Alfie Evans e Vincent Lambert: non esistono vite senza valore

Posté par atempodiblog le 17 avril 2018

Alfie Evans e Vincent Lambert: non esistono vite senza valore
La medicina può e molte volte deve rinunciare a guarire, ma mai a curare. Al centro della medicina non c’è la malattia da sconfiggere ma il malato da curare. È deludente il pensare e operare di una medicina volta ad assicurare “vite di qualità”, invece di scorgere e promuovere la “qualità della vita” in ogni condizione, decorso e fase del suo essere al mondo
di Mauro Cozzoli – Agenzia SIR

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Vincent Lambert, in Francia, e il piccolo Alfie Evans, in Inghilterra, scuotono le nostre coscienze in presenza delle loro assai precarie condizioni di vita e di due magistrature che ne vogliono decretare la morte per interruzione di idratazione e nutrizione. Questo, malgrado la mamma e il fratello di Vincent e la mamma e il papà di Alfie ne stiano contestando l’esecuzione, adoperandosi in modo ammirevole per l’assistenza e la cura.

Papa Francesco al Regina coeli di questa terza domenica di Pasqua ha volto l’attenzione ad entrambi, estendendola ad “altre persone in diversi Paesi – ha detto – che vivono, a volte da lungo tempo, in stato di grave infermità, assistite medicalmente per i bisogni primari”. Questa sensibilità e premura del Papa è scandita da parole nette, indicative di pensieri e comportamenti da coltivare.

Innanzitutto il Papa non si nasconde le fragilità e precarietà di vita di queste persone: “Sono situazioni delicate, molto dolorose e complesse”. Da non affrontare in modo pregiudizievole e semplicistico, ma avveduto e ponderato. Per cui, ad ovviare l’eutanasia e l’abbandono terapeutico, non bisogna – insegna il magistero bioetico della Chiesa – scivolare in forme di accanimento clinico.

Si può e a volte si deve rinunciare a mezzi straordinari e sproporzionati di cura e consentire così la fine naturale della vita. Non si deve invece rinunziare a mezzi ordinari e proporzionati, men che meno a dar da mangiare e da bere: i “bisogni primari” di cui ha detto il Papa.

Il confine tra i primi e i secondi a volte è evidente. Altre volte, per la complessità dei casi e delle offerte cliniche della medicina oggi, il confine è a contorni sfumati e indistinti. Nel qual caso la morale è per il favor vitae: in dubio pro vita. Tanto più quando ci sono le condizioni umane e ambientali di cura e sostegno, come nel caso di Vincent e di Alfie. Entrambi circondati da un’ampia e intensa sfera di premure e di affetti, che nessuna Alta Corte può disconoscere e contraddire.

Inoltre ed ancor più, il Papa richiama il valore proprio e irriducibile di ogni vita umana e delle premure ad essa dovute in condizioni di infermità e di bisogno. Valore, attenzioni e premure scandite dal trittico dignità, cura e rispetto: “Ogni malato sia sempre rispettato nella sua dignità e curato in modo adatto alla sua condizione, con grande rispetto per la vita”. Parole che mettono in primo piano il malato, nella sua “dignità” singolare e inviolabile di persona. Dignità che suscita “rispetto”: il singolare riguardo e la speciale attenzione dovuti a un essere con valore di soggetto e di fine e mai di oggetto, di cosa o di mezzo. Rispetto che in presenza della malattia, della disabilità, della sofferenza prende forma di “cura”. Nel duplice e complementare significato di assistenza medica (to cure) e di presa in carico (to care). “In modo adatto – precisa il Papa – alla sua condizione” e “con l’apporto concorde dei familiari, dei medici e degli altri operatori sanitari”.

Memori che la medicina può e molte volte deve rinunciare a guarire, ma mai a curare.

Al centro della medicina non c’è la malattia da vincere ma il malato da curare. È deludente il pensare e operare di una medicina volta ad assicurare “vite di qualità”, invece di scorgere e promuovere la “qualità della vita” in ogni condizione, decorso e fase del suo essere al mondo. Non esistono vite senza valore, “inutili” e “futili” come ha sentenziato il giudice dell’Alta Corte di Londra nel caso del piccolo Alfie. Perché ogni vita vale per il suo “esserci”, non per il suo “modo di essere”.

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I 91 anni di Benedetto XVI e il senso della vecchiaia

Posté par atempodiblog le 16 avril 2018

I 91 anni di Benedetto XVI e il senso della vecchiaia
di Marco Mancini – ACI Stampa

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Papa Benedetto compie oggi 91 anni e continua a spendere la sua lunga vita per la Chiesa. In costante preghiera. Sta camminando – ce lo ha detto lui stesso – versa la meta e in questo pellegrinaggio tutta la Chiesa – a cominciare da Papa Francesco - sente la sua presenza rassicurante, silenziosa ed orante. Il Papa Emerito oggi sarà festeggiato dalla sua famiglia nel Monastero Mater Ecclesiae – ci sarà anche un piccolo omaggio musicale offerto da una rappresentanza della Guardia Svizzera.

Ma cosa significa la vecchiaia? Cosa vuole dire essere anziani? Ce lo ha spiegato lo stesso Benedetto XVI, nel novembre 2012, visitando una casa famiglia per anziani a Roma.

“E’ bello essere anziani! In ogni età – raccontava il Papa – bisogna saper scoprire la presenza e la benedizione del Signore e le ricchezze che essa contiene. Non bisogna mai farsi imprigionare dalla tristezza! Abbiamo ricevuto il dono di una vita lunga. Vivere è bello anche alla nostra età, nonostante qualche acciacco e qualche limitazione. Nel nostro volto ci sia sempre la gioia di sentirci amati da Dio, e non la tristezza”.

Con altre parole Benedetto XVI parlava di quella che Papa Francesco chiama la cultura dello scarto. Partendo dal presupposto che “la longevità è considerata una benedizione di Dio”, Papa Benedetto sottolineava che “oggi questa benedizione si è diffusa e deve essere vista come un dono da apprezzare e valorizzare. Eppure spesso la società, dominata dalla logica dell’efficienza e del profitto, non lo accoglie come tale; anzi, spesso lo respinge, considerando gli anziani come non produttivi, inutili. Tante volte si sente la sofferenza di chi è emarginato, vive lontano dalla propria casa o è nella solitudine. Penso che si dovrebbe operare con maggiore impegno, iniziando dalle famiglie e dalle istituzioni pubbliche, per fare in modo che gli anziani possano rimanere nelle proprie case”.

La vecchiaia – ribadiva Papa Benedetto – è portatrice di sapienza che “è una grande ricchezza. La qualità di una società, di una civiltà, si giudica anche da come gli anziani sono trattati e dal posto loro riservato nel vivere comune. Chi fa spazio agli anziani fa spazio alla vita! Chi accoglie gli anziani accoglie la vita! Quando la vita diventa fragile, negli anni della vecchiaia, non perde mai il suo valore e la sua dignità: ognuno di noi, in qualunque tappa dell’esistenza, è voluto, amato da Dio, ognuno è importante e necessario”.

La vecchiaia – concludeva il Papa – “è un dono anche per approfondire il rapporto con Dio” partendo dalla preghiera. L’anziano così diventa intercessore “presso Dio, pregando con fede e con costanza” e pregando l’anziano può “portare in questa nostra società, spesso così individualista ed efficientista un raggio dell’amore di Dio”.

Queste ultime parole di Benedetto XVI sono, in definitiva, ciò che dalla fine del suo pontificato ha fatto, fa e continuerà a fare. Una vita piena, una vita lunga, una vita di preghiera. Per la Chiesa, per il Papa, per ciascuno di noi.

Ad multos annos Santità.

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Perché i sostenitori della laïcité in Francia ce l’hanno con Macron. Ripasso

Posté par atempodiblog le 16 avril 2018

Perché i sostenitori della laïcité in Francia ce l’hanno con Macron. Ripasso
La fede nello stato e la legge del 1905 – Questa prima legge sulla libertà di coscienza aveva come sostrato la comune venerazione del sovrano da parte di cattolici e ugonotti ed è alla base dei successivi tentativi di trasferire il culto nazionale da Dio alla Francia
di Antonio Gurrado – Il Foglio
Tratto da: Radio Maria

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Dopo il discorso di Emmanuel Macron sulla riparazione del legame rovinato fra chiesa cattolica e stato francese, l’indomito Jean-Luc Mélanchon ha commentato che non c’è ragione di rinsaldare un legame rotto un secolo fa. Si riferiva alla legge del 9 dicembre 1905 sulla separazione fra chiesa e stato, che dietro l’alto proclama della libertà di coscienza cela pagine di arrovellamenti da rigattiere sul destino dei beni mobili e immobili della Chiesa, salvo poi spingersi a stabilire il numero minimo di persone necessario a istituire un culto: sette (ma venticinque nelle città sopra i ventimila abitanti). È un ferrovecchio forse non più in grado di cogliere le sfaccettature del rapporto fra religione e politica, in un’epoca in cui la dimensione spirituale dell’uomo ritorna centrale nella definizione della sua identità; infatti, pur essendo in vigore da più di un secolo, è stata aggiornata compulsivamente a partire dal 2000.

Anche Manuel Valls è insorto individuando la legge del 1905 come solo fondamento della laïcité. Semplificazione drastica, in una nazione che ha reso politico proverbiale un cardinale, ha offerto ricetto a cattolici in rotta da oltremanica (da Thomas Becket a Giacomo II Stuart) e ha visto fra i più spietati sostenitori del Terrore un prete, il curérougeJacques Roux. In mille anni di storia ingarbugliata, in Francia lo stato si è sempre definito per mezzo del modello scelto per regolare i rapporti con la chiesa. L’intenzione di Macron nel rivolgersi alla conferenza episcopale sta nel tentativo di mutare questo modello specificando di non voler farsi promotore di una religione civile che innalzi lo stato sugli altari.

Dai Capetingi in poi possiamo individuare tre modelli convenzionali. Il primo è consistito nel costruire la Francia per mezzo di un’alleanza con la chiesa; oltre a San Luigi IX, che in due successive folli crociate ci rimise prima la libertà e poi la vita, i suoi campioni sono stati Filippo II Augusto, che perseguitò gli albigesi per accaparrarsi i territori meridionali all’epoca oltreconfine, e Luigi XIV, che con l’Editto di Fontainebleau intese plasmare la popolazione della Francia con una sistematica cacciata degli ugonotti. Il secondo modello è quello gallicano: nel 1301 Filippo IV il Bello fece arrestare per alto tradimento un vescovo che non aveva pagato tributi. La chiesa gallicana scindeva cittadino e sacerdote fondandosi su una doppia fedeltà, spirituale al Papa e temporale al sovrano; questa ferita mai cicatrizzata (ancora nel 1511 papa Giulio II avrebbe convocato una Lega Santa non contro i turchi ma contro i francesi) mira tuttavia a non porre Stato e Chiesa in competizione. Non a caso di lì a poco un papa francese, Benedetto XII, avrebbe inventato durante la cattività avignonese la formula per cui i pontefici erano “padri dei sovrani”.

La legge del 1905 affonda però le radici nel terzo modello, il più interessante e controverso: la fede nello stato. Affonda le radici nelle tenebre dei re taumaturghi, che guarivano dalla scrofola imponendo le mani; o nel miracoloso intervento di Giovanna d’Arco, che salvò Francia e monarchia durante la Guerra dei Cent’anni; o forse nella conversione di Enrico IV di Navarra che, per prendere Parigi e unificare la nazione, si fece cattolico e nel 1598 emanò l’Editto di Nantes. Questa prima legge sulla libertà di coscienza aveva come sostrato la comune venerazione del sovrano da parte di cattolici e ugonotti ed è alla base dei successivi tentativi di trasferire il culto nazionale da Dio alla Francia. In caso contrario, la costituzione civile del clero adottata durante la Rivoluzione si sarebbe limitata a restaurare il gallicanesimo, anziché rendere i sacerdoti funzionari statali; né Napoleone si sarebbe arrogato il diritto di nominare i vescovi nel concordato con Pio VII del 1801. Curiosamente la legge del 1905 scioglie unilateralmente questo concordato pur collocandosi nel medesimo solco: il culto della laïcité che tanto ha fatto strillare gli oppositori di Macron è un ennesimo tentativo di instillare una santità nazionale nella nicchia lasciata libera dal principio d’indifferenza delle fedi. E’ lo stesso metodo con cui i rivoluzionari avevano associato all’altare della Dea Ragione un calendario di santi civili; per non parlare di Napoleone, che da un lato firmava il concordato e dall’altro sosteneva che bisognava farsi bigotto per governare la Vandea, musulmano per governare l’Egitto, giudeo per governare Gerusalemme. Intanto, per il giorno del proprio compleanno, istituiva una festa nazionale in onore di un martire di Diocleziano, tale san Napoleone.

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Lucien Botovasoa, il martire che morì pregando per i suoi assassini

Posté par atempodiblog le 15 avril 2018

Lucien Botovasoa, il martire che morì pregando per i suoi assassini
di Andrea Gagliarducci – ACI Stampa

Lucien Botovasoa, il martire che morì pregando per i suoi assassini dans Articoli di Giornali e News Lucien_Botovasoa
Lucien Botovasoa, martire proveniente dal Madagascar, beatificato il 14 aprile 2018
Foto: ofmcap.it

Era chiamato “maestro cristiano”, e si trovò nel mezzo della lotta tra opposte fazioni che infiammò il Madagascar dopo la Seconda Guerra Mondiale, fino ad essere ucciso con processo sommario, decapitato mentre pregava per i suoi assassini. Lucien Botovasoa viene beatificato oggi (14 aprile) in Madagascar.

Nato nel 1908 a Vohipeno, nel Sud Est del Madagascar, inizia a studiare nella scuola statale nel 1918, ma dal 1920 è nel Collegio San Giuseppe di Ambozontany della Compagnia di Gesù. È lì che si abilita all’insegnamento e comincia a lavorare come insegnante parrocchiale nella sua città natale.

Il motto che sceglie è Ad Maiorem Dei Gloria, quello dei gesuiti. Si sposa, ha otto figli (solo cinque sopravviveranno), Botavasoa insegna e lavora in parrocchia, aiutato dalla sua straordinaria conoscenza delle lingue (parla malgascio, francese, latino, inglese, tedesco, cinese) e dalla sua abilità come musicista e cantore, nonché dalle sue doti sportive.

Un testo sul Terz’Ordine Francescano che legge nel 1940 lo porta a decidere di prendere quella strada, e diventa membro del Terz’Ordine dal 1944, cominciando a vivere una vita povera con il desiderio di diffondere il Vangelo ovunque.

Dopo la Seconda Guerra Mondiale, le cose in Madagascar precipitano: l’isola vuole rendersi indipendente dalla Francia, e la regione dove vive Botovasoa viene scossa da queste voglie indipendentisti dal re Mpanjak, che sale al potere nel 1946.

Il 30 marzo 1947, una domenica delle palme, vengono date alle fiamme le chiese e si dà la caccia ai cristiani.

Botovasoa diventa subito un obiettivo: gode di rispetto, e si pensa di catturarlo e di costringerlo ad obbedire agli ordini, minacciando la famiglia. Così, Botovasoa affida al fratello la sposa e i bambini e poi torna a Vohipieno.

Verso le ore 21 del 17 aprile 1947 suo fratello, André e due cugini, sotto la minaccia di morte, furono incaricati di arrestarlo. Condotto nella casa del re Tsimihoño senza un processo formale fu condannato a morte. Giunto sul luogo dell’esecuzione si inginocchiò e fu decapitato mentre pregava per i suoi assassini. Il corpo fu gettato nel fiume.

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Maria è una madre onnipotente

Posté par atempodiblog le 14 avril 2018

Maria è una madre onnipotente
di Padre Livio Fanzaga – Radio Maria

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Che cosa non farebbero le madri per i propri figli? Tuttavia, per quanto siano combattive e non accettino mai di arrendersi, raramente possono aiutarli come vorrebbero. Quante madri soffrono per l’impossibilità di proteggere le loro creature in balia delle bufere della vita! Il loro amore disperato sarebbe un grido senza risposta se in Cielo non ci fosse una madre che, per i suoi figli, può fare tutto ciò che vuole.

Maria è l’unica madre il cui amore è onnipotente. L’invocazione di aiuto che arriva fino a Lei non rimane mai inascoltata. La sua potenza di intercessione può ottenere dal Cuore del Figlio le più grandi grazie e persino i miracoli più straordinari. “Nulla è impossibile a Dio”, aveva sentito l’Ancella del Signore dalla bocca dell’Arcangelo Gabriele. La Madonna lo sa e il suo Cuore materno è pronto a domandare tutto ciò di cui abbiamo bisogno.

La Madonna chiede secondo la misura del suo amore. Ha forse esitato a domandare al Figlio che tramutasse l’acqua in vino per la gioia di un banchetto di nozze?

Maria è una madre onnipotente. La sua è una onnipotenza di amore e di intercessione. Tutto ciò che chiede, ottiene. Non solo Gesù non nega mai nulla a sua madre, ma prova la più grande gioia nell’ esaudirla. La Chiesa e ogni suo membro, come pure l’intera umanità, sono protetti da questa onnipotenza di amore, la quale non viene mai meno, nonostante le nostre infedeltà. Non ci sarà mai una volta in cui la Madonna non interceda per i suoi figli per stanchezza, per negligenza, per insensibilità o perché non se lo meritano. Tutte le volte che noi la invochiamo, Lei bussa alla porta del Cuore del Figlio. Spesso precede la richiesta di grazie o le concede in misura più sovrabbondante di quanto noi potremmo sperare.

Confidando nell’amore della Madre, che tutto ottiene dal Cuore del Figlio, l’umanità può guardare con serenità al suo futuro. Nessuno dei suoi devoti deve cedere al demone dello scoraggiamento e della disperazione. Per la Madonna non ci sono situazioni senza speranza. Per ogni problema Lei trova una soluzione. Ha solo bisogno della nostra fiducia e della nostra fedeltà. L’amore onnipotente di Maria è la vera sicurezza nella pericolosa navigazione della vita e della storia.

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Senza misericordia non si può vivere

Posté par atempodiblog le 11 avril 2018

Senza misericordia non si può vivere
di Padre Livio Fanzaga – Radio Maria

L'immagine di Gesù Misericordioso dans Misericordia Gesu_Misericordioso

Cari amici,
Senza misericordia non si può vivere.

Ce ne rendiamo conto nella società del nostro tempo, che ha raggiunto livelli mai conosciuti di progresso, ma che si va sempre più indurendo nel male. Il segno del dominio progressivo di satana, in un passaggio storico in cui è stato declassato a simbolo inesistente, è la riduzione dell’uomo a cosa e la negazione della sacralità della persona. Il dominio dell’uomo sull’uomo e la macchina infernale che sfrutta distrugge la vita, non si pongono limiti e abbattono di giorno in giorno ogni barriera morale. Ciò che vi è di più prezioso nell’intero universo, è manipolato, usato e poi gettato via in nome di un progresso spietato il cui fine ultimo è il potere e il denaro.

Chi salverà l’uomo dall’uomo se non una misericordia di cui però non è capace? Chi sottrarrà l’umanità dal drago affamato che, per odio contro Dio, trascina l’umanità alla rovina con la sua forza di seduzione?

Il peccato, con le sue terribili proliferazioni nei cuori e nella società, è una potenza di morte che sta compromettendo lo stesso futuro dell’umanità. La sua espressione primaria, la violenza, ribolle in ogni angolo della terra, seminando cinismo, empietà e disprezzo dei deboli.
La conseguenza è che, nonostante lo sviluppo tecnico, economico e sociale, cresce il livello di sofferenza nel mondo e l’insopportabilità della vita.
La durezza dei cuori fa degradare la società verso gli abissi del male.

La misericordia è la medicina di cui l’umanità non può fare a meno per vivere la vita nella sua bellezza e grandezza. Un modo più fraterno passa però attraverso la decisione di ogni uomo.
E’ necessario che l’amore vinca nei cuori perché trionfi nel mondo. Il tempo della misericordia che il Cielo ha voluto donare ancora una volta è un appello estremo. Beati coloro che lo accoglieranno. Saranno i misericordiosi a trovare misericordia e saranno i miti a possedere la terra.

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Rwanda: dal genocidio ad una speranza per l’Africa

Posté par atempodiblog le 7 avril 2018

Rwanda: dal genocidio ad una speranza per l’Africa
Intervista con Françoise Kankindi, presidente della onlus Bene-Rwanda. Il racconto della barbara uccisione di almeno 800 mila persone, perlopiù tutsi, per mano degli estremisti hutu e la storia della rinascita di un Paese
di Giada Aquilino – Vatican News

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Un’immagine in ricordo delle vittime del genocidio in Rwanda

Il “perdono delle offese” e la “riconciliazione autentica”. E’ l’auspicio che esprimeva Papa Francesco nell’aprile 2014, ricevendo i presuli della Conferenza episcopale del Rwanda, ricordando che vent’anni prima era cominciato il terribile genocidio nel Paese africano. Secondo l’Onu, almeno 800 mila persone, principalmente della comunità tutsi, vennero barbaramente uccise. Con l’abbattimento dell’aereo su cui viaggiava l’allora Presidente hutu Juvénal Habyarimana, il 6 aprile 1994, il massacro perpetrato da milizie hutu, estremisti e gruppi armati si prolungò dal 7 aprile fino alla metà di luglio.

Mancanze della Chiesa hanno “deturpato” il suo volto
L’anno scorso, incontrando in Vaticano Paul Kagame, attuale capo di Stato rwandese, il Pontefice ha rinnovato “l’implorazione di perdono a Dio per i peccati e le mancanze della Chiesa e dei suoi membri” negli anni Novanta, mancanze che “hanno deturpato il volto della Chiesa”. Oggi, 24 anni dopo, “dal genocidio che rase al suolo il nostro Paese è rinato – con molte difficoltà – un Rwanda nuovo, ma ogni 7 aprile riemerge tutto l’orrore che abbiamo vissuto nel 1994. È difficile cancellare quegli eventi dai nostri cuori”, racconta Françoise Kankindi, nata da genitori rwandesi, rifugiati in Burundi, trasferitasi a studiare in Italia nel ’92. È la presidente della onlus Bene-Rwanda.

Nessuna traccia dei parenti
Nei tre mesi del genocidio, 100 giorni, è stato calcolato un omicidio ogni dieci secondi: “i vicini hanno massacrato gli altri vicini, uno sterminio scientifico di una parte della popolazione – i tutsi – sotto gli occhi della comunità internazionale”, aggiunge Françoise. “Avevo la famiglia di mio padre e di mia madre a Butare. Provo una tristezza profonda – dice commossa – perché i corpi dei miei zii sono ancora in qualche latrina sulle colline del Rwanda. Ce li portiamo nella coscienza. Mia madre è ritornata in Rwanda nel 1995, perché eravamo profughi in Burundi: non ha trovato più nessuno su quella collina”.

I tribunali ‘Gacaca’
“Contrariamente a quanto è avvenuto per la Shoa – spiega la presidente della onlus – il genocidio dei tutsi in Rwanda è stato diverso. Il giorno dopo, i carnefici erano presenti davanti agli occhi dei pochi sopravvissuti, con i machete con i quali avevano ucciso tutte le famiglie. Quindi, dal giorno dopo, i tutsi in Rwanda hanno dovuto sopravvivere e convivere con gli assassini delle loro famiglie. Il Paese ha dovuto prendere atto di quanto accaduto e i rwandesi hanno scelto di costruire insieme. Per cui si è insistito molto su una Commissione di riconciliazione nazionale, ci sono stati i ‘Gacaca’, i tribunali che hanno fatto incontrare le persone sui prati. Sulla copertina del libro che ho scritto con Daniele Scaglione: ‘Rwanda, la cattiva memoria’, c’è una seduta di questi tribunali. Da lì, i rwandesi si sono confrontati: coloro che hanno ammazzato, hanno chiesto perdono alle famiglie tutsi sopravvissute. Da questo gesto il Rwanda si è potuto ricostruire”.

Dal sangue sui muri alla rinascita
Si è trattato di una ricostruzione di tutto il tessuto sociale. “Andai a Kigali nel 1995, l’anno dopo il genocidio. I miei – aggiunge Françoise Kankindi – abitavano in una casa: i muri erano pieni di sangue dei vicini che ci avevano vissuto. Ricordo la scena terribile, mi sono sentita così persa: ho toccato con la mia mano la ferocia che ancora si vedeva nella strade. Sono tornata due anni dopo. E poi ogni estate e ogni volta constatavo questa rinascita, questa voglia di riscatto, di buttarsi alle spalle la bruttura del genocidio. Oggi il Rwanda è veramente un Paese che dà speranza a tutta l’Africa”.

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Cos’è e come è nata la Festa della Divina Misericordia

Posté par atempodiblog le 7 avril 2018

Cos’è e come è nata la Festa della Divina Misericordia
Fu istituita da Giovanni Paolo II nel 1992 che la fissò una settimana dopo la Pasqua. A volerla, secondo le visioni avute da suor Faustina Kowalska, la religiosa polacca canonizzata da Wojtyla nel 2000, fu Gesù stesso
di Famiglia Cristiana

Cos’è e come è nata la Festa della Divina Misericordia dans Fede, morale e teologia GP-II-e-Ges-misericordioso
Immagine tratta da: Familia Cristiana

La festa della Divina Misericordia è stata istituita ufficialmente da Giovanni Paolo II nel 1992 che la fissò per tutta la Chiesa nella prima domenica dopo Pasqua, la cosiddetta “Domenica in albis”.

DOVE È STATA CELEBRATA PER PRIMA QUESTA RICORRENZA?
Il card. Franciszek Macharski con la Lettera Pastorale per la Quaresima (1985) ha introdotto la festa nella diocesi di Cracovia e seguendo il suo esempio, negli anni successivi, lo hanno fatto i vescovi di altre diocesi in Polonia. Il culto della Divina Misericordia nella prima domenica dopo Pasqua nel santuario di Cracovia – Lagiewniki era già presente nel 1944. La partecipazione alle funzioni era così numerosa che la Congregazione ha ottenuto l’indulgenza plenaria, concessa nel 1951 per sette anni dal card. Adam Sapieha. Dalle pagine del Diariosappiamo che suor Faustina Kowalska fu la prima a celebrare individualmente questa festa con il permesso del confessore.

QUALI SONO LE ORIGINI DELLA FESTA?
Gesù, secondo le visioni avute da suor Faustina e annotate nel Diario, parlò per la prima volta del desiderio di istituire questa festa a suor Faustina a Płock nel 1931, quando le trasmetteva la sua volontà per quanto riguardava il quadro: “Io desidero che vi sia una festa della Misericordia. Voglio che l’immagine, che dipingerai con il pennello, venga solennemente benedetta nella prima domenica dopo Pasqua; questa domenica deve essere la festa della Misericordia”. Negli anni successivi  Gesù è ritornato a fare questa richiesta addirittura in 14 apparizioni definendo con precisione il giorno della festa nel calendario liturgico della Chiesa, la causa e lo scopo della sua istituzione, il modo di prepararla e di celebrarla come pure le grazie ad essa legate.

PERCHÉ È STATA SCELTA LA PRIMA DOMENICA DOPO PASQUA?
La scelta della prima domenica dopo Pasqua ha un suo profondo senso teologico: indica lo stretto legame tra il mistero pasquale della Redenzione e la festa della Misericordia, cosa che ha notato anche suor Faustina: “Ora vedo che l’opera della Redenzione è collegata con l’opera della Misericordia richiesta dal Signore”. Questo legame è sottolineato ulteriormente dalla novena che precede la festa e che inizia il Venerdì Santo. Gesù ha spiegato la ragione per cui ha chiesto l’istituzione della festa: “Le anime periscono, nonostante la Mia dolorosa Passione (…). Se non adoreranno la Mia misericordia, periranno per sempre”. La preparazione alla festa deve essere una novena, che consiste nella recita, cominciando dal Venerdì Santo, della coroncina alla Divina Misericordia. Questa novena è stata desiderata da Gesù ed Egli ha detto a proposito di essa che “elargirà grazie di ogni genere”.

COME SI FESTEGGIA?
Per quanto riguarda il modo di celebrare la festa Gesù ha espresso due desideri: 

- che il quadro della Misericordia sia quel giorno solennemente benedetto e pubblicamente, cioè liturgicamente, venerato; 
- che i sacerdoti parlino alle anime di questa grande e insondabile misericordia Divina e in tal modo risveglino nei fedeli la fiducia.
“Sì, – ha detto Gesù – la prima domenica dopo Pasqua è la festa della Misericordia, ma deve esserci anche l’azione ed esigo il culto della Mia misericordia con la solenne celebrazione di questa festa e col culto all’immagine che è stata dipinta”.

CHI ERA SUOR FAUSTINA KOWALSKA?
Nata in un villaggio polacco e battezzata col nome di Elena, è la terza dei 10 figli di Marianna e Stanislao Kowalski. Che sono contadini poveri, nella Polonia divisa tra gli imperi russo, tedesco e austriaco. Lei fa tre anni di scuola, poi va a servizio. Pensava di farsi suora già da piccola, ma realizza il progetto solo nell’agosto 1925: a Varsavia – ora capitale della Polonia indipendente – entra nella comunità della Vergine della Misericordia, prendendo i nomi di Maria Faustina. E fa la cuoca, la giardiniera, la portinaia, passando poi per varie case della Congregazione (tra cui, quelle di Varsavia, Vilnius e Cracovia). Ma al tempo stesso è destinataria di visioni e rivelazioni che i suoi confessori le suggeriscono di annotare in un diario (poi tradotto e pubblicato in molte lingue). E tuttavia non crede che questi fatti straordinari siano un marchio di santità. Lei scrive che alla perfezione si arriva attraverso l’unione intima dell’anima con Dio, non per mezzo di “grazie, rivelazioni, estasi”. Queste sono piuttosto veicoli dell’invito divino a lei, perché richiami l’attenzione su ciò che è stato già detto, ossia sui testi della Scrittura che parlano della misericordia divina e poi perché stimoli fra i credenti la fiducia nel Signore (espressa con la formula: “Gesù, confido in te”) e la volontà di farsi personalmente misericordiosi. Muore a 33 anni in Cracovia. Beatificata nel 1993, è proclamata santa nel 2000 da Giovanni Paolo II. Le reliquie si trovano a Cracovia-Lagiewniki, nel santuario della Divina Misericordia. La sua festa ricorre il 5 ottobre.

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Dylan si svegliò poco prima che staccassero la spina. Oggi è guarito

Posté par atempodiblog le 5 avril 2018

Dylan si svegliò poco prima che staccassero la spina. Oggi è guarito
Dylan Askin si era risvegliato poco prima che gli staccassero la spina. Oggi, dopo due anni, è stato dichiarato completamente guarito
di Francesca Bernasconi – Il Giornale

Dylan si svegliò poco prima che staccassero la spina. Oggi è guarito dans Articoli di Giornali e News Dylan_Askin

Dylan Askin, il bambino che si svegliò dal coma poco prima che i medici gli staccassero la spina, è stato dichiarato guarito.

Dylan era stato ricoverato al Derby Royal Hospital il giorno di Natale del 2015, a causa di problemi respiratori e i medici gli avevano trovato un polmone collassato. Successivi esami avevano portato alla luce un’istiocitosi polmonare, un tipo molto raro di cancro che colpisce solitamente i bambini. Nonostante la situazione sembrò inizialmente migliorare, una polmonite lasciò il bambino con poche speranze di vita, se non quelle che potevano garantirgli le macchine cui era attaccato. Dopo mesi di sofferenza, i genitori, Mike e Kerry, decisero di staccare la spina del piccolo Dylan. Era il 25 marzo del 2016, Venerdì Santo, quando convocarono i parenti per battezzare il bimbo e salutarlo un’ultima volta. Ma Dylan non sembrava essere d’accordo con la decisione presa dai medici e dai genitori e iniziò a dare dei segnali di ripresa, tanto forti da far cambiare idea anche ai medici sulle possibili speranze di sopravvivenza. In pochi giorni il piccolo Askin si riprese completamente e il 16 maggio fu dimesso dall’ospedale.

Due giorni fa, a due anni di distanza, nella domenica di Pasqua, Dylan è stato dichiarato completamente guarito. La madre Kerry ha dichiarato, come riportato da Il Messaggero, “Non sono particolarmente credente, ma credo che mio figlio sia il nostro miracolo pasquale. A mio figlio Bryce ho detto che Dylan ha fatto come Gesù: a Pasqua è tornato a vivere”.

Un ritorno alla vita che non coinvolge solamente il piccolo Dylan, ma la sua famiglia intera.

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Papa Francesco: Il Lunedì dell’Angelo e la fraternità

Posté par atempodiblog le 3 avril 2018

Papa Francesco: Il Lunedì dell’Angelo e la fraternità
Al Regina Caeli, papa Francesco spiega che “per comunicare una realtà così sconvolgente” come la resurrezione di Gesù, occorreva “un’intelligenza superiore a quella umana”. “Gesù ha abbattuto il muro di divisione tra gli uomini e ha ristabilito la pace, cominciando a tessere la rete di una nuova fraternità”. Ripetere spesso: “Davvero il Signore è risorto!”. La Giornata mondiale della consapevolezza sull’autismo.
della Redazione di AsiaNews

Papa Francesco: Il Lunedì dell’Angelo e la fraternità dans Commenti al Vangelo Santo_Padre_Francesco

Per pronunciare “per la prima volta… le parole: ‘È risorto’… non era sufficiente una parola umana”. Per questo il primo annuncio della risurrezione è stato affidato a un angelo. Prima della recita del Regina Caeli con i pellegrini radunati in piazza san Pietro, papa Francesco ha spiegato così la tradizione di definire il lunedì dopo Pasqua come “Lunedì dell’Angelo”. Subito dopo egli si è soffermato sulla “fraternità”, come uno dei frutti più preziosi della resurrezione di Cristo.

“Gli evangelisti – ha detto Francesco – ci riferiscono che questo primo annuncio [del Risorto] fu dato dagli angeli, cioè messaggeri di Dio. Vi è un significato in questa presenza angelica: come ad annunciare l’Incarnazione del Verbo era stato un angelo, Gabriele, così anche ad annunciare per la prima volta la Risurrezione non era sufficiente una parola umana. Ci voleva un essere superiore per comunicare una realtà così sconvolgente, talmente incredibile, che forse nessun uomo avrebbe osato pronunciarla. Dopo questo primo annuncio, la comunità dei discepoli comincia a ripetere: «Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone» (Lc 24,34), ma il primo annuncio richiedeva un’intelligenza superiore a quella umana”.

“Quello di oggi – ha continuato – è un giorno di festa e di convivialità vissuto di solito con la famiglia. Dopo aver celebrato la Pasqua si avverte il bisogno di riunirsi ancora con i propri cari e con gli amici per fare festa. Perché la fraternità è il frutto della Pasqua di Cristo che, con la sua morte e risurrezione, ha sconfitto il peccato che separava l’uomo da Dio, l’uomo da sé stesso, l’uomo dai suoi fratelli. Gesù ha abbattuto il muro di divisione tra gli uomini e ha ristabilito la pace, cominciando a tessere la rete di una nuova fraternità. È tanto importante in questo nostro tempo riscoprire la fraternità, così come era vissuta nelle prime comunità cristiane. Non ci può essere una vera comunione e un impegno per il bene comune e la giustizia sociale senza la fraternità e la condivisione. Senza condivisione fraterna non si può realizzare un’autentica comunità ecclesiale o civile: esiste solo un insieme di individui mossi dai propri interessi.

La Pasqua di Cristo ha fatto esplodere nel mondo la novità del dialogo e della relazione, novità che per i cristiani è diventata una responsabilità. Infatti Gesù ha detto: «Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,35). Ecco perché non possiamo rinchiuderci nel nostro privato, nel nostro gruppo, ma siamo chiamati a occuparci del bene comune, a prenderci cura dei fratelli, specialmente quelli più deboli ed emarginati. Solo la fraternità può garantire una pace duratura, può sconfiggere le povertà, può spegnere le tensioni e le guerre, può estirpare la corruzione e la criminalità”.

Il pontefice ha spesso interrotto il suo discorso per invitare la folla a ripetere la frase: “Davvero il Signore è risorto!”.

Dopo la preghiera mariana del tempo pasquale, il pontefice ha chiesto a tutti i presenti di cogliere “ogni buona occasione per essere testimoni della pace del Signore risorto specialmente nei riguardi delle persone più fragili e svantaggiate”. “A questo proposito – ha aggiunto – desidero assicurare una speciale preghiera per la Giornata mondiale della consapevolezza sull’autismo, che si celebra oggi”.

Il papa ha poi invocato “il dono della pace per tutto il mondo, specialmente per le popolazioni che più soffrono a causa dei conflitti in atto” e ha rivolto un appello “affinché le persone sequestrate o ingiustamente private della libertà siano rilasciate e possano tornare alle loro case”.

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La Pasqua spiegata da Pinocchio

Posté par atempodiblog le 3 avril 2018

La Pasqua spiegata da Pinocchio
Che qualcuno ci venga a prendere è il grande miracolo della vita. Il mistero della Resurrezione attraverso una pagina del libro di Franco Nembrini dedicato al burattino di Collodi
Redazione Tempi.it

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Tutti conoscono Pinocchio, uno dei libri più popolari della storia, ma non tutti si sono resi conto che Collodi ha scritto una delle più belle parabole della condizione umana. In L’avventura di Pinocchio. Rileggere Collodi e scoprire che parla della vita di tutti (ed. Centocanti, 192 pagine) Franco Nembrini prende molto sul serio un’intuizione del cardinal Giacomo Biffi per rileggere l’avventura del celebre burattino, mostrando, passo dopo passo, come questa riproponga il dramma della vita, così come lo presenta la tradizione cristiana: la paternità, la fuga da casa, la libertà ferita, l’incontro con una possibile salvezza, la morte e la resurrezione. Pochi sanno infatti che verso la fine del 1880, Collodi mandò al suo amico Fernandino Martini, redattore capo di un giornale per ragazzi, un pacco di manoscritti che definì «una bambinata» e accompagnò da una missiva, «fanne quello che ti pare; ma, se la stampi, pagamela bene, per farmi venire voglia di seguitarla». Il 7 luglio 1881 sul Giornale per i bambini uscì la prima puntata della Storia di un burattino, il 27 ottobre l’ottava, che si concludeva con la morte di Pinocchio.

Nelle intenzioni di Collodi Pinocchio era infatti morto davvero, la storia era finita, e invece la redazione del giornale venne subissata di lettere di protesta inviate da bambini di tutta Italia che rivolevano il loro eroe. Martini rintracciò Collodi: «Guarda che la storia deve andare avanti!», «Come, andare avanti?. È morto! Come faccio?». «E tu fallo risorgere!». E Collodi, racconta Nembrini, lo fece risorgere. Ecco uno dei passi più belli del libro, nel cui ultimo capitolo è raccontata l’avventura della salvezza, l’avvenimento della salvezza. Che avviene nel fondo degli inferi, nell’oscurità assoluta del ventre del Pesce-cane, dove Pinocchio trova un compagno di sventura, un Tonno.

Riportiamo di seguito un passo del libro di Nembrini, che inizia con una citazione di Collodi.

«- Ed ora, che cosa dobbiamo fare qui al buio?…
– Rassegnarsi e aspettare che il Pesce-cane ci abbia digeriti tutt’e due!…
Ma io non voglio esser digerito! – urlò Pinocchio, ricominciando a piangere.
– Neppure io vorrei esser digerito, – soggiunse il Tonno – ma io sono abbastanza filosofo e mi consolo pensando che, quando si nasce Tonni, c’è più dignità a morir sott’acqua che sott’olio!…
– Scioccherie! – gridò Pinocchio.
– La mia è un’opinione – replicò il Tonno – e le opinioni, come dicono i Tonni politici, vanno rispettate!
 Insomma… io voglio andarmene di qui… io voglio fuggire…
– Fuggi, se ti riesce!…

Il Tonno è un cinico, un disilluso, un rassegnato. Un uomo di oggi, per il quale «i fatti non esistono, esistono solo interpretazioni», e tutte le opinioni sono equivalenti; forse un accenno di autoritratto di Collodi, con quel riferimento ai «Tonni politici», alla speranza che lo ha deluso…

Nel tempo che faceva questa conversazione al buio, parve a Pinocchio di vedere, lontano lontano, una specie di chiarore.
 Che cosa sarà mai quel lumicino lontano lontano? – disse Pinocchio.
– Sarà qualche nostro compagno di sventura, che aspetterà, come noi, il momento di esser digerito!…
– Voglio andare a trovarlo. Non potrebbe darsi il caso che fosse qualche vecchio pesce capace di insegnarmi la strada per fuggire?

In qualsiasi circostanza, anche la più dura, la più cattiva, quella che senti più estranea, più nemica di te, quello sguardo, quel tenerti d’occhio di Dio fa in modo che sempre un lumicino da qualche parte ci sia. Il Tonno, cinico, alza le spalle, non si aspetta più niente. Pinocchio invece di quel lumino si fida. Sai mai che là dove vedo la luce possa incontrare qualcuno capace di insegnarmi la strada, che quest’ombra che non so nemmeno distinguere – come il Virgilio di Dante, «qual che tu sii, od ombra od omo certo!» – sia proprio la guida venuta a prendermi per insegnarmi la strada?
Non importa se il Tonno lo avvisa che il Pesce-cane «è lungo più di un chilometro, senza contare la coda», che è come dire: “Non farti illusioni, è troppo lontano, non ci arriverai mai”. Pinocchio ha imparato ad avere il coraggio di guardare la realtà per quello che è, per i segni positivi che manda, attraverso i quali attrae e sollecita in qualche modo la libertà; perciò decide, fidandosi di un segnale così tenue, di percorrere il corpo del Pesce-cane per andare a vedere. Ed è per questo coraggio, per questa libera decisione di andare a vedere che l’ultima parola non sarà la morte, non sarà la vittoria del male, ma del bene. L’ultima parola della vita dell’uomo, così come della vicenda di Pinocchio, sarà la parola misericordia. Perché questi ultimi capitoli sono le pagine in cui la natura di Dio, e perciò in qualche modo anche la nostra, perché partecipiamo della natura di Dio, si svela come misericordia.

Pinocchio appena che ebbe detto addio al suo buon amico Tonno, si mosse brancolando in mezzo a quel bujo, e camminando a tastoni dentro il corpo del Pesce-cane, si avviò un passo dietro l’altro verso quel piccolo chiarore che vedeva baluginare lontano lontano. E nel camminare sentì che i suoi piedi sguazzavano in una pozzanghera d’acqua grassa e sdrucciolona.

Non è magari un’autostrada, il cammino sarà anche faticoso, ma bisogna guardare là. Viene in mente il finale del bellissimo film Le ali della libertà,quando il protagonista riesce a fuggire dal carcere strisciando nel condotto di una fogna: la strada può essere ripugnante, ma vale la pena farla.

E più andava avanti, e più il chiarore si faceva rilucente e distinto: finché, cammina cammina, alla fine arrivò: e quando fu arrivato… che cosa trovò? Ve lo do a indovinare in mille: trovò una piccola tavola apparecchiata, con sopra una candela accesa infilata in una bottiglia di cristallo verde, e seduto a tavola un vecchiettino tutto bianco, come se fosse di neve o di panna montata, il quale se ne stava lì biascicando alcuni pesciolini vivi, ma tanto vivi, che alle volte mentre li mangiava, gli scappavano perfino di bocca.
A quella vista il povero Pinocchio ebbe un’allegrezza così grande e così inaspettata, che ci mancò un ette non cadesse in delirio. Voleva ridere, voleva piangere, voleva dire un monte di cose; e invece mugolava confusamente e balbettava delle parole tronche e sconclusionate. Finalmente gli riuscì di cacciar fuori un grido di gioja, e spalancando le braccia e gettandosi al collo del vecchietto, cominciò a urlare:
– Oh! babbino mio! finalmente vi ho ritrovato! Ora poi non vi lascio più, mai più, mai più!

In fondo all’inferno, in fondo al nostro male, Dio ci viene a prendere. Viene in mente veramente la notte di Pasqua, il buio orrendo del venerdì santo e del sabato santo, la morte di Dio, il punto più fosco, più terribile della storia dell’umanità; ma da lì la Chiesa quella notte fa gridare: «Felice colpa, che ci ha meritato un così grande Redentore!». Che nel momento in cui noi siamo più lontani dal nostro bene qualcuno ci venga a prendere è il grande miracolo della vita. (…) E Pinocchio giustamente esulta perché è tornato a casa. Tornare alla casa del padre, tornare a consistere del rapporto che ti fa essere: questa è la salvezza. Capiamo allora l’entusiasmo di Pinocchio; ma più sconvolgente e più straordinaria ancora è la battuta successiva:

– Dunque gli occhi mi dicono il vero? – replicò il vecchietto, stropicciandosi gli occhi – Dunque tu se’ proprio il mi’ caro Pinocchio?
 Sì, sì, sono io, proprio io! E voi mi avete digià perdonato, non è vero?

La sintesi di tutto il bisogno che abbiamo, di tutta la domanda con cui ci alziamo al mattino, è: c’è qualcuno che può perdonarmi? C’è qualcuno che darebbe la vita per me adesso senza chiedermi di cambiare? E se Dio si mostra come Dio, si mostra per questo. Il sospetto di avere incrociato in qualche modo il Padreterno, il sospetto che questo avvenimento che hai davanti agli occhi abbia a che fare con Dio, viene quando senti la misericordia operante, quando ti senti guardato in quel modo. Perché quest’opera, il perdono, la fa solo Dio, e chi vive come Lui».

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Molto morto

Posté par atempodiblog le 2 avril 2018

Molto morto dans Citazioni, frasi e pensieri Giovani_allo_sbando

“Quando un giovane ha commesso, lungo la sua vita, molte sciocchezze, si dice che ha vissuto molto: si dovrebbe dire piuttosto che è molto morto”.

Ernest Hello

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