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BENEDETTO XVI/ Senza un anticipo di simpatia il Mistero resta estraneo

Posté par atempodiblog le 13 septembre 2016

BENEDETTO XVI/ Senza un anticipo di simpatia il Mistero resta estraneo
di Marco Pozza – Il Sussidiario.net

BENEDETTO XVI/ Senza un anticipo di simpatia il Mistero resta estraneo dans Articoli di Giornali e News benedetto_xvi

La sua goffaggine di movimento, quand’era costretto a salire su un podio, lo faceva rassomigliare assai a Charlie Chaplin: era nato per fare tutt’altro nella vita Joseph Ratzinger. È risaputo, però, che le chiamate divine non prevedono addestramento, gettano allo sbaraglio. Salì, dunque, sul podio, ma piuttosto che ricercare i gesti ad effetto, scelse di rimanere fedele alla sua natura: nobile nella forma, timido nel sorriso. Onestissimo nell’analisi, era pur sempre il professor Ratzinger, una stella nel cielo della teologia: “Il vero problema in questo nostro momento della storia è che Dio sparisce dall’orizzonte degli uomini”. Senza a né ba. Nato per essere più pittore che imbianchino, “la sua specialità era saper districare le cose complicate, vedere oltre la superficie” annota il giornalista Peter Seewald nel suo libro Ultime conversazioni, scritto con Benedetto XVI.

Ultime è un aggettivo-di-tempo: potrebbero non essercene più. Alla scuola di Ratzinger, però, nulla è mai così incolore come potrebbe apparire. Capita, allora, d’esser costretti a leggere ultime come aggettivo-di-profondità: le più alte, quelle profonde, le conversazioni più vere. Le realtà-ultime: il Paradiso, il Purgatorio, l’Inferno. Che partono sempre dalle profondità della propria biografia personale: “(La mia vocazione) è cresciuta quasi naturalmente insieme con me e senza grandi avvenimenti di conversione”.

La radice del genio teologico che conquisterà il pubblico con Introduzione al cristianesimo è già tutta lì, agli inizi: “Avevo le mie domande. Non mi accontentavo di un sistema predefinito, volevo capire da una nuova prospettiva”. Capire, avendo prima amato, quindi pregato. E’ nascosta qui la bellezza del suo costruire teologia, lo stare un passo dietro l’eccedenza del Maestro, quella ch’è sempre altrove: “La teologia — scrive in un suo saggio — è riflessione su ciò che Dio ha detto e pensato in precedenza per noi”. Sono stato pensato, dunque sono, esisto:“Ciascuno di noi è il frutto di un pensiero di Dio”. Con buona pace dell’evoluzionismo, della casualità.

Un passo dietro, per stare al passo di Dio e rendere ancora affascinante la Chiesa, senza la quale la teologia parla a nome proprio smarrendo il significato, la brillantezza, l’estetica. Sfumatura che il Concilio Vaticano II, dietro il cui sipario iniziava ad albeggiare il ratzinger-pensiero, porterà alla ribalta: “Non significava rompere con la fede, ma imparare a comprenderla meglio e viverla in modo più giusto, muovendo dalle origini”. Le origini, che per lui mantengono sempre la parola: quelle di “umile servitore nella vigna del Signore”. La storia di un servo.

Anche la storia del Papa di Gesù, pur diventata tale contro-voglia com’è di tutte le chiamate disposte da Dio: “La sensazione fu semplicemente quella, una ghigliottina” dice della sua elezione. Dopo un papa mistico e mariano come fu Giovanni Paolo II, l’avvento di un papa dotto e votato a Gesù. Che in materia di fede ha idee così limpide — perché germogliate in una divina inquietudo cordis — d’essere tacciato di fondamentalismo: che la Parola di Dio “continui a rimanere presente nella sua grandezza e a risuonare nella sua purezza di fronte a tutti i tentativi di adattamento, di annacquamento”.

Nessun vanto, dunque, a seguire il Cristo di Benedetto XVI: “L’importante è preservare la fede oggi. Io considero questo il nostro compito centrale”. Se noi non conosciamo più Gesù, dunque, è la fine della Chiesa. Parola dell’uomo che, sentendo l’obbligo di “dire qualcosa all’umanità”, ha partorito un’opera d’arte che affascina milioni di lettori, Gesù di Nazareth. Non un atto di magistero — a governare con la paura son capaci tutti, governare con la gioia fu l’umile tentativo che si giocò —, ma la personale ricerca del volto del Signore: “Ognuno è libero di contraddirmi” — scrive nella premessa al primo volume —. “Chiedo solo alle lettrici e ai lettori quell’anticipo di simpatia senza il quale non c’è nessuna comprensione”.

Un anticipo di simpatia pare la cifra stessa del suo pontificato, una sorta di giganteschi esercizi spirituali a favore dell’umanità: “Dare agli uomini il coraggio di credere”.

Per riuscire a restare un padre-fedele anche nel momento in cui parrebbe l’esatto opposto, che il padre fugga dalle sue responsabilità. L’11 febbraio 2013 — lunedì di carnevale, festa della Madonna di Lourdes — rimarrà il giorno che ha cambiato la fisionomia del papato: “Il mio momento era passato e avevo dato ciò che potevo dare (…) Anche un padre smette di fare il padre. Non cessa di esserlo, ma lascia le responsabilità concrete”.

Un gesto senza precedenti, il capitolo più denso del magistero-dei-gesti, la sconcertante notizia che “ogni inizio contiene una magia, costringe sempre a ricominciare daccapo”. Senza scendere dalla croce, abbandonandola: “Non si è trattato di una ritirata sotto la pressione degli eventi o di una fuga per l’incapacità di farvi fronte. Uno non può dimettersi quando le cose non sono a posto”. Questo è tutto Ratzinger: se non vi va bene, leggete dell’altro.

Nessuno obbliga a seguire il Cristo. Se lo fate, ricordate sempre d’esser stati voi a scegliere di seguirlo: “Lo pregherò di essere indulgente con la mia miseria”. E’ il pensiero ultimo, che forse è sempre stato il primo, dell’uomo che per più di tre decadi è rimasto a capo della più granitica istituzione mondiale. La più ambiziosa, forse anche la più paradossale.

Il New York Post, dopo il famoso discorso all’Onu dell’aprile 2008 di Benedetto XVI scrisse: “Chi non è toccato da queste parole vuol dire che non è vivo”. Eppure nella sua lapide chiede l’accortezza che ci sia “solo il nome”. Meglio se a matita, verrebbe voglia d’aggiungere dopo Ultime Conversazioni. Ch’è una sorta di resoconto biografico, non certamente il canto-del-cigno, più scampoli di magistero di un papa-mistico, silenzioso. Che scrive in piccolo e a matita, che chiede anticipi di simpatia, ch’è entrato nel chiasso della mondanità, affascinandola, con una cisterna di silenzio sotto-braccio: “Il mattino, durante la messa, io ho bisogno di silenzio, di raccoglimento”. Quasi un ultimo consiglio di stile: andare avanti, guardando indietro, dentro. Accecati dal Mistero ultimo. Ch’è l’esatto opposto del cristianesimo-del-gambero.

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L’infinita misericordia di Dio nel ricercare i peccatori e nell’accoglierli, in uno sguardo generale alle parabole di Gesù

Posté par atempodiblog le 13 septembre 2016

L’infinita misericordia di Dio nel ricercare i peccatori e nell’accoglierli, in uno sguardo generale alle parabole di Gesù
del servo di Dio don Dolindo Ruotolo

L'infinita misericordia di Dio nel ricercare i peccatori e nell'accoglierli, in uno sguardo generale alle parabole di Gesù dans Commenti al Vangelo don_Dolindo_Ruotolo

Si avvicinavano a Gesù i peccatori e i pubblicani per ascoltarlo. Il testo greco dice che gli si avvicinavano tutti i peccatori ed i pubblicani, per far rilevare che tutti erano attratti dalla bontà di Gesù, anche quelli che poi non si convertivano per loro colpa.

C’era, infatti, nel Redentore una potente attrattiva, perché Egli era venuto in terra per rigenerarli ed aveva in sé la delicatezza di una mamma, la premura di un pastore e l’espansione di un affettuosissimo padre. I peccatori, poi, standogli vicino, si sentivano migliori, perché in quell’immensa luce di santità l’anima loro spontaneamente si umiliava.

I farisei e gli scribi non potevano tollerare la bontà di Gesù, perché contrastava troppo con la loro durezza; premurosi com’erano della loro fama e della loro gloria, disprezzavano i peccatori per ostentare anche così la loro pretesa giustizia e riprovavano l’atteggiamento di Gesù, non tanto perché loro dispiacesse, ma per far rimarcare al popolo che Egli non era giusto come loro.

Credevano che la sua familiarità coi peccatori dipendesse per lo meno da superficialità e volevano far rilevare che Egli non sapeva conoscerli, e quindi non era profeta. C’era nel loro rimprovero un insieme di orgoglio, di malignità e di avversione che li rivelava.

Gesù Cristo non rispose smascherandoli, come avrebbe potuto fare, ma rivelò la misericordia di Dio e per conseguenza quella del suo Cuore, aprendo così maggiormente alla fiducia il cuore dei peccatori di tutti i tempi, e manifestando il grande segreto della sua missione divina, Gesù raccontò tre parabole che esprimono la bontà di Dio stesso nel cercare, nell’accogliere i peccatori, e rivelò così che Egli non cercava i traviati né per superficialità di valutazione delle loro colpe, né per semplice compassione naturale, ma perché era Dio e li cercava per usare loro misericordia.

Le tre parabole, poi, manifestavano la valutazione vera che Egli faceva dei peccatori di tutte le nazioni e di tutte le epoche, riguardandoli come pecorelle smarrite dell’ovile di Dio, come valori dell’umanità, perduti con danno comune, e come figli lontani dal cuore paterno. Un pastore cerca la pecorella smarrita per compassione, una donna cerca il valore perduto per interesse, un padre per amore tenerissimo sospira al figlio ribelle, che si è allontanato da lui.

Sono i tre grandi momenti della divina misericordia: il Signore chiama l’umanità peccatrice come pecorella smarrita, la redime pagando il prezzo del suo riscatto, e l’accoglie in un amore paterno immenso che la ridona alla primitiva grandezza. Accolse Israele e lo cercò nel deserto del mondo come pecorella smarrita, portandolo Egli stesso per le vie della vita come un pastore porta sulle spalle la sua pecorella. Venne dal cielo in terra e fece luce per cercare l’umanità perduta e ridonarle il valore perduto col peccato; aspetta al suo Cuore l’umanità traviata ed apostata, immersa nelle sozzure dell’impurità e ridotta ad uno stato di estremo squallore, e l’accoglie con amore paterno riabilitandola.

La misericordia di Dio è sempre ricerca amorosa, valutazione divina di un’anima ed amore immenso nell’accoglierla, ma si può dire che le tre parabole proposte da Gesù riguardassero le tre grandi manifestazioni della misericordia di Dio Uno e Trino: quella fatta al popolo eletto, pecorella sua, il Padre; quella fatta nella redenzione, pagando il prezzo del nostro riscatto, il Figlio, e quella che fa ogni giorno nella Chiesa, e farà in modo meraviglioso alla fine dei tempi, accogliendo al suo Cuore i figli traviati, corrotti ed apostati dal suo paterno amore, lo Spirito Santo.

Gesù parla della gioia del pastore nel ritrovare la pecorella smarrita, della gioia della donna nel rintracciare la dramma perduta, e della gioia del padre nel riabbracciare il figlio traviato, non per dire che Dio ama più i peccatori che i giusti, ma per dire che è così piena e completa la sua misericordia che Egli accoglie i peccatori pentiti come se fossero giusti. Egli parla della festa che si fa nel cielo per un peccatore che si converte, per dirci che è più grande la gioia attuale dei Beati per un’anima che si salva, che per quelle che sono già salve o giuste; anche un padre gode più attualmente della guarigione di un figlio infermo, che della sanità degli altri, il che non significa che egli apprezza più i malati che i sani, ma proprio perché apprezza la salute, gode che il figlio infermo l’abbia recuperata.

Nei peccatori che si convertono c’è poi sempre una ricchezza di umiltà, di riconoscenza e di amore che li rende più cari al Signore, e facilita in loro l’efflusso della grazia.

Il peccato è un male orribile che Dio aborre sempre; ma la vera penitenza può far fiorire il cuore dei peccatori anche più di quello dei giusti, e la tenerezza di Dio riguarda proprio questa fioritura di amore e di virtù.

Si deve notare che Gesù accennò semplicemente le parabole della pecorella smarrita e della dramma sperduta, mentre raccontò con minuti e bellissimi particolari quella del figliol prodigo, per dare maggiore risalto all’amore col quale Dio accoglie come padre i peccatori che vanno a Lui, pentiti.

Il suo Cuore divino non ebbe confini nella tenerezza quando parlò di ciò che l’anima fa per cercare Dio e, nell’esuberanza della parabola, rivelò l’esuberanza dell’amore di Dio. Si direbbe che la delicata sua carità abbia voluto dare più risalto al bisogno che il peccatore sente di Dio che a quello che fa Dio per un peccatore; l’amor suo nel cercarci è infinito, ma l’amor suo nell’accoglierci è tenerissimo, ed è divinamente psicologico che il Redentore si sia trattenuto di più sulla parabola del fìgliol prodigo. L’ampiezza di questa parabola, poi, può anche farci intendere quanto sarà esuberante la misericordia che Dio farà negli ultimi tempi ai figli apostati che ritorneranno al suo Cuore.

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