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Papa a monache di clausura: “No a tentazione dei numeri. Sì a social network, ma non diventino occasione di evasione”

Posté par atempodiblog le 23 juillet 2016

Papa a monache di clausura: “No a tentazione dei numeri. Sì a social network, ma non diventino occasione di evasione”
Pubblicata oggi la Costituzione apostolica «Vultum Dei quaerere» sulla vita contemplativa femminile
di Salvatore Cernuzio – Zenit

Papa a monache di clausura: “No a tentazione dei numeri. Sì a social network, ma non diventino occasione di evasione” dans Articoli di Giornali e News Attento_discernimento_vocazionale_e_spirituale

“Un valido aiuto per rinnovare la vita e la missione” dei monasteri delle suore contemplative nella Chiesa e nel mondo, affinché possano essere “fari” che “illuminano il cammino degli uomini e delle donne del nostro tempo” e rendano il mondo “più umano ed evangelico”. Si potrebbe sintetizzare così la Costituzione apostolica «Vultum Dei quaerere» (La ricerca del volto di Dio) di Papa Francesco, pubblicata oggi ma firmata lo scorso 29 giugno.

Un documento che – in 38 punti e 14 articoli – abroga norme in materia risalenti ai tempi di Pio XII e mira a configurare meglio il carisma delle consacrate, offrendo indicazioni pratiche su ambiti anche giuridici e amministrativi, nonché spirituali. Il tutto tenendo conto “dell’intenso e fecondo cammino percorso dalla Chiesa stessa negli ultimi decenni” e “alla luce degli insegnamenti del Concilio Ecumenico Vaticano II, sia delle mutate condizioni socio-culturali”.

Il testo del Pontefice abbraccia, quindi, temi come la scelta e la cura delle vocazioni, in un momento in cui nell’attuale contesto socio-culturale e religioso ne rileva la forte “crisi”. Per questo Francesco invita ad un attento “discernimento vocazionale e spirituale” e mette in guardia dalla “tentazione del numero e della efficienza” che porta spesso al “reclutamento di candidate da altri Paesi con l’unico fine di salvaguardare la sopravvivenza del monastero”.

Anzi, il Papa propone “la chiusura” di un istituto “qualora non sussistano i requisiti per una reale autonomia di un monastero”. In alternativa c’è una “rivitalizzazione” dello stesso attraverso un “processo di accompagnamento” posto in essere da una commissione formata ad hoc dalla Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica. “All’autonomia giuridica deve corrispondere una reale autonomia di vita” precisa infatti il Pontefice; ciò “significa: un numero anche minimo di sorelle, purché la maggior parte non sia di età avanzata; la necessaria vitalità nel vivere e trasmettere il carisma; la reale capacità formativa e di governo; la dignità e la qualità della vita liturgica, fraterna e spirituale; la significatività e l’inserimento nella Chiesa locale; la possibilità di sussistenza; un’adeguata struttura dell’edificio monastico”.

Tra le vie da percorrere, Papa Bergoglio indica anche il rafforzamento delle Federazioni. “Inizialmente tutti i monasteri dovranno far parte di una federazione”, stabilisce il documento. “Se per ragioni speciali un monastero non potrà essere federato, con il voto del capitolo, si chieda il permesso alla Santa Sede, alla quale compete fare l’adeguato discernimento, per consentire al monastero di non appartenere ad una federazione”. Lo scopo principale “è promuovere la vita contemplativa nei monasteri che ne fanno parte, secondo le esigenze del proprio carisma, e garantire l’aiuto nella formazione permanente e iniziale, nonché nelle necessità concrete, attraverso lo scambio di monache e la condivisione dei beni materiali”. Tale processo – si legge nel testo – “potrebbe prevedere anche l’affiliazione ad un altro monastero o l’affidamento alla Presidente della federazione, se il monastero è federato, con il suo Consiglio”.

Nella Costituzione apostolica vengono poi messi a fuoco “i dodici temi della vita consacrata in generale e, in particolare, della tradizione monastica”. Quindi: “Formazione, preghiera, Parola di Dio, Eucaristia e Riconciliazione, vita fraterna in comunità, autonomia, federazioni, clausura, lavoro, silenzio, mezzi di comunicazione e ascesi”.

Prima però il Papa fa una premessa che riguarda i nuovi mezzi di comunicazione e i social network che – osserva – “possono essere strumenti utili per la formazione e la comunicazione”, ma rendono necessario “un prudente discernimento affinché siano al servizio della formazione alla vita contemplativa e delle comunicazioni necessarie”. Guai quindi a rendere le nuove tecnologie “occasione di dissipazione o di evasione dalla vita fraterna in comunità” o ancora peggio “danno per la vostra vocazione” o “ostacolo per la vostra vita interamente dedita alla contemplazione”.

Per questo il Santo Padre chiede alle monache di vivere una dimensione ascetica, che, tradotto, significa “liberarsi da tutto quello che è proprio della ‘mondanità’ per vivere la logica del Vangelo che è logica di dono”. Ciò implica “sobrietà, distacco dalle cose, consegna di sé stessi nell’obbedienza, trasparenza nelle relazioni”. “Tutto per voi – scrive Francesco – è reso più radicale ed esigente dalla scelta di rinuncia anche allo spazio, ai contatti, a tanti beni del creato, come modo particolare di donare il ‘corpo’. L’aver scelto una vita di stabilità – prosegue – diventa segno eloquente di fedeltà per il nostro mondo globalizzato e abituato a spostamenti sempre più rapidi e facili, con il rischio di non mettere mai radici”.

In tal senso, la vita claustrale rende “più esigente” anche il campo delle “relazioni fraterne”, imponendo nelle comunità “relazioni continue e ravvicinate”. “Voi potete essere di esempio e aiuto al popolo di Dio e all’umanità di oggi, segnata e a volte lacerata da tante divisioni, a restare accanto al fratello e alla sorella anche là dove vi sono diversità da comporre, tensioni e conflitti da gestire, fragilità da accogliere”, assicura Bergoglio.

“Non è facile – scrive in un altro punto – che questo mondo, per lo meno quella larga parte di esso che obbedisce a logiche di potere, economiche e consumistiche, comprenda la vostra speciale vocazione e la vostra missione nascosta, eppure ne ha immensamente bisogno”. Ne ha bisogno “come il marinaio in alto mare ha bisogno del faro che indichi la rotta per giungere al porto”.

“Siate fari, per i vicini e soprattutto per i lontani” è l’esortazione del Papa argentino, “siate fiaccole che accompagnano il cammino degli uomini e delle donne nella notte oscura del tempo” e “sentinelle del mattino” che non hanno “timore di vivere la gioia della vita evangelica” secondo il proprio carisma.

Su questa scia, il Papa richiama ad un maggior impegno verso poveri e sofferenti e rammenta il valore del lavoro che – dice alle monache – “vi mette in stretta relazione con quanti lavorano con responsabilità per vivere del frutto delle proprie mani; vi fa essere solidali con i poveri che non possono vivere senza lavorare e che spesso, pur lavorando, hanno bisogno del provvidenziale aiuto dei fratelli”.

“Il frutto del lavoro non abbia soltanto lo scopo di assicurare un sostentamento dignitoso ma anche, quando possibile, di sovvenire alle necessità dei poveri e dei monasteri bisognosi”, afferma infatti Papa Francesco. Perciò “anche se alcune comunità monastiche possono avere delle rendite, in accordo con il diritto proprio, non si esimano comunque dal dovere di lavorare”. Il lavoro, tuttavia, non deve estinguere lo spirito di contemplazione, ma va compiuto “con devozione e fedeltà, senza lasciarsi condizionare dalla mentalità efficientistica e dall’attivismo della cultura contemporanea”. Il motto è dunque quello della tradizione benedettina: “Ora et labora”.

Oltre che dal lavoro, il ritmo giornaliero di ogni monastero deve prevedere “opportuni momenti di silenzio, così che venga favorito il clima di preghiera e di contemplazione”, si legge nella Costituzione apostolica. Il silenzio è infatti “spazio necessario di ascolto eruminatio della Parola”; “la vostra vita integralmente contemplativa richiede tempo e capacità di fare silenzio per ascoltare Dio e il grido dell’umanità”, afferma il Papa. “Taccia dunque la lingua della carne e parli quella dello Spirito, mossa dall’amore che ognuna di voi ha per il suo Signore”.

Su un piano più specificamente spirituale, il Papa mette in guardia le contemplative da alcune tentazioni, tra le quali individua come “una delle più insidiose” quella che i Padri del deserto chiamavano “demonio meridiano”. Ovvero “la tentazione che sfocia nell’apatia, nella routine, nella demotivazione, nell’accidia paralizzante”. Questo – dice il Santo Padre cita la Evangelii gaudium – “porta lentamente alla ‘psicologia della tomba’, che poco a poco trasforma i cristiani in mummie da museo. Delusi dalla realtà, dalla Chiesa o da se stessi, vivono la costante tentazione di attaccarsi a una tristezza dolciastra, senza speranza, che si impadronisce del cuore come ‘il più prezioso degli elisir del demonio’”.

Invece la missione delle monache è tutt’altra, e cioè essere “scala” come Maria “attraverso la quale Dio scende per incontrare l’uomo e l’uomo sale per incontrare Dio”. Al documento seguirà una Istruzione che la Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata emanerà prossimamente sugli stessi temi.

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La dignità umana se ne andrà in fumo

Posté par atempodiblog le 23 juillet 2016

La Cannabis e i rischi di una legalizzazione
La dignità umana se ne andrà in fumo
Giacomo Samek Lodovici – Avvenire

La dignità umana se ne andrà in fumo dans Articoli di Giornali e News cannabis

Il 25 luglio è calendarizzata alla Camera una proposta di legge permissiva che modificherebbe la normativa circa la detenzione e la coltivazione delle droghe cosiddette ‘leggere’. Le motivazioni di questo provvedimento sono quelle consuete: per esempio, colpire le organizzazioni mafiose, concentrare le energie delle forze dell’ordine nella repressione di altri fatti delinquenziali più seri, ecc. Circa l’obiettivo di molti tra i proponenti di questa legge di arrivare, prima o poi, alla legalizzazione della vendita di droghe, si può però ribattere che o spacciare sostanze stupefacenti è moralmente lecito e non criminale, e allora non si capisce perché vietarlo a queste organizzazioni, oppure se spacciare non è moralmente lecito e se inoltre è da criminali, allora non lo deve fare nessuno, neanche con la licenza dello Stato.

Legalizzando la cannabis, lo Stato permette che qualcuno possa esercitare attività immorali e criminali (per esempio per le conseguenze in termini di incidenti stradali dell’uso di droghe), purché abbia la ‘patente’: fatte le debite differenze, è un po’ come dare a qualcuno la licenza di assassinare, per togliere i profitti ad altri killer. E già la legalizzazione della coltivazione e detenzione di droghe favorisce la possibilità di spacciare. Inoltre, gli spacciatori che rimarrebbero senza la licenza dello Stato, non potendo più guadagnare tramite lo smercio di cannabis, si concentrerebbero sul commercio delle droghe più redditizie (per es. eroina, cocaina e le cosiddette droghe sintetiche), aumentandone il consumo nel nostro Paese. Del resto, se si legalizzasse la cannabis, l’acquisto resterebbe precluso ai ragazzini e ai bambini. I signori di questo mercato cercherebbero, prevedibilmente, di indurli alla droga per ricavare ancora profitti da loro, non potendo più guadagnarne con la vendita agli adulti.

Secondo alcuni antiproibizionisti la legalizzazione delle droghe ne fa diminuire il consumo, perché rimuove il fascino del proibito. Sennonché le leggi incidono sulla cultura di un popolo (ed è soprattutto per ragioni culturali che, talvolta, alcuni Paesi con leggi più restrittive registrano più consumo di altri che hanno leggi meno restrittive). Ora, la legalizzazione di una prassi la accresce, perché per molte persone ciò che è legale è anche morale.

La legalizzazione delle droghe e della loro coltivazione farebbe cadere molte remore morali rispetto al consumo e inoltre faciliterebbe la possibilità di procurarsele, addirittura a casa propria. Non è poi vero che chi vieta il commercio delle droghe dovrebbe vietare anche quello degli alcolici: mentre il consumo – anche moderato – di droghe comporta quasi sempre dei danni, come minimo per l’incolumità pubblica (ad esempio, per i già citati incidenti stradali provocati da chi usa sostanze stupefacenti), l’uso moderato degli alcolici non è invece, di per sé, pericoloso.

Anche le droghe ‘leggere’, comprate o coltivate autonomamente, producono spesso effetti gravemente nocivi per la salute e per le capacità cognitive – lo rilevano gli esperti, alcuni dei quali sono stati auditi alla Camera – e sono spesso propedeutiche al consumo di droghe peggiori. Ma, anche se ciò non fosse vero, resta il fatto che la dignità umana consiste – basta rileggersi indimenticabili pagine di Socrate, Aristotele, Pascal, Kant, e di tanti altri grandi e illustri pensatori – anche nella stupenda capacità di poter pensare e agire liberamente, mentre le droghe possono comportare alterazione del senso della realtà, esperienza di stati di allucinazione, modificazioni delle percezioni auditive e visive, cessazione delle inibizioni (il cosiddetto ‘sballo’), ovvero la rinuncia, per un certo lasso di tempo, a volere, pensare e agire come persone libere, dunque l’abdicazione dalla propria dignità umana.

La droga, di qualsiasi tipo, spersonalizza l’essere umano, lo svilisce e degrada, talvolta fino a renderlo schiavo. È questo che si vuole?

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“Più che l’islam, scontiamo la debolezza del cristianesimo nel continente”, dice il card. Koch

Posté par atempodiblog le 23 juillet 2016

“Più che l’islam, scontiamo la debolezza del cristianesimo nel continente”, dice il card. Koch
Il card. Schönborn: “Sono necessarie prese di posizione più chiare dalle autorità musulmane”
di Matteo Matzuzzi – Il Foglio

“Più che l’islam, scontiamo la debolezza del cristianesimo nel continente”, dice il card. Koch dans Articoli di Giornali e News Cristianesimo

Roma. “Il problema non è tanto nella forza dell’islam, quanto nella debolezza del cristianesimo in Europa”. A dirlo è stato il cardinale svizzero Kurt Koch, presidente del Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani, chiamato anni fa a Roma da Benedetto XVI per succedere a Walter Kasper e confermato nell’incarico da Francesco. Koch ha rilasciato un’ampia intervista al sito cattolico in lingua tedesca Kath.net, in cui tocca vari argomenti, a cominciare dalle relazioni con la vasta e variegata realtà ortodossa. Ma è su Europa, islam e cristianesimo che il porporato si sofferma in modo particolare, specie dopo l’ennesima strage animata dal fondamentalismo islamico, che lo scorso 14 luglio, a Nizza, ha lasciato distese sulla Promenade des Anglais ottantaquattro persone (decine sono i feriti, molti dei quali ancora in gravi condizioni).

“E’ giusto aiutare i musulmani a rendere possibile una vita secondo la loro fede nelle nostre società democratiche”, spiega il cardinale, che però aggiunge: “Ciò di cui mi rammarico un po’ è piuttosto che non si chieda con la medesima chiarezza un trattamento uguale per i cristiani nei paesi islamici”. Si può, insomma, chiedere in modo credibile la creazione di istituzioni islamiche nelle nostre società occidentali solo se (al tempo stesso) si chiede, ad esempio, che l’università greco-ortodossa di Halki, in Turchia, venga riaperta. “Si dovrebbe insistere di più sulla reciprocità”.

Il cardinale Kurt Koch cita il caso del glorioso seminario da cui sono uscite le classi dirigenti del patriarcato di Costantinopoli per più d’un secolo e mezzo. Halki è chiuso dal 1971, quando Ankara decise che sul suolo nazionale non potevano sorgere istituti superiori non pubblici (a meno che non fossero emanazione delle Forze armate o della polizia). Tre anni fa, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan si disse disposto a valutare la riapertura della scuola, a patto che rinunciasse al titolo e al conseguente valore legale di scuola di educazione superiore. Proposta subito rispedita al mittente, essendo stata giudicata niente più che provocatoria. La presenza dell’islam in Europa, osserva Koch, “mette in discussione un’acquisizione fondamentale e problematica delle società occidentali, e cioè l’aver relegato la religione nella sfera privata individuale. Tutt’al contrario – continua – l’islam si concepisce come una religione pubblica, che vuole essere pubblicamente visibile”. Ecco perché “l’islam in Europa introduce la provocazione che l’ormai avanzato processo di privatizzazione della religione debba essere rivista”. Anche perché “una società che relega la religione nella sfera privata non può favorire un dialogo interreligioso”. Il cristianesimo europeo, prosegue il porporato, deve insomma “riscoprire le correnti ‘calde’ che ancora scorrono al suo interno, rimanendo fedele alle sue radici, anziché nasconderle con una falsa modestia”.

La questione delle radici era stata tirata in ballo anche dal presidente della Conferenza episcopale italiana, il cardinale Angelo Bagnasco, poche ore dopo l’attentato di Nizza, quando aveva detto che “siamo di fronte a una miscela esplosiva di ideologia, di follia personale e di odio. Una miscela che esplode in modo impazzito, seppure programmato e strategico, verso i paesi dell’occidente, verso la nostra Europa e questo ci deve rendere molto più avvertiti circa la consistenza e la vita della nostra cultura occidentale ed europea”.

“Dobbiamo – aggiungeva l’arcivescovo di Genova – coltivare di più i valori europei, le radici europee che sono la cultura cristiana che racchiude non una visione confessionale, ma dei valori universali, delle esperienze che sono il distillato dell’umanità. Allora l’Europa, insieme a una sicurezza crescente, alla fiducia e al coraggio, deve però anche rivedere la propria cultura perché non sia ulteriormente svuotata dei valori fondamentali dello spirito e dell’etica, ma al contrario deve recuperare se stessa, questa anima”.

Su quanto accaduto in Francia è intervenuto, con un’intervista al quotidiano austriaco Der Standard, anche il cardinale primate Christoph Schönborn, arcivescovo di Vienna, a giudizio del quale sono necessarie “prese di posizione più chiare da parte delle autorità musulmane”. Anche perché, ha sottolineato il presule, “che sia giusto o meno, il terrore ha in questo momento un’etichetta islamica. I terroristi si definiscono aderenti all’islam non al cristianesimo o ad altre religioni, e questo è un grande problema per l’islam, con cui deve fare i conti”. Certo, “non dobbiamo dimenticare che il maggior numero di vittime del terrore sono musulmani, ma attendiamo parole molto più chiare da parte delle autorità islamiche”. Quel che serve è un profondo processo di rielaborazione e contestualizzazione dei testi sacri.

E’ vero, ha ammesso il cardinale austriaco, che anche l’Antico Testamento contiene “molti passaggi crudeli”, ma è altrettanto assodato che il cristianesimo ha saputo andare oltre l’applicazione letterale di quei passi. Cosa che l’islam non ha ancora fatto, come più volte ha fatto notare – anche a questo giornale – l’islamologo gesuita Samir Khalil Samir. Schönborn – che in un passaggio dell’intervista ammette di comprendere la “preoccupazione” generata da “una migrazione dal medio oriente e dall’Africa” che contempla “una differenza culturale e religiosa” – parla della necessità di avviare “un processo di apprendimento”, simile a quello che la religione ha affrontato più volte nella sua storia, l’ultima delle quali dopo “l’olocausto nazista” che ha causato lo sterminio di milioni di ebrei.

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