle chiese italiane la nuova traduzione obbligatoria dal 29 novembre
«E non abbandonarci alla tentazione». Il Padre Nostro «cambia» a fine anno
di Gian Guido Vecchi – Corriere della Sera
Tratto da: Radio Maria

«E non abbandonarci alla tentazione». Il Padre Nostro «cambia» a fine anno dans Fede, morale e teologia Il-santo-padre-Francesco

Il nuovo Messale sarà pubblicato dopo Pasqua, che quest’anno cade il 12 aprile, ma la data da segnarsi per i fedeli è il 29 novembre, prima domenica di Avvento: da allora, in tutte le chiese italiane, sarà obbligatorio recitare il Padre Nostro nella nuova traduzione definita dalla Cei, nella quale si dice «non ci abbandonare alla tentazione» e non più «non ci indurre in tentazione».

La traduzione
Non si tratta, naturalmente, di cambiare il Padre Nostro: i Vangeli sono scritti in greco e il testo originale della preghiera di Gesù è immutabile. Il problema, non solo in Italia, è piuttosto la traduzione, come rendere quella voce verbale che si legge nel Vangelo di Matteo (6,13), riferimento della tradizione liturgica: eisenénkes , dal verbo eisféro, che per secoli è stato tradotto con l’«inducere» latino della Vulgata di San Girolamo, da cui l’ «indurre» italiano. Questione delicata, perché tutti hanno imparato fin da piccoli a dire «e non ci indurre in tentazione, ma liberaci dal male». Solo che «questa è una traduzione non buona», aveva spiegato alla fine del 2017 Papa Francesco: «Sono io a cadere, non è Lui che mi butta nella tentazione per poi vedere come sono caduto. Un padre non fa questo, aiuta ad alzarsi subito. Chi ci induce in tentazione è Satana, è questo il mestiere di Satana». Così, aveva aggiunto, «il senso della nostra preghiera è: “Quando Satana mi induce in tentazione tu, per favore, dammi la mano, dammi la tua mano”».

Opuscoli per i fedeli
Certo non si può chiedere ai fedeli, per andare sul sicuro, di fare come Simone Weil, la filosofa che recitava ogni mattina il Padre Nostro in greco. Così i vescovi hanno discusso sulla traduzione che si avvicinasse di più al testo evangelico. E alla fine si è deciso per la versione, «non ci abbandonare alla tentazione», già scelta dalla Cei nell’edizione della Bibbia del 2008. Con la pubblicazione della terza edizione del Messale Romano, dopo sedici anni di lavoro, la formulazione approvata in Vaticano entra nell’uso liturgico. L’arcivescovo Bruno Forte, del Consiglio permanente della Cei, spiega che fino al 29 novembre ci saranno sussidi ed opuscoli per aiutare i fedeli a prendere familiarità con la nuova traduzione, come già accadde nel 2017 in Francia , dove nelle chiese si è cominciato a dire «ne nous laisse pas entrer en tentation». Cambierà anche la versione del Gloria: «Pace in terra agli uomini, amati dal Signore».

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Il senso della memoria e della storia

Posté par atempodiblog le 28 janvier 2020

IL SENSO DELLA MEMORIA E DELLA STORIA
Trascrizione di Claudio Forti, 28 Gennaio 2020
Fonte: Radio Maria

Il senso della memoria e della storia dans Cardinale Robert Sarah Radio-Maria

Lezione trasmessa dai microfoni di RADIO MARIA dal professor Andrea Arnaldi, il 18 gennaio 2020, nella sua rubrica mensile PROBLEMI DI STORIA DELLA CHIESA. Il pregio del professor Arnaldi è quello di avvalersi di citazioni di numerosi storici, di personalità del mondo ecclesiale e culturale. Tutto ciò contribuisce a rendere attrattive ed arricchenti le sue lezioni. Andrea Arnaldi è stato il primo storico a trasmettere da Radio Maria Italia, e cioè circa dal 1980. Già dalla lettura di questa trascrizione, che corrisponde circa a un quarto della sua lezione, possiamo renderci conto dell’alto livello culturale e pedagogico che ci viene dai sempre ottimi collaboratori di questa Radio ormai diffusa sui cinque continenti con più di 100 emittenti. Per chi desidera ascoltare anche il resto, ecco il link: https://radiomaria.it/puntata/problemi-di-storia-della-chiesa-18-01-2020/  Ndt.

Buona sera! Ben trovati, cari amici ascoltatori!

Dopo aver dedicato una trasmissione al concetto di tempo, vorrei proseguire oggi sulla medesima linea di pensiero, proponendovi una conversazione sul tema della storia e della memoria storica. Il tempo, abbiamo detto a chi ha avuto occasione di ascoltare quella trasmissione, è connotato da una dimensione cronologica, quantitativa, data dal suo fluire incessante ed inesorabile, che abbiamo definito KRONOS, che si rifà al mito greco del dio divoratore dei suoi figli. Il tempo nemico dell’uomo, in un certo senso.

Vi è poi una dimensione alta, qualitativa, della dimensione temporale, come spazio di Dio, aperto all’eternità, luogo di crescita e di sviluppo della persona, che abbiamo definito KAIROS: il tempo amico dell’uomo. Farsi divorare dallo scorrere dei minuti e dall’angoscia della morte, oppure vivere il tempo presente con lo sguardo alzato verso il proprio perfezionamento umano e spirituale. Qui si gioca la grande diversità con cui gli uomini si accostano al mistero del tempo.

E allora passiamo adesso ad esaminare il concetto di storia e a considerare il senso profondo della conservazione e della trasmissione della memoria storica. Vi propongo, per entrare nel merito di questo argomento così affascinante una serie di citazioni molto autorevoli – soprattutto alcune -, che ci aiutano a mettere a fuoco questo tema di importanza cruciale; perché ci riguarda tutti: non è una semplice conversazione, un tema astratto, nel senso che non facciamo dell’accademia, perché non è nella logica di queste trasmissioni.

Allora, iniziamo dal Santo Padre Papa Francesco: esortazione apostolica Evangelii gaudium. Al numero 13 leggiamo così: «La memoria è una dimensione della nostra fede, che potremmo chiamare “deuteronomica” in analogia con la memoria di Israele. Gesù ci lascia l’Eucaristia come memoria quotidiana della Chiesa, che ci introduce sempre più nella Pasqua. La gioia evangelizzatrice brilla sempre sullo sfondo della memoria grata. È una grazia che abbiamo bisogno di chiedere. Gli apostoli mai dimenticarono il momento in cui Gesù toccò il loro cuore. Erano circa le quattro del pomeriggio, si legge nel Vangelo di Giovanni. Insieme a Gesù, la memoria ci fa presente una vera moltitudine di testimoni. Tra loro si distinguono alcune persone che hanno inciso in modo speciale per far germogliare la nostra gioia credente. “Ricordatevi dei vostri capi i quali vi hanno annunciato la Parola di Dio”, (lettera di San Paolo agli Ebrei). A volte si tratta di persone semplici e vicine che ci hanno iniziato alla vita della fede. “Mi ricordo della tua schietta fede, che è però anche della tua nonna Loide e di tua madre Eunice”, leggiamo nella seconda lettera di S. Paolo a Timoteo). Il credente è fondamentalmente uno che fa memoria».

San Giovanni Paolo parla dello “smarrimento della memoria come di un grave aspetto che caratterizza l’uomo contemporaneo”. Leggiamo così nell’esortazione apostolica Ecclesia in Europa: «Smarrimento della memoria e dell’eredità cristiana, accompagnato da una sorta di agnosticismo pratico e di indifferentismo religioso, per cui molti europei danno l’impressione di vivere senza retroterra spirituale, e come degli eredi che hanno dilapidato il patrimonio loro consegnato dalla storia».

Anche Benedetto XVI ha scritto e detto parole molto importanti nell’udienza del 7 marzo 2008 al Pontificio Comitato di Scienze Storiche. Dice così: «Una società dimentica del proprio passato, e quindi sprovvista di criteri acquisiti attraverso l’esperienza, non è più in grado di progettare un’armonica convivenza e un comune impegno nella realizzazione di obiettivi comuni. Tale società si presenta particolarmente vulnerabile alla manipolazione ideologica». E ancora più avanti nello stesso discorso, disse: «Come la perdita della memoria provoca nell’individuo la perdita dell’identità, in modo analogo questo fenomeno si verifica per le società nel loro complesso». Questa è una considerazione di grande importanza. Ogni tanto capita di leggere notizie di cronaca di persone anziane o particolarmente colpite dalla malattia, che perdono la memoria, vagano senza sapere chi sono, come si chiamano, dove abitano, senza ricordare alcuna relazione di parentela o di amicizie, e che vengono pietosamente raccolte da qualcuno sul ciglio di una strada. Si indaga per cercare in qualche modo di ricollocarli nel loro contesto per ridar loro una identità. Ecco, questa penosa condizione diventa drammatica all’ennesima potenza quando coinvolge un intero corpo sociale. Questo succede quando interi popoli, intere nazioni, intere comunità che un tempo si ispiravano a valori e davano vita a una civiltà, si dimenticano completamente chi sono, da dove sono venute, su quali basi si sono fondate.

Scrive Alessandro De Carolis: «Nelle società in cui si è troppo soggetti al fascino delle scoperte della scienza e dei progressi della tecnologia, la memoria storica tende a sbiadirsi, perché il qui ed ora del più recente successo medico o tecnico illudono che un certo paradiso in terra sia a portata di mano. Mentre ciò che è stato, e l’esperienza che ne deriva finiscono relegati in un oblio polveroso, ma anche pericoloso».

Con un intervento stringente Benedetto XVI ha espresso alcune sue convinzioni sull’importanza delle scienze storiche che indagano, non solo il passato dell’umanità, ma anche quello della Chiesa nella sua missione nelle varie epoche. Il papa ha ribadito la lungimiranza del suo predecessore, Leone XIII, che per opporre un contro altare a una certa storiografia anti ecclesiale, istituì una commissione di studio alla quale in sostanza Benedetto XVI, l’attuale Pontificio Comitato delle Scienze Storiche, può far risalire le proprie origini, il quale ha annotato: «Il contesto culturale ha vissuto un profondo cambiamento. Non si tratta più solo di affrontare una storiografia ostile al cristianesimo e alla Chiesa; oggi è la storiografia stessa ad attraversare una crisi più seria, dovendo lottare per la propria esistenza in una società plasmata dal positivismo e dal materialismo. Entrambi queste ideologie hanno condotto a uno sfrenato entusiasmo per il progresso che, animato da spettacolari scoperte e successi tecnici – malgrado le disastrose esperienze del secolo scorso, determina la concezione della vita di ampi settori della società. Il passato appare così solo come uno sfondo buio sul quale il presente e il futuro risplendono con ammiccanti promesse. A ciò è legata ancora l’utopia di un “paradiso sulla terra”, a dispetto del fatto che tale utopia si sia dimostrata fallace».

Il disinteresse per la storia, possiamo dunque dire, cercando di riannodare i fili di queste citazioni, «genera trascuratezza nell’analisi degli avvenimenti passati, che arriva ad ignorare perfino intere epoche, cosicché si hanno piani di studio per i quali – queste sono parole di Benedetto XVI -, la storia inizia solamente a partire dagli avvenimenti della Rivoluzione Francese. Tutto questo oblio storico però ha un prezzo. Prodotto inevitabile di tale sviluppo è una società ignara del proprio passato e quindi priva di memoria storica. E la deformazione del passato è un’arma tipica della mentalità totalitaria. L’ideologia dominante avverte la necessità di piegare il passato all’interno di uno schema preconfezionato, compatibile con la propria visione astratta. Non ha alcuna importanza che la realtà sia diversa, che i fatti si siano svolti al di fuori di questo schema ideologico. Le ideologie dominanti, che conquistano il potere per mantenerlo e rafforzarlo devono incidere sulla storia, modificarla, alterare il senso della storia e degli avvenimenti del passato». Ed ecco in quale senso il magistero parla di uno smarrimento. Proprio Benedetto XVI dice che “una società che perde il senso della propria storia, delle proprie origini, delle proprie radici, è particolarmente vulnerabile alla manipolazione ideologica”.

In un suo recente saggio il cardinale Robert Sarah, affrontando il tema della modernità e ei suoi limiti, affronta anche l’argomento che affrontiamo quest’oggi, e ci aiuta con alcune interessanti considerazioni, scrivendo così: «L’uomo moderno occidentale disprezza il passato. È fiero della propria civiltà che ritiene superiore a tutte quelle che l’hanno preceduta. I progressi nei campi scientifico e tecnologico alimentano questa sua illusione. Le ultime rivoluzioni nell’ambito della tecnologia e della comunicazione, in particolare in internet, rafforzano tale pretesa. L’uomo moderno è smemorato. Aspiriamo alla rottura con il passato, mentre il nuovo si trasforma in un idolo. Esiste a mio avviso una aggressiva ostilità nei confronti della tradizione, e più in generale di ogni eredità. Oggi, vivendo un continuo mutamento, l’uomo moderno si priva della bussola». E più avanti, nel medesimo saggio, leggiamo così: «La crisi della memoria non può che generare una crisi cultuale. Il requisito per il progresso consiste nella trasmissione delle acquisizioni del passato. L’uomo è fisicamente e ontologicamente legato alla storia di coloro che l’hanno preceduto. Una società che rifiuta il passato si preclude il proprio futuro. È una società morta, una società senza memoria, una società spazzata via dal alzheimer!

Le radici costituiscono la base e l’alimento della vita. Innestano la vita in un terreno fertile e la irrorano di una linfa nutriente. Si immergono nell’acqua perché la vita sia lussureggiante in ogni stagione. Permettono la crescita della chioma e la comparsa di fiori e frutti. Una vita senza radici richiama la morte. Il complicato rapporto dei moderni con il concetto di radici sorge dalla crisi antropologica. L’uomo moderno ha paura che le proprie radici diventino un vincolo. Preferisce misconoscerle. Si crede libero, quando invece è più vulnerabile. Diventa come una foglia morta staccata dall’albero, in balia del vento».

Qual è allora il senso e l’utilità dello studio storico? E come agisce la mano provvidente di Dio sulla storia dell’umanità? È necessario, per scoprire e amare le radici della nostra civiltà, quindi le nostre stesse radici, esercitare una facoltà tanto importante quanto trascurata: LA MEMORIA STORICA, appunto. E allora interroghiamoci sulla storia e sulla sua importanza, e cerchiamo di capire qual è l’utilità della storia, cioè della conservazione e della trasmissione della memoria storica.

Lo studioso Luciano Pellicani ha scritto una bellissima considerazione che vi propongo. Scrive così: «La tradizione è la precondizione del progresso». Quindi il progresso non può esserci se non c’è un corpo di valori, se non c’è un antefatto che lo precede e lo prepara. E continua Pellicani: «Poiché senza di essa – cioè senza la tradizione -, gli uomini sarebbero costretti a partire da zero. Si troverebbero senza un sistema di soluzioni materiali, intellettuali e morali collaudate su cui appoggiarsi, dal momento che la tradizione è ciò che la società ha tesaurizzato, (ha fatto tesoro), ha accumulato ed istituzionalizzato. La serie degli esperimenti compiuti dalle passate generazioni, e utilizzati dalle generazioni presenti. Il che significa che la continuità è la legge dell’esistenza storica delle società. Una legge che opera attraverso le generazioni, le quali arricchiscono e trasmettono ciò che hanno ereditato». È tutto qua, potremmo dire! E non c’è nessuna considerazione di tipo confessionale. Queste sono proprio considerazioni di buon senso di uno studioso che spiega come non possa esistere un progredire fruttuoso a livello sociale se si è completamente dimentichi del proprio passato.

La storia fra l’altro non è un mero strumento di studio del passato, affinché questo possa aiutare a comprendere il presente e a costruire il futuro. Non è solo questo, o comunque non può essere ridotto solo a questa funzione utilitaristica. Come ha scritto il grande e compianto storico del Medio Evo Marco Tangheroni: «Contrariamente a quanto credeva chi ne dilatava i compiti e affidava ad essa la comprensione completa, tendenzialmente definitiva, positiva e scientifica, del passato, del presente ed anche del futuro, la storia non offre la risposta decisiva alle domande essenziali sull’uomo. Non è a essa che tali domande – che il mondo tende a eludere -, ma che si riaffacciano prepotenti, ineludibili, fondamentali; non è a essa che tali domande vanno poste. Ciò non esclude che in qualche modo la storia ci prepari a tali domande e alle relative risposte, sgombrando, in un certo senso, il campo. Ci aiuta a capire che l’uomo non è un dio. La storia educa alla complessità e con ciò stesso affina la nostra capacità di leggere il presente. La storia inoltre educa alla responsabilità. E penso qui alla disciplina nella scuola, mostrando che ciò che accade, accade non necessariamente, ma per le scelte libere degli uomini, talora di un uomo qualsiasi che si trova casualmente all’incrocio decisivo, abitua e forma alla responsabilità delle proprie scelte. Essa deve contribuire a formare l’uomo, l’uomo libero e responsabile». Direi che queste parole del professor Tangheroni ci aiutano bene a comprendere il senso e il valore della memoria storica.

E, sulla stessa linea, monsignor Luigi Negri, quando scrive: «È una questione di estrema importanza per il nostro presente, conoscere la storia, perché una personalità, un gruppo, il popolo cristiano, che non conosca adeguatamente la propria tradizione, è come se non avesse consistenza culturale, e quindi responsabilità. Privare una personalità del senso della sua storia è un modo per incominciare già a renderlo schiavo. Insomma, un uomo privo della propria storia non ha la capacità di presenza significativa ed incisiva. È destinato ad essere travolto e annientato. Ed è in questo senso che Sant’Agostino diceva che il presente – il tempo – è una distensione della persona tra un passato che deve essere assimilato da ciascuno, e un futuro che dev’essere progettato. Pretendere di vivere bene il presente e di poter progettare con serietà un futuro degno dell’uomo senza conoscere e comprendere il proprio passato, è una folle e tragica utopia che non deve assolutamente coinvolgere il cristiano». Il cristiano dev’essere assolutamente alieno da una tentazione utopistica di questo tipo. La conservazione della memoria storica – possiamo allora dire -, è uno strumento decisivo che consente all’uomo di conoscere sé stesso, di esaminare il proprio passato, di capire il presente, di agire con prudenza nel progettare il futuro. In questo senso la saggezza definisce la storia come maestra di vita. E, analogamente, il pensatore francese Joseph De Maistre parla della storia come di politica sperimentale, cioè come luogo di verifica delle costruzioni e delle teorizzazioni filosofiche, ideologiche, sociali ed economiche.

Un grande contributo per approfondire il senso della storia, il senso del lavoro dello storico, lo ha dato il pensatore cattolico svizzero Gonzague de Reynold che ha scritto pagine magistrali sulla storia e la sua funzione pedagogica. Vi propongo alcuni stralci perché davvero meritano di essere riletti, ascoltati e meditati. Sentiamone uno: «Ecco un’altra domanda che mi è stata spesso posta. A cosa serve la storia? Insegna agli uomini a vivere in società, perciò è una sapienza. È una sapienza perché è una esperienza. Mostra che gli uomini sanno quello che fanno, ma non possono prevederne tutte le conseguenze. Ci insegna che molte disgrazie, molte catastrofi, molte decadenze, molte degenerazioni, hanno il loro punto di partenza in ERRORI MORALI. La storia ha questa virtù: ci aiuta a prevedere. In questo senso è una prudenza. La prudenza stessa si definisce una sapienza pratica: quella che deve possedere l’uomo di Stato. “Ma se l’uomo di Stato vuole prevedere – e questo è un atto specifico della ragione -, deve fondarsi nello stesso tempo sulla conoscenza del presente e sulla esperienza del passato». Chi parla così – scrive De Reynold – è San Tommaso d’Aquino.

E sempre il medesimo autore, parlando del ruolo della storia come scuola di realismo politico, scrive: «L’oblio, il disprezzo della storia, bisognerebbe considerarlo come uno dei più gravi fenomeni di degenerazione e di barbarie. Infatti il fenomeno sarebbe equivalente per la società ciò che rappresenta la perdita della memoria per l’individuo. Ma se l’uomo perde la memoria, prenderà per guida soltanto i suoi istinti».

Il grande studioso svizzero si è interrogato molte volte, in differenti contesti, sui grandi temi dello scorrere del tempo, il susseguirsi delle culture e delle civiltà. Il percorso storico dell’umanità, e di quella europea e occidentale in particolare. Vorrei allora proporvi alcuni altri straordinari spunti di riflessione che credo ci aiutino a entrare sempre di più nel merito di questa nostra conversazione sul senso e l’utilità della storia.

Leggiamo allora questa breve pagina di De Reynold: «Possiamo vedere dove andiamo solo se abbiamo imparato da dove veniamo. Non si tratta di una concezione nuova: fino allo scientismo e al determinismo del secolo XIX, si sapeva che la storia aveva un fine: insegnare agli uomini a vivere in società. Tutti quelli che hanno fatto studi classici hanno tradotto almeno una volta l’elogio che nel “De oratore”, Cicerone fa della storia: “Testimone delle generazioni, luce di verità, conservatrice delle memorie, maestra di vita, messaggera di antichità”. Nella Somma teologica, dove dedica nove questioni alla prudenza, San Tommaso d’Aquino fissa in questi termini l’obbligo di prevedere la possibilità di fare. Prevedere il futuro – dice – e prevederlo fondandosi nello stesso tempo sulle circostanze presenti e sull’esperienza passata, come nel caso della prudenza, è funzione propria della ragione, poiché appartiene solo alla ragione istituire paragoni e valutarli».

E più avanti, in un altro saggio molto interessante, ci sono considerazioni davvero straordinarie. Sono testi della prima metà del Novecento. Scrive De Reynold: «La storia non coincide solamente con il passato (Ecco, questo mi sembra un passaggio molto interessante, e vi invito a prestare attenzione, perché sfata anche un pregiudizio molto diffuso, cioè che parlando di storia parliamo di avvenimenti del passato. Infatti la storia si identifica con ciò che non è più. Invece De Reynold fa questa precisazione. Dice: «La storia non coincide solamente con il passato. Il passato è solo una parte della storia: quella che seguiamo con lo sguardo quando ci sforziamo di risalire la corrente verso la sorgente, ma la storia è tutto il fiume, con tutti gli affluenti e tutti i subaffluenti, dalla sorgente alla foce. Non vi è affatto separazione fra il passato, il presente e l’avvenire; tra l’origine e la fine dell’umanità. Le cause della storia sono cause finali. Ma poiché solo gli spiriti puri sono capaci di cogliere tutto in un’intuizione immediata, ecco che noi uomini votati al lavoro e alla ricerca siamo assolutamente costretti a dividere il fiume con dighe di sbarramento e a porre lungo le rive pietre miliari. Se non procedessimo con questo metodo analitico, ci sarebbe impossibile elevarci ad una sintesi. Poiché viviamo nel presente, crediamo che il passato sia morto. Cerchiamo di chiudere la storia nel sepolcro del passato, dimenticando che quella va più veloce e più lontana di esso. Proprio la storia impedisce al passato di morire, trascinandolo sul presente e spingendo entrambi nell’avvenire».

Ecco, mi sembra che questa sia veramente una figura di straordinaria bellezza, di grande profondità, e su cui vale veramente la pena di fare una riflessione. Ripeto, chi di noi non è abituato a pensare la storia come ad un insieme di avvenimenti del passato che cerchiamo in qualche modo di riordinare, di ricordare, di mettere in fila, di sistemare in qualche casella, in qualche anno o secolo, di dar loro una cronologia, ma nulla di più. Si tratta di qualcosa che c’è stato e che non tornerà più. Anche un proverbio popolare dice che “la storia non si ripete”, non ritornerà più così esattamente come è stata, quindi è una cosa che non ci appartiene. E invece Gonzague De Reynold ci offre questa bellissima immagine del fiume. L’esistenza degli uomini e delle società, e quindi anche dei corpi sociali e delle civiltà umane sono come un lungo fiume che va verso una foce procedendo da una fonte, un’origine, una sorgente. Ma tra la sorgente e la foce si snoda per tutta una serie di avvallamenti, di anse, di rapide, di momenti di turbolenza e momenti di calma; momenti in cui siamo di fronte a un torrente e momenti in cui siamo di fronte a un grande fiume tranquillo.

Ecco, se questa similitudine è, come credo, valida, ci aiuta pienamente a capire che il nostro presente si situa in un certo punto del fluire del fiume, dell’acqua che scorre. Certo, non ci troviamo alla sorgente, e quindi c’è un tratto di fiume che è venuto prima di noi, che ha percorso una strada, ma noi siamo già molto più avanti. E questo è in qualche modo il passato. Ma questa stessa acqua che viene dalle nostre spalle, dalla sorgente, passa in questo momento sul punto dove ci troviamo, e spinge tutto verso la foce in un modo unitario, che coinvolge tutto, che tutto rende omogeneo, che ci consente di comprendere come la storia appartenga al nostro presente e ci porti verso il nostro futuro. Questo mi sembra davvero un passaggio di straordinaria importanza.

Direi ora di fare una breve pausa musicale, in modo che su questo concetto abbiamo modo di riflettere, prima di aprire un altro capitolo, di fare un ulteriore passaggio in questo ragionamento.

Per chi vuol proseguire l’ascolto, ecco il link: https://radiomaria.it/puntata/problemi-di-storia-della-chiesa-18-01-2020/

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