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Natale, dal Marocco una lezione ai laicisti italiani

Posté par atempodiblog le 30 novembre 2017

Natale, dal Marocco una lezione ai laicisti italiani
di Souad Sbai – La nuova Bussola Quotidiana

Natale, dal Marocco una lezione ai laicisti italiani dans Articoli di Giornali e News marocco-3

Dove non arriva la forza delle parole, di sicuro arriva quella delle immagini. Non per chi è libero e non ha bisogno del politicamente corretto per orientarsi nella vita, ma di sicuro per chi di questo aberrante concetto fa abuso. Succede che alcune istantanee di un mio breve soggiorno in Marocco, Paese per chi non lo sapesse a maggioranza islamica, facciano il giro dei social e solo perché dietro di me ci sono degli alberi di Natale, strade addobbate e aria di festa.

Lo ripeto e lo riscrivo: Marocco. Non passa un minuto dopo la pubblicazione delle foto sui miei profili social che il paradosso appare in tutta la sua gigantesca portata: qui in Italia nelle scuole si vietano presepe e canti di Natale, a Rabat come a Casablanca il Natale non solo si mostra ma addirittura ti acceca.

Ogni Natale, e in questo purtroppo so di non dire una cosa nuova, si sentono i servi del pensiero unico dire che sarebbe ora di abolire ogni festa religiosa dalle scuole, che se si festeggia il Natale qualche bimbo si sentirebbe umiliato perché la sua religione verrebbe ad essere, per così dire, offesa. E leggo, anche su ‘autorevolissimi’ giornali che si vantano di combattere le fake news del web ma ne sfornano almeno altrettante, che è arrivato il momento di laicizzare tutto, di essere “neutri” rispetto alla religione. Buonismo delirante all’ennesima potenza, che è esso stesso un paradosso prima ancora del modo con cui tratta certi temi.

Ora faccio una domanda e sfido chiunque stia leggendo questa mia riflessione a tirare fuori un nome: al netto di pagliacci, pagine fake e fenomeni da baraccone, avete mai sentito una persona di religione islamica (che sa di cosa si parli) chiedere l’abolizione dei canti di Natale? Ecco, rispondere a questa domanda ci porta diretti alla fonte del paradosso vergognoso a cui assistiamo: e cioé che sono solo i buonisti italiani a chiedere che questo accada. Perché i bimbi, di qualsiasi religione siano, non chiedono laicismo ma solo di giocare con i propri compagni e comprendere la realtà attorno a loro.
Perché l’estremismo, questo lo ripeto da anni, ha fatto più breccia (con mezzi e risorse che conosciamo) nella mente di una certa elite salottiera, che si fa paladina di diritti che nemmeno i presunti destinatari hanno mai richiesto.

Gli alberi di Natale pieni di luci e di palline colorate in Marocco sono l’esempio più lampante della clamorosa mistificazione che questi signori chiamano rispetto politicamente corretto del multiculturalismo. E tutto questo, ovviamente, sulla pelle di chi non può difendersi e non può replicare, come i bambini. Lo ripeto, di qualsiasi etnia o religione siano. Che vengono strumentalizzati senza vergogna per l’ossequio al pensiero unico che strappa via radici e distrugge, questo sì, ogni diritto. La potenza delle immagini, di ciò che non si può confutare ad arte: la verità.

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Un libro per immunizzarsi dalla calunnia anti-cristiana

Posté par atempodiblog le 28 novembre 2017

Un libro per immunizzarsi dalla calunnia anti-cristiana
di Anna Bono – La nuova Bussola Quotidiana

Un libro per immunizzarsi dalla calunnia anti-cristiana dans Articoli di Giornali e News Indagine_sul_Cristianesimo._Come_si_costruito_il_meglio_della

Natale si avvicina e gli attacchi ai cristiani si intensificano, ormai in gran parte del mondo. Nei paesi in cui sono una minoranza, le aggressioni e le  intimidazioni si fanno più frequenti, aumenta il rischio di attentati nelle chiese durante le cerimonie religiose. In quelli di tradizione cristiana si moltiplicano gli atti di intolleranza nei confronti dei simboli, dei riti, delle celebrazioni che da sempre preparano e accompagnano le feste natalizie: presepi, recite, canti. A Udine ad esempio, quest’anno, la proposta di alcuni cittadini di donare a Borgo Stazione un presepe ha suscitato la reazione indignata di un consigliere comunale. Ecco la motivazione del rifiuto: “perchè è un simbolo che richiama la tradizione esclusivamente cattolica di cui io non mi sento parte. Ci sono altri simboli molto più inclusivi che rappresentano tutti e tutte. Questa invece è una proposta fatta per andare contro qualcosa e qualcuno, una proposta per creare conflitto”.

Escludere i simboli cristiani come se fosse una prepotenza, una provocazione mostrarli è il primo atto di intolleranza. Poi si passa a sradicare la religione cristiana, eliminando dalla vita quotidiana gli atti pubblici di devozione: è l’intenzione di disposizioni come quella del dirigente scolastico che a Palermo ha proibito nel proprio istituto la recita delle preghiere e ha ordinato la rimozione di statue e immagini religiose. L’ulteriore livello di intolleranza, che prelude alla persecuzione vera e propria, lo raggiunge chi non si limita a ignorare il ruolo svolto dalla religione cristiana attraverso i secoli, ma accusa i cristiani, in Italia i cattolici, di aver reso il mondo peggiore e, se questa accusa non regge, imputa loro almeno la colpa di non aver combattuto per un mondo più giusto e libero.

Si riversano sui cristiani disprezzo e risentimento per aver impedito – così si sostiene – il progresso scientifico, aver umiliato le donne, ammesso la schiavitù e anzi aver partecipato alla tratta degli schiavi, torturato e bruciato milioni di streghe, combattuto religioni e popoli inermi in  nome di Dio con le Crociate, giustificato le stragi degli indigeni, a milioni, in Africa e nelle Americhe.

Spesso i fedeli subiscono queste accuse senza replicare, credendole almeno in parte se non del tutto giustificate, provando a scusare il comportamento della Chiesa e dei cristiani con il fatto che erano altri tempi, che il clima culturale era diverso…

Succede perchè i nemici del cristianesimo hanno falsato la storia nel corso dei secoli, mentendo senza scrupoli e sommergendo di calunnie i fatti. La verità riaffiora tuttavia, grazie al lavoro degli storici fedeli alla loro missione di studiosi, che recuperano dati, testimonianze, documenti. Si deve a loro se i cristiani oggi sono in grado di opporre argomenti fondati a chi diffama il cristianesimo. Non approfittare del loro contributo non solo priva i cristiani della possibilità di difendere la loro religione, ma impedisce loro di capire fino in fondo che cosa ha significato per l’umanità, tutta, l’avvento del Cristianesimo.

Lo storico Francesco Agnoli nel suo libro Indagine sul Cristianesimo. Come si è costruito il meglio della civiltà (La fontana di Siloe, 2014) propone per capirlo un mezzo efficace e tutto sommato semplice: il confronto tra il mondo prima e dopo il Cristianesimo e tra la civiltà che dal Cristianesimo è stata forgiata, quella occidentale, e il mondo oltre i suoi confini, là dove il Cristianesimo non è penetrato portando la propria rivoluzione antropologica, sociale, politica, economica e culturale.

Si scopre così – spiega Agnoli -  che l’Incarnazione di Cristo non è stato un evento straordinario solo per chi vi crede, ma ha avuto ripercussioni sulla vita dei popoli e degli individui in generale. Il cristianesimo infatti ha liberato l’uomo antico dalle superstizioni e dalle paure che lo immobilizzavano; ha introdutto l’idea di libertà e di eguaglianza; ha cambiato il modo di guardare gli schiavi, le donne, i bambini, i malati”. Contrariamente a quanto molti affermano, “la nuova religione ha favorito la nascita della scuola e dell’università, la diffusione degli ospedali e l’affermarsi della scienza moderna, proponendo un umanesimo pieno e universale, fatto di solidarietà, compassione e dialogo”.

Preziosi nel libro sono i capitoli che illustrano la posizione assunta dal cristianesimo nei confronti degli schiavi, appunto, delle donne e delle altre categorie sociali ritenute e trattate da inferiori, come le abbia difese e protette, quanto si sia battuto per loro, per dotarli di pari dignità. Più ancora lo sono le pagine in cui l’autore descrive il Cristianesimo smentendo la rappresentazione oppressiva che se ne vuole dare: religione della libertà – “liberi tutti gli uomini perché figli di Dio – e del sì – alla volontà del Padre, alla vita, all’amore e alla fiducia nel prossimo – in contrasto con una dominante “cultura del no alla vita”, che vanta come conquiste di libertà l’aborto, il divorzio, la droga, l’eutanasia.

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Il patriarca ortodosso vede i segni dell’Apocalisse

Posté par atempodiblog le 25 novembre 2017

Un monito per il presente
Il patriarca ortodosso vede i segni dell’Apocalisse
di Marco Tosatti – La nuova Bussola Quotidiana

Il patriarca ortodosso vede i segni dell'Apocalisse dans Articoli di Giornali e News Kirill

Il patriarca Kirill ha detto nei giorni scorsi in un discorso pubblico che i segni del Libro dell’Apocalisse sono ormai evidenti. Ha anche chiesto ai politici, agli artisti, agli scienziati e ai comuni cittadini di unirsi, per fermare il movimento verso l’abisso: “Stiamo entrando in un periodo critico nello sviluppo della civiltà umana”.

Sono parole straordinariamente chiare e dure, certamente non usuali sulla bocca della più alta autorità della Chiesa Ortodossa russa. “Tutti coloro che amano la Patria devono essere insieme perché stiamo entrando in un periodo critico nella storia della civiltà umana. Questo può già essere visto a occhio nudo.

Bisogna essere ciechi per non notare l’avvicinarsi di momenti che ispirano timore nella storia, ciò di cui l’apostolo ed evangelista Giovanni parlava nel Libro dell’Apocalisse”.

Il Patriarca di Mosca e di tutte le Russie ha aggiunto che il momento preciso della fine dei tempi dipende dalle azioni di ciascuno. Ha chiesto al popolo di capire la responsabilità delle persone per ciò che riguarda la Russia e l’intera umanità, e di bloccare “il movimento verso l’abisso della fine della storia”.

Ha poi sottolineato che molti rappresentanti dell’intelligentsia della Russia moderna stanno ripetendo gli errori commessi dai loro predecessori, che portarono il Paese  nei rovinosi eventi rivoluzionari del XX secolo.

“Oggi è il momento sbagliato per far oscillare la barca delle passioni umane, perché ci sono già troppe influenze negative sulla vita spirituale delle persone”, ha detto Kirill.

Il Patriarca ha celebrato una messa nella cattedrale di Mosca, la chiesa del San Salvatore. Subito dopo il Sinodo della Chiesa Ortodossa ha offerto al Patriarca una copia del copricapo cerimoniale indossato dal patriarca Tikhon, l’uomo che fu eletto a quella carica esattamente un secolo fa.

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Silenzio, adorazione, preghiera. La lezione dei bambini

Posté par atempodiblog le 21 novembre 2017

Silenzio, adorazione, preghiera. La lezione dei bambini
di Aldo Maria Valli
Tratto da: Aldo Maria Valli Blog

Silenzio, adorazione, preghiera. La lezione dei bambini dans Fede, morale e teologia Adorazione_del_Santissimo_Sacramento

Oggi Santa Subito mi ha raccontato una bella esperienza con i suoi bambini del secondo anno di catechismo.

I ragazzini sono tredici, di nove anni. L’argomento affrontato è «La chiamata». Prima nel Vecchio Testamento, poi nel Nuovo.

Dopo aver approfondito la conoscenza della storia di Abramo, è il turno di Mosè: la sua origine, la vita, i problemi di balbuzie, l’episodio dell’uccisione di un sorvegliante che picchiava uno schiavo ebreo. E poi Mosè chiamato da Dio, che si manifesta come fuoco nel roveto ardente.

Mosè accetta di avvicinarsi mosso prima di tutto dalla meraviglia e dalla curiosità. Il roveto arde misteriosamente e lui vuole capire perché. Dio si presenta, spiega di essere il Dio di Isacco e il Dio di Giacobbe, e Mosè, che si sente inadeguato, prova paura, tanto che si copre il volto, come è naturale in un simile frangente.

Il racconto ci riguarda, spiegano le catechiste ai bambini, perché dimostra che Dio, per manifestarsi, può scegliere anche un uomo tutt’altro che esemplare, un pastore che ha un sacco di difetti, si è reso responsabile di un omicidio, ha problemi nell’esprimersi e, cresciuto con gli egiziani, non conosce il Dio del suo popolo. C’è anche un faraone che se la prende con gli ebrei e li perseguita, il che dimostra che certe difficoltà di convivenza non sono poi una novità.

E che cosa chiede Dio a Mosè? Di togliersi i sandali, perché è su terreno sacro.

E lo stesso fanno le catechiste. Portano i bambini in cappella, dove, davanti al tabernacolo, è stato steso un tappeto. Invitano a togliersi le scarpe che, è stato spiegato, rappresentano le sicurezze. Raccomandano anche silenzio assoluto e dignità nel comportamento: niente mani in tasca, niente bocche che masticano chewing gum, niente giochi e dispetti.

Ed ecco la sorpresa: i bambini, che in genere faticano a mantenere il silenzio e a rispettare le regole, capiscono immediatamente che la situazione è speciale, che lo spazio e il tempo nei quali stanno entrando non sono quelli usuali, e fanno come le catechiste hanno chiesto.

Ai bambini in precedenza è stato spiegato che Mosè, nel rapporto con Dio, sviluppa con lui una familiarità. Con Dio noi possiamo parlare, perché non è un’entità lontana e imperscrutabile, ma è Padre. E quando parliamo con Dio? Quando preghiamo, risponde un bambino. Bravo!

Quattro le preghiere insegnate ai bambini: mio Dio, aiutami a sentirti; aiutami a seguirti; aiutami a capire; aiutami a diventare grande, a conoscerti sempre meglio.

Ogni bambino ha scelto una preghiera ed ora, nella cappella, davanti al tabernacolo, sul tappeto, senza scarpe e in ginocchio, è il momento di rivolgerla a Dio. Lì c’è la lucina rossa: vuol dire che Gesù è presente. Lui ci ascolta e ci accoglie.

I bambini, prima di recarsi in cappella per un momento tanto speciale, hanno lasciato tutto in aula: lo zainetto, la cartelletta che contiene il «book in progress» realizzato con le catechiste, il giubbotto. Per andare lì, in quel luogo speciale, non occorre nulla e nulla ci deve distrarre.

Ed ecco la seconda sorpresa: i bambini si trasferiscono dall’aula alla cappellina con parecchio disordine, ma una volta entrati, vedendo il gruppo che li precede in preghiera, cambiano atteggiamento. Arriva il loro momento, si tolgono le scarpe, si inginocchiano sul tappeto davanti all’altare e restano silenziosi e concentrati. Ciascuno di loro sussurra la propria preghiera, senza disturbare gli altri. Capiscono che stanno vivendo un momento diverso da tutti gli altri, un momento straordinario. Capiscono che lo spazio e il tempo del sacro richiedono un atteggiamento che non può essere il solito.

Con lo sguardo rivolto al tabernacolo, la preghiera è sussurrata più volte: mio Dio… mio Dio…

Poi, a un cenno della catechiste, si esce. Di nuovo in silenzio, scalzi, si torna in classe. Ecco i genitori, arrivati per prelevare i loro bambini. Ma nessuno dei ragazzini si mette a correre e a schiamazzare, come avviene di solito. L’«effetto-sacro», se vogliamo chiamarlo così, è ancora operante. I bambini sono consapevoli di aver vissuto attimi di una qualità straordinaria.

E infine un’altra sorpresa. C’è un bambino che piange. Che succede? Perché? Le catechiste chiedono, e lui risponde: sta bene, non ha paura, non è triste. «Mi sono emozionato», spiega con candore.

Ma questi sono gli stessi bambini che di solito fanno chiasso, si concentrano con difficoltà, si distraggono? Sì! Nessuno li ha sostituiti! Tra loro c’è anche un bimbo iperattivo. Eppure hanno capito molto bene che il tempo e lo spazio del sacro sono un’altra cosa, che c’è un atteggiamento consono alla preghiera e all’adorazione. Hanno capito molto bene la richiesta di togliersi le scarpe, di stare in silenzio e in ginocchio, di rivolgersi a Dio con la preghiera personale, soltanto sussurrata ma fortissima perché proveniente dal cuore.

«Davvero non immaginavo – dice Santa Subito – che avremmo ottenuto questo risultato. Pensavo che mantenere il silenzio sarebbe stato difficile e che la richiesta di pregare si sarebbe trasformata in occasione per l’ennesimo gioco. Invece i bambini hanno risposto dimostrando di avere in loro una naturale predisposizione al sacro, al dialogo con Dio, all’adorazione».

E in tutto questo c’è una lezione.

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“L’aborto è un crimine come la mafia”. Non è don Francesco ma Papa Francesco

Posté par atempodiblog le 21 novembre 2017

“L’aborto è un crimine come la mafia”. Non è don Francesco ma Papa Francesco
“Shock” per le parole del parroco bolognese che ha accostato Totò Riina a Emma Bonino. Ma anche il Papa ha detto più o meno le stesse cose a febbraio dello scorso anno
della Redazione de Il Foglio

“L'aborto è un crimine come la mafia”. Non è don Francesco ma Papa Francesco dans Aborto No_all_aborto

La tempistica scelta da don Francesco Pieri, il parroco (e teologo) bolognese che sui social ha domandato se abbia “più morti innocenti sulla coscienza Totò Riina o Emma Bonino”, non è forse opportuna, ma le reazioni ancora meno. Il parroco è stato subito subissato di accuse e a un commento su Facebook in cui un utente scrive “sicuramente la Bonino”, don Pieri ha risposto questo “non rende certo migliore Riina, ma dice qualcosa sulle nostre ipocrisie diffuse”. Sui giornali, online e cartacei, è stato un diluvio di “shock”, di proteste per le parole del sacerdote, reo di aver accostato la militante radicale a un ergastolano condannato al 41 bis.

Non era stato rilevato però l’analogo “shock” quando a dire più o meno le stesse cose fu Papa Francesco, nel corso della conferenza stampa pronunciata il 18 febbraio del 2016 su volo di ritorno dal Messico. All’epoca, la conferenza stampa del Papa passò alla storia solo per la frase su Trump – “una persona che pensa soltanto a fare muri, sia dove sia, e non a fare ponti, non è cristiana” – mentre nulla si disse su quanto Francesco sottolineò a proposito dell’aborto. “L’aborto non è un ‘male minore’. E’ un crimine. E’ fare fuori uno per salvare un altro. E’ quello che fa la mafia. E’ un crimine, è un male assoluto”.

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Il sogno di eliminare il cristianesimo

Posté par atempodiblog le 21 novembre 2017

Il sogno di eliminare il cristianesimo
Così il secolarismo tace sull’islam ma si accanisce sui cattolici. Il Figaro intervista Rémi Brague a proposito della decisione del Consiglio di stato di rimuovere la croce a Plöermel, in nome della laicità
della Redazione de Il Foglio
Tratto da: 
Radio Maria

Il sogno di eliminare il cristianesimo dans Articoli di Giornali e News Statua_e_Croce

Dopo la polemica generata dalla decisione del Consiglio di stato di rimuovere la croce a Plöermel, in nome della laicità, il filosofo francese Rémi Brague ritorna sulla nozione di laicità. Ne parla con Alexandre Devecchio del Figaro. “Ci sono due ragioni: da un lato, la stanchezza di fronte a ciò che è ripetitivo in queste misure; d’altra parte, il fastidio per la meschinità che testimoniano. In Bretagna, non puoi lanciare un mattone senza che cada su un recinto parrocchiale. E dov’è che una croce è più al suo posto che sopra la statua di un Papa? Il secolarismo non ha nulla della dignità di un principio filosofico, ma costituisce una nozione specificamente francese. La parola è persino intraducibile”.

Ma come applicare la legge sul velo a scuola e il burqa in strada se la legge non viene applicata rigorosamente per tutte le religioni? “Il vero parallelo alla costruzione di un tale monumento sarebbe la costruzione di una moschea. Chi la vieta? Molti comuni, anzi, la preferiscono. In ogni caso, si ha spesso l’impressione che una legge in Francia sia piuttosto un’opzione. Quante leggi sono rimaste senza decreti attuativi? Vediamo le donne che indossano il velo che nasconde i loro volti? La applichiamo nei ‘quartieri’? Il ‘secolarismo’ in stile francese è stato scolpito su misura del cristianesimo da persone che lo conoscevano molto bene. Il problema con l’islam non è, come si dice troppo spesso, che non conosce la separazione tra religione e politica (da qui l’espressione imbecille di ‘islam politico’). E’ piuttosto che ciò che chiamiamo ‘religione’ include un insieme di regole della vita quotidiana (cibo, vestiti, matrimonio, eredità, ecc.), presumibilmente di origine divina, che devono quindi avere la precedenza sulla legislazione umana. La laicità non è e non può essere un’arma. E, almeno in linea di principio, ancor meno essere diretta contro una particolare religione. Lo dico perché è stata forgiata contro una religione molto specifica, cioè il cristianesimo cattolico, a cui la grande maggioranza della popolazione ha aderito più o meno consapevolmente, con più o meno fervore. Lo stato non deve favorire nessuno, né combattere nessuno. Alcuni secolaristi sognano di porre fine al cristianesimo, dandogli il tanto atteso colpo di grazia dal XVIII secolo. Sfruttano la paura dell’islam per cercare di scacciare dallo spazio pubblico ogni traccia della religione cristiana ».

« Sentiamo dire che ‘l’islam è una religione come le altre’ ma nessuna religione è una religione come le altre. Ognuna ha la propria specificità. Applicare il concetto cattolico di ‘integralismo’ o protestante di ‘fondamentalismo’ a fenomeni che non hanno nulla a che fare con queste due denominazioni, questo è il vero fumo negli occhi. I più grandi massacri del XX secolo non furono fatti da regimi semplicemente atei, ma da regimi desiderosi di estirpare la religione”.

La minaccia dell’islam? “La più seria non è sicuramente la violenza. Questa è solo un mezzo per un fine, la sottomissione dell’intera umanità alla Legge di Dio”.

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La banalità del bene e la dittatura del consenso molle

Posté par atempodiblog le 17 novembre 2017

Il volto terribile della “città del cuore”
La banalità del bene e la dittatura del consenso molle
Philippe Muray a Stanford nel 1983 vide la morte del sesso, della letteratura, del dissenso, dell’arte e di ogni differenza culturale. Una “crisi iperglicemica di buoni sentimenti” che sarebbe dilagata in tutto l’occidente. “I nuovi misericordiosi sono i cantanti, gli attori, gli sportivi, i creativi della pubblicità, sono loro, lo sappiamo, i veri modelli del nuovo esercizio di apologetica spettacolare”. E’ arrivata la dittatura dello solidarietà.
di Giulio Meotti – Il Foglio
Tratto da: Radio Maria

La banalità del bene e la dittatura del consenso molle dans Anticristo concerto

E’ il 1983 quando Philippe Muray viene chiamato dal grande antropologo René Girard a insegnare letteratura francese per un semestre a Stanford. Muray stava già lavorando a quello che sarebbe diventato il suo capolavoro, “Le XIXe siècle à travers les âges”. Fu in quella università, tra le più quotate d’America, che per la prima volta si esclusero dai programmi Dante, Omero, Platone, Aristotele, Shakespeare e gli altri grandi protagonisti della cultura occidentale. Il motivo: secondo il comitato di professori e studenti che stabilì i piani di studio, tutti questi classici erano “razzisti, sessisti, reazionari, repressivi”, e nei programmi del primo corso andavano sostituiti da esponenti della cultura del Terzo mondo, delle minoranze americane di colore, delle donne e della contestazione, anche se molto meno noti. Allan Bloom, il docente di Chicago che aveva scritto il bestseller “La chiusura della mente americana”, disse che così si stava distruggendo l’insegnamento della logica e della tolleranza. Amanda Kemp, che guidava l’Associazione degli studenti afroamericani, rispose che il messaggio dei vecchi programmi è uno solo: “Nigger go home”, torna a casa negro, perché “esalta il maschio bianco occidentale e mira a conservargli il dominio sui non-bianchi, sulle donne e sul Terzo mondo”. Così, “Controrivoluzione e rivolta” di Herbert Marcuse prese il posto di Cicerone, Goethe, Cervantes e Stuart Mill.

“Davanti a noi un eterno Mattino Magico”, scriverà Philippe Muray, che in quei mesi ascoltava e osservava, allibito, prendendo nota. “Qualcosa di strano e terribile, che non aveva ancora nome, si stava rivelando”, dirà lo studioso francese in seguito. “In un paese che non badava né alla dialettica né ai ricordi, per il bene dell’umanità si compiva la temibile unione dell’ottimismo progressista e degli spiritualismi più sfrenati. Dietro ai volti ostinatamente sorridenti che si vedevano in giro incombeva la minaccia. Una specie di religione stava venendo alla luce sotto gli auspici dell’Armonia, irrefutabile più delle religioni antiche e provvista delle risorse definitive, quelle per farsi accettare ovunque. Niente di ciò che avevo davanti agli occhi esisteva ancora altrove”.

Muray è scomparso nel 2006 a sessant’anni e non ha fatto in tempo a vedere che quello che allora aveva davanti agli occhi in nuce sarebbe dilagato in tutto l’occidente. Il grande wellness occidentale. Il Mondo Nuovo dei puritani. Però Muray nel 1993 fece in tempo a consegnare in libreria il suo saggio più corrosivo e importante, “L’empire du bien”, tradotto adesso in italiano dalle edizioni Mimesis.

 C’è tutto in quel libro, il culto dell’infanzia, la lotta per l’uguaglianza trasformata in imperativo paranoico e censorio, le isteriche rivendicazioni di giustizia che diventano sistemi persecutori, le richieste ossessive di protezione e “safe space”, i moralismi, la giustizia che corre sulla bocca di tutti, il puerilismo e le grandi guerre che una società buona e giusta deve vincere (razzismo, sessismo, omofobia).

Muray è stato il primo e il migliore dei saggisti francesi anti-moderni, il più elegante e allegro. I suoi bersagli erano numerosi, dai bobo alla femminilizzazione, dallo spettacolo della buona coscienza alla fluidità culturale, e poi ancora la miscela di generi e l’illusione di aver sradicato il male. “Nel nostro Paese delle Meraviglie il Bene non ha semplicemente nascosto il Male, ma ha addirittura vietato che il Male venga scritto, e che sia quindi sentito o visto. Orwell si è sbagliato di poco. Le tinte drammatiche della sua profezia gli hanno fatto mancare il bersaglio: il film-catastrofe del futuro ha tinte rosa pastello”.

Creatore di neologismi insuperati – il più famoso è l’Homo festivus – Muray era virtuoso, aggressivo, metteva a disagio con la sua malizia rabelaisiana. Il mondo che professava di prendere in giro lo aveva ribattezzato “Cordicopolis”, la città del cuore. Un “luminoso degenerare”, lo chiamava, in cui tutto si tiene: “La famiglia, le coppie, la felicità, i diritti dell’uomo, la ‘cultura adolescenziale’ degli hooligans, il business, la fedeltà e la tenerezza, tutti insieme appassionatamente, i padroni, le leggi di mercato ben temperate dalla dittatura della solidarietà, l’esercito, la carità, i figli voluti e rivoluti, i neoliceali che si credono yuppies, l’erotismo piccolo piccolo, la pubblicità cosmica, gli zulù che chiedono solo di essere riconosciuti. Tutti laccati, tutti leccati, lisciati, il Meglio del Meglio si diffonde, l’Eufemismo magnificato nel peggiore dei mondi migliori divenuto spaventosamente possibile”.

Muray si era formato come traduttore di scrittori anglosassoni (London, Melville, Kipling…) e aveva studiato lettere a Parigi. Uno spirito legato alla tradizione controrivoluzionaria di Joseph de Maistre e Leon Bloy, un novello Karl Kraus, l’apocalittico beffardo. In tanti si diranno allievi di Muray, Alain Finkielkraut, Jean Baudrillard e Michel Houellebecq, che lo considera uno dei più grandi geni letterari francesi del XX secolo.

Proprio come uno dei suoi oggetti di studio, Louis Ferdinand Céline, cui dedicò un celebre saggio che teneva dentro tutto, genio letterario e antisemitismo, Philippe Muray è riuscito a illuminare il dolce disastro contemporaneo, dove il “festival” è legge, “il figlio naturale di Debord e del web”. Alla fine era diventato il portavoce del movimento anti-giustizialista con la sua denuncia della correttezza politica e dell’infantilizzazione dei consumatori, ridotti a una “passività euforica” in un “asilo egemonico”. Era politicamente inclassificabile. Muray, analizzava le contraddizioni della società odierna senza proporre ritiri o rivoluzioni. Un vagabondo ideologico, un moralista per il quale il pensiero critico doveva essere un’arte. Quello che Muray intuì a Stanford era la tirannia dei buoni sentimenti. Nacque allora il “millennio in crisi iperglicemica”. Il mondo come fabbrica di piaceri e diritti. “Il Bene è la risposta anticipata alle domande che abbiamo smesso di farci. Piovono benedizioni da tutti i cieli, gli dèi sono caduti sulla terra, la seduta è tolta, olé! Non esistono alternative alla democrazia, alla coppia, ai diritti dell’uomo”. Un millenarismo che inghiotte tutto. “Ascoltate il vostro corpo, andate in palestra, tonificatevi. Cose buone dal mondo. Scoprite i benefici dell’acquagym, lottate tra le canne di bambù, abbattete il tempio Inca di cartapesta, anche voi potete entrare nel Regno Incantato”.

L’America che vide Muray divenne il terreno fertile per una “Nuova Bontà” che “guida il popolo contro sessismo, razzismo, discriminazioni di ogni tipo, maltrattamenti di animali, traffico d’avorio e di pellicce, contro i responsabili delle piogge acide, la xenofobia, l’inquinamento, la devastazione del paesaggio, il tabagismo, l’Antartide, i pericoli del colesterolo, l’Aids, il cancro eccetera eccetera”.

L’epoca dello zucchero senza zucchero, delle guerre senza guerra, del tè senza teina, del “dibattito in cui tutti sono d’accordo per dirsi che in fondo sì, domani sarà meglio di ieri”. Una storia che galoppa in cui “ci trattano con i guanti bianchi, ci cullano, ci proteggono dai pericoli. Un puro fatto grezzo, brutale, ci capitasse per davvero, ci metterebbe ko in due secondi. Il minimo evento è preannunciato, segnalato, telegrafato, con tanto anticipo che poi, quando succede veramente, sembra la commemorazione di se stesso”.

Questo bene assoluto e insindacabile Muray lo definisce “la vecchiaia del mondo”. “Non basta essere contro la morte, l’apartheid, il cancro, gli incendi boschivi; non basta volere la tolleranza, il cosmopolitismo, le feste dei popoli e il dialogo tra le culture; non basta condividere le sofferenze degli etiopi, dei nuovi poveri, degli affamati del Sahel. No, non è sufficiente. La cosa fondamentale è dirlo e ridirlo, ripeterlo mille volte al giorno”.

Viviamo in un’atmosfera di religiosità furiosa. “E non sto parlando della buona vecchia religione di una volta, perché l’ateismo avanza, lo vediamo tutti, l’indifferenza si diffonde, le grandi fedi di un tempo (quelle sì che erano veramente folli e, in quanto tali, potevano giustificare la follia religiosa) sono sostanzialmente sparite. La nostra religione è ancora più delirante: la vera fede, oggi, è credere nello Spettacolo”.

I nuovi misericordiosi sono “i cantanti, gli attori, gli sportivi, i creativi della pubblicità, sono loro, lo sappiamo, i veri modelli del nuovo esercizio di apologetica spettacolare. Vi sbattono in faccia il loro entusiasmo senza colpo ferire, con così tanto trasporto, si lanciano con così tanto fervore contro la droga, contro la miopatia congenita, contro le alluvioni, contro la fame nel mondo, per i diritti dell’uomo, per salvaguardare l’esistenza dei curdi, e con toni così convincenti, partecipi, commossi, che anche voi avete la sensazione, nel vederli scagliare le loro frecce coraggiose in pertugi tanto inesplorati, anche voi credete, per un attimo, che quelle Cause le abbiano scoperte loro”.

Anche il linciaggio indossa abiti buoni, progressisti, giusti. “Buttati fuori dalla porta, gli antichi riflessi di odio e di esclusione rientrano in fretta dalla finestra per scagliarsi contro nuovi capri espiatori sempre più incontestabili”. Un esercito della virtù, dice Muray, che ricorda la “polizia religiosa” saudita che pattuglia le vie per far rispettare la sharia, “vigilare perché i negozi rimangano chiusi durante le ore di preghiera e battere le donne che lasciano intravedere un centimetro di pelle. Forse succederà anche qui da noi, basta aspettare un pochino”.

Il consenso deve essere totale. “Il transessualismo di massa non è più un’utopia, anzi, è diventato la nostra realtà sostitutiva. Qual dolcissimo struggimento! Da una parte stanno le nozioni antipatiche: ‘frontiere’, ‘mutilato’; dall’altra ci sta la ‘trasgressione’, concetto brioso e totalmente innocuo. Il tutto culmina naturalmente nella celebrazione dell’‘essere androgino’, il paladino ideale, come è giusto, del nuovo ben pensare”.

E’ anche la morte del sesso in un tempo che sembra celebrarlo in ogni momento. Una fata morgana. “Mai come ora invece impazza, e impazzerà sempre di più, la ricerca dell’asessuale. Abbiamo creduto al trionfo dell’erotismo, in forma scritta o filmata, semplicemente perché per un attimo ci è sembrato fruttuoso, redditizio. Oggi è bell’e che finita. Si torna alle cose serie. L’odio contro il sesso si perpetua cercando nuovi e feroci punti di appoggio”. 

La “coppia” è il nuovo ideale. “Nei rapporti tra i sessi non c’è più alternativa alla coppia, ufficiale, di fatto, omo, etero, poco importa, purché sia coppia. Nella sfera privata l’Aids ha giocato un ruolo simile a quello avuto dal crollo del Muro di Berlino in politica. Non c’è più scelta, né per l’individuale né per il collettivo. Basta scelte nel sociale, basta scelte nel privato. Finito anche lì. Si cali il sipario. Il nostro mondo è pieno di riunificazioni meno commentate, certo, e più discrete dello scioglimento della Ddr, ma altrettanto traboccanti di strepitose novità per il futuro”.

Il dissenso è proibito. Si instaurano nuovi psicoreati. “Ci troviamo oggi in una situazione che ricorda – ma è mille volte peggio, è mille volte più inquietante – quella del Seicento, quando avere un’opinione propria, essere un individuo, mostrarsi come individuo costituiva la definizione stessa di eresia. La libertà di pensiero è sempre stata una malattia. Oggi, finalmente, possiamo dirci completamente guariti. Chi non declama il catechismo collettivo è additato come pazzo. Mai come oggi il gregge di coloro che guardano scorrere le immagini ha temuto che un minimo scarto, una variazione, potessero danneggiarlo. Mai come oggi il Bene è stato sinonimo di una condivisione così assoluta”.

Martella ogni giorno un solo messaggio: “La cultura è buona e giusta, il cinema è vita, la poesia è amore, il teatro vi aspetta e la pittura ci riguarda tutti”. Il bambino è il nuovo idolo. “Pass-partout intoccabile, il martire di tutti i Telethon, il diretto successore di quello che più vi aggrada: del Popolo, della Morale, dei Costumi e della Religione! Ma anche di Dio stesso, perché no? L’erede universale. Il Grande Feticcio. Il Frustino di tutte le scudisciate. In suo nome si vietano le visualizzazioni in rete ogni volta che si vuol fare fuori qualcuno… Ah! Il Bambino! I bambini salveranno il mondo!”.

Censori e delatori, eccolo i nuovi inquisitori soft. “Il dispotismo del Consenso molle ha tutt’altre caratteristiche, ugualmente spaventose. La sua forza sta nell’essere quasi invisibile e al tempo stesso effuso, diffuso, senza vie d’uscita, senza alternativa, non c’è possibilità di guardarlo dall’esterno e magari accerchiarlo, o almeno colpirlo, obbligarlo a reagire e quindi a mostrarsi, in modo che riveli così la potenza e la vastità del suo impero tirannico. Il Consenso molle trova la propria legittimazione – e gli indici di ascolto ne danno prova quotidiana – nell’essere desiderato da tutti, da tutti considerato come estrema forma di protezione”.

Per proteggere l’Impero del bene, si deve “stoppare chiunque abbia la vaga idea di pronunciare qualche cosa di non allineato, di ermeticamente non consensuale, di appena appena non identificato” e rientra in questa categoria “ogni idea che dal collettivo non parta per poi tornarvi immediatamente”. Si tratta di un immenso progetto terapeutico che consiste nel “trasformare la maggior parte di noi in militanti della Virtù, contro una minoranza di tardivi rappresentanti provvisori del Vizio che verranno fatti fuori gradualmente”.

E l’impero del bene ha i suoi tartufi. “E’ socio fondatore di varie associazioni NO a qualcosa, CONTRO qualcos’altro, ha frequentato le migliori università e scuole di specializzazione, è socialista moderato, o progressista scettico, o centrista del terzo tipo”.

E’ un nichilismo di tipo nuovo. “Quello di un tempo aveva foggia rossonera; oggi è rosa pallido, pastello tenue dal cuore d’oro, tarocchi New Age, yogurt bifidus, karma, muesli, sviluppo sostenibile delle energie positive, astrologia, esoterico-rilassante, occulto-rigenerante”. Il consenso si è liberato dal comunismo semplicemente realizzandolo. “Non è un’ironia della sorte che l’ignobile concetto americano di Politically Correct venga abbreviato Pc dai media. La collettivizzazione si è infine compiuta, tra musica e colori”.

Tutto e tutti devono sciogliersi, così che “lacrime, amore, passione, generosità ed effusioni annunciano l’imminenza di una nuova Età dell’oro”.

Il Pc uscì da Stanford per estendersi a macchia d’olio su tutta la cultura occidentale, accademie, libri, tv, giornali. “I cervelli sono kolchoz. L’Impero del Bene ha attinto a piene mani da quell’antica utopia: burocrazia, delazione, esaltazione appassionata della giovinezza, smaterializzazione del pensiero, abolizione dello spirito critico, addestramento osceno delle masse, annientamento della Storia a forza di attualizzazioni, appello Kitsch al sentimento contro la ragione, odio del passato, uniformazione degli stili di vita”.

Il trionfo dell’individualismo è una mera illusione, “una delle tante amene verità giornalistico-sociologiche di consolazione, quelle che ci sciroppano quotidianamente in un mondo in cui ogni singolarità, ogni particolarità è in via di estinzione”.

Sta morendo la grande letteratura: “Da sempre, la letteratura è fatta, almeno in linea di principio, per demolire le credenze del mondo. Se esistesse ancora la letteratura, se ci fossero ancora scrittori, anziché ‘autori’, anziché ‘libri’, forse ci si potrebbe divertire. Ogni opera di un certo respiro è sempre stata impavidamente antimoralistica, contro qualsiasi pastorale”. Oggi gli scrittori sono tutti “velati, sorridenti, zuccherosi”.

Una letteratura “addolcita, climatizzata, spianata, livellata pure lei, schiava della comunicazione, denicotinizzata, allineata, decatramizzata, aizzata a dovere”. Ma muore anche l’arte del postmoderno: “L’artista, oggi – che sia minimalista, concettuale, o estremo contemporaneo – sopravvive sempre in quanto specie protetta, residuo filantropico”.

Hannah Arendt immortalò la banalità del male. Philippe Muray ci ha regalato la sua evoluzione: la banalità del bene. “Questa società non partorirà che uomini muti o oppositori”. Non ci resta che allinearci.

“Il Paradiso è adesso!”.

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Morto il rabbino Giuseppe Laras. Un maestro «figlio della Shoah»

Posté par atempodiblog le 16 novembre 2017

Morto il rabbino Giuseppe Laras. Un maestro «figlio della Shoah»
Nato a Torino nel 1935, da piccolo era scampato allo sterminio. Operò con il cardinale Martini per il dialogo interreligioso. Era una delle maggiori autorità spirituali ebraiche
di Gian Guido Vecchi – Corriere della Sera

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«La distruzione degli ebrei d’Europa ha sfiorato la mia esistenza, segnandola per sempre. Misteriosamente, grazie alla forza e al coraggio di mia madre, il Santo e Benedetto ha voluto che sopravvivessi agli orrori e alle ceneri della Shoah». Rav Giuseppe Laras, scomparso il 15 novembre a 82 anni, sapeva che stava per morire: «La mia malattia sta avanzando inesorabilmente», ha scritto nel testamento spirituale destinato agli amici. Così, negli ultimi giorni, il suo pensiero è tornato all’istante muto che ha deciso il corso della sua vita.

È stato un maestro, un’autorità in Europa e nel mondo, per venticinque anni rabbino capo di Milano. L’amicizia con il cardinale Carlo Maria Martini — fece arrivare un sacchetto di terra da Israele per posarlo nella sua tomba — ha segnato forse il punto più avanzato del dialogo tra ebrei e cristiani. La vita di fede ne ha fatto uno dei massimi studiosi di filosofia ebraica, in particolare di Maimonide, fino al capolavoro Ricordati dei giorni del mondo (Edb, 2014), summa in due volumi di un pensiero plurimillenario dalla Bibbia ad Hannah Arendt.

Eppure, prima di tutto questo, c’è stata quella mattina del 2 ottobre 1944, il giorno della cattura. Aveva nove anni e stava nascosto con sua madre in casa della nonna, a Torino. «Era il primo giorno di scuola, un lunedì», raccontava al «Corriere». «Una volta le scuole ricominciavano in ottobre». Non per gli ebrei, nell’Italia delle leggi razziali. «Dalle persiane chiuse vedevo alcuni bambini con le cartelle». Più tardi i fascisti bussarono alla porta. «Era stata la portinaia a fare la spia, pagavano cinquemila lire a ebreo».

Il rabbino Laras ne parlava di rado, la voce arrochita. «Quando ci ripenso rivivo quell’atmosfera, è come se fossi sempre stato lì. Mi si chiude la gola, mi viene da piangere». I fascisti erano due, «mia madre aveva da parte ventimila lire e trenta pacchetti di sigarette, glieli diede e disse: lasciate andare il bambino. Loro si misero tutto in tasca e ci portarono via».

Uno degli aguzzini teneva per mano il bambino nel percorso lungo via Madama Cristina verso l’Hotel Nazionale, dove aveva sede la Gestapo. Il momento che Laras avrebbe ricordato per tutta la vita fu all’incrocio con corso Vittorio Emanuele, nient’altro che uno scambio di sguardi. «L’accordo era che mi lasciasse andare, ma quell’uomo sembrava non allentare la presa. Guardai mia mamma, mi liberai con uno strattone e corsi via: fu l’ultima volta che le vidi, lei e la nonna».

Giuseppe Laras non ha mai smesso di essere quel bambino. Nel testamento si definisce «figlio della Shoah», ricorda «la commozione e l’euforia» per la nascita di Israele nel 1948, ma anche «le angosce che assalirono me, come molti altri tra noi, sino all’ora presente, in relazione alla sopravvivenza del nostro piccolo Stato». Da allora, «nel silenzio o nella nescienza delle più grandi nazioni, abbiamo assistito alla persecuzione e alla cacciata di centinaia di migliaia di ebrei dai Paesi islamici, ove molti di costoro risiedevano da secoli, talora ben prima dell’avvento dell’Islam».

Il tono è angosciato: «Oggi sono testimone del sorgere di una nuova ondata di antisemitismo, specie nella sua ambigua forma di antisionismo, del tradimento delle sinistre e del rapido declino intellettuale e morale della civiltà occidentale. Nuove sfide e nuove angosce si stanno proiettando sul nostro mondo». Anche il dialogo ebraico cristiano, «se vuole continuare, deve progressivamente uscire dalle ambiguità su Israele».

La stessa Giornata della Memoria, celebrata il 27 gennaio, va «ripensata» rispetto «all’attualità dell’antisemitismo contemporaneo», alla sua complessità: «È necessario ricordare, anche a taluni nostri intellettuali e storici che contribuiscono all’aumento dell’assordante confusione, che l’antisemitismo non è né una forma particolare di razzismo o intolleranza, né, tantomeno, risulta confinato ai soli totalitarismi di “destra”. L’antisemitismo è specifico».

Qualche anno fa, raccontava Laras, andò a vedere il lager nazista dove avevano ucciso la madre e la nonna. «Per tanto tempo non mi era riuscito. Mia figlia mi ha detto: papà, ti accompagno io. Lì ho scoperto che la mamma è morta il 29 dicembre del 1944. Di Ravensbrück non è rimasto quasi niente. Lo hanno smantellato. Accanto c’era questo laghetto, carino, con le barche. Un contrasto che faceva male. Ma sono contento di esserci andato».

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Il tabacco portato in Italia dalla Chiesa: Urbano VIII lo vietò, Roncalli fumava

Posté par atempodiblog le 11 novembre 2017

La storia
Il tabacco portato in Italia dalla Chiesa: Urbano VIII lo vietò, Roncalli fumava
Pio IX, che si concedeva qualche sigaretta, disse a un cardinale: «Se fosse un vizio, eminenza, lei lo avrebbe»
di Gian Guido Vecchi – Corriere della Sera

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CITTÀ DEL VATICANO «Cosa vuole, ormai siamo sempre meno…». Un alto prelato, ai vertici di uno dei dicasteri più importanti della Curia romana, ne parla con timore e tremore, neanche fosse il «fumo di Satana» evocato da Paolo VI. E invece è solo qualche sigaretta, fumata di nascosto. «A volte ti vergogni anche un po’», sospira. I tempi sono cambiati, pure nella Chiesa. E pensare che è cominciato tutto dal Vaticano. In principio, a Roma, il tabacco veniva chiamato «erba Santacroce», dal nome del porporato che lo aveva portato per primo in Italia nel XVI secolo. Il cardinale Prospero Santacroce era stato nunzio a Lisbona e in Portogallo aveva conosciuto un altro diplomatico, Jean Nicot, finissimo studioso della lingua francese che non avrebbe mai sospettato di poter essere ricordato dai posteri, con buona pace del suo Dizionario, per un alcaloide: la nicotina, appunto. Il buon Nicot aveva spedito del tabacco a Parigi nel 1550, dieci anni più tardi il cardinale Santacroce donò a Papa Pio IV alcuni semi di quella pianta del Nuovo Mondo.

La prima manifattura
I primi a coltivarla furono i monaci cistercensi nelle campagne romane. Se ne esaltavano le virtù medicinali. E si tendeva ad esagerare: gente che fiutava, masticava o fumava perfino in chiesa, durante le messe. Papa Urbano VIII arrivò a minacciare la scomunica (nel 1624) e fu costretto, come il successore Innocenzo X, a vietarne l’uso a San Pietro. Subito dopo, però, fu Alessandro VII a creare il primo monopolio di tabacco in Europa, nel 1655, con una «privativa» che assegnava la produzione ai fratelli Michilli, in Trastevere. Nel 1742 un altro Papa, Benedetto XIV, faceva costruire una nuova fabbrica pontificia di tabacco affidandone il progetto a Luigi Vanvitelli, l’architetto della reggia di Caserta. A Pio IX si deve invece, nel 1860, la costruzione della grande Manifattura che riuniva tutti gli impianti romani nell’attuale piazza Mastai.

Vizi o eccessi
Lo Chiesa, del resto, non ha finora condannato l’uso del tabacco in sé ma il suo «eccesso». A proposito di «rispetto della salute», il Catechismo accenna al fumo nella parte dedicata al quinto comandamento, «non uccidere», numero 2290: «La virtù della temperanza dispone ad evitare ogni sorta di eccessi, l’abuso dei cibi, dell’alcool, del tabacco e dei medicinali». Ci sono stati pure dei Papi che ne facevano uso, se è per questo. È celebre l’aneddoto di Pio IX, che amava fiutare tabacco; ne offrì un poco ad un cardinale che declinò dicendo «santità, non ho questo vizio». Si racconta che Papa Mastai non l’abbia presa bene: «Se fosse un vizio, eminenza, lei lo avrebbe». San Giovanni XXIII era un blando fumatore, almeno da monsignore e cardinale, una foto ai tempi della nunziatura di Parigi lo ritrarre con una sigaretta fra le dita. Una versione più addolcita riconduce il tutto a una questione di cortesia: da fine diplomatico, per mettere a loro agio gli ospiti fumatori, offriva loro le sigarette accendendone una per primo. La stessa cortesia che portava Paolo VI a far sistemare un portacenere se aveva invitati a cena. Roncalli, peraltro, non è l’unico santo accostato al tabacco. Si narra che san Giuseppe da Copertino, nel Seicento, vi vedesse un rimedio contro le tentazioni della carne. Padre Pio non disdegnava il tabacco da fiuto.

Papa Luciani e il fumo bianco
Anche nelle regole rigidissime del conclave non sono previsti divieti di sorta. A chi glielo chiedeva, nel 2013, padre Federico Lombardi spiegava che i cardinali «sono liberi di fumare» purché lo facciano «nei luoghi aperti e non in quelli comuni». Al conclave che elesse Giovanni Paolo I, nell’agosto del 1978, il cardinale di Madrid Vicente Enrique y Tarancón, fumatore incallito — morirà nel ‘94, a ottantasette anni — si portò una scorta adeguata di sigarette, si sa mai quanto possa durare. Dopo l’elezione, per sua fortuna rapida, alla fine della cena con il nuovo Papa chiese il permesso di accenderne una. Papa Luciani ci pensò su e infine rispose: «Lei può fumare, eminenza, ma ad una condizione: che il fumo sia bianco!».

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Europa nelle tenebre

Posté par atempodiblog le 8 novembre 2017

Europa nelle tenebre
Per Hegel il cristianesimo era “il fattore decisivo nella storia del mondo”. Un’idea ormai desueta
di Giuseppe Bedeschi – Il Foglio
Tratto da: Radio Maria

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Per Hegel il cristianesimo era “il fattore decisivo nella storia del mondo”. Un’idea ormai desueta. « Se la chiesa cristiana non fosse esistita, il mondo intero sarebbe stato abbandonato alla pura forza materiale.

L’idea d’Europa: come è sorta, come si è formata, come, in una certa fase della storia, è diventata coscienza vivente delle élite colte dei popoli europei? Dice Lucien Febvre, nella sua classica ricerca su L’Europa. Storia di una civiltà (testo di un corso tenuto al Collège de France, nei drammatici anni 1944- 45): “Chiamo Europa, semplicemente, una unità storica, comparsa nella storia, sappiamo esattamente quando, giacché l’Europa in questo senso, così come noi la definiamo, come la studiamo, è una creazione del Medioevo”. Questa Europa non si definisce dall’esterno in base a stretti confini geografici, cioè facendo riferimento a mari, a monti, a fiumi ecc. “Si definisce dall’interno (…), con le grandi correnti che non cessano di attraversarla, e che la percorrono da lunghissimo tempo: correnti politiche, economiche, intellettuali, scientifiche, artistiche; correnti spirituali e religiose”. In questo complesso intreccio il cristianesimo è stato l’elemento caratterizzante e decisivo. I francesi, i tedeschi, gli inglesi, gli italiani, i fiamminghi, si sono sentiti, in primo luogo e soprattutto, cristiani. “Tutti gli uomini dell’occidente – dice Febvre – [furono] immersi nella medesima famiglia cristiana”. Il cristianesimo, i movimenti cristiani, le correnti cristiane, hanno avuto un ruolo immenso nella storia dell’occidente. Durante tutto il Medioevo, “l’azione potente del cristianesimo, vale a dire l’azione potente di una organizzazione cristiana, di un proselitismo cristiano, di una devozione cristiana, di un pensiero e di una filosofia cristiani (…), ha contribuito a dare agli europei una coscienza comune, una coscienza che sovrasta le frontiere che li separano, e che, laicizzatasi a poco a poco, è diventata una coscienza europea”.

In Voltaire, come osserva Chabod, l’ostilità per il cristianesimo travolge i valori essenziali della religione

Si ponga mente, d’altronde, ai processi storici che stanno a monte di tutto ciò. L’Europa sorge quando crolla l’impero romano. Le invasioni barbariche e i loro insediamenti nell’Impero d’occidente preparano una costellazione spirituale e politica nuova. Sorgono la civiltà gallo-romana, ibero-romana, britannoromana, germano-romana, e però gli uomini che elaborano queste civiltà si convertono in massa alla religione cristiana, ne fanno la loro religione. Tale costellazione spirituale nuova si afferma lentamente nel VII e nell’VIII secolo, finché, sulla soglia del IX secolo, nell’800, essa trova la sua prima espressione politica: l’impero carolingio. Certo, l’Europa carolingia non è la nostra Europa. Quest’ultima è ben più estesa: essa comprende la Spagna, il mondo anglosassone, e oltre alla Germania, il mondo slavo del nord, i Balcani, ecc. “Tuttavia – dice Febvre – l’Europa carolingia è il cuore, è il lievito che ha fatto fermentare la pasta europea. E’ attorno all’Europa carolingia che si è costruita la nostra Europa”. Ma attenzione: l’estensione dell’impero di Carlo Magno è la stessa della chiesa di Roma. “Questo impero si estende, così com’è, esattamente su tutti i paesi che riconoscono nel papa di Roma il vicario di Cristo, il capo della vera chiesa. Al di fuori ci sono gli infedeli, i seguaci di Maometto”. In questo quadro, l’incoronazione a Roma di Carlo Magno, fatta dal Papa Leone III, in San Pietro, nella notte di Natale dell’800, è un avvenimento spiritualmente e politicamente decisivo. L’imperatore si presenta come difensore della chiesa e della cristianità, e come evangelizzatore dei popoli pagani. Non a caso, del resto (e si veda a questo proposito l’importante libro di Federico Chabod, Storia dell’idea di Europa, 1961), la parola Europa ricorre nella terminologia dell’età di Carlo Magno, il quale viene definito “rex pater Europae”, “Europae venerandus apex”. E il contenuto morale di questa Europa è la “ecclesia romana”, il “regnum sanctae ecclesiae”.

Ma è solo nel XV e nel XVI secolo che il termine “europeo” entra largamente nell’uso. Nel XV secolo tale termine figura negli scritti Enea Silvio Piccolomini (Papa Pio II). All’inizio del 1600 il duca Sully parla di una “repubblica cristianissima d’Europa” (repubblica nel senso di comunità politica). Certo, la “christianitas” è assente in Machiavelli, che pure afferma in modo netto e pregnante l’idea di Europa (che egli contrappone all’Asia: perché in Europa ci sono repubbliche e monarchie non assolute, mentre in Asia ci sono solo monarchie assolute, sicché qui uno solo comanda e tutti gli altri sono servi). E assai marcata sarà la laicizzazione dell’idea di Europa nell’Illuminismo: basti pensare a Voltaire, nel quale – dice giustamente Chabod – l’ostilità per il cristianesimo travolge i valori essenziali della religione. E tuttavia, anche in alcuni grandi esponenti dell’Illuminismo l’idea d’Europa viene associata ai valori religiosi cristiani. L’esempio più insigne è quello di Montesquieu. Nello Spirito delle leggi (1748) il cristianesimo appare la religione che meglio si accorda con il governo temperato, mentre la religione musulmana e i riti cinesi si accordano con il dispotismo. Spiega assai bene Chabod: “Ora, chi tenga presente che il nocciolo centrale, continuo, del pensiero di Montesquieu è proprio l’odio contro il dispotismo e l’amore della libertà, vedrà subito che cosa significhi per lui dire che il cristianesimo è la religione dei governi temperati: più consono alla monarchia il cattolicesimo, più consono alla repubblica il protestantesimo, ma, insomma, entrambi lontani dall’arbitrio del dispotismo”. Di qui, per Montesquieu, la superiorità dell’Europa, della civiltà europea, che egli esprime in termini chiarissimi: “Se diamo un’occhiata, egli dice, a quello che avviene attualmente nel mondo, vedremo che quanto l’Europa predomina sugli altri tre continenti, e fiorisce, mentre il resto del mondo geme nella schiavitù e nella miseria, tanto essa è più illuminata, in proporzione, delle altre parti, dove le lettere sono immerse in una notte più profonda”. Anche se si guarda al passato, “la storia non offre nulla che possa essere paragonato al grado di potenza cui l’Europa è pervenuta”. E perciò “si deve rendere omaggio ai nostri tempi moderni, alla ragione presente, alla religione di oggi [NB], alla nostra filosofia, ai nostri costumi”. Ecco, dunque, su che cosa si fonda l’indiscutibile primato dell’Europa sugli altri continenti: sulla connessione fra religione cristiana e pensiero politico, fra cristianesimo e istituzioni politiche.

L’attualità del discorso di Benedetto Croce pronunciato nel 1942, i paragoni con la realtà contemporanea secolarizzata

Questa connessione ritorna, con grandissima forza, nel pensiero di Hegel. Il quale concepisce la religione come ciò che fonda e caratterizza la società e lo stato. “Nella religione (…) – egli dice – si esprime nel modo più semplice il principio essenziale di un popolo, così come su di essa si fonda tutta l’esistenza del popolo medesimo. Per questo lato la religione sta nel più stretto rapporto col principio statale. (…) Per questo riguardo si dice a buon diritto che lo stato si basa sulla religione”. “La religione dev’essere dunque considerata come trapassante di necessità in costituzione, in reggimento mondano, in vita terrena”. Detto ciò, incomincia il grande discorso di Hegel sul cristianesimo, “questo fattore decisivo della storia del mondo”. Il cristianesimo è la più alta fra le religioni, la più pura, la più profonda, e le sue conseguenze, sociali e politiche, sono state straordinarie. La religione cristiana è per Hegel una religione una religione altamente speculativa. In essa, infatti, Dio (il puro Spirito) cessa di essere un astratto al di là, in quanto appare nel mondo terreno, si incarna nel proprio Figlio, Gesù. Ma attraverso il calvario della Crocifissione, Gesù Cristo muore in quanto uomo singolo e ritorna al Padre suo, a Dio, cioè ritorna a essere puro Spirito.

Gli uomini devono identificarsi con la figura del Cristo, con la sua incarnazione-morte-resurrezione, e così spogliarsi della loro naturalità, prendere coscienza dei propri peccati, superarli col pentimento, e così trionfare sulla carne, conseguire la salvezza eterna nel regno dello Spirito. In Cristo l’uomo è redento e riconciliato. “In lui – dice Hegel – è infatti riconosciuto il concetto dell’eterna verità, che l’essenza dell’uomo è lo Spirito, e che solo spogliandosi della sua finitezza e affidandosi alla pura coscienza egli raggiunge la verità. Cristo, l’uomo come uomo, in cui è apparsa l’unità dell’uomo e di Dio, ha fatto vedere con la sua morte, anzi con tutta la sua storia, la stessa eterna storia dello Spirito. Una storia che ogni uomo deve percorrere in se medesimo per esistere come Spirito, o per divenire Figlio di Dio, cittadino del suo regno”.

“Se la chiesa cristiana non fosse esistita, il mondo intero sarebbe stato abbandonato alla pura forza materiale”, diceva Guizot

Le conseguenze sociali e politiche del cristianesimo sono, per Hegel, enormi. Con esso sorge infatti per la prima volta nella storia del mondo l’idea dell’universalità ed eguaglianza della natura umana: tutti gli uomini, in quanto creature di Dio, anno la stessa dignità; tutti gli uomini sono oggetto dell’amore di Dio; tutti gli uomini cercano conforto e pace in Dio. Dice Hegel in un bellissimo passo: “Completamente scevro di ogni particolarità individuale, l’uomo, in sé e per sé, e cioè già per il solo fatto di essere uomo, ha quindi un valore infinito, e appunto questo infinito valore abolisce ogni particolarità di nascita e di patria. Egli non conta in quanto ebreo o in quanto greco, o per alta o bassa estrazione: conta in quanto uomo. Dove il cristianesimo è reale, non ci può essere schiavitù”. E, si può aggiungere, dove il cristianesimo è reale le istituzioni sociali e politiche devono basarsi sulla eguale dignità degli uomini. Lo stato dispotico è in assoluto contrasto con la concezione cristiana dell’uomo. Anche per Hegel, dunque, il cristianesimo è alla base della civiltà europea, è il fondamento delle sue istituzioni sociali e politiche razionali. “Così – afferma ancora il filosofo tedesco – la libertà nello stato riceve conferma e convalida dalla religione, in quanto il diritto elevato a morale concreta nello stato è solo l’attuazione di quel che costituisce il principio fondamentale della religione”.

Questi pensieri sono presenti anche nelle lezioni che un altro insigne esponente della cultura europea, François Guizot, dettò alla Sorbona negli anni Venti dell’Ottocento, sulla Histoire générale de la civilisation en Europe. Per il grande storico (e uomo politico) francese l’Europa cristiana era la madre della libertà, e senza il cristianesimo non sarebbe sorta l’Europa. “Non credo di esagerare affermando – diceva Guizot – che alla fine del secolo IV, e all’inizio del V, fu la chiesa, con le sue istituzioni, i suoi magistrati, il suo potere, a difendersi con vigore contro la disgregazione interna dell’Impero, contro la barbarie, a conquistare i Barbari, divenendo il legame, il mezzo, il principio di civiltà tra il mondo romano e il mondo barbarico”. Ma la chiesa poté fare questo per la sua forza morale, “una forza che riposava unicamente sulle convinzioni, sulle credenze e sui sentimenti morali, in mezzo a quel diluvio di forza materiale che in tale epoca si era precipitata sulla società. Se la chiesa cristiana non fosse esistita, il mondo intero sarebbe stato abbandonato alla pura forza materiale”.

“L’Europa si definisce dall’interno, con le grandi correnti che non cessano di attraversarla, e che la percorrono da lunghissimo tempo” (Febvre)

Un secolo dopo, in un momento angoscioso della storia europea, quando non era stato ancora sconfitto il folle sogno hitleriano di fare dell’Europa una riserva della Germania, e di distruggere le fondamenta della nostra civiltà cristiana, fu un grande pensatore italiano, Benedetto Croce, immanentista e laico, a proclamare, con alta ispirazione, che noi “non possiamo non dirci cristiani” (1942). In quel momento tragico, in cui la civiltà europea poteva essere sconfitta e schiacciata, il richiamo al cristianesimo, il ritorno al cristianesimo, per ritrovare le radici più profonde della nostra umanità, sembrarono a Croce non solo preziosi ma necessari. “Il cristianesimo – egli scrisse – è stato la più grande rivoluzione che l’umanità abbia mai compiuta: così grande, così comprensiva e profonda, così feconda di conseguenze, così inaspettata e irresistibile nel suo attuarsi, che non meraviglia che sia apparso o possa ancora apparire un miracolo, una rivelazione dall’alto, un diretto intervento di Dio nelle cose umane, che da lui hanno ricevuto legge e indirizzo affatto nuovo”. Tutte le altre rivoluzioni, tutte le maggiori scoperte che segnano epoche nella storia umana, non sostengono il suo confronto, e appaiono rispetto a lei particolari e limitate. “La ragione di ciò è che la rivoluzione cristiana operò nel centro dell’anima, nella coscienza morale, e, conferendo risalto all’intimo e al proprio di tale coscienza, quasi apparve che le acquistasse una nuova virtù, una nuova qualità spirituale, che fin allora era mancata all’umanità”. Gli uomini, gli eroi, i genii che precedettero il cristianesimo, compirono azioni stupende, opere bellissime, e ci trasmisero un ricchissimo tesoro di forme, di pensieri e di esperienze; “ma in tutti essi si desidera quel proprio accento che noi accomuna e affratella, e che il cristianesimo ha dato esso solo alla vita umana”.

1942: sembra passato più di un secolo da quando queste parole furono scritte. Appartengono esse a un retaggio ormai smarrito e perduto? Se così fosse, una tenebra profonda si abbatterebbe sull’Europa.

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“Charlie Charlie Challenge”: sul web un gioco che allarma

Posté par atempodiblog le 1 novembre 2017

“Charlie Charlie Challenge”: sul web un gioco che allarma
L’ultima trovata in fatto di “intrattenimento giovanile” consiste nell’invocare un demone. Una vera e propria seduta spiritica semplificata per bambini e adolescenti
di don Aldo Buonaiuto – RomaSette

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L’ultima trovata in fatto di “intrattenimento giovanile” consiste nell’invocare un demone. Una vera e propria seduta spiritica semplificata per bambini e adolescenti

Nel web è dilagato tra i minori quello che viene presentato come un nuovo “gioco” – in realtà tutt’altro che innocuo – chiamato “Charlie Charlie Challenge”, che sta allarmando non solo i ministri della Chiesa, in primis gli esorcisti, ma anche educatori, insegnanti e medici laici. L’ultima trovata in fatto di “intrattenimento giovanile” – ci sarebbe da chiedersi quali menti occulte si nascondano dietro a tali invenzioni – consiste nell’invocare un demone.  Non in senso metaforico, come verrebbe da sperare, ma una vera e propria invocazione di uno “spirito malefico” di nome Charlie. Lo scopo proposto sarebbe quello di evocare l’entità per porgli delle domande su accadimenti presenti e futuri alle quali la creatura dovrà rispondere con un sì o con un no, facendo muovere una matita posta su una griglia.

È facile riconoscere in “Charlie Charlie Challenge” l’intenzione occulta di voler avvicinare i ragazzi a questo mondo tenebroso. Si tratta di una vera e propria seduta spiritica semplificata per bambini e adolescenti. In questo appuntamento medianico “versione 2.0”, il medium è sostituito dai partecipanti – spesso giovanissimi – e la griglia “sì/no” è solo una variante della cosiddetta tavoletta Ouija usata per far “parlare gli spiriti”. La tavola è costituita da una superficie piatta, generalmente in legno lucido, sulla quale sono disegnate tutte le lettere dell’alfabeto, i numeri dallo 0 al 9, un “sì” e un “no” e da un indicatore mobile. Gli utilizzatori pongono delle domande a imprecisate entità che farebbero muovere l’indicatore componendo la risposta utilizzando le lettere e le cifre disegnate sul supporto.

Le radici del “Charlie Charlie Challenge” sarebbero sconosciute, ma sul piano spirituale è indubbio che il suo ideatore sia il demonio. In rete girano solo notizie incomplete che farebbero risalire la pratica a quella sud-americana delle 6 matite, poiché la dinamica dell’evocazione sarebbe similare. Ma queste sono solo informazioni fasulle create ad hoc per nascondere una realtà ben più pericolosa: dietro a questa nuova deleteria “moda giovanile” spacciata per “passatempo”, si nascondono mani occulte che per ovvi motivi preferiscono rimanere nell’ombra, tra l’altro riuscendoci. Costoro hanno come scopo quello di iniziare i giovani all’occultismo e al satanismo.

La “bolla” è esplosa a fine aprile 2015 quando una stazione televisiva di notizie locali della provincia dominicana di Hato Mayor ha trasmesso un rapporto molto allarmista (e involontariamente divertente) su un “gioco satanico” in voga tra gli studenti adolescenti delle scuole. Da lì, gli utenti dei social media della Repubblica Dominicana hanno iniziato a condividerlo su Twitter, Instagram e Google. Risultato: entro la metà di maggio, la frase “Charlie Charlie” era una delle parole più twittate della Repubblica Dominicana, espandendosi poi facilmente nel web delle altre nazioni di lingua spagnola. Nel frattempo, durante un fine settimana, una ragazza di 17 anni dello Stato nordamericano della Georgia ha creato su Twitter l’hashtag #CharlieCharlieChallenge, il gruppo che, a quanto pare, tutti i ragazzi stavano aspettando considerando che, da maggio, è stato rilanciato sul social network più di 1 milione e 600 mila volte. È paradossale notare come il “fenomeno Charlie” si sia sviluppato dal tentativo – fallito – di frenare tale “moda” tra i giovani sudamericani.

Non sono quantificabili, infatti, i danni alla psiche e ancor più allo spirito provocati da certi “esperimenti” camuffati da giochi. Solo pochi giorni fa, i quotidiani colombiani hanno riferito di quattro ragazze adolescenti che sono state ricoverate per gravi crisi isteriche dopo aver giocato a “Charlie”. La diagnosi è stata di «isteria di massa con sintomi psicotici», come riferito da Juliana Cortazar, la direttrice dell’ospedale. Una volta calmate, le giovani sono state restituite alle famiglie e c’è da sperare che questa brutta esperienza sia di monito anche ad altri. Negli ultimi anni, denunciano gli psichiatri, sono decine gli adolescenti che sono ricorsi alle cure ospedaliere a seguito di “contatti” con demoni o entità ultraterrene durante una seduta spiritica.

I pericoli dell’invocazione demoniaca “domestica” non sono passati inosservati tra i membri della Chiesa. Tutte le infinite tipologie di pratiche divinatorie, infatti – dalla lettura della mano alla negromanzia, dagli oroscopi allo spiritismo – sono da sempre fortemente scoraggiati dalla comunità ecclesiale che non ha mai smesso di evidenziarne la pericolosità. Già nel III secolo d.C., gli apologeti cristiani solevano avvisare i maghi e gli idolatri: «Voi chiedete agli spiriti, ma risponde il demonio». Non esiste un modo per giocare innocentemente coi demoni senza aprire finestre difficili da richiudere nel mondo delle tenebre. Sono altre le esperienze spirituali da consigliare: la preghiera, i sacramenti, la Messa, il rosario.

Una battaglia, quella contro il diffondersi delle pratiche occulte, che vede in prima linea gli stessi esorcisti. Padre Amorth ha più volte messo in guardia sulla pericolosità delle pratiche divinatorie, «una moda in forte espansione». Infatti, sono molti quelli che, mossi dalla semplice curiosità o dalla volontà di conoscere eventi passati o futuri, cercano di evocare le anime dei defunti o “entità ultraterrene” – a volte presentate dai fantomatici medium come angeli custodi o creature benevole – durante delle sedute spiritiche. Secondo padre Amorth, questo fenomeno è direttamente proporzionale alla crisi di fede e i rischi che si corrono sono di duplice natura. Oltre ai traumi psicologici, si subiscono dei gravi danni spirituali dovuti all’intervento del demonio: dai “disturbi malefici” alla vera e propria possessione diabolica. Quindi, attenzione a non banalizzare: un gioco? Sì, ma del maligno.

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