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“Il confessore uomo dell’ascolto, non padrone delle coscienze”

Posté par atempodiblog le 9 mars 2018

“Il confessore uomo dell’ascolto, non padrone delle coscienze”
Il Papa riceve i partecipanti al Corso sul Foro Interno concluso oggi a Roma al Palazzo della Cancelleria: «Il sacerdote non è la fonte della Misericordia, ma uno strumento»
di Salvatore Cernuzio – Vatican Insider

“Il confessore uomo dell’ascolto, non padrone delle coscienze” dans Discernimento vocazionale Confessionale

«Medico e giudice», «pastore e padre», «maestro ed educatore». E anche «martire», nel senso di testimone. Il profilo del confessore è chiaro. Eppure è abbastanza ricorrente per chi amministra questo importante sacramento il rischio di diventare «padroni delle coscienze» dei penitenti. Specialmente delle coscienze dei giovani «la cui personalità è ancora in formazione e, perciò, molto più facilmente influenzabile». Per questo Papa Francesco, nel suo discorso ai partecipanti al XXIX Corso sul Foro Interno - aperto il 5 marzo con una lectio del Penitenziere maggiore, il cardinale Mauro Piacenza , e che si conclude oggi pomeriggio presso il Palazzo della Cancelleria – chiarisce subito quale sia il ruolo del sacerdote nelle quattro mura del confessionale: «Strumenti». Niente più.

«Il sacerdote confessore non è la fonte della Misericordia: ne è certo l’indispensabile strumento, ma sempre solo strumento!», afferma Bergoglio che proprio oggi pomeriggio presiederà una celebrazione penitenziale nella Basilica di San Pietro. «Ricordare di essere, e dover essere, solo strumenti della Riconciliazione è il primo requisito per assumere un atteggiamento di umile ascolto dello Spirito Santo, che garantisce un autentico sforzo di discernimento», sottolinea. «Essere strumenti non è una diminuzione del ministero, ma, al contrario, ne è la piena realizzazione, poiché nella misura in cui scompare il sacerdote ed appare più chiaramente Cristo sommo ed eterno Sacerdote, si realizza la nostra vocazione di “servi inutili”».

La consapevolezza di questa «dimensione strumentale» – come la definiva San Tommaso – della riconciliazione favorisce «un’attenta vigilanza sul rischio di diventare i “padroni delle coscienze”, soprattutto nel rapporto con i giovani, la cui personalità è ancora in formazione e, perciò, molto più facilmente influenzabile», annota il Pontefice. Da una parte i confessori hanno «il vantaggio di essere giovani» e dunque «di poter vivere il sacramento della Riconciliazione come “giovani tra i giovani”». «Non di rado, la vicinanza nell’età favorisce il dialogo anche sacramentale, per una naturale affinità di linguaggi», osserva il Papa.

D’altro canto la “condizione giovanile” non è «priva di limiti e perfino di rischi, perché – spiega Francesco ai giovani preti – siete all’inizio del vostro ministero e dunque dovete ancora acquisire tutto quel bagaglio di esperienza che un “confessore consumato” ha, dopo decenni di ascolto dei penitenti».

A maggior ragione non bisogna abbassare la guardia né perdere l’umiltà. Il primo passo, sollecita il Papa, è «saper ascoltare le domande, prima di offrire le risposte. Dare risposte, senza essersi preoccupati di ascoltare le domande dei giovani e, laddove necessario, senza aver cercato di suscitare domande autentiche, sarebbe un atteggiamento sbagliato».

Il confessore è infatti un «uomo dell’ascolto»: ascolto «umano» del penitente e ascolto «divino» dello Spirito Santo. «Ascoltando davvero il fratello nel colloquio sacramentale, noi ascoltiamo Gesù stesso, povero ed umile – afferma il Papa -; ascoltando lo Spirito Santo ci poniamo in attenta obbedienza, diventiamo uditori della Parola e dunque offriamo il più grande servizio ai nostri giovani penitenti: li mettiamo in contatto con Gesù stesso».

E «ogni giovane dovrebbe poter udire la voce di Dio sia nella propria coscienza, sia attraverso l’ascolto della Parola». Solo così, aggiunge Papa Bergoglio, essi possono avviarsi verso «quel cammino prudente e orante che è il discernimento vocazionale», il quale deve essere necessariamente «sostenuto dall’accompagnamento sapiente del confessore, che talvolta può anche diventare – su richiesta dei giovani stessi e mai autoproponendosi – padre spirituale».

Il colloquio della confessione può diventare, quindi, «occasione privilegiata di incontro, per porsi entrambi, penitente e confessore, in ascolto della volontà di Dio, scoprendo quale possa essere il suo progetto, indipendentemente dalla forma della vocazione». Infatti, precisa il Papa, «la vocazione non coincide, né può mai coincidere, con una forma! Questo porterebbe al formalismo! La vocazione è il rapporto stesso con Gesù: rapporto vitale e imprescindibile».

In tal senso il confessore è chiamato ad essere soprattutto «un testimone», cioè a «com-patire per i peccati dei fratelli» e rendere «più efficace l’esperienza della misericordia, spalancando ai fedeli un orizzonte nuovo e grande». Quell’orizzonte «che solo Dio può dare all’uomo».

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Il cardinale Piacenza: no ai preti che chattano sui social durante le confessioni, «atto gravissimo»

Posté par atempodiblog le 9 mars 2018

«Il fedele, soprattutto se giovane, non scambi l’entusiasmo per la vita nuova in Cristo, con una specifica chiamata»
Il cardinale Piacenza: no ai preti che chattano sui social durante le confessioni, «atto gravissimo»
Lectio del Penitenziere Maggiore al corso sul Foro interno: «La confessione è ascolto e incontro con Dio, non si entra in confessionale col cellulare acceso»
di Salvatore Cernuzio – Vatican Insider

Il cardinale Piacenza: no ai preti che chattano sui social durante le confessioni, «atto gravissimo» dans Cardinale Mauro Piacenza Confessione

Sono banditi da ogni confessionale cellulari, smartphone, iPad e qualsiasi altro apparecchio tecnologico che rischia di distrarre il sacerdote durante quello che è un momento fondamentale per la vita dei fedeli, specie quelli giovani, e di snaturare l’intero sacramento. Il cardinale Mauro Piacenza, Penitenziere maggiore, non usa troppi giri di parole durante la lectio magistralis in apertura del 29esimo corso sul Foro interno, al via oggi fino al 9 marzo al Palazzo della Cancelleria di Roma: «Si ha notizia di taluni confessori, intenti a “chattare sui social”, mentre i penitenti fanno la loro accusa. Questo è un atto gravissimo, che non ho timore di definire: “ateismo pratico”, e che mostra la fragilità della fede del confessore nell’evento soprannaturale di grazia che si sta vivendo!», dice il porporato. E aggiunge: «Non è raro, purtroppo, ricevere le lamentele di fedeli scandalizzati dalla distrazione del confessore, non attento alle loro parole o, addirittura, intento a fare altro, durante il dialogo. Sotto questo aspetto, mi si permetta una sola indicazione, che vale per tutti: non si entra in confessionale con il cellulare acceso, né tanto meno lo si utilizza durante i colloqui sacramentali».

La confessione è, infatti, anzitutto «ascolto» – a 360 gradi – oltre che «incontro» con Cristo, autentico «spazio di libertà», occasione per individuare la propria «vocazione». Dunque un evento per tutti i fedeli, i giovani in modo particolare, dove vedere soddisfatti i «bisogni molteplici ed universali» di ogni persona umana: «bellezza, giustizia, libertà, verità, amore».

Il confessore è chiamato allora a riconoscere la «“apertura del cuore” di chi si accosta al sacramento della Riconciliazione, soprattutto se giovane», considerando anche che «chi vi si accosta compie una scelta libera e contro corrente». Fino a mezzo secolo fa, infatti, annota il Penitenziere maggiore, era quasi scontato «che ci si avvicinasse a quello che molti definiscono “il sacramento difficile”, per mera abitudine o condizionamento del contesto». Oggi, è «incontrovertibile» che, «non ci sia più nulla che culturalmente inviti alla riconciliazione sacramentale, anzi…».

A maggior ragione il confessore deve porsi «in un atteggiamento di profonda “valorizzazione del penitente”, che significa valorizzare non certo il suo peccato, ma il gesto di accostarsi al sacramento, per chiedere perdono a Dio».

Per farlo bisogna tener conto di un assunto fondamentale: «I sacramenti sono azione di Cristo e della Chiesa», rimarca Piacenza; pertanto, «non è pensabile ridurre i sacramenti a mera automanifestazione della fede personale, come accade in certe odierne derive della speculazione teologica». In particolare quello della riconciliazione che solo nelle apparenze ha «come protagonisti il sacerdote ed il fedele, ma che, in realtà, è un incontro del penitente con Cristo stesso».

Una tale consapevolezza «plasmerà» il «tratto umano del confessore» verso una maggiore carità. Non sempre è facile: spesso i penitenti arrivano in confessionale con «espressioni inadeguate, talora perfino distorte o pretenziose». Tuttavia, raccomanda il cardinale, «la sapienza del confessore deve saper leggere» anche in queste «l’eco remota della domanda di felicità e di compimento, presente nel cuore di ogni uomo». «L’accusa dei peccati – spiega Piacenza – è, oggettivamente, un momento di crisi, di messa in discussione del proprio giudizio, delle proprie espressioni, del proprio operato (pensieri, parole, opere ed omissioni). Per tale ragione è indispensabile chiedere allo Spirito Santo la grazia che quella “crisis” sia trasformata realmente in un momento di crescita, attraverso l’incontro con Cristo».

Un incontro che «è capace di ri-costruire il nostro essere, distrutto dal peccato». Il penitente questo lo sa, o anche qualora non ne fosse consapevole, accostandosi alla Riconciliazione egli «domanda al Signore di essere ri-creato, domanda che la sua vita sia trasformata». È chiara, perciò, «l’enorme e santa responsabilità del Sacerdote, per ogni singola confessione, per ogni singolo penitente, perché l’incontro con i Signore non sia mai ostacolato». Anche se ciò non implica mai «la rinuncia al compito di “giudice e medico”».

Il Penitenziere maggiore chiarisce poi un altro punto: «La dinamica relazionale, insita nella celebrazione del Sacramento, ha in se stessa una valenza vocazionale», laddove per vocazione si intende non tanto «la scelta che l’io compie, quanto piuttosto la libera scelta che Dio compie, stabilendo la forma del rapporto, che ciascuno vive con Lui». Certamente possono esserci «vicende esistenziali nelle quali la conversione coincida con la vocazione, ma – ammonisce il porporato – è sempre opportuno verificare che le due realtà siano distinte e che il fedele, soprattutto se giovane, non scambi l’entusiasmo per la vita nuova in Cristo, con una specifica chiamata».

Nella sua lectio, Piacenza insiste inoltre sulla dimensione «dialogica» della struttura della Riconciliazione. Dialogo che, dalla parte del penitente, si traduce nel «delicatissimo momento dell’accusa» dei propri peccati; da parte del confessore, in ascolto «attento, prudente, accorato, capace di cogliere le sfumature», ascolto «profondo e paterno del penitente». Esso «è il primo passo di quel “miracolo di cambiamento” che la confessione determina». Ed «è frutto di grande autodisciplina», dice il cardinale, pertanto «dovrebbe sempre essere generosamente inserito in un normale orario d’impegni settimanali, e preceduto da qualche momento di raccoglimento profondo e di preghiera, domandando di divenire realmente capaci di ascolto, nella consapevolezza drammatica dell’importanza, talora determinante, della nostra mediazione umana». In questo modo si può incoraggiare il fedele «a confessare anche ciò che (sbagliando, speriamo invincibilmente) non pensava di poter confessare».

Per i giovani l’ascolto è una necessità fondamentale, insiste il cardinale, considerando l’«assenza» nel nostro tempo «di figure capaci di autentico ascolto». «I giovani – dice con lo sguardo rivolto al Sinodo di ottobre - con le loro speranze e delusioni, con i loro desideri e le loro contraddizioni e le loro paure, hanno urgente necessità di essere ascoltati, non soltanto dai propri coetanei (ammesso che siano capaci di ascolto), ma soprattutto da adulti veri, autorevoli, accoglienti, prudenti, capaci di una visione unitaria del mondo, dell’uomo e della vita, capaci da essere per i giovani, punti di riferimento saldi, affettivamente significativi ed esistenzialmente determinanti».

Posto questo, il penitente, specie quello giovane, «ha il diritto di ascoltare, dalle labbra del confessore, non le opinioni personali di un uomo, per quanto culturalmente preparato e teologicamente informato, ma solo ed unicamente la Parola di Dio», «interpretate dal Magistero autentico», precisa Piacenza.

Non poteva mancare nella sua lectio un riferimento a San Giovanni Maria Vianney, il curato d’Ars, «grande ed esemplare confessore». «Dio ci perdona, anche se sa che peccheremo ancora», diceva il sacerdote. Non si tratta di «giustificare il peccato» spiega il cardinale, ma di basarsi sulla «realistica constatazione della fragilità umana e della ferita del “peccato delle origini”», che incide anche su facoltà superiori come intelligenza, libertà e volontà.

Alla luce di questo la Confessione si può definire «come uno “spazio di libertà”, anzi forse è il solo vero spazio di autentica libertà donato all’uomo», afferma il Penitenziere: «Non esiste altro luogo, sulla terra, come la Riconciliazione sacramentale, nel quale sia possibile fare un’analoga esperienza: non solo essere amati incondizionatamente, nonostante il proprio peccato, ma anche vedere distrutto il proprio peccato ed essere amati in modo pieno, in modo infinito».

In quest’orizzonte di libertà, «è possibile intuire la vocazione e scegliere di non seguirla», come accadde nell’episodio evangelico del “giovane ricco”. Gesù «non trattiene il proprio interlocutore con ulteriori ragionamenti persuasivi; continua ad amarlo, ma si arrende umilmente alle sue scelte». Il confessore è chiamato ad immedesimarsi in questo atteggiamento rispettando «le scelte del penitente». Non significa «condividerle e “benedirle”» bensì «accettare di non potersi sostituire alla sua libertà». È questo, sottolinea il cardinale, «un altro grande errore della cultura contemporanea»: pretendere «non solo che le aberrazioni siano rispettate, ma che siano condivise e benedette e che nessuno si permetta di dire il contrario, di affermare l’esistenza, almeno, di un’alternativa reale e possibile.

Solo il cristianesimo riesce ancora a distinguere adeguatamente, per amore, l’errore dall’errante».

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L’invenzione dell’universo

Posté par atempodiblog le 9 mars 2018

L’invenzione dell’universo
La creazione è un fatto logico e Dio c’entra eccome. Parla Guy Consolmagno, l’astronomo del Papa
di Matteo Matzuzzi – Il Foglio

L'invenzione dell'universo dans Articoli di Giornali e News I_Pilastri_della_Creazione
I “Pilastri della Creazione”: colonne di gas interstellare e polveri visibili nella Nebulosa Aquila, riprese nel 1995 dal telescopio spaziale Hubble

“Ciò che di Dio si può conoscere è agli uomini manifesto; Dio stesso lo ha manifestato loro. Infatti le sue perfezioni invisibili, ossia la sua eterna potenza e divinità, vengono contemplate e comprese dalla creazione del mondo attraverso le opere da lui compiute” (san Paolo, Lettera ai Romani 1, 19-20)

“La prima cosa che vedo quando guardo la notte è la bellezza delle stelle, come del resto può fare chiunque abbia gli occhi e possa alzare lo sguardo al cielo notturno. Ma subito dopo cerco di identificare tra quelle stelle i miei amici, chiamandoli per nome”, dice al Foglio Guy Consolmagno, sessantacinquenne gesuita di Detroit e direttore della Specola vaticana dal 2015. E’ un astronomo, ha studiato al Mit di Boston e insegnato a Harvard. Esperto di fama mondiale nel campo dei meteoriti, a lui è stata intitolata perfino un asteroide, il “4597 Consolmagno”. Si divide tra l’Italia e l’Arizona, nel cui deserto può trovare quel buio pesto che gli consente di ammirare lo splendore della volta celeste. Mica come qua, dove è le luci delle città disturbano ovunque: “L’inquinamento luminoso è un peccato contro il Creatore!”, ci tiene a sottolineare. Dopotutto ne va anche del suo lavoro.

Consolmagno ha coltivato la passione per le stelle fin dalla tenera età, quando componeva puzzle a tema e rimase folgorato da un libro: “Mi regalarono un volume meraviglioso sulle costellazioni scritto da H. A. Rey (meglio conosciuto come Curious George) che tra l’altro è stato recentemente tradotto in italiano con il titolo Trova le costellazioni che mi ha mostrato le costellazioni collegando le stelle da punto a punto”. Più avanti, la vocazione e l’idea, corroborata dal tempo e dall’esperienza, che scienza e religione debbano camminare insieme. “Mio padre, quando ero bambino, mi insegnò quali fossero le stelle più luminose – lui aveva prestato servizio nell’aeronautica durante la Seconda guerra mondiale, e si servì proprio delle stelle per orientarsi in una spedizione di bombardieri americani alle Hawaii e poi in Inghilterra. Quindi, quando vedo le stelle, penso anche a lui, che ad aprile compirà cent’anni. Le stelle sono davvero come vecchi amici, per me. Quando andai in Africa con il Corpo di pace statunitense, le stelle mi hanno impedito di essere nostalgico, ricordandomi che sono davvero a casa ovunque io possa vederle. Ma penso anche alla scienza che sta dietro a quello che vedo, stelle luminose come la Betelgeuse, o piccoli gruppi come le Pleiadi. Io studio i pianeti e le loro lune, e i pianeti sono facili da individuare anche a occhio nudo. Per cui è davvero divertente guardare Giove e poter dire che quel punto luminoso è l’argomento di quanto sto studiando chiuso nel mio ufficio. Ed è allora che capisco davvero la gloria di Dio nei cieli. Non solo – dice Consolmagno – lui ha fatto le stelle, ma ci creati in modo tale che potessimo vederle e persino capirle. Dio ci ha invitato a condividere la gioia e l’amore che c’è nella sua creazione. E questo mi dà ancora più gioia”.

Eppure spesso si sente ripetere che la scienza, considerata la più alta espressione del razionalismo, non può contemplare la presenza di Dio, che viene ridotto a pura idea, a superstizione. Il direttore della Specola sorride: “Chi dice questo – inclusi diversi scienziati – ovviamente non sa cosa sia in realtà la scienza. Come funziona la ragione? Per essere in grado di affrontare ogni domanda in modo razionale è necessario partire con gli assiomi e le ipotesi. Bisogna avere fede in tali ipotesi e riconoscere che una o l’altra potrebbero anche essere sbagliate o incomplete. Bisogna avere anche fiducia nel fatto che si è svolto correttamente il ragionamento, avendo l’umiltà di ammettere che l’errore è possibile. Ecco perché testiamo le nostre conclusioni con ulteriori osservazioni e nuovi esperimenti. In altre parole – aggiunge Consolmagno – la scienza e quindi il ragionamento si basano sulla fede. E’ un’occupazione molto umana, piena di ogni sorta di emozioni umane, gioie e paure. Perché scegliamo di essere scienziati anziché agricoltori o banchieri? Perché scegliamo di lavorare in questo campo della scienza e non in un altro? Perché scegliamo di studiare un problema e non uno diverso? Tutte queste scelte sono fatte sulla base di una meravigliosa miscela di ipotesi e intuizioni basate sull’esperienza, sia la nostra sia quella dei grandi scienziati che ci hanno preceduto. Non ci sono due scienziati che fanno le stesse scelte”.

Ma come si decide quale scelta compiere? “Proprio con l’atto della contemplazione. Con un po’ di fortuna si trova un momento di calma per decidere dove ci stanno guidando le nostre intuizioni e per riflettere in modo profondo su ciò che stiamo tentando di fare. La buona scelta richiede la contemplazione”. Tuttavia, non è infrequente che il senso del contemplare sia equivocato e frainteso, “ed è anche abbastanza comune che le persone fraintendano cosa sia la religione. Ogni esperienza religiosa inizia proprio con un’esperienza, contattando cioè un determinato settore della realtà. E’ un evento, un ‘punto-dati’, se si vuole. Qualcosa di reale è successo, una vera scelta che dobbiamo fare ci attende. E poi cerchiamo di dare un senso a quell’esperienza, con la nostra ragione. E come vediamo, la ragione si basa su ipotesi elaborate in base a ‘criteri di fede’, informati dall’esperienza. Non solo la nostra esperienza, ma l’esperienza di noi stessi e di coloro di cui ci fidiamo”.

Secondo il direttore della Specola vaticana, “la scienza è un modo per incontrare Dio come creatore: è come una preghiera”. Bisogna chiedersi “chi sta realizzando questo incontro e dove si svolge? Io sono colui che sperimenta questo incontro, che sta avvenendo in questo universo fisico. Per parafrasare una vecchia canzone, io sono un ragazzo materialista che vive in un mondo materialista”. Ma – aggiunge – “se considero uno dei presupposti dai quali ero partito, il pensiero che questo mondo (e io in esso) sia il risultato di un atto deliberato di creazione da parte del Dio che sto cercando di incontrare, allora proprio come riesco a riconoscere Dylan o Dante dal modo in cui ha scritto il suo poema, allo stesso modo posso conoscere Dio dal modo in cui ha composto la poesia dell’universo”.

Precisa subito, Guy Consolmagno, che non sono idee sue: “San Paolo, cominciando la Lettera ai Romani, scrive che sin dal principio Dio si è rivelato nelle cose che ha creato. Si noti che sto parlando di poesia. La poesia è il modo in cui cerchiamo di esprimere qualcosa di più grande di quanto le parole possano contenere o esprimere: amore, paura, desiderio, gioia. Ogni documento scientifico è un’opera di poesia. Che cos’è, d’altra parte, un’equazione scientifica se non una metafora dei frammenti di realtà che si sta tentando di descrivere?”.

E a proposito di opere poetiche, il direttore-astronomo cita la Genesi, il suo inizio, “uno dei grandi poemi su Dio e la Creazione. Ovviamente questo non è un libro di testo scientifico… la scienza non era ancora stata inventata quando la Genesi fu scritta. Questo libro ci dice cose meravigliose sulla Creazione. Innanzitutto, ci dice che Dio decise di creare un universo. Insomma, non è accaduto per errore, a differenza di quello che pensavano i babilonesi. E’ fatto in modo logico, passo dopo passo, giorno dopo giorno. E la prima cosa creata è stata la luce, così che nulla di quanto realizzato resti nell’oscurità”. Qui il nostro interlocutore si ferma e scandisce bene le parole: “Dio ama la logica. Nell’incipit del Vangelo di Giovanni noi leggiamo ‘in principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio’. Verbo in greco si dice logos, la radice di logica. Dio è quindi identificato con la Ragione”. Il culmine di tutto, però, si raggiunge al settimo giorno, “quando noi ci fermiamo a contemplare questo universo nel quale siamo stati messi. La contemplazione potrebbe essere poesia o preghiera. O anche scienza”.

A proposito di scienza e di scienziati, è d’obbligo la domanda sull’assunto di Stephen Hawking, secondo cui – dopo aver per un attimo tentennato dinnanzi all’ipotesi dell’esistenza divina – le prove a disposizione dicono che l’universo non ha bisogno di alcun creatore, che il Big Bang deriva da null’altro se non dalle leggi della fisica. Consolmagno accetta la sfida e confuta scientificamente: “Consideriamo l’idea di Hawking in modo logico. Lui dice che il Big Bang potrebbe essere il risultato di una fluttuazione quantistica dello spazio-tempo, una fluttuazione quantistica della gravità. Assume quindi che le persone religiose identifichino l’origine dell’universo intesa come Big Bang con l’atto di creazione divina. Quindi conclude che non esiste alcun Dio. Ma se si segue il suo stesso ragionamento, si capisce che non è vero. Se Dio è la cosa che inizia il Big Bang e la cosa che inizia il Big Bang è la gravità, allora deve concludere che la gravità è Dio”.

Il fatto è che, spiega ancora Consolmagno, Hawking “fraintende due concetti. Pensa che la creazione sia solo il punto di partenza, e pensa che dio sia la cosa che dà il via a tutto. Ma un dio responsabile del Big Bang universale non sarebbe altro che un dio della natura, come Giove o Cerere, che scagliavano fulmini o propiziavano la crescita dei raccolti. Insomma, un’altra forza accanto alla gravità e all’elettromagnetismo. Hawking ha ragione a non credere in un tale dio. Nessun cristiano dovrebbe farlo, abbiamo respinto le divinità della natura degli antichi romani e greci (soffrendo le persecuzioni) e dobbiamo respingere anche quell’idea di dio. Neanche io ci credo, così come non credo a tante altre idee di dio che circolano nel mondo. Insomma, io e Hawking sul punto non siamo così distanti. Ma il Dio della Genesi è colui che è già presente prima che lo spazio e il tempo fossero creati. Sì, ci sono le leggi della fisica da usare per spiegare come funzionano le cose. Dio però è fuori dal tempo e l’atto di volontà che ha reso possibile l’esistenza di questo universo è un atto che non è circoscrivibile ad alcun luogo o momento. La creazione avviene in ogni momento, sempre. Ogni secondo che esiste in modo che possiamo essere consapevoli della sua esistenza è un miracolo. Non c’è ragione alcuna, all’interno della natura stessa, per spiegare perché la natura possa esistere”.

Complicato? “Questo – osserva il direttore della Specola vaticana – è un fondamento classico della filosofia e anche della ragione, legato all’idea che ogni atto razionale debba partire da assiomi che sono al di fuori del campo della ragione, provandoli o confutandoli. Il significato di questo universo, insomma, non può essere trovato nell’universo”.

Guy Consolmagno a questo punto ci tiene ad aprire una parentesi, un inciso neanche troppo marginale che riguarda Georges Lemaître, l’astrofisico belga che per primo, negli anni Venti, avanzò la teoria del Big Bang, venendo schernito da buona parte della comunità scientifica perché lui era un prete cattolico: pensavano che volesse dimostrare la storia della creazione della Genesi. “Lemaître – il quale è stato ricordato nel 2016 con convegni, pubblicazioni e studi a cinquant’anni dalla morte avvenuta a Lovanio, ndr – aveva capito bene questo fatto e infatti si rifiutò di identificare il punto d’origine del Big Bang con l’atto della creazione divina. Naturalmente, a differenza di Stephen Hawking, Georges Lemaître aveva anche studiato teologia e filosofia. Era un prete, oltre che uno scienziato con dottorato in matematica e astrofisica”.

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Il Papa: le vocazioni sacerdotali non si creano, ma si può testimoniare la chiamata di Dio

Posté par atempodiblog le 9 mars 2018

Il Papa: le vocazioni sacerdotali non si creano, ma si può testimoniare la chiamata di Dio
Francesco riceve i partecipanti alla Conferenza dei rettori di Seminari di lingua tedesca: «Usciamo dal nostro “io” e rivolgiamoci a chi è nel bisogno»
della Redazione di Vatican Insider

Il Papa: le vocazioni sacerdotali non si creano, ma si può testimoniare la chiamata di Dio dans Discernimento vocazionale Papa-Francesco
Immagine tratta da: Familia Cristiana

«Le vocazioni noi non le possiamo creare. Possiamo, invece, essere testimoni della chiamata di Dio misericordioso rivolta a noi». Così Francesco nel suo discorso ai partecipanti alla Conferenza dei rettori di Seminari di lingua tedesca, ricevuti in mattinata in Vaticano.

Parlando di vocazioni, il Papa ha sottolineato che Dio «ci chiama, affinché usciamo dal nostro “io” e ci rivolgiamo al “tu”. Questo “tu” è la persona concreta del bisognoso, di chi ha necessità della vicinanza degli uomini e della vicinanza di Dio».

«Su questo vogliamo sensibilizzare anche i giovani che si preparano al sacerdozio», ha affermato il Pontefice. Specialmente alla luce di queste «nuove e diverse forme culturali» che «stanno nascendo» e che «non rientrano nei modelli» già noti.

Bergoglio incoraggia a spogliarsi «di alcune abitudini a cui siamo attaccati» ed impegnarsi «con ciò che è ancora sconosciuto», sempre rivolgendo «lo sguardo verso Gesù che ha sofferto, è morto ed è risorto». Nelle sue ferite, «come anche in quelle del mondo, possiamo riconoscere i segni della Risurrezione», ha detto il Papa. Per questo, ha concluso, dobbiamo metterci «sempre in cammino come testimoni della speranza».

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