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Papa Francesco: Benedetto XVI, maestro della teologia in ginocchio

Posté par atempodiblog le 22 juin 2016

Papa: Benedetto XVI, maestro della teologia in ginocchio
Benedetto XVI, ovvero l’esempio più grande di cosa voglia dire fare “teologia in ginocchio”. Papa Francesco firma la prefazione di un libro del Pontefice emerito con una serie di considerazioni sulla testimonianza offerta da Papa Benedetto sul valore della preghiera, cuore di ogni vita sacerdotale. Il volume, edito da Cantagalli, si intitola “Insegnare e imparare l’amore di Dio” ed è il primo di una collana di testi di Benedetto XVI. Il testo della prefazione di Francesco è stato anticipato dl quotidiano La Repubblica.
Lo riassume Alessandro De Carolis per Radio Vaticana

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È il “fattore decisivo” di un uomo che si consacra a Dio nel sacerdozio. Non il saper fare, anche senza risparmio di energie. Non la “gestione degli affari correnti”. Il fattore decisivo è lo stare “in ginocchio” a “pregare per gli altri, senza interruzione, anima e corpo”, costantemente immersi in Dio, “con il cuore sempre rivolto a Lui, come un amante che in ogni momento pensa all’amato, qualsiasi cosa faccia”. Perché un sacerdote ha la verità del suo ministero dell’“incarnare la presenza di Cristo” fra la gente, altrimenti “non è più vero niente, tutto diventa routine, i sacerdoti quasi stipendiati, i vescovi burocrati e la Chiesa non Chiesa di Cristo, ma un prodotto nostro, una ong in fondo inutile”.

Con la franchezza che gli è propria, Papa Francesco celebra di Benedetto XVI l’esemplarità del suo essere sacerdote – il 28 giugno saranno 65 anni – testimoniata in modo “luminoso” dal Papa emerito soprattutto negli ultimi tre anni, da quando egli stesso – spiegando le ragioni della rinuncia al ministero petrino – affermò di sentirsi chiamato “a salire sul monte” per dedicarsi alla preghiera e alla meditazione.

“Si vede che è un uomo che veramente crede, che veramente prega; si vede che è un uomo che impersona la santità, un uomo di pace, un uomo di Dio”, riconosce Francesco all’inizio della prefazione, ponendo in risalto come senza quel “profondo radicamento in Dio” sarebbero inutili “capacità organizzativa” e denaro, “presunta superiorità intellettuale” e potere. In Papa Benedetto, ripete Francesco, si coglie limpida “l’essenza dell’agire sacerdotale” e “forse è proprio vero – osserva – che egli ci impartisce nel modo più evidente una tra le sue più grandi lezioni di ‘teologia in ginocchio’”.

Il “vero pregare” che mostra Papa Benedetto con “la sua testimonianza”, prosegue ancora Francesco, non è né “l’occupazione di alcune persone ritenute particolarmente devote e magari considerate poco adatte a risolvere problemi paratici” né, all’opposto, “quel ‘fare’ che invece i più ‘attivi’ credono sia l’elemento decisivo del nostro servizio sacerdotale, relegando così di fatto la preghiera al ‘tempo libero’”. E nemmeno, soggiunge, pregare può essere considerata “una buona pratica per mettersi un po’ in pace la coscienza, o solo un mezzo devoto per ottenere da Dio quello che in un dato momento crediamo ci serva”.

“No”, ribadisce Francesco, la preghiera “è il fattore decisivo”, l’“intercessione di cui la Chiesa e il mondo – e tanto più in questo momento di vero e proprio cambio d’epoca – hanno bisogno più che mai, come il pane, più del pane”.

“Perché senza il legame con Dio – annota Francesco citando lo stesso Benedetto XVI – siamo come satelliti che hanno perso la loro orbita e precipitano impazziti nel vuoto, non solo disgregando se stessi, ma minacciando anche gli altri”.

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L’eroe dimenticato che salvò il mondo dall’apocalisse nucleare

Posté par atempodiblog le 22 juin 2016

Guerra Fredda
L’eroe dimenticato che salvò il mondo dall’apocalisse nucleare
Stanislav Petrov non si fidò del sistema di difesa sovietico per cui missili atomici lanciati dagli Usa erano in arrivo: «Ero un analista, ero certo che si trattasse di un errore»
di Fabrizio Dragosei – Corriere della Sera

L’eroe dimenticato che salvò il mondo dall’apocalisse nucleare dans Articoli di Giornali e News Petrov

È una persona schiva l’uomo che ha salvato il mondo. Ed è anche di poche parole. Quando lo incontriamo davanti all’ingresso del palazzone di cemento in stile kruscioviano dove vive, sta andando a pagare la bolletta del gas. «Noo!, che ho fatto? Niente di speciale, solamente il mio lavoro». Poi ripete quello che disse all’inizio degli anni Novanta, quando la sua storia fu resa pubblica per la prima volta. «Ero l’uomo giusto al posto giusto al momento giusto».

L’analista che non si comportò da ottuso
In realtà è stata una fortuna per questo pianeta il fatto che il tenente colonnello Stanislav Petrov non fosse un militare qualunque, uno dei tanti addetti alla sorveglianza. Lui era un analista che quella notte si trovò quasi casualmente a fare un turno di guardia ai calcolatori, sostituendo uno dei militari professionisti. Un altro avrebbe semplicemente controllato i segnali in arrivo (cosa che lui fece) e si sarebbe limitato ad applicare il protocollo, informando i suoi superiori: «Missili termonucleari americani in arrivo. Colpiranno il territorio dell’Unione Sovietica fra 25/30 minuti». Quest’ometto minuto reagì invece diversamente. Lui non credeva che gli Stati Uniti potessero veramente attaccare. «E se pure l’avessero fatto, non avrebbero lanciato solo un grappolo di missili». Si convinse che fosse «un’avaria del sistema». Così non disse nulla. E salvò il pianeta.

La notte in questione era quella del 26 settembre 1983, «per la precisione le 00.15». Venticinque giorni prima, il 1° settembre, un caccia sovietico aveva abbattuto un jumbo jet coreano con 269 persone a bordo che era entrato nello spazio aereo dell’Urss. Erano gli anni della gerontocrazia al comando, della paranoia e della profondissima crisi. Il gensek (segretario generale del partito) Jurij Andropov era permanentemente in ospedale. In quell’occasione a controllare i radar non c’era un «Petrov», ma un militare disciplinato e ottuso che riferì ai suoi superiori: un apparecchio, probabilmente un aereo spia degli Stati Uniti, aveva violato il territorio della madrepatria. I generali e i politici applicarono le regole. In pochi minuti il maggiore Gennadij Osipovich che aveva affiancato il jet civile con il suo Sukhoi, ricevette l’ordine di abbattere l’intruso. «Non dissi alla base che era un Boeing, perché nessuno me lo aveva chiesto», si è giustificato in seguito.

L’errore del sistema di difesa
Petrov no. Petrov non era ottuso. I missili impiegano meno di mezz’ora per raggiungere la Russia dagli Usa. Alcuni minuti servono per controllare che tutti i parametri siano giusti. Poi la comunicazione telefonica a Mosca. L’informazione arriva ai vertici. Si sveglia il gensek e a quel punto bisogna decidere subito. Militari ed ex agenti del Kgb non sono abituati a mettere in discussione le procedure. La tensione era altissima, con Reagan che aveva bollato l’Urss come «impero del male» appena sei mesi prima e Andropov che si diceva convinto della volontà di aggressione americana. A un attacco si sarebbe risposto quasi certamente con una massiccia rappresaglia: decine di missili sovietici lanciati verso gli Stati Uniti. E Washington avrebbe certamente replicato con il lancio (questa volta vero) delle sue testate nucleari. Per il pianeta sarebbe stata la fine.

Ma Petrov non era ottuso. Al suo posto di controllo a Serpukhov-15, vicino Mosca, arrivò il segnale sempre atteso e tanto temuto: «Si accese una luce rossa, segno che un missile era partito. Tutti si girarono verso di me, aspettando un ordine. Io ero come paralizzato, dapprincipio. Ci mettemmo subito a controllare l’operatività del sistema, ventinove livelli in tutto». Pochissimi minuti e si accese un’altra luce, poi un’altra. «Nessun dubbio, il sistema diceva che erano in corso lanci multipli dalla stessa base», racconta. «Una nostra comunicazione avrebbe dato ai vertici del Paese al massimo 12 minuti. Poi sarebbe stato troppo tardi».

Nessun riconoscimento in patria
Petrov era sicuro che la segnalazione fosse sbagliata, nonostante tutto. «Ero un analista, ero certo che si trattasse di un errore, me lo diceva la mia intuizione». Così comunicò che c’era stato un malfunzionamento del sistema. «I quindici minuti di attesa furono lunghissimi. E se eravamo noi a sbagliare? Ma nessun missile colpì l’Unione Sovietica».

In seguito si chiarì che il sistema era stato ingannato da riflessi di luce sulle nuvole. Pensava di venir premiato, e invece gli arrivò un richiamo: se lui aveva ragione, qualcun altro aveva sbagliato a progettare il sistema. E tutto venne insabbiato. «Quando mi congedai, non mi concessero nemmeno la solita promozione a colonnello», racconta ancora. Petrov ha ricevuto vari riconoscimenti all’estero, ma nulla in patria. E ancora oggi, a 76 anni, fa la vita di sempre nel palazzo di Fryasino. Nessuno ricorda più l’uomo che ha salvato il mondo.

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