Storia delle reliquie di santa Lucia

Posté par atempodiblog le 31 août 2016

Storia delle reliquie di santa Lucia
di don Antonio Niero – Chiesa dei santi Geremia e Lucia, Venezia

Storia delle reliquie di santa Lucia dans Fede, morale e teologia Tomba_di_santa_Lucia

Il corpo di S. Lucia rimase in Siracusa per molti secoli: dalla catacomba, dove fu sepolto, fu poi por­tato nella basilica eretta in suo onore, presso la quale, all’inizio del VI secolo, fu costruito un monastero. Nella minaccia araba per il suo sepolcro nell’878, dopo la conquista islamica della Sicilia, il suo corpo fu nascosto in un luogo segreto. Nel 1039, appena Ma­niace, generale di Bisanzio, riuscì a strappare Siracusa agli Arabi, condusse le reliquie a Costantinopoli, o come preda di guerra o, secondo l’affermazione della Cronaca del doge Andrea Dandolo, su preciso ordine degli imperatori Basilio e Costantino.

Invece secondo la tradizione francese, il corpo della Santa fu levato da Siracusa nel corso del secolo VIII da Feroaldo, duca di Spoleto, dopo la conquista della città che lo recò a Corfinio, donde il vescovo di Metz lo avrebbe trasferito nella sua città episcopale. Indubbiamente qui si sviluppò un culto attorno a codèste reliquie, seb­bene, viene notato giustamente, si tratti di un’altra martire siracusana, di nome Lucia e confusa per omo­nimia con la nostra Santa.

La linea maestra della tra­dizione afferma che il suo corpo fu tolto da Costantinopoli nel 1204 dal doge veneziano Enrico Dandolo, dove lo aveva trovato assieme a quello di S. Agata, ed inviato a Venezia.

Invece secondo una variante, do­cumentata dal codice secentesco, o Cronaca Veniera, della Biblioteca Marciana di Venezia [It. VII, 10 (= 8607) f. 15 v.], esso sarebbe stato portato a Venezia, assieme a quello di S. Agata, nel 1026, sotto il dogado di Pietro Centranico. Non sappiamo l’ori­gine della notizia e se derivi da una fonte anteriore, per quanto un fondato sospetto induca ad un errore meccanico di amanuense, che ha letto 1026 per 1206, cioè gli anni della traslatio ufficiale. E nella Cronaca Veniera lo si accettò, armonizzando il fatto con il doge dell’epoca. Certo è difficile una precisazione sto­rica di codeste reliquie, esente da qualsiasi sospetto, almeno allo stato attuale delle cose; per noi è pru­denza elementare prendere atto della presenza del suo corpo in Venezia sin dal 1204
.
Ma si noti che in Ve­nezia esisteva già una chiesa dedicata alla martire nel 1167 e 1182, come lo provano inequivocabili docu­menti, per cui è probabile che la determinazione di tra­sferire le reliquie nelle lagune sia stata originata dalla necessità di arricchire una chiesa veneziana, come d’al­tronde si verificò per altri casi consimili.

Comunque a Venezia il suo corpo fu collocato nella chiesa di S. Giorgio Maggiore e determinò un flusso di pellegrinaggi, che nel giorno d’ella festa (13 dicembre) assumeva proporzioni impressionanti, nel­l’andirivieni di imbarcazioni. Il 13 dicembre 1279 accaddero tragici fatti. Alcuni pellegrini morirono an­negati in seguito al capovolgimento delle imbarcazio­ni per l’insorgere di un turbine improvviso.

Il Senato, ai fini di evitare ancora consimili doloro­si incidenti, decise che il corpo della Santa fosse por­tato in una chiesa di città. Fu scelta la chiesa di S. Maria Annunziata o della « Nunciata » nell’estremo sestiere di Cannaregio, dove furono poste le preziose reliquie trasferite da S. Giorgio il 18 gennaio 1280 con una solenne processione.

Nel 1313 fu consacrata una nuova chiesa dedicata a S. Lucia, nella quale le reliquie della Santa furono deposte definitivamente.

Nel 1441 papa Eugenio IV dava questa chiesa, che era piccola parrocchia, in commenda alle mo­nache del vicino monastero del Corpus Domini; nel 1478 invece papa Sisto IV, dopo una vivace contesa tra il monastero della Nunciata e la parrocchia, che a volte assunse fasi davvero ridicole, concedeva chiesa e parrocchia alle monache del monastero della Nun­ciata, che avanzavano diritti contro quelle del Corpus Domini sul possesso del corpo della Santa: la lite insorta fra i due monasteri fu risolta in favore di quel­lo della Nunciata, come si è visto: però esso doveva sborsare ogni anno 50 ducati a quello del Corpus Domini.

Nel 1579 passando per il Dominio veneto l’im­peratrice Maria d’Austria, il Senato volle farle omag­gio di una reliquia di S. Lucia. Con l’assistenza del patriarca Trevisan fu levata una piccola porzione di carne dal lato sinistro del corpo della Santa.

Altre reliquie della Santa si trovavano a Siracusa, recate nel 1556 da Eleonora Vega, che le ottenne a Roma dall’ambasciatore di Venezia’ così pure avven­ne per alcuni frammenti di braccio sinistro, recati ivi nel 1656 da Venezia, dal cappuccino Innocenzo da Caltagirone. Reliquie ancora sono possedute a Napoli, Roma, Milano, Verona, Padova, Montegalda di Vi­cenza e a Venezia stessa, nelle chiese di S. Giorgio Maggiore, dei SS. Apostoli, dei Gesuiti, dei Carmini.

All’estero sono documentate a Lisbona nel 1587, con una reliquia ricevuta da Venezia; in chiese del Belgio nel 1676; a Nantes, in Francia, nel 1667. Nel 1728 una parte dell’urna fu donata a papa Benedet­to XIII.

Una nuova chiesa, al posto di quella antica, fu costruita tra il 1609 e il 1611, su schemi palladiani, riecheggiante l’attuale delle Zitelle, con due torri campanarie in facciata.

Per completarla, giravano per la città alcuni inca­ricati dalle monache a raccogliere le offerte dei fedeli con la cassella concessa dal Magistrato della Sanità.

Il 28 luglio del 1806, in seguito alla soppressione napoleonica, chiesa e monastero furono chiusi e le monache si rifugiarono in S. Andrea della Zirada, por­tando con sé le reliquie della Santa. Poco dopo, non potendo rimanere lì per ragioni di spazio, con il con­senso del Ministero del culto ritornavano ancora al­l’antica sede insieme con il corpo di S. Lucia.

Nel 1813 il convento di S. Lucia veniva donato dall’imperatore d’Austria alla b. Maddalena di Ca­nossa, che vi abitò fino al 1846, quando si iniziarono i lavori per la stazione ferroviaria e per la demolizione del convento. Per il momento la chiesa non fu toccata. Invece nel 1860 dovendosi ampliare la stazione fer­roviaria, nella stolida furia distruttiva dell’epoca, fu abbattuta anche la chiesa di 5. Lucia seguendo la triste sorte di tante altre chiese veneziane. Vero è che mi­nacciava rovina, fatiscente ormai di secoli e di umane malizie. Si sarebbe potuto ripararla e risolvere diver­samente le esigenze della stazione ferroviaria. Invece presi accordi con l’Autorità Ecclesiastica, si decise di trasportare il corpo della Santa nella vicina parroc­chiale di S. Geremia. Per la traslazione, avvenuta l’11 luglio 1860, intervenne il patriarca Ramazzotti con tutto il Clero e popolo della città: sette giorni rimase il sacro corpo sull’altar maggiore, poi fu posto su un altare laterale in attesa di costruire la nuova cappella. Tre anni dopo, l’11 luglio 1863, il patriarca Trevi­sanato la inaugurava: essa era stata costruita con il materiale del presbiterio della demolita chiesa di S. Lucia su gusti palladiani. Finalmente per la genero­sità di Mons. Sambo, parroco di quella Chiesa (che nel frattempo venne ad assumere la denominazione « dei Ss. Geremia e Lucia ») su disegno dell’arch. Gaetano Rossi veniva preparato alla Santa un più de­gno altare in broccatello di Verona con fregi di bronzo dorato. Il 15 giugno del 1930 il servo di Dio patriarca La Fontaine lo consacrava e collocava il corpo incor­rotto della Santa nella nuova urna in marmo giallo ambrato, che lo sovrasta. Nel 1955 il patriarca Angelo Roncalli, poi papa Giovanni XXIII, volle che fosse data più condegna importanza alle sacre reliquie, sug­gerendo l’esecuzione di una maschera d’argento, cu­rata dal parroco di allora don Aldo Da Villa.

Infine, nell’anno 1968, per iniziativa del parroco prof. don Aldo Fiorin e la generosità di benefattori, la Cappella e l’Urna sono state completamente restaurate.

E nel suo tempio ancor oggi riposa la Martire, meta venerata di tanti pellegrinaggi, con l’augurio in­ciso nella bianca curva absidale, che si specchia sulle acque del Canal Grande: 

LUCIA
VERGINE DI SIRACUSA
MARTIRE DI CRISTO
IN QUESTO TEMPIO
RIPOSA
ALL’ITALIA AL MONDO
IMPLORI
LUCE  PACE

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La Basilica di Sant’Antonio a Padova

Posté par atempodiblog le 31 août 2016

La casa del Santo
La Basilica di Sant’Antonio a Padova
di Anna Roda – CulturaCattolica.it

La Basilica di Sant’Antonio a Padova dans Fede, morale e teologia Tomba_sant_Antonio

Nessuna città, forse, si è mai identificata così completamente con un santo come Padova con sant’Antonio (1195-1231), il frate francescano che in pochissimi mesi, con la sua veemente predicazione contro il malcostume e le sopraffazioni, suscitò una devozione così profonda e un culto così radicato da essere divenuto per i padovani il “Santo”.
I lavori di costruzione della grande basilica, costruita per custodire il corpo di sant’Antonio, iniziarono già l’anno successivo alla sua morte, nel 1232, inglobando la piccola chiesetta di Santa Maria Mater Domini, nella quale lo stesso santo aveva espresso il desiderio di essere sepolto, dopo il suo decesso presso il convento dell’Arcella, a nord di Padova.
Non si sa chi sia stato l’ideatore dell’imponente costruzione. Alcuni affermano che autori del progetto siano stati i magistri comacini, altri propongono il nome di Nicola Pisano (1220-1284), altri, molto più semplicemente frate Elia, lo stesso a cui si deve la basilica di Assisi.

Basilica_di_sant_Antonio_a_Padova dans Stile di vita

La grande basilica
L’attuale basilica è in gran parte l’esito a cui si è giunti attraverso tre ricostruzioni che si sono succedute nell’arco di una settantina d’anni tra il 1238 e il 1310, con interventi anche nel 1400, 1700 e 1800.

La facciata è costruita su quattro arcate cieche strombate a sesto acuto, con galleria sommitale e timpano conclusivo, nel quale è aperto un rosone, oltre il timpano si innalza un campaniletto rotondo cuspidato.
L’esterno della chiesa è estremamente originale e ricorda le chiese bizantine: sette cupole emisferiche con croci sulla sommità, la centrale conico-piramidale con l’angelo segna-vento in cima e due campanile ottagonali a coronamento nell’area del presbiterio, che paiono dei minareti. Questa commistione di stili si spiega forse con la vicinanza della basilica di San Marco di Venezia. Probabilmente gli architetti hanno voluto accostare la figura di sant’Antonio con quella di san Marco, mentre l’ottava cupola a “pan di zucchero” ricorda certamente il Santo Sepolcro di Gerusalemme e quindi avvicinare sant’Antonio a Gesù, così come Francesco fu dettoalter Christus.
L’interno della basilica è a tre navate, con corto transetto e varie cappelle.
Se ci si porta, oltre l’ingresso, al centro ella navata maggiore, si noterà subito come l’architettura, pur sempre gotica nell’alzato, si distingue nettamente in due parti: quella delle navate e quella dell’abside e del transetto.
L’area delle navate appare di più ampia spazialità, ritmata sa entrambi i lati da due calme e solenni campate sopra le quali corre un matroneo, il quale continua anche nel presbiterio.

La cappella di San Giacomo
Le cappelle sono molto numerose, molte contengono ancora la decorazione originaria, molte altre hanno avuto diverse fasi decorative, alcune anche moderne, come la cappella delle benedizioni affrescata da Pietro Annigoni (1980), che peraltro ha affrescato anche la contro-facciata con Sant’Antonio che predica dal noce (1985).

Vale la pena fermarsi però nella terza cappella di destra dedicata a San Giacomo. Essa fu voluta da Bonifacio Lupi, marchese di Soragna (Pr), che ebbe importanti incarichi diplomatici e militari presso i Carraresi, signori di Padova.
L’elegante cappella è di origine gotica, edificata negli anni ‘70 del Trecento dall’architetto veneziano Andriolo de Santi. Attraverso cinque arcate trilobate si accede alla cappella completamente affrescata. Al centro si staglia una grande e drammatica Crocefissione, capolavoro di Altichiero da Zevio (notizie dal 1369 al 1384), dipinta attorno al 1370.
Il resto della cappella è decorata con le Storie di San Giacomo desunte dalla Legenda Aurea di Jacopo da Varazze, opera sempre di Altichiero con la collaborazione di Jacopo Avanzi, bolognese.
Altra cappella di grande importanza è quella del Tesoro, opera barocca del Parodi, allievo di Bernini: un trionfo di marmi, linee sinuose, decorazioni, statue; il tutto per rendere degno onore ad alcune insigni memorie del Santo.
In preziose teche si possono ammirare alcune reliquie di sant’Antonio, tra cui la laringe e la lingua.
Ovviamente, centro della devozione popolare è la cappella della tomba di sant’Antonio, chiamata fin dalle origini “Arca”. La cappella presenta ad altezza d’uomo il sepolcro del santo dietro al quale sfilano i pellegrini in processione; l’architettura dell’insieme è cinquecentesca, opera forse di Tullio Lombardo

Il presbiterio
Nell’area del presbiterio altre opere d’arte ornano la basilica.

Tra il 1447 e il 1454 l’ormai anziano Donatello (1386-1466) realizzava i bronzi dell’altar maggiore: Maria in trono con il Bambino, il Crocefisso e i santi Antonio, Francesco, Giustina, Ludovico, Daniele e Prosdocimo, santi protettori di Padova. Statue drammatiche, dal forte modellato, che bene evidenziano la forza e decisione di Antonio e dei francescani, dalla resa concreta e fisica, soprattutto del Cristo in croce, dallo splendido e muscoloso corpo, il vero lottatore per la salvezza dell’uomo. Queste opere di Donatello furono determinanti per lo sviluppo dell’arte quattrocentesca a Padova e in tutta l’Italia settentrionale; artisti come Mantenga guardarono con attenzione alla lezione dello scultore fiorentino per la loro formazione umanistica.

Il convento
Il convento si articola intorno a quattro chiostri. Il più antico è il Chiostro del Capitolo, detto anche Chiostro della Magnolia risalente al 1433; da qui si accede al chiostro Grande del 1435, opera di Cristoforo da bolzano, così detto perché su di esso vi si affacciavano le stanze del Generale dell’ordine in visita alla basilica. Accanto ad essi abbiamo inoltre il Chiostro del noviziato, realizzato nella seconda metà del Quattrocento in stile gotico, caratterizzato da proporzioni ampie e slanciate, e il Chiostro del beato Luca Belludi, grande amico di Antonio e ministro provinciale dell’ordine nel 1239; quest’ultimo chiostro venne realizzato alla fine del Quattrocento.

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Luca riposa a Padova

Posté par atempodiblog le 31 août 2016

Luca riposa a Padova
Nella Basilica di Santa Giustina è conservato lo scheletro dell’autore del terzo Vangelo e degli Atti degli apostoli. Il cranio, invece, fu prelevato da Carlo IV e portato a Praga, dove è ancora oggi. Nuovi studi scientifici hanno confermato l’antica tradizione
di Stefania Falasca – 30 Giorni

Luca riposa a Padova dans Fede, morale e teologia San_Luca_Evangelista
Resti del corpo di san Luca evangelista

Luca, l’autore del terzo Vangelo, il cronista degli Atti degli apostoli, abita qui, a Padova. Da oltre un millennio in Santa Giustina, Basilica del monastero benedettino di Padova, sono custoditi i resti del suo corpo. Ne segnala la presenza un’antica tradizione attestata da documenti storici. Le reliquie sono custodite nel transetto sinistro della Basilica in un’arca marmorea costruita nel 1313. Anche se la memoria della presenza del suo corpo in questa chiesa è andata perdendosi nel tempo, quello che la tradizione antica ha tramandato sembra ora ricevere una conferma scientifica.
Il 17 settembre scorso per la prima volta, dopo quasi cinque secoli, l’arca contenente le reliquie è stata aperta per avviare una ricognizione scientifica. L’importante decisione è stata presa dal vescovo di Padova, Antonio Mattiazzo, il quale ha nominato una commissione composta da quattordici esperti per analizzare in modo completo le reliquie, gli oggetti e i documenti che le accompagnano. Sono dunque le autentiche spoglie dell’evangelista Luca quelle che si trovano a Padova? I primi risultati sono sorprendenti.
Le analisi, condotte dalla commissione presieduta dall’anatomopatologo padovano Vito Terribile Wiel Marin, hanno rilevato la buona conservazione di uno scheletro quasi completo, appartenente ad un uomo di circa duemila anni fa, morto in età avanzata. E non solo. La novità più importante riguarda il cranio, che, come attestano i documenti, nel 1354 era stato prelevato dall’urna e portato da Carlo IV a Praga. Il cranio, riportato a Padova e sottoposto ad attenti esami, appartiene inconfutabilmente alle spoglie rinvenute nella ricognizione in quanto si articola perfettamente con la prima vertebra cervicale di questo scheletro. Gli esperti hanno inoltre avallato anche l’ipotesi che l’antichissima cassa di piombo rinvenuta nell’arca marmorea e contenente i resti sia la stessa nella quale venne deposta originariamente la salma. Le ricerche sono solo agli inizi.
Questi sono solo alcuni dei risultati raggiunti in due mesi di studi e osservazioni; ma se le indagini interdisciplinari, che si protrarranno per altri due anni, confermeranno l’ipotesi che lo scheletro conservato a Padova è effettivamente dell’evangelista Luca, si tratterà di una scoperta davvero straordinaria: quello di san Luca sarà l’unico corpo dei quattro evangelisti conservato integro.

Reliquie_san_Mattia_Apostolo dans Stile di vita
Reliquie di san Mattia apostolo

Salvato dagli iconoclasti
Le ricerche storiche hanno tuttavia già permesso una prima ricostruzione di come le reliquie attribuite a san Luca siano giunte in Italia proprio a Padova.
È noto, dal cosiddetto Prologo antimarcionita, un testo risalente alla fine del II secolo, che Luca morì in tarda età in Beozia e che la sua tomba vuota, un sarcofago marmoreo dei primi secoli del cristianesimo, era venerata a Tebe, capitale della Beozia in Grecia. Da questo luogo, come attesta una tradizione confermata dalla testimonianza di san Girolamo, l’urna, contenente le sue reliquie, fu traslata, all’epoca dell’imperatore Costanzo (IV secolo), a Costantinopoli e posta nella Basilica che sarà poi chiamata dei Santi Apostoli, per la presenza in essa anche delle spoglie dell’apostolo Andrea e di Mattia, il “tredicesimo” degli apostoli. Da Costantinopoli, secondo un’antica tradizione, venne poi portata a Padova.
Gli storici tuttavia divergono su come e quando le reliquie dell’evangelista Luca giunsero a Padova. Alcuni sostengono che le spoglie arrivarono dall’Oriente dopo il sacco di Costantinopoli del 1204, portate dai crociati. Tuttavia le recenti indagini avallano un’altra ipotesi. Claudio Bellinati, direttore dell’Archivio storico di Padova e membro della commissione scientifica incaricata della ricognizione, spiega che la presenza delle reliquie di san Luca nell’abbazia benedettina è registrata già nell’anno 1177, quando, come attestano i documenti, la cassa di piombo contenente le reliquie di san Luca venne rinvenuta nel cimitero di Santa Giustina (dove furono nascosti durante le incursioni barbariche tutti i corpi che si conservavano nella Basilica) e trasportata all’interno della chiesa. Dunque i resti dell’evangelista erano già presenti a Padova prima della conquista di Costantinopoli e forse prima ancora del 1177, anno del loro rinvenimento nel cimitero attiguo alla chiesa. «Ritengo molto probabile» afferma Bellinati «che le reliquie di Luca siano venute a noi nell’VIII secolo, durante il periodo delle lotte iconoclaste (741-770). La tradizione infatti ci informa che un sacerdote di nome Urio, custode della Basilica dei Santi Apostoli a Costantinopoli, volle salvare dalla furia degli iconoclasti le preziose reliquie che si conservavano nella Basilica e portò con sé a Padova sia i resti di san Luca che i resti di san Mattia, insieme ad una immagine lignea della Madonna, detta Madonna costantinopolitana (tuttora presenti nella Basilica di Santa Giustina). Dovrebbero pertanto essere esaminate anche le reliquie di Mattia e l’immagine lignea» aggiunge Bellinati «per verificare quanto ci tramanda la tradizione». Tuttavia non è ancora chiaro perché queste reliquie furono portate proprio a Padova e non, ad esempio, a Venezia.

L’imperatore Carlo IV
Quello che invece è indiscutibilmente certo è che il 9 novembre 1354 l’arca marmorea contenente le reliquie di san Luca, fatta costruire nel 1313 dall’abate Gualpierino Mussato, venne aperta per prelevare il capo. L’imperatore Carlo IV, infatti, volle portare con sé a Praga questa preziosa reliquia di san Luca e in questa occasione venne perciò operata una vera ricognizione dei resti contenuti nel sepolcro. È la prima identificazione documentata di cui si ha notizia. «Ma non è detto» spiega ancora Bellinati «che questa sia stata la prima ricognizione. Sicuramente ce sono state delle altre precedenti. È probabile, ad esempio, che ce ne sia stata una proprio nel periodo delle lotte iconoclaste, prima che la cassa di piombo venisse portata a Padova, per accertarsi del contenuto. Nella cassa poi, durante la nostra ricognizione, sono state rinvenute anche delle monete, alcune delle quali antichissime, una risalente addirittura all’anno 299 d.C., epoca dell’imperatore Massimiano. Dunque altre volte la cassa dovrebbe essere stata aperta».
Una seconda ricognizione documentata fu fatta nel 1463 a causa di un processo (i cui atti sono contenuti nel quinto volume dell’Archivio Sartori, una trascrizione dei documenti esistenti nell’Archivio di Stato di Padova) per stabilire se il vero san Luca fosse quello sepolto a Santa Giustina a Padova o un omonimo, la cui tomba era venerata a Venezia. Nel processo, dopo lunghe e faticose sedute, con ampia documentazione e molte testimonianze, si veniva a concludere che il vero san Luca era a Padova, in quanto venne verificato che lo scheletro del Luca veneziano apparteneva ad un giovane di vent’anni, morto da appena due secoli.
L’ultima apertura prima di quella attuale, avvenne nel 1562, data che si desume dalle pergamene ritrovate nella cassa di piombo. Nel 1562 l’identificazione venne operata in occasione della traslazione delle spoglie di san Luca dall’antica cappella omonima al nuovo transetto sinistro della Basilica, dove oggi si trova. La cassa di piombo probabilmente venne aperta per esporre le sacre reliquie alla venerazione dei fedeli, cosa che può essere accaduta anche nelle precedenti aperture. Si sa inoltre che nell’antica cappella di provenienza, la lastra tombale in marmo serviva da mensa d’altare e che la cappella era stata abbellita dal celebre polittico di Andrea Mantegna e da affreschi con scene che rievocavano il tradizionale racconto dell’arrivo del corpo di san Luca a Santa Giustina.
Ora l’insieme di tutti questi dati forniti dai documenti e dalla tradizione saranno riconsiderati, chiariti e approfonditi alla luce delle prove e degli indizi scientifici delle nuove indagini interdisciplinari. «Con il contributo dei moderni strumenti scientifici» afferma Claudio Bellinati «sapremo finalmente stabilire l’autenticità delle reliquie di san Luca e sapremo storicamente ricostruire quanto un’antichissima tradizione ci ha indicato».

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L’Assunzione di Maria in Cielo

Posté par atempodiblog le 31 août 2016

L’Assunzione di Maria in Cielo
di suor Gloria Riva – CulturaCattolica.it

L'Assunzione di Maria in Cielo dans Fede, morale e teologia L_Assunzione_di_Maria_in_Cielo_Tiziano
Tiziano Vercellio, L’Assunta, Venezia, Santa Maria Gloriosa dei Frari

Maria è assunta in cielo anima e corpo, questo proclama la Chiesa, questo essa celebra il 15 agosto di ogni anno. Ma cosa si cela dietro a questo mistero, la cui popolarità è più legata al folclore e al periodo estivo in cui si celebra che non alla sua comprensione?

L’assunzione di Maria è la conseguenza dell’unione perfetta di Maria col Figlio. Dio, inoltre, non poteva permettere la corruzione del corpo di Colei che fu l’arca vivente del Figlio Suo. Questo felice esito della vita terrena di Maria non riguarda, tuttavia, lei sola: in lei ha avuto principio quell’opera di redenzione che deve, nel disegno misericordioso e buono di Dio, raggiungere ogni uomo.

“In te misericordia, in te pietate in te magnificenza in te s’aduna quantunque in creatura è di bontate”, canta Dante. Tutto ciò che di buono Dio ha pensato per le sue creature, in Maria si è realizzato con pienezza e perfezione grazie alla sua fedeltà a Cristo, perciò il suo destino si lega indissolubilmente a quello del Figlio, “come in terra, così in cielo”. E come l’ascensione del Signore rivela che “un corpo abita nella Trinità” (Varillon) così l’assunzione di Maria realizza quello che sarà il destino di ogni credente.

Un cantore di questo singolare evento della Vergine Maria fu Tiziano Vecellio.
Nel vasto interno della chiesa gotica dei Frari dedicata, appunto, a Santa Maria Gloriosa, Tiziano dipinse in tempo brevissimo, dal 1516 al 1518, la tela monumentale dell’Assunzione della Beata Vergine Maria.

Uno spazio tripartito narra l’evento: la terra gremita di apostoli e discepoli del Signore, il cielo che s’apre al passaggio della Vergine e i cieli dei cieli dai quali Dio Padre, solenne e compiacente, discende per accogliere Maria.
L’osservatore pur indugiando brevemente nella selva di forme e colori armoniosamente composti si trova spontaneamente portato a dirigere lo sguardo verso il volto della Giovane Donna che liberata da ogni legame terreno s’innalza verso l’alto fra stupore e commozione.

Una corona di angeli delimita il confine tra la terra e il cielo; la profondità non è narrata, ma intuita dentro la solare luminosità del giallo oro.

In basso il cielo è di tutt’altro segno, incombe sul gruppo dei discepoli rendendo ancora più esiguo lo spazio angusto entro il quale essi si muovono concitati.
E qui ci riconosciamo noi tutti, così lontani dalla chiarità del mistero che ha avvolto Maria, così lontani eppure così partecipi. Ci riconosciamo nello sgomento che pervade certi volti per aver perso dall’orizzonte quotidiano una tanto eloquente trasparenza del Cristo; ci riconosciamo nel desiderio profondo di affidamento a lei, discepola perfetta e fedele, al fine di giungere anche noi alla mèta; ci riconosciamo, ancora, nel volto orante dell’anziano apostolo in primo piano, così vuoto di sé e così pieno del mistero che sotto i suoi occhi si consuma. Siamo qui in questo spazio angusto quale è la vita, prezioso, ma sempre inadeguato alla sete di eternità che alberga nel nostro cuore.

Tiziano si fa vigoroso interprete di questi sentimenti, e lui, che tanto si è espresso in temi mitologici riesce a descrivere il destino eterno di Maria con le tinte dell’amore e della passione. La tensione dei corpi, il movimento dello stesso corpo di Maria, la gamma di rossi che, richiamandosi caricano di drammaticità la scena, descrivono una tensione alla santità che non è ricerca di una perfetta impassibilità, non è raggiungimento di un « nirvana”, ma la pienezza dell’esperienza umana divinizzata dalla sequela a Cristo, pienamente uomo e pienamente Dio.

La sacralità dell’evento è interamente affidata alla composizione classica e solenne e al profilo, in controluce, dell’Eterno Padre. La sua ombra dilata la luminosità dello sfondo e la calda luce dorata colpisce lo sguardo dell’osservatore spalancandogli il cuore al divino.
Uomini e angeli sembrano accomunati dallo stupore, gli uni pieni di sgomento gli altri al colmo del tripudio. Ma nel turbine dei gesti e dei colori un dialogo fatto di sguardi fissa l’attimo eterno: la Vergine solleva lo sguardo al suo Dio e un angelo, alla destra del Padre, come sorpreso indugia con la corona in mano. È proprio lei? È questa? È una creatura che dobbiamo accogliere nella vasta santità del Cielo? Ma Dio Padre guarda la Vergine: “È proprio lei”.
“Umile ed alta, più che creatura, termine fisso d’eterno consiglio”.

Tiziano Vecellio
Tiziano Vecellio, pittore nato a Pieve di Cadore nel 1488/90 e morto a Venezia nel 1576.
Nel periodo giovanile compie la propria formazione nella bottega di Giovanni Bellini; qui Tiziano viene a contatto con l’artista più innovativo del Cinquecento, Giorgione. Nell’epoca della piena maturità Tiziano manifesta maggiore sicurezza nella composizione della figura umana, raggiungendo effetti realistici e vitali. Al potenziamento dell’energia delle scene contribuisce in maniera determinante il colore, che secondo la nuova concezione tonale costruisce la stesura stessa della raffigurazione.
La sua produzione è vastissima e le sue opere più importanti sono: tra le prime, gli affreschi della Scuola del Santo a Padova con la “Storia di S. Antonio” del 1511; l’“Amor sacro e amor profano” della Galleria Borghese a Roma; la “Pala dell’Assunta” della chiesa dei Frari a Venezia del 1516-1518; “Flora” conservata agli Uffizi a Firenze; la “Pala Pesaro” ai Frari a Venezia; “Paolo III Farnese con i nipoti di Alessandro e Ottaviano” del 1546 delle Gallerie Nazionali di Capodimonte a Napoli; il “Carlo V a cavallo” del 1548 conservato a Madrid nel Prado; il “Martirio di S. Lorenzo” della Chiesa dei Gesuiti a Venezia; la “Pietà” delle Gallerie dell’Accademia di Venezia. 

La Pala dell’Assunta Chiesa S. Maria Gloriosa dei Frari
L’imponente pala, commissionata a Tiziano nel 1516 da frate Germano, priore del Convento dei Frari, suscitò alla consegna, due anni più tardi, forti imbarazzi alla committenza ed un’accoglienza piuttosto fredda; la tradizionale iconografia dell’Assunzione in cielo della Vergine veniva infatti completamente rinnovata e stravolta dal Maestro – probabilmente debitore di coevi motivi raffaelleschi – al punto da apparire artisticamente blasfema: la concitazione delle gigantesche figure, il tono fiammeggiante delle vesti e delle carni, l’agitata scenografia, fanno tuttavia di quest’opera una pietra miliare della produzione giovanile dell’artista e, anzi, quella della sua consacrazione definitiva, al punto, grazie all’eccezionale fortuna critica, di divenire in seguito l’immagine più nota del Maestro cadorino.
Dopo un periodo di esposizione alle Gallerie dell’Accademia, dove divenne uno dei dipinti preferiti e osannati dell’ Ottocento, il capolavoro tizianesco è tornato alla sua collocazione originaria nell’altar maggiore della Basilica nel 1919, dove oggi si può ammirare nelle esatte condizioni per le quali l’artista l’aveva pensata.

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La più straordinaria meditazione visiva sul Mistero di Cristo

Posté par atempodiblog le 22 août 2016

Una lettura del ciclo pittorico di Giotto nella Cappella degli Scrovegni a Padova
La più straordinaria meditazione visiva sul Mistero di Cristo
di suor Maria Gloria Riva – Radici Cristiane

La più straordinaria meditazione visiva sul Mistero di Cristo dans Angeli Cappella_Scrovegni

Enrico Scrovegni, ricco signore padovano, acquista nel 1300, al fine di costruirvi un palazzo, l’area del Arena Romana. A suffragio del padre Reginaldo decide di edificare una cappella dedicata alla Beata Vergine Maria. Dante collocava Reginaldo nel XVII canto dell’Inferno, tra gli usurai, per questo si è supposto, ma senza sufficiente fondatezza, che tra gli scopi di Enrico ci fosse il risarcimento dei danni paterni.
Rimasto affascinato dall’opera di Giotto nella Basilica di sant’Antonio, lo Scrovegni chiese all’artista di affrescare le pareti della Cappella. Giotto, in tre anni, realizzò una straordinaria meditazione visiva sul Mistero ricoprendo interamente le pareti dell’edificio con gli episodi della vita di Maria e di Cristo.
Attingendo agli apocrifi, alla Legenda Aurea e godendo dell’assistenza di un dotto religioso, forse altegrado de’ Cattanei, arciprete della Cattedrale, l’artista mise a fuoco la verità certa dell’Incarnazione. Cristo non è un mito, ma è l’Eterno che entra nel tempo, l’Immortale che sposa la mortalità della carne dentro il grembo silenzioso di una Donna.

Dio entra nella storia
Giotto comincia a raccontare il suo Vangelo in una data precisa, il 25 marzo 1303, giorno della prima dedicazione della Cappella degli Scrovegni.
Dalla trifora entra il sole che batte sulla parete alta dell’arco trionfale e illumina Dio Padre che istruisce l’angelo Gabriele circa l’annuncio che deve portare. Gabriele sta in attesa, con le braccia conserte, poi, alla destra, lo si vede proteso al volere divino. Sotto, l’angelo irrompe nella casa della Vergine entrando nella storia degli uomini.
Al trono di Dio, avvolto di luce dorata, fuori dal tempo e dallo spazio si accede attraverso una predella ottagonale cioè attraverso quell’ottavo giorno che compie la storia settenaria dell’Uomo.
Sotto, nel regno degli uomini, lo spazio architettonico è ben segnalato. Il luogo dove avviene l’annuncio è costituito da due straordinarie edicole in prospettiva rovesciata-discendente. Più sotto, ai piedi dell’arco trionfale, due coretti resi con uno scorcio prospettico perfetto 150 anni prima degli “inventori” della prospettiva (Mantegna, Masaccio, Piero della Francesca, Leon Battista Alberti).
I due coretti attestano la dimensione terrena e nel contempo orientano lo sguardo verso il Cielo, verso il Mistero che sta all’origine della Buona Novella.
Dio entra nella storia, trasformando il cuore dell’uomo.

L’equinozio della storia
Il viaggio del Verbo inizia nel grembo della Vergine e, fin dal suo concepimento, compie il primo pellegrinaggio verso Gerusalemme, fermandosi però a Karin, città della Giudea dove vive Elisabetta.
L’anziana madre del Battista riconosce la Madre del Suo Signore. Giovanni nel grembo esulta: è il saluto dell’uomo all’irrompere di Dio nella storia.
Sul lato opposto, sopra l’altro coretto, il tradimento di Giuda. Le due scene si richiamano: entrambe narrano, con gli stessi colori, un incontro.
Sotto la Vergine Annunciata, Elisabetta veste l’oro della grazia e si china riconoscendo il suo Signore. Maria veste il rosso della carità e le damigelle il verde della speranza e il viola della sapienza.
Sotto l’arcangelo Gabriele, invece, Satana, interamente nero, colore poco usato da Giotto, porta un annuncio nefasto a Giuda che è giallo di invidia.
Il sacerdote Anna veste il rosso dell’omicidio; l’abito di Caifa è verde come la che lo invade e l’abito violetto dell’altro membro del Sinedrio indica il livore.
Se nella prima scene le mani sono tutte nascoste dentro l’abbraccio e dentro le fasce del Neonato, nell’altra le mani sono in continua agitazione ed esprimono la logica di chi trama nell’ombra.
Con l’Annunciazione inizia la corsa del Verbo, il 25 marzo: equinozio di primavera: 12 ore di luce e 12 di oscurità.
Sotto l’equinozio della storia: la lotta tra il regno della luce (Elisabetta e Maria) e il regno delle tenebre (Satana e il traditore).

Preparazione ed Attesa
La parete accanto alla Vergine Annunciata e alla Visitazione presenta una rosa di sei scene che rivelano la preparazione del disegno divino: Dio non fa nulla senza avvertire i suoi amici: gli anawim, i puri di cuore.
Nel registro superiore: Gioacchino, cacciato dal tempio per la sua sterilità rivela fin dall’inizio come le prospettive degli uomini siano rovesciate rispetto a quelle divine. Alla rigidità dei capi, si oppone l’accoglienza della gente semplice, come i pastori. Anna, moglie di Gioacchino, sterile riceve l’annuncio della sua prossima maternità dall’angelo.
Nel registro intermedio, il Verbo si fa carne. La nascita di Gesù prepara la sua missione tra quanti lo accolgono con fede e purità di cuore, gli stessi pastori e i magi, ricchi nelle vesti, ma poveri nello spirito.
Sotto, nel registro inferiore, l’istituzione dell’Eucaristia nel cenacolo e la lavanda dei piedi preparano il compimento della missione del Verbo: rimanere con gli uomini fino alla fine del mondo servendo il disegno buono del Padre.

Anche qui analogie tra le scene: nella nascita, Maria è tutta protesa verso il Bimbo divino, sotto, nell’ultima Cena Giovanni è proteso verso Cristo, poggiandogli il capo sul petto.
Nell’Epifania il re terreno è inginocchiato verso il Re divino, sotto, quello stesso Re divino si inginocchia davanti a Pietro, capo della sua Chiesa.
Questi riquadri mentre disegnano la vita di Gesù, rivelano anche la vita della Chiesa nella sua dimensione di adorazione e di ministero di misericordia in mezzo agli uomini: come Dio ha preparato Maria, attraverso i genitori, così Gesù prepara la sua Chiesa.

Luce e tenebra
Sulla stessa parete, in fondo, un’altra rosa di sei affreschi.
Qui di scena è la notte: nel registro inferiore Gioacchino avvolto dall’oscurità della notte e del sonno (simbolo del dolore in cui si trova) viene visitato da una luce: la sterile Anna avrà una figlia.
Nell’affresco seguente Gioacchino incontra Anna alla porta Aurea del tempio (che ricorda l’arco Augusto di Rimini). Tra le damigella che assistono una, velata, è in nero e una luminosissima in bianco avorio. Ancora lo scontro tra luce e tenebre. La donna in abito nero, per alcuni, è simbolo della sinagoga che sta di fronte alla Chiesa, l’una nel lutto per il mancato riconoscimento dello Sposo, l’altra nel giubilo. Non conosciamo le reali intenzioni di Giotto, certo egli vuole sottolineare un contrasto tra luce e tenebre.
Nel registro intermedio il contrasto permane: la sacra famiglia fugge in Egitto, nell’oscurità del cielo la montagna bianchissima sembra fuggire con il Divino Infante. Accanto la strage degli innocenti. La luce è tutta nei bimbi trucidati e nel tempio dietro alle Madri affrante: il dolore innocente è la luce del mondo.
Sotto Cristo, la vera luce, davanti alle autorità: Anna e Caifa, nel Sinedrio e Pilato nel Pretorio. Attorno a lui il caos della violenza: lo schiaffo di un romano, lo scandalo di Caifa che si straccia le vesti, il tradimento di Pietro, la derisione delle guardie, l’opportunismo di Pilato.

Lo zenit della storia: indicare la volontà di Dio
Di fronte a queste ultime, sulla parete opposta troviamo altre sei scene che disegnano lo zenit della storia in cui il Cristo si rivela, appunto, come il vero sole che distrugge le tenebre. Qui si compie l’incontro tra la debolezza umana e la grandezza di Dio e le tenebre mentre si manifestano, rivelano la loro realtà transitoria. Qui di scena sono i gesti che indicano, in-segnano la verità.
La casa di Anna è invasa dalla gioia. La tristezza delle prime scene si è trasformata in giubilo per la nascita di Maria. E’ la stessa casa dei primi riquadri: là una finestra aperta da dove Anna, sola, riceve la visita dell’angelo. Qui la finestra è chiusa ma la casa è inondata dalla luce di Maria e Anna è attorniata da donne che l’aiutano.

Nel primo riquadro Gioacchino veniva allontanato dal tempio, nel riquadro della Presentazione di Maria, il medesimo tempio si trova in posizione rovesciata e ad accogliere la Vergine c’è lo stesso sommo sacerdote che assistette allora alla scacciata di Gioacchino. Le sorti si sono ribaltate.
Così negli affreschi dei riquadri sottostanti: Maria tende le braccia verso Gesù dodicenne ritrovato tra i dottori del tempio, additandolo, come Anna, sopra, tendeva le braccia verso di lei ancora infante. Sotto il Battista, compie un gesto speculare a quello di Maria, additando Gesù  quale Salvatore.
Anche i gesti di Gesù indicano la volontà di Dio: da fanciullo addita alla Madre il tempio e i dottori, nel Battesimo indica il Battista. Il Padre, allo zenit, squarcia di luce il cielo e indica il Figlio prediletto.
Più sotto ancora, nel registro inferiore, la passione. Nella salita al calvario un centurione romano con il bastone in pugno indica suo malgrado Gesù, che gli risponde indicando la croce.
Nell’ultimo riquadro la croce domina la scena. Gli angeli la che circondano gli stessi della scena del Natale, ora si strappano le vesti come il sommo sacerdote Caifa e spalancano le braccia come l’apostolo Giovanni davanti al corpo del Cristo morto. Sotto, additano la croce, la Maddalena e il centurione.
Ognuno sta sotto la sua in-segna: discepoli quella di Gesù, la sua croce, i soldati sotto la bandiera Romana: SPQR Senatus Populusque Romanus. Cristo sta sotto il segno del Padre, che, nella scena del battesimo, si trova esattamente sopra di lui.
La croce è allo zenit della storia, la leva che rovescia le sorti.

Il compimento
Negli ultimi sei riquadri si celebra il tempo del compimento della rivelazione.
Nel registro superiore, Maria ritorna a Nazareth fra damigelle e gente festante: si compie il tempo della preparazione, tra poco ella riceverà l’annuncio della divina maternità.
Nel registro centrale un altro ingresso festoso: Gesù entra in Gerusalemme, cavalcando un umile asino e accolto dai bambini. Lamano benedicente di Gesù nella stessa posizione dei due affreschi precedenti: nelle nozze di Cana e nella risurrezione di Lazzaro. Egli è via, verità e vita. A Cana si compie la verità: Cristo è il Messia promesso. Nella risurrezione di Lazzaro egli si rivela come vita. Nell’ingresso a Gerusalemme egli mostra la via della croce come compimento del disegno del Padre.
Nel registro inferiore, Gesù è ancora benedicente; le mani bucano il “cielo” dell’affresco a significare che il compimento pieno sta oltre la sfera di questo mondo. Tutta la chiesa è presente: 12 profeti dell’Antico testamento, 12 angeli e 12 personaggi del Nuovo Testamento.
L’ultimo riquadro compie le scene dell’ultima cena. Nel cenacolo dove gli Undici, a cui si è aggiunto Mattia, ricevono il dono dall’Alto. Gli Archi sono trilobati e celebrano il trionfo della Trinità. Non si scorge niente dello Spirito se non l’irrompere del fuoco della charis di Dio. La Cappella degli Scrovegni era dedicata alla Vergine della carità.

Conclusione
In questo percorso il fedele è accompagnato dalla meditazione sull’Antico Testamento, rappresentato da medaglioni che ritraggono i patriarchi e i profeti e sui Vizi e le Virtù distribuiti secondo il gioco dell’abbinamento dei contrari (anche qui luce e tenebre in dialogo).
Il compimento pieno è descritto nella grande parete del Giudizio Universale, dalla cui finestra entra la luce che, proprio nell’equinozio di primavere, il 25 marzo, va a battere contro l’annunciazione. Da quell’inizio si giunge al compimento, passando, come il Verbo, per Maria.
Ai piedi del Redentore, avvolto in una mandorla di luce ben visibile la croce: Per aspera ad astra paiono indicare i due angeli che la sorreggono. Sotto la croce la Vergine riceve benedicente da Enrico Scrovegni la Cappella a lei dedicata, mentre ai piedi della croce un curioso personaggio di cui si intravedono solo i riccioli del capo e le gambe. Chi è? Forse il Cireneo? Il Buon Ladrone?
Per Giotto forse siamo ciascuno di noi che, visitando la Cappella, siamo educati a passare per le asperità della vita fino a giungere a quelle stelle di cui il cielo della Cappella è trapuntato.

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Meeting Rimini. Papa: ci si salva insieme col dialogo tra chiare identità

Posté par atempodiblog le 19 août 2016

Meeting Rimini. Papa: ci si salva insieme col dialogo tra chiare identità
È il dialogo l’unica chiave per fare breccia nel cuore umano, chiuso soprattutto oggi da una “insicurezza esistenziale che ci fa avere paura dell’altro”. Lo afferma Papa Francesco nel Messaggio inviato, a firma del cardinale segretario di Stato, Pietro Parolin, al 37.mo Meeting per l’amicizia tra i popoli organizzato a Rimini da Comunione e Liberazione con il titolo “Tu sei un bene per me”.
di Alessandro De Carolis – Radio Vaticana

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Questo è un titolo “coraggioso”, riconosce il Papa. Dire “Tu sei un bene per me” stride e tanto tra le paure del mondo attuale, dove si alzano barriere e si dice si salvi chi può ciascuno badando a sé. È un titolo “coraggioso”, afferma il Papa nel Messaggio ai partecipanti al 37.mo Meeting di Comunione e Liberazione, perché va in “senso opposto” sia a una generale tendenza umana per cui tante volte gli altri “diventano qualcosa di superfluo, o peggio ancora un fastidio, un ostacolo”, sia al senso di precarietà della nostra epoca, in cui la pace e la sicurezza di nazioni e popoli è minacciata.

Da solo chi si salva?
Se si cede alla tentazione dell’individualismo, ripete Francesco, si finisce per cogliere delle persone “soprattutto i limiti e i difetti” e ciò indebolisce, osserva, “il desiderio e la capacità di una convivenza in cui ciascuno possa essere libero e felice in compagnia degli altri con la ricchezza delle loro diversità”. Ma di “fronte al cambiamento d’epoca in cui tutti siamo coinvolti – si chiede il Papa – chi può pensare di salvarsi da solo e con le proprie forze?”.

Nessuno è perso definitivamente
Questa, sottolinea, è “la presunzione che sta all’origine di ogni conflitto tra gli uomini”, che invece il Vangelo rovescia giacché, ribadisce Francesco, “il cristiano coltiva sempre un pensiero aperto verso l’altro, chiunque egli sia, perché non considera alcuna persona come perduta definitivamente”. E qui, il Papa richiama una volta di più la parabola del figlio prodigo il quale, mentre pascola tristemente i porci consapevole di aver tradito la fiducia del suo genitore, non sa che invece suo padre “tutte le sere sale sulla terrazza per vedere se torna a casa e spera, malgrado tutto e tutti”. “Come cambierebbe il nostro mondo – esclama Francesco – se questa speranza senza misura diventasse la lente con cui gli uomini si guardano tra di loro!”.

Dialogo, identità e apertura
Per tradurre in vita questa fiducia c’è, annota il Papa, “una parola che non dobbiamo mai stancarci di ripetere e soprattutto di testimoniare: dialogo”. Un valore del quale il Papa individua i vantaggi: “Ci fa riconoscere – dice – la verità dell’altro, l’importanza della sua esperienza e il retroterra di quello che dice, anche quando si nasconde dietro atteggiamenti e scelte che non condividiamo”. Insomma, sostiene Francesco, il dialogo è ricchezza e non impoverimento purché, indica, ogni incontro implichi “la chiarezza della propria identità, ma al tempo stesso la disponibilità, a mettersi nei panni dell’altro per cogliere, al di sotto della superficie, ciò che agita il suo cuore, che cosa cerca veramente”.

Non la potenza delle cose ma la mitezza dell’amore
Dunque, “questa è la sfida davanti alla quale si trovano tutti gli uomini di buona volontà”. Conclude Francesco, che invita a considerare i “tanti sconvolgimenti di cui spesso ci sentiamo testimoni impotenti” come “un invito misterioso a ritrovare i fondamenti della comunione tra gli uomini per un nuovo inizio”. L’incoraggiamento finale ai partecipanti al Meeting è quello alla coerenza della vita di fede, basata sui Sacramenti, espressa con una “testimonianza creativa”, nella consapevolezza “che ciò che attrae, ciò che conquista e scioglie dalle catene non è la forza degli strumenti, ma la mitezza tenace dell’amore misericordioso del Padre”.

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Non sono le nostre stigmate

Posté par atempodiblog le 19 août 2016

Non sono le nostre stigmate
Nelle foto di bimbi in guerra si vede l’abbandono del medio oriente
de Il Foglio

Non sono le nostre stigmate dans Articoli di Giornali e News Piccolo_Omran

Prima Aylan, il bimbo curdo riverso su una spiaggia turca. Adesso, dalla Siria, le immagini terribili di Omran, estratto dalle macerie della città-martire di Aleppo. Da William E. Smith a Cartier-Bresson, l’immagine giornalistica sembra dare l’idea della massima aderenza alla verità. Ma è davvero così? Passata l’emozione si comprende quanto queste cartoline dell’umanità ferita, queste foto senza didascalia, siano simulacri della nostra abulia, del nostro disimpegno. Non parlano. Sono afone. Col puro dolore non ci facciamo niente.

Aylan e Omran sono invece due vittime della ritirata occidentale che ha consentito la nascita dell’Isis e la destabilizzazione del medio oriente (no, cretino collettivo, non è stata la guerra di Bush, ma la fuga a gambe levate di Obama). Lasciare la umma islamica in balìa di se stessa, come hanno fatto Stati Uniti ed Europa negli ultimi otto anni, produce gli Aylan e gli Omran, ma anche lo Stato islamico e il jihad sul suolo europeo. In questo senso quella fotografia ci riguarda, non come monito contro “le guerre”, neppure come stigmate della nostra colpa, ma come rimprovero contro il nostro abbandono del medio oriente.

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L’uomo più veloce del mondo è devoto alla Medaglia Miracolosa

Posté par atempodiblog le 17 août 2016

L’uomo più veloce del mondo è devoto alla Medaglia Miracolosa
di Aleteia

L’uomo più veloce del mondo è devoto alla Medaglia Miracolosa dans Articoli di Giornali e News Usain_Bolt_e_Medaglia_Miracolosa

Usain Bolt è attualmente l’uomo più veloce al mondo: per le terze Olimpiadi consecutive (dopo Pechino 2008 e Londra 2012), il 14 di agosto ha ottenuto la medaglia d’oro nei 100 metri. Ma queste tre medaglie d’oro non sono le uniche che porta. L’atleta ne indossa un’altra sempre al collo, conosciuta come Medaglia Miracolosa, frutto delle apparizioni della Madonna a Santa Caterina Labouré.

Usain_Bolt dans Rue du Bac - Medaglia Miracolosa

Bolt appartiene infatti a una famiglia cattolica, confessione minoritaria in Giamaica. Il suo secondo nome, Leo, gli è stato dato in ricordo in un Papa dei primi secoli del cristianesimo. L’atleta è tendenzialmente riservato, ma non nasconde la sua fede: anzi, fa spesso il segno della croce e sui social network ringrazia Dio per i suoi successi (ma anche per le sue sconfitte).

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Olimpiadi. Il “selfie” delle ginnaste riunisce le Coree

Posté par atempodiblog le 17 août 2016

Olimpiadi. Il “selfie” delle ginnaste riunisce le Coree
Continua a suscitare interesse e commenti una delle foto simbolo delle Olimpiadi di Rio, quella del selfie scattato da due atlete coreane, una del Nord e l’altra del Sud, e definito da più parti la “l’icona dell’unità” tra due Paesi nemici da oltre 60 anni.
di Alessandro De Carolis – Radio Vaticana

Olimpiadi. Il “selfie” delle ginnaste riunisce le Coree dans Articoli di Giornali e News Lee_Eun_Ju_e_Hong_Un_Jong

Il gioco di parole viene facile: ciò che il 38.mo parallelo divide, due parallele asimmetriche hanno unito, assieme a qualche migliaio di pixel come un buon selfie impone. La foto che si scattano insieme contente due atlete formalmente “nemiche”, a loro volta immortalate da un fotografo in servizio tra le pedane dell’Arena di Barra a Rio de Janeiro, è l’icona che sgretola nello spazio di un flash gli effetti di tanti proclami guerrafondai e di provocazioni muscolari a colpi di test missilistici ed esercitazioni militari congiunte.

Perché se le prime a non ricordarsi, o forse a ignorarlo di proposito, di doversi comportare come le obbligherebbe il peso di 60 anni di storia e di separazione sono due ragazze, una anzi poco più che ragazzina, allora il mondo ha davvero speranze di futuro migliori di quelle soffocate dal pessimismo allarmato che oggi dilaga.

A ben guardarli, i visi accostati di Lee Eun-ju, sudcoreana, 17 anni, e di Hong Un-jong, 27 anni, nordcoreana e campionessa olimpica, e soprattutto il loro sorriso non di facciata, ci raccontano senza bisogno di acuti commenti che, nel loro caso, né la strategia dell’odio di regime inculcato di padre in figlio né la retorica dello “rogue-State” hanno avuto la forza di avvelenare due ragazze “diversamente coreane” che anzi incontrandosi sotto i cerchi olimpici invece di ignorarsi, come fossero state in divisa invece che in tuta, si sono avvicinate cordiali per stringersi la mano, come si fa tra amici.

E quando la più giovane, ginnasta ancora agli inizi, ha proposto il selfie alla collega celebre e pluridecorata, nessuna delle due deve aver pensato – e il piacere di farsi il selfie lo dimostra – di essersi stretta al fianco della rappresentante di uno “Stato-canaglia” piuttosto che dell’imperialismo occidentale. Più probabilmente, saranno state soprattutto contente di ritrovarsi, da coreane, a difendere in mezzo a dozzine di atlete di tutto il mondo l’onore sportivo del loro Paese, che solo una striscia su un mappamondo e troppo filo spinato e una ostilità continuamente alimentata a freddo si ostina a volere spaccato a metà.

Chissà ora come nei loro Paesi – soprattutto a Pyongyang, si chiedono preoccupati in tanti sui social – verrà presa questa mancanza di aggressività e questa istintiva manifestazione di amicizia tra due nemiche che non sanno di esserlo o non ne vogliono sapere. La speranza è che chi passa il tempo a fare complessi calcoli geopolitici per anticipare a oggi il potere che avrà in futuro si lasci per una volta contagiare dalla levità dei volteggi di cui queste due ragazze sono maestre e riesca a vedere, nella filigrana di una foto bella e “impossibile”, come realmente i giovani, non solo coreani, vorrebbero il loro mondo di domani.

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Belotti, Gallo dal cuore d’oro: «Mia madre non lavora più: è questo il mio gol più bello»

Posté par atempodiblog le 17 août 2016

Andrea Belotti: «Facevo il chierichetto. Vado a Messa»
Serie A, Torino: Belotti, Gallo dal cuore d’oro: «Mia madre non lavora più: è questo il mio gol più bello»
La punta di Mihajlovic: «Ho fame e voglia di arrivare: con Sinisa siamo più offensivi, possiamo fare grandi cose. Ventura? L’azzurro ora devo meritarmelo»
di Paolo Tomaselli – Corriere della Sera

Belotti, Gallo dal cuore d’oro: «Mia madre non lavora più: è questo il mio gol più bello» dans Articoli di Giornali e News

Andrea Belotti è stato il miglior bomber italiano del 2016 con 11 gol, con il Torino di Ventura. Domenica debutta in campionato a San Siro contro il Milan, di cui è stato grande tifoso, soprattutto di Sheva.

Belotti, è lei l’uomo nuovo del nostro calcio?
«Non ho ancora fatto niente di veramente importante, ma sto lavorando per raggiungere tutti gli obiettivi, personali e di squadra. La fame e la voglia di arrivare non mi mancano».

È un perfezionista, dicono.
«Sì. Penso che un giocatore non debba mai porsi dei limiti. L’asticella deve sempre spostarsi più in alto: col lavoro si può raggiungere tutto».

Se avrà il piede caldo come in primavera, le basterà per candidarsi all’azzurro?
«Al debutto col Torino ho fatto fatica. A inizio 2016 ho avuto un boom e ho segnato con continuità. La Nazionale resta un sogno: so che devo dimostrare di meritarmela».

Il nuovo Toro la aiuterà?
«Con l’arrivo di Mihajlovic abbiamo cambiato modo di giocare: siamo più offensivi: possiamo fare grandi cose».

Il suo rapporto col gol?
«Non bisogna mai smettere di segnare, neanche in allenamento: devi creare un rapporto di sangue col gol, tra te stesso e la porta».

Il portiere cos’è per lei?
«Un nemico, che ti può rovinare questo rapporto».

Quale gol rende più felici?
«Di culo o in rovesciata: la gioia è sempre la stessa».

E che sensazione le dà?
«Dentro ti si crea un’energia che vorresti sprigionare per intero, ma non ci riesci. È una sensazione magnifica, come la tranquillità che ti dà: per un attaccante è vita».

Bella soddisfazione a marzo interrompere il record di imbattibilità di Buffon?
«Sì, è stato qualcosa di incredibile. E anche un onore. Anche se quel derby avrei preferito vincerlo».

Perché la chiamano Gallo?
«Perché da piccolo inseguivo i galli nel pollaio di mia zia. E perché il mio amico Juri Gallo mi ha detto di fare questa esultanza per scherzo: ho subito segnato e non ho più smesso di farla».

Infanzia tra oratorio e mance della nonna. Che ricordi ha?
«Andrea era mio nonno, morto sei mesi prima che io nascessi. E con mia nonna, anche per il nome che porto, si è creato un feeling pazzesco. Lei veniva sempre a vedermi e se facevo gol mi dava una mancia o mi portava un salame per festeggiare».

Si aspettava l’esplosione di Dybala, suo ex compagno?
«Sinceramente no. Ha qualità incredibili, ma non pensavo diventasse subito l’uomo simbolo della Juve».

Gli italiani sono più lenti a crescere o li frena il sistema?
«Se non trovi l’allenatore che credi in te, dopo due partite sbagliate ti mettono da parte. È una questione di mentalità. Io per fortuna l’anno scorsa ho trovato Ventura che crede nei giovani e mi ha aspettato».

In cosa l’ha migliorata?
«In tanti piccoli particolari: nel modo di giocare con un compagno, di cercarlo, nel modo di attaccare la porta».

Ventura festeggiava i suoi gol facendo la cresta del Gallo: un bello spettacolo?
«Sì bellissimo. E fa capire il rapporto che abbiamo. Era come se il gol lo avesse fatto lui: ha sempre creduto in me anche quando non segnavo».

L’idolo è Sheva, ma non assomiglia di più a Inzaghi?
«Forse sì, ma Sheva è sempre stato il mio modello: perché segnava in ogni modo ed era sempre un esempio. Sono lontano anni luce da lui, ma con il lavoro duro cerco di assomigliargli un po’ di più».

Oggi chi è il modello?
«Ne studio tanti. Ma soprattutto Aguero, per come si inserisce: la butta sempre dentro».

È religioso?
«Moltissimo. Facevo il chierichetto e quando siamo in ritiro a Torino vado a messa».

Simulare è peccato?
«È brutto. Ed è sempre meglio evitare, per non dare esempi negativi. Dentro l’area però l’attaccante tende a fare il furbo e alla minima situazione cade. Comunque i gol rubati non mi piacciono».

«Se devo spararla grossa sogno il Real». Conferma?
«Sì. Mi piace non avere limiti. Sto facendo tutto il possibile per realizzare i miei sogni».

È diplomato?
«Sono geometra, non si sa mai. E i miei genitori ci tenevano tantissimo».

Cosa fanno i suoi?
«Mio padre lavora in un’azienda tipografica. Mia madre lavorava in un’azienda che produce camice e lei era alla stiratura».

Cosa le hanno insegnato?
«Il valore del sacrificio. E anche quello dell’aiuto al prossimo. L’anno scorso ho voluto fortemente che mia mamma smettesse di lavorare, perché non potevo più vederla così stanca. Se oggi sono così lo devo ai miei genitori. Mi sembrava la cosa giusta da fare».

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Toro-Pro Vercelli, chi si rivede. Il derby torna dal passato

Posté par atempodiblog le 13 août 2016

Toro-Pro Vercelli, chi si rivede. Il derby torna dal passato
Stasera in Coppa Italia di fronte dopo 58 anni. In campo 14 scudetti, ma mai rivali per un titolo
di Gianni Romeo – La Stampa

Toro-Pro Vercelli, chi si rivede. Il derby torna dal passato dans Sport Toro_Pro_Vercelli
Carlo Crippa segna il 4-0 alla Pro Vercelli nel match di andata della sfida di Coppa Italia del 1958 (14 giugno)

L’ultimo gol è come il primo amore, non si scorda mai. L’ultimo gol in partita ufficiale, fra il Torino e la Pro Vercelli, lo segnò Carlo Crippa in Coppa Italia il 6 luglio del 1958, 3-0 per i granata nel glorioso campo Robbiano, oggi Silvio Piola. Lo racconta proprio lui, l’estrosa ala del Toro, veloce, elegante, gran tiro (una rete memorabile su punizione, di destro, con la Juve). «Prendo palla dopo metà campo, uno scatto dei miei, dribblo l’avversario, dal limite sparo un sinistro in diagonale, imparabile. Me lo vedo ancor oggi quel gol, per me era stato importante, perché insieme con Lido Vieri ero il più giovane granata in campo, 19 anni, mi serviva per fare strada. La nostra era una squadra un po’ vecchiotta, la reggevano con esperienza Armano e Bearzot, c’erano Arce, il francese Bonifaci…», racconta Crippa. A difendere la porta della Pro c’era Martino Colombo, che sarebbe poi approdato alla Juve.

Orgoglio e princìpi
È sorprendente il fatto che due club da 7 scudetti a testa, una bella fetta di storia del pallone, uniti da tanta tradizione e separati appena da una sessantina di chilometri di strada, non si siano più incrociati fino a stasera: 58 anni. Sarebbero 8 gli scudetti per il Toro senza quello revocato fra tanti dubbi. Sarebbero 8 anche per la Pro se non ci fosse stato di mezzo il Toro. Qui bisogna risalire a più di un secolo fa, febbraio 1910, quando i granata vinsero 4-2 a Vercelli e costrinsero le «bianche casacche» ormai lanciate verso il terzo titolo consecutivo (poi ne seguirono altri tre) allo spareggio finale con l’Inter. La Pro, decimata di giocatori chiamati alle armi, chiese il rinvio dell’incontro, che la federazione negò. A quei tempi l’orgoglio e i princìpi valevano più di uno scudetto: la Pro protestò civilmente mandando in campo i ragazzini. E perse 10-3.

Mai rivali per un titolo
In campionato due parabole che si erano appena sfiorate, fra la Pro e il Toro. E due genesi diverse. Vercelli s’era inventata uno squadrone tutto italiano grazie al genio di Marcello Bertinetti, olimpionico di sciabola, che aveva riciclato come calciatori molti spadaccini. Il principio della scherma era: primo non farsi infilzare e la Pro divenne famosa per la difesa di ferro e tante vittorie per 1-0. Dopo l’apoteosi degli Anni Dieci del Novecento cominciava il calo, mentre salivano i granata ispirati dagli svizzeri, importatori di calcio oltre che di tessuti. Con il prezioso aiuto di Enrico De Maria, storico collega vercellese, ricordiamo che si sono incontrati 34 volte in serie A i due club, 16 a 15 per i Bianchi e 3 pareggi. Mai un feroce scontro scudetto. Nell’ultimo campionato in comune, 1934/35, due vittorie granata. La Pro non poteva più reggere il confronto con un calcio dove comandava ormai il denaro. Scese in B, poi in C. Coppa Italia nel ’58 e finalmente stasera. Benvenuto, derby piemontese.

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Papa Francesco incontra donne liberate dal racket della prostituzione: “Vi chiedo perdono per quei cattolici che vi hanno sfruttato e abusato”

Posté par atempodiblog le 13 août 2016

Papa Francesco incontra donne liberate dal racket della prostituzione: “Vi chiedo perdono per quei cattolici che vi hanno sfruttato e abusato”
Visita del Pontefice alla comunità di recupero fondata da don Benzi in via di  Pietralagta a Roma dove ha incontrato 20 ragazze
della Redazione Online di La7

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Papa Francesco si è recato a sorpresa in via di Pietralata a Roma, dove in un complesso condominiale ha incontrato 20 ragazze – sottratte alla tratta e allo sfruttamento sessuale sui marciapiedi della Capitale e di altre città italiane – che partecipano al progetto di recupero della Comunità Giovanni XXIII fondata da Don Benzi. Le ragazze aprendo la porta dell’appartamento privato, tutto si aspettavano tranne che vedere Papa Francesco. Il Papa si è intrattenuto per oltre un’ora con tanta affabilità, ascoltando le tristi esperienze di queste ragazze e le ha incoraggiate a guardare avanti con tanta fiducia.

Alle ex prostitute ha chiesto perdono per il male subito: “vi chiedo perdono” ha detto “per cattolici che vi hanno sfruttato e abusato”.

Erano presenti all’incontro il responsabile nazionale della Comunità Giovanni XXII Giovanni Paolo Ramonda, l’assistente spirituale don Aldo Bonaiuto ed alcuni operatori in strada della Comunità.

Un’attenzione particolare da parte del Papa a questo gruppo rappresentativo di ragazze, dell’età media di 30 anni, provenienti dalla Romania, dalla Nigeria, dall’Ucraina,dall’albania e dall’Italia.

“In un momento di vacanza quando più forte si fa il senso del divertimento, spesso non curante delle regole, il segno di Papa Francesco – ha commentato l’arcivescovo Rino Fisichella che accompagnava il Pontefice – è stato quello di voler restituire piena dignità a queste ragazze che hanno subito forti violenze, soprusi, e intimidazioni dal racket della prostituzione”.

La visita di oggi rappresenta il “segno giubilare” del mese di agosto, con il quale, ha aggiunto Fisichella, “Papa Francesco ha voluto ribadire che la Misericordia non è una parola astratta ma un’azione concreta con la quale ci si impegna anche nel sociale per restituire dignità a persone ottoposte a nuove forme di schiavitù”.

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Il beato Claudio e la sua Piccola Lourdes

Posté par atempodiblog le 11 août 2016

Beato Claudio (Riccardo) Granzotto Francescano
Santa Lucia di Piave, Treviso, 23 agosto 1900 – Chiampo, Vicenza, 15 agosto 1947
Memoria liturgica: 15 agosto
di Paolo Risso – Santiebeati

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Nel giorno della solennità dell’Assunzione della Beata Vergine Maria, la Chiesa ricorda il Beato Claudio. Nasce a Santa Lucia di Piave (Treviso) il 23 agosto 1900, da umile famiglia. Studia all’Accademia di Venezia, dedicandosi alla scultura. Nel 1930 vince il concorso per la statua del Giocatore di palla da collocare nel Foro Mussolini di Roma, opera però mai realizzata perché il Granzotto rifiuta di iscriversi al partito fascista. Alcuni suoi lavori si trovano nel paese natale, in particolare nella chiesa parrocchiale di S. Lucia e nella gipsoteca a lui dedicata, ma anche a Vittorio Veneto, a Cavalier in provincia di Treviso e a Chiampo (VI), nel cui museo sono conservati gessi originali e oggetti appartenuti al beato. Nel 1935 entra nell’ordine dei Frati Minori. La Congregazione per le Cause dei Santi nel 1993 riconosce l’autenticità del primo miracolo fatto da fra’ Claudio ad un bambino di Verona affetto da peridacriocistite, guarito improvvisamente e senza postumi. È beatificato da Giovanni Paolo II nel 1994. (Avvenire)

Martirologio Romano: A Padova, beato Claudio (Riccardo) Granzotto, religioso dell’Ordine dei Frati Minori, che unì l’esercizio della professione religiosa al suo mestiere di scultore e raggiunse in pochi anni la perfezione nell’imitazione di Cristo.

Nell’ottobre 1997, durante una seria malattia di mia madre, mi imbattei in una foto del B. Claudio Granzotto. Sopra vi era scritto un breve cenno biografico e la sua promessa: “Aiuterò e consolerò tutti!”. Lo pregai intensamente e la mamma guarì assai bene. Da allora diventai suo amico. Ne sperimentai la potenza d’intercessione presso Dio, diverse altre volte. Diventò mio amico, insieme agli altri santi del mio “Paradiso personale”.
Ne lessi gli scritti, le biografie. Ne rimasi incantato, e rileggere la sua vita è una meraviglia sempre maggiore ogni volta.

Solo 47 anni
Riccardo Granzotto nacque il 23 agosto 1900 a S. Lucia di Piave (Treviso) da umilissima famiglia. Pochi studi elementari, poi il lavoro insieme al fratello maggiore, che faceva il muratore.
Il servizio militare, verso la fine della 1a guerra mondiale, protratto a lungo. È un giovane cristiano buono e estroso. Disegna assai bene e modella figure bellissime. Inclinato all’arte.
Congedato, comincia a scolpire. Con l’aiuto della famiglia, frequenta l’accademia di Venezia e ottiene a pieni voti il diploma di scultore. In pochi anni, crea una bellissima serie di opere ammirate da molti. Gli brilla davanti un avvenire splendido di artista.
Ma Riccardo, a un certo punto della sua giovinezza, sente il fascino straordinario di Gesù, che è la Verità, l’Amore, la Bellezza infinita, assoluta e eterna.

Questo Gesù, l’Uomo-Dio, ecco la scoperta mirabile – è vivo, proprio Lui, nell’Eucaristia, offerto in sacrificio sull’altare, presente e operante nel Tabernacolo. Riccardo chiede al suo parroco di poter passare le notti in preghiera, prostrato davanti al Gesù Eucaristico: mai sazio di adorazione e di preghiera, di stare con Lui: “perché se Gesù è lì ed è tutto, tu dove vuoi andare?”.

A 33 anni, entra nell’Ordine Francescano, come “fratello”, declinando l’invito dei superiori a accedere al sacerdozio. Veste il saio dei Minori e diventa fra Claudio.
Può continuare la sua opera di artista e realizza opere meravigliose di scultura sacra: immagini di Gesù, della Madonna, dei santi che lui sembra aver visto in Paradiso, come diceva il Beato Angelico (+1455) dei suoi dipinti. Di questo però lasciamo parlare ai competenti di arte, anche perché il capolavoro più sublime, realizzato da lui, in risposta a Dio, è la sua vita.

Sempre mite, umile, sorridente, vive nella preghiera, preferendo gli uffici più umili e nascosti. Si esercita in aspre penitenze, dimostra grande amore ai poveri e, per sfamarli, durante la guerra, rinuncia molto spesso al proprio cibo.

Il suo amore, il suo tesoro, la sua passione assoluta è Gesù eucaristico. Assai oltre le preghiere stabilite dalla regola, il suo tempo, gran parte delle notti, dopo giornate faticose, lo passa davanti a Lui, a intercedere per i peccatori, per la santificazione dei sacerdoti, per la Chiesa e per tutte le anime.

Offerta a Dio la sua vita, per ottenere tempi e costumi migliori, spira il giorno dell’Assunta, il 15 agosto 1947, come aveva predetto. Un’esistenza breve, intensa, solo di 47 anni, percorsa da un fuoco che lo consuma, il medesimo fuoco che Gesù ha portato sulla terra: una passione incontenibile, bruciante per Lui, Gesù, Sacerdote e Ostia del suo sacrificio.

Beato-Claudio-e-piccola-Lourdes dans Fede, morale e teologia

“Ho visto Gesù”
Occorre un libro intero per illustrare questa passione eucaristica, ma dobbiamo limitarci a pochi frammenti che cogliamo tali quali dalla sua biografia. Tutti sanno, nei conventi dove è passato, da Vittorio Veneto a Barbana, a Chiampo, che fra Claudio ha un rapporto straordinario con il Signore, che passa le notti in preghiera ed è rapito dall’estasi per Lui.

Un giorno, fra Epifanio Urbani gli domanda: “Hai mai visto il Signore?”. Fra Claudio, candidamente, gli risponde: “Sì, una volta, ho visto Gesù. Era maestoso. Una lunga veste bianca gli cadeva fino ai piedi. Gli occhi… oh, gli occhi non li so descrivere. Com’era bello! Lo guardavo e Egli pure mi guardava. Mi invitò a seguirlo… Io sono andato con Lui”.

Il medesimo fra Epifanio gli domanda ancora: “Quanti libri bisogna leggere per scoprire il segreto della preghiera?”. Fra Claudio risponde: “Un libro solo: il Crocifisso”. Poi, indicando il Tabernacolo, continua: “Nell’Eucaristia c’è la sorgente della vera pace. Quanta gioia darebbero a Gesù i sacerdoti, i religiosi, i fedeli, se fossero spesso in adorazione davanti al Tabernacolo! Quale felicità ne avrebbero! Quale divino potere hanno gli uomini: amare Dio!”.

Man mano che l’ascesa spirituale avvicina fra Claudio a Gesù, il colloquio con Lui si fa più intimo. Nulla gli è più gioioso che stare davanti a Lui, nel Tabernacolo, meglio ancora quando è esposto solennemente sull’altare.
L’adorazione eucaristica è la sua vera ricchezza e modella la sua fisionomia a immagine di Gesù.
Tutti notano che lo fa alla maniera dei santi. Tutti vedono il suo volto che si illumina, quando adora.
Chi lo guarda, anche solo una volta, deve cambiare vita e dare la vita a Dio, totalmente. Un esperto maestro di spirito, il P. Fuin, nota dapprima nei suoi lineamenti la tensione di chi si concentra, cui segue l’abbandono in una pace che è vera beatitudine. Allora nessuno e niente lo distrae: “c’è Gesù e Lui basta, perché Lui è tutto”.

Neppure le inclemenze del tempo lo ostacolano. Il freddo intenso dell’inverno, in chiese gelide, non lo distoglie un minuto dalla sua preghiera, neppure dall’adorazione notturna. Chi lo vede immobile davanti all’altare nella morsa del gelo, sente un brivido in tutte le membra. Per fra Claudio però il gelo non esiste: c’è solo il fuoco dell’amore che lo inchioda a Gesù Eucaristico.

Nell’ultima malattia, il tumore gli tortura il cervello. Incapace di fissare il Tabernacolo, prega con gli occhi chiusi. Il dolore non gli spegne la pietà dell’anima ormai prossima all’incontro con Lui.

“Dalla Messa, la salvezza del mondo”
Davanti al Tabernacolo, un giorno pensa che pur non avendo studiato teologia, tuttavia nulla gli impedisce di spiccare il volto verso il suo Dio. “Quando sarò preparato – ha scritto già quando era novizio – chiederò a Dio di essere crocifisso nel corpo e nell’anima in un supremo martirio di amore”.
Così, quando Gesù lo ispira, offre la sua vita a Dio per espiare i peccati del mondo e per la salvezza delle anime. Salirà l’altare non come sacerdote, ma come vittima.

Dopo una lunga preparazione spirituale, con il consenso del confessore, nel modo di un sacro rito, fra Claudio chiede a Dio di soffrire e di morire in totale abbandono alla divina volontà come Gesù sulla croce. In breve, ha i segni che Dio ha accettato la sua offerta.

Il Sacrifico di Gesù, consumato sul Calvario, si perpetua nella Santa Messa. Fra Claudio penetra il mistero della Messa e desidera essere coinvolto nel dramma della Passione salvifica del Cristo. Con questo segreto nel cuore, partecipa a tutte le Messe possibili, servendo all’altare e rinnovando la sua offerta vittimale – infine il suo olocausto – al Signore.

I confratelli sacerdoti lo ammirano e lo invidiano santamente. I fedeli guardano a lui come a modello per crescere nella fede.
Ora che sta per dare tutto, fra Claudio ha acquistato un aspetto jeratico come un antico sacerdote, e mansueto come una vittima che attende l’ora del sacrificio supremo di adorazione e di amore. Tutto si compie in quei giorni di agosto 1947, nella novena dell’Assunta, quando Maria SS.ma, la Madre Corredentrice, lo configura totalmente al suo Figlio Gesù, per chiamarlo a Sé, proprio il giorno della sua gloria.
La morte, quasi come un’assunzione.

Tra le sue note d’anima, allora si ritrova anche un foglietto dimenticato su cui fra Claudio ha scritto: “Sacerdote, quanto è grande la tua dignità. Celebra devotamente la Messa. Dalla Messa, dipende la salvezza del mondo”.
L’olocausto, come desiderava, è accolto: “Tutto è compiuto”.

La data di culto è stata fissata nel Martyrologium Romanum al 15 agosto, mentre l’Ordine dei Frati Minori e la diocesi di Vicenza lo ricordano il 2 settembre.

Beato-Claudio-Riccardo-Granzotto-Piccola-Lourdes dans Riflessioni

La grotta della Piccola Lourdes del beato Claudio
Tratto da: Santuario di Chiampo

La Grotta è il fulcro di tutto il grande movimento religioso-mariano, nato dalla volontà dei Frati Minori di ripresentare qui a Chiampo l’ambiente e il messaggio di Lourdes.

Edificata in cemento e ferro nel 1935 dal Beato Claudio Granzotto con devozione e competenza, è copia fedele di quella dei Pirenei in Francia.

La statua dell’Immacolata – in marmo di Carrara – fu scolpita dal Beato, che infuse nel marmo la sua profonda venerazione alla Vergine.


Durante la costruzione della grotta, quando sembrava venir interrotta da contrarietà insormontabili e restare un sogno infranto, il beato Claudio profetizzò: “Questa grotta diventerà un luogo di preghiera e qui verrà tanta gente…”.

Inaugurata il 29 Settembre 1935, si può considerare a pieno titolo come “Icona” ovvero una riproduzione che incorpora in se, per fedeltà e precisione d’esecuzione, lo spirito dell’originale.

Ai piedi della Grotta c’è la tomba del Beato Claudio, dove il devoto si ferma a parlare con il beato e sperimentare la sua promessa: “aiuterò e consolerò tutti”.

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Un gioiello nel cuore di Napoli: La Basilica di Santa Chiara

Posté par atempodiblog le 11 août 2016

Tesori d’Italia
Un gioiello nel cuore di Napoli: La Basilica di Santa Chiara

Il complesso monumentale di Santa Chiara a Napoli è senz’altro uno dei maggiori capolavori dell’arte italiana, phanteon della dinastia dei Borbone delle Due Sicilie e centro di spiritualità francescana noto in tutto il mondo.
di Penelope Salomone – Radici Cristiane (2009)

Un gioiello nel cuore di Napoli: La Basilica di Santa Chiara dans Apparizioni mariane e santuari basilica_di_santa_chiara

“Si dica o racconti quel che si vuole, ma qui ogni attesa è superata”: Così Napoli, nella seconda metà del Settecento, sbalordiva il sommo poeta tedesco Johann Wolfgang Goethe.
Impossibile dar torto a un così raffinato viaggiatore, tanto più che ancora oggi il capoluogo campano continua ad attrarre visitatori da tutto il mondo. Malgrado la cementificazione selvaggia, la disoccupazione, la malavita e le mille e mille emergenze che affliggono giorno per giorno gli abitanti di questa città, affascinante e contraddittoria, da sempre al centro dell’universale attenzione.
Dopo (e anche prima) di Goethe è stato un coro ininterrotto di meraviglie. Lo scenario impareggiabile del Golfo. Il fascino (terrificante) del Vesuvio. I luoghi del mito. L’estro e il genio degli artisti partenopei. Una tradizione canora e musicale nonché teatrale (Bracco, Viviani, i De Filippo, Totò) pressoché unica. La creatività e l’abilità degli artigiani. Le leggendarie delizie gastronomiche (pizza, spaghetti, babà, sfogliatelle, pastiere); non solo cibi golosi, ma potenti detonatori della fantasia.

Ventisetti secoli di storia, arte, tradizione
A questo punto, però, dobbiamo terminare questa fuggevole lista, senza fine. E saltiamo al centro storico partenopeo: Dopo quello di Roma, il più esteso del pianeta, iscritto all’UNESCO, 14 anni fa, nella Lista del Patrimonio Mondiale dell’Umanità, racchiude le testimonianze di 27 secoli di storia.
Infatti, esso comprende la città greco-romana, le mura medievali, quattro castelli (un primato, nessun’altra città ne possiede altrettanti), innumerevoli porte, palazzi storici, piazze e fontane monumentali, due regge, quattro grandi parchi (la Villa Comunale, il Parco Virgiliano, Capodimonte e la Floridiana), più di 20 tra musei e pinacoteche, il Lungomare, quattro porti turistici, due isolotti e, infine, un reticolo di cunicoli sotterranei risalenti al periodo classico.

Città dello spirito cristiano
Ma Napoli è soprattutto una delle città a più alta densità di chiese e di conventi (pur se molti edifici di culto hanno mutato funzione nel corso del tempo) e tabernacoli disseminati praticamente ovunque, emblema della fervida religiosità della sua gente che attraverso i millenni ha maturato la propria vocazione verso i valori dello spirito.
D’altronde è qui, e non altrove, che ogni anno, puntuale il 19 settembre e la prima domenica di maggio si ripete il miracolo di San Gennaro allorché il sangue del Santo, conservato nelle ampolline custodite nel Duomo, si scioglie sotto gli occhi di migliaia di fedeli (e di curiosi). Sicuramente un’esperienza che lascia nell’animo un segno indelebile.

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Il complesso monumentale
A tal proposito a tutti coloro che sono alla ricerca di un autentico lifting dello spirito, suggeriamo una sosta in un angolo di quiete, avvolto da un’atmosfera romantica, pittoresca e meditativa: il complesso monumentale di Santa Chiara.
Cattura solo il cuore del viaggiatore attento all’estetica, l’estimatore del particolare, l’anima sensibile di chi sa coglierne la bellezza silenziosa tra il dedalo di vicoli, brulicanti di folla, con gli (immancabili) panni stesi ad asciugare al sole.
Dalle finestre del vicino Palazzo Filomarino, in cui visse per 38 anni insieme ai suoi libri che oggi costituiscono la ricca e articolata biblioteca dell’Istituto Italiano per gli Studi Storici, il filosofo Benedetto Croce vedeva svettare il possente campanile trecentesco. “Mi grandeggia innanzi il campanile di Santa Chiara […] innalza i suoi tre piani dai finestroni in stile romanzo, dorico e ionico”.
La maestosa basilica alta oltre 40 metri, in tufo grigio (estratto dalle cave vesuviane) e il monastero annesso (che per secoli ha accolto monache discendenti da famiglie nobiliari) furono fortemente voluti da Sancia di Maiorca, seconda moglie di Roberto d’Angiò, attratta dalla vita claustrale e devota alla Santa d’Assisi.
La prima pietra fu posta nel 1310. I lavori, diretti da Gagliardo Primario e Lionardo di Vito durarono 30 lunghi anni: nel 1340, la chiesa fu aperta al culto. Tuttavia già da qualche tempo si era inaugurata a Napoli, grazie agli Angioini, una felice stagione architettonica che tra il XII e XV secolo arricchì la città di meravigliose chiese come Sant’Egidio (costruita nel 1270 da Pietro di Angricourt), Santa Maria la Nova, il Duomo, la Chiesa del Carmine, Santa Maria Incoronata dove operarono artisti eccelsi quali Simone Martini e Giotto.
La cittadella francescana fu realizzata costruendo due edifici contigui e, ovviamente, separati: un monastero, destinato ad ospitare le clarisse, e un convento per i frati minori francescani. Questa originale conformazione a “convento doppio” fu possibile grazie all’approvazione di Papa Clemente V ottenuta nel 1317.
La chiesa poi tra il 1742 e il 1747 fu interamente ricoperta da ornamenti barocchi: marmi policromi, stucchi, cornici dorate. Il tetto a capriate fu nascosto da dipinti di vari pittori napoletani dell’epoca quali il de Mura, il Conca, Bonito, de Maio e Massotti.
La memoria di tutta questa pletorica trasformazione oggi si ravvisa solo nelle foto dei Fratelli Alinari, perché durante il bombardamento del 4 agosto 1943 l’edificio fu colpito da spezzoni incendiati e bruciò per sei giorni.
Immediato, anche grazie al fervido impegno di padre Gaudenzio dell’Aja, seppur laborioso fu il ripristino architettonico che riportò Santa Chiara in dieci anni alla primitiva e austera struttura gotico provenzale, così come la possiamo ammirare oggi.
Alle spalle dell’altare è situato il Coro delle clarisse, composto da tre navate. Su una parete sopravvive solitario (purtroppo) un frammento di un affresco raffigurante la Crocifissione in cui si riconosce la mano de “il più sovrano maestro stato in dipintura”, ovvero Giotto, chiamato a decorare la chiesa nel 1326.
Nel presbiterio vi è quanto si è riusciti a recuperare del grandioso sepolcro di Roberto d’Angiò, opera dei fratelli Giovanni e Pacio Bertini, la tomba di Maria di Valois e di Carlo di Calabria realizzate dallo scultore toscano Tino di Camaino e nelle cappelle sarcofagi e tombe trecentesche fortunatamente salvate dalle rovine.
Nella prima cappella a sinistra adiacente all’ingresso riposa Salvo D’Acquisto. Il giovane carabiniere napoletano che s’immolò nel settembre del 1943 a Torre Palidoro vicino Roma per salvare 22 ostaggi civili ritenuti responsabili di un presunto attentato contro le forze armate tedesche.
Il bellissimo pavimento in marmo è firmato dal fiorentino Ferdinado Fuga, architetto di corte di Carlo III di Borbone che, tra l’altro, nella capitale del Regno delle Due Sicilie realizzò l’Albergo dei Poveri e i Granili, ma aveva già legato il suo nome a Roma alla manica lunga del Quirinale, ai Palazzi Corsini e della Consulta e alla facciata di Santa Maria Maggiore.

Pantheon dei Borbone delle Due Sicilie
La basilica angioina accoglie il Pantheon della dinastia borbonica. Per un certo tempo le spoglie dei sovrani e principi della dinastia delle Due Sicilie furono deposte in un ambiente adiacente al coro dei frati, malgrado fossero stati presentati tre progetti sotto i regnanti Ferdinando II e Francesco II per realizzare la Reale Cappella funebre.
Un contributo decisivo alla risoluzione della controversa vicenda nel pieno rispetto della integrità architettonica del luogo sacro è stato dato da Padre Gaudenzio, storico e saggista, impegnato non solo nel restauro della Basilica ma anche nella redazione corretta della genealogia del Casato delle Due Sicilie da Carlo di Borbone a Francesco II.
Grazie a lui, il 10 aprile 1984 le salme del Re Francesco II di Borbone, della regina Maria Sofia e della loro figliola Maria Cristina Pia furono riportate nella loro capitale e tumulate in Santa Chiara.

Presepe_Santa_Chiara_Napoli

Il chiostro delle clarisse
Dal cortile si entra nel celebre chiostro delle clarisse, che ormai non manca mai nell’Italia illustrata che dilaga dai rotocalchi per la gioia dei turisti del Terzo millennio che in gruppo accorrono a consumare rapidamente le bellezze storiche nazionali.
Mentre in questa oasi di pace, di ordine e contemplazione, lontana dalla confusione ansiogena della (pur vicina) frenetica vita cittadina, sarebbe consigliabile una lunga sosta senza fretta per recepire appieno l’incantesimo magico.
Le pareti sono interamente decorate da affreschi secenteschi, raffiguranti santi, allegorie, scene dell’Antico Testamento e la rappresentazione veristica della “Morte di una monaca” vicino all’ingresso del cimitero delle clarisse: la semplicità e l’equilibrio della pittura, tanto e ovunque presente, diventano stile supremo, eleganza massima.
Il muro perimetrale del chiostro, le panche e i pilastri ottogonali che sorreggevano il pergolato (non più ripristinato nell’ultimo restauro) furono rivestiti, nel 1742 durante il badessato di Ippolita Carminagno, dall’architetto Domenico Antonio Vaccaro, da mattonelle maiolicate vivamente colorate di blu, verde  e giallo.

Su di esse i mastri rigiolari Donato e Giuseppe Massa, padre e figlio, eredi di una tradizione artigianale medievale che aveva raggiunto l’apice con l’arrivo a Napoli degli Aragonesi, riprodussero magistralmente scene bucoliche, coreografiche tarantelle, racconti mitologici e trionfi di fiori e frutta.
La cornice artistica si fonde perfettamente con la balsamica cornice naturale dell’incantevole giardino delimitato da due vialetti punteggiate da piante di agrumi. In questo scenario di confortante tranquillità e mirabile armonia non mancate di visitare anche il museo, il presepe settecentesco e l’area archeologica.

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Card. Bagnasco: cristiani discriminati in nome della tolleranza

Posté par atempodiblog le 10 août 2016

Card. Bagnasco: cristiani discriminati in nome della tolleranza
“Il cristianesimo potrà essere ridotto in visibile minoranza, ma non potrà mai essere cancellato »: lo ha detto il cardinale Angelo Bagnasco nella Messa celebrata stamane nella Cattedrale di Genova in occasione della Festa di San Lorenzo, patrono della città. Il porporato ha denunciato i tentativi di omologazione culturale da parte del cosiddetto pensiero unico. Proprio oggi il Papa ha pubblicato un tweet: “Una società con culture diverse deve cercare l’unità nel rispetto”.
di Sergio Centofanti – Radio Vaticana

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Il diacono San Lorenzo viene ucciso il 10 agosto 258 per ordine dell’imperatore romano Valeriano che cerca di rafforzare l’unità dell’Impero attorno al culto pagano. I cristiani sono troppo diversi dagli altri, minano l’ideologia unica dello Stato: vanno eliminati. Il cardinale Bagnasco parte da questa premessa storica per parlare delle attuali persecuzioni cristiane: “Mentre continuano quelle classiche, che conosciamo da una storia che si credeva lontana – ha affermato – oggi si aggiungono forme raffinate ma non meno crudeli, legalizzate ma non meno ingiuste”. “Il nostro vecchio occidente – ha proseguito – ne è esperto, malato com’è delle proprie fallimentari ideologie: il continente dei diritti sempre più discrimina il cristianesimo” ma “nessun potente della terra potrà possedere per sempre il cuore dell’uomo attraverso la propaganda delle menzogne, con promesse truccate, democrazie apparenti”.

Oggi – ha detto l’arcivescovo di Genova e presidente della Cei – “in nome di valori come l’uguaglianza, la tolleranza, i diritti, si pretende di emarginare il cristianesimo e si vuole creare un ordine mondiale senza Dio, dove le diversità da una parte vengono esaltate e dall’altra vengono schiacciate”. Esiste “la volontà prepotente di omologare, di voler condizionare le visioni profonde della vita e dei comportamenti, il sistematico azzeramento delle identità culturali”. Non è “un cammino rispettoso verso un’Unione Europea armonica e solidale, certamente necessaria, ma piuttosto verso una dannosa rifondazione continentale che i popoli sentono pesante e arrogante, dove il cristianesimo viene considerato divisivo perché non si prostra agli imperatori di turno”. Ma “la storia attesta che quando i potenti si concentrano sulla propria sopravvivenza per ambizioni personali, e rinunciano alla res publica, è l’ora della decadenza”.

“La crisi del mondo – ha spiegato – è innanzitutto una crisi spirituale” e “il nostro continente, di fronte alle sfide odierne, balbetta perché è smarrito e intimorito, perché non sa più chi è, avendo tagliato le sue origini culturali e religiose, fino a sentire vergogna delle proprie tradizioni, dei propri simboli e dei propri riti”.

Parlando di San Lorenzo, il porporato ha quindi ricordato che “il martire non è colui che perde la vita nel tentativo di toglierla ad altri, ma colui che offre la sua vita perché altri l’abbiano”. Come ricorda il Vangelo di questa memoria liturgica: “Se il chicco di grano muore, produce molto frutto”, e “i frutti veri sono vita non morte. La vita umana è sacra perché viene da Dio – ha concluso il cardinale Bagnasco – pertanto va sempre rispettata e nessuno la può togliere a sé o agli altri”.

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