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GIOVANNA D’ARCO/ Il ritorno dell’anello in una Francia lacerata e incerta

Posté par atempodiblog le 29 mai 2016

GIOVANNA D’ARCO/ Il ritorno dell’anello in una Francia lacerata e incerta
di Paolo Gulisano – Il Sussidiario.net

anello di Giovanna d' Arco

L’Anello ha lasciato l’Inghilterra. Non si tratta dell’anello di Sauron distrutto a suo tempo nel fuoco di Monte Fato grazie all’eroismo degli Hobbit dell’inglese Tolkien, ma di un anello dallo straordinario significato storico che da circa 600 anni si trovava “prigioniero” oltremanica: l’anello di Giovanna d’Arco. Si tratta di un anello in metallo, molto semplice, racchiuso in una custodia in legno che i genitori avevano regalato alla futura “pulzella d’Orleans” in occasione della sua prima comunione. Al suo interno due iscrizioni, IHS (Gesù) e MAR (Maria).

Secondo quanto scrive il settimanale francese Point de vue, Giovanna d’Arco non si sarebbe mai separata dal suo anello. Lo indossava anche durante la cattura ad opera dell’esercito del regno di Borgogna, alleato degli inglesi. Questo anello rappresenta l’unica reliquia della santa che venne arsa sul rogo il 30 maggio 1431, condannata come eretica da un tribunale che emise — come noto — una sentenza di tipo politico, volendo togliere di mezzo colei che aveva risvegliato la Francia cristiana soggiogata al potere inglese.

Giovanna, mistica visionaria, guerriera che non ferì né uccise mai nessuno, occupa un posto glorioso nella storia religiosa e civile di Francia. La sua memoria venne rimossa dalla cultura ufficiale dopo la Rivoluzione del 1789, dopo gli anni di Napoleone, e ancor di più dalle repubbliche laiciste susseguitesi dall’800, ma non uscì mai dall’immaginario popolare, da un popolo fedele che alla sua memoria era rimasto profondamente legato, tanto che molti soldati dell’Armèe francese nelle trincee della prima guerra mondiale si rivolgevano in preghiera alla sua protezione. Il grande poeta Charles Péguy venne ispirato dalla sua figura e dalla sua vita per realizzare una delle sue opere più significative, Il mistero della carità di Giovanna d’Arco.

Come ebbe a dire anni fa il cardinale francese Roger Etchegaray, Giovanna secoli dopo il suo martirio continua ad esserci contemporanea, perché sono la stessa Francia e la stessa Chiesa, ambedue così straziate, a risvegliare il nostro interesse per lei. Il cuore di Giovanna d’Arco si è colmato di pietà a contatto con la miseria del suo tempo: una Francia lacerata ed incerta del proprio destino. Era mossa da pietà per il regno di Francia. E questo per umile adesione alla volontà di Dio. Si pensi alla pena con cui, mentre prendeva le armi a Vaucouleurs, ammise: “Preferirei piuttosto filare accanto alla mia povera madre, perché questo non è il mio mestiere”. “Giovanna sa che la patria non è un’astrazione o un pregiudizio, è una realtà molto concreta. Non è con le idee che si costruisce una patria, ma con la terra che si attacca alla suola delle scarpe”, disse il cardinale.

Non c’è storia più francese della sua. Non vi è un solo uomo o una sola donna francese che possa considerarsi più francese di lei per quella sua vivacità spontanea, che resta tale persino durante la sua prigionia, per quel suo meraviglioso equilibrio che ne rivela le umili origini. 

Giovanna, la sua pietà di umile contadina, la simpatia e commozione che suscitò nel popolo, è l’anima profonda della Francia, quella che due secoli di violento laicismo non hanno cancellato. Così si spiega la passione con cui Philippe de Villiers, un aristocratico popolare figlio della Vandea, la terra che più venne violentata dal terrore giacobino, un uomo che ha dedicato la sua vita a difendere la memoria storica della sua terra, ad affrontare le enormi difficoltà imposte a chi in Francia cerchi di fare politica sostenendo i valori umani e cristiani, ha fortemente voluto riportare “a casa” l’anello di Giovanna. De Villiers è da sempre un ammiratore e un devoto della pulzella, ed è autore tra l’altro del libro Roman de Jeanne d’Arc, e quando nelle scorse settimane ha saputo che l’anello sarebbe stato battuto all’asta a Londra, non ha avuto esitazioni: era assolutamente necessario recuperare l’anello della santa pastorella di Domrémy. Così, insieme al figlio Nicolas, in poche ore è riuscito a mettere insieme — grazie ad offerte private e alla cospicua offerta del Parco Storico vandeano del Puy de Fou di cui è presidente — il denaro necessario per affrontare la sfida dell’asta, sfida che è stata molto difficile. Alla fine il volitivo vandeano ce l’ha fatta: per la cifra di 376mila e 830 euro è riuscito ad assicurarsi la reliquia.

“Una vittoria — ha dichiarato Philippe de Villiers — che appartiene a tutta la Francia. Abbiamo così riscattato la pulzella”. Ed ha ancora annunciato che è partita una campagna di studio e di ricerche per approfondire la “tracciabilità” dell’importante reliqua. Sembra, sempre secondo il settimanale francese Point de vue, che l’anello che indossava Giovanna d’Arco sino alla condanna al rogo fosse stato consegnato a Henri de Beaufort, vescovo di Winchester che assistette al processo. Successivamente l’anello passò al nipote, il re Enrico IV, per poi essere trasmesso ad un ramo cadetto, la famiglia Cavendish-Bentinck dei duchi di Portland, poi a lady Ottoline Morrel che l’offrì in dono al pittore Augustus John. Quest’ultimo cedette l’anello ad un collezionista inglese prima della guerra, nel 1914. Due vendite all’asta, nel 1929 e nel 1947, chez Sotheby’s. Il nuovo proprietario si chiama James Hasson ed è un medico che vive a Londra. Dopo la definitiva acquisizione di Philippe e Nicolas de Villiers ora l’anello di Giovanna d’Arco ritorna finalmente in Francia. Sarà esposto, a disposizione di tutti, dopo un esilio durato quasi 600 anni.

Giovanna, eroina della propria patria perché santa di Dio, ci indica che è la carità che viene da Dio che ci fa amare la concretezza del particolare. È proprio questa carità frutto di grazia a stabilire il limite di ogni progetto politico, così che sia alieno da pretese totalizzanti. La missione profetica della Chiesa, di tutti i suoi figli e figlie, consiste in primo luogo nell’affermare che Dio soltanto è Dio, fonte e termine della storia; una missione che Giovanna di Orléans ha perfettamente adempiuto.

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Papa Francesco: La mitezza è una delle virtù dei diaconi

Posté par atempodiblog le 29 mai 2016

GIUBILEO STRAORDINARIO DELLA MISERICORDIA
GIUBILEO DEI DIACONI

OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO

Piazza San Pietro
Domenica, 29 maggio 2016

[Multimedia]

Papa Francesco

«Servitore di Cristo» (Gal 1,10). Abbiamo ascoltato questa espressione, con la quale l’Apostolo Paolo si definisce, scrivendo ai Galati. All’inizio della lettera si era presentato come «apostolo», per volontà del Signore Gesù (cfr Gal 1,1). I due termini, apostolo e servitore, stanno insieme, non possono mai essere separati; sono come due facce di una stessa medaglia: chi annuncia Gesù è chiamato a servire e chi serve annuncia Gesù.

Il Signore ce l’ha mostrato per primo: Egli, la Parola del Padre, Egli, che ci ha portato il lieto annuncio (Is 61,1), Egli, che è in sé stesso il lieto annuncio (cfr Lc 4,18), si è fatto nostro servo (Fil 2,7), «non è venuto per farsi servire, ma per servire» (Mc 10,45). «Si è fatto diacono di tutti», scriveva un Padre della Chiesa (Policarpo, Ad Phil. V,2). Come ha fatto Lui, così sono chiamati a fare i suoi annunciatori.

Il discepolo di Gesù non può andare su una strada diversa da quella del Maestro, ma se vuole annunciare deve imitarlo, come ha fatto Paolo: ambire a diventare servitore. In altre parole, se evangelizzare è la missione consegnata a ogni cristiano nel Battesimo, servire è lo stile con cui vivere la missione, l’unico modo di essere discepolo di Gesù. È suo testimone chi fa come Lui: chi serve i fratelli e le sorelle, senza stancarsi di Cristo umile, senza stancarsi della vita cristiana che è vita di servizio.

Da dove cominciare per diventare «servi buoni e fedeli» (cfr Mt 25,21)? Come primo passo, siamo invitati a vivere la disponibilità. Il servitore ogni giorno impara a distaccarsi dal disporre tutto per sé e dal disporre di sé come vuole. Si allena ogni mattina a donare la vita, a pensare che ogni giorno non sarà suo, ma sarà da vivere come una consegna di sé. Chi serve, infatti, non è un custode geloso del proprio tempo, anzi rinuncia ad essere il padrone della propria giornata. Sa che il tempo che vive non gli appartiene, ma è un dono che riceve da Dio per offrirlo a sua volta: solo così porterà veramente frutto.

Chi serve non è schiavo dell’agenda che stabilisce, ma, docile di cuore, è disponibile al non programmato: pronto per il fratello e aperto all’imprevisto, che non manca mai e spesso è la sorpresa quotidiana di Dio. Il servitore è aperto alla sorpresa, alle sorprese quotidiane di Dio. Il servitore sa aprire le porte del suo tempo e dei suoi spazi a chi gli sta vicino e anche a chi bussa fuori orario, a costo di interrompere qualcosa che gli piace o il riposo che si merita. Il servitore trascura [va oltre] gli orari. A me fa male al cuore quando vedo un orario, nelle parrocchie: “Dalla tal ora alla tal ora”. E poi? Non c’è porta aperta, non c’è prete, non c’è diacono, non c’è laico che riceva la gente… Questo fa male. Trascurare [andare oltre] gli orari: avere questo coraggio, di trascurare [andare oltre] gli orari. Così, cari diaconi, vivendo nella disponibilità, il vostro servizio sarà privo di ogni tornaconto ed evangelicamente fecondo.

Anche il Vangelo odierno ci parla di servizio, mostrandoci due servitori, da cui possiamo trarre preziosi insegnamenti: il servo del centurione, che viene guarito da Gesù, e il centurione stesso, al servizio dell’imperatore. Le parole che questi manda a riferire a Gesù, perché non venga fino alla sua casa, sono sorprendenti e sono spesso il contrario delle nostre preghiere: «Signore, non disturbarti! Io non sono degno che tu entri sotto il mio tetto» (Lc 7,6); «non mi sono ritenuto degno di venire da te» (v. 7); «anch’io infatti sono nella condizione di subalterno» (v. 8). Davanti a queste parole Gesù rimane ammirato. Lo colpisce la grande umiltà del centurione, la sua mitezza.

E la mitezza è una delle virtù dei diaconi. Quando il diacono è mite, è servitore e non gioca a “scimmiottare” i preti, no, è mite. Egli, di fronte al problema che lo affliggeva, avrebbe potuto agitarsi e pretendere di essere esaudito, facendo valere la sua autorità; avrebbe potuto convincere con insistenza, persino costringere Gesù a recarsi a casa sua. Invece si fa piccolo, discreto, mite, non alza la voce e non vuole disturbare. Si comporta, forse senza saperlo, secondo lo stile di Dio, che è «mite e umile di cuore» (Mt 11,29).

Dio infatti, che è amore, per amore si spinge persino a servirci: con noi è paziente, benevolo, sempre pronto e ben disposto, soffre per i nostri sbagli e cerca la via per aiutarci e renderci migliori. Questi sono anche i tratti miti e umili del servizio cristiano, che è imitare Dio servendo gli altri: accogliendoli con amore paziente, comprendendoli senza stancarci, facendoli sentire accolti, a casa, nella comunità ecclesiale, dove non è grande chi comanda, ma chi serve (cfr Lc 22,26). E mai sgridare, mai. Così, cari diaconi, nella mitezza, maturerà la vostra vocazione di ministri della carità.

Dopo l’Apostolo Paolo e il centurione, nelle letture odierne c’è un terzo servo, quello che viene guarito da Gesù. Nel racconto si dice che al suo padrone era molto caro e che era malato, ma non si sa quale fosse la sua grave malattia (v. 2). In qualche modo, possiamo anche noi riconoscerci in quel servo. Ciascuno di noi è molto caro a Dio, amato e scelto da lui, ed è chiamato a servire, ma ha anzitutto bisogno di essere guarito interiormente. Per essere abili al servizio, ci occorre la salute del cuore: un cuore risanato da Dio, che si senta perdonato e non sia né chiuso né duro. Ci farà bene pregare con fiducia ogni giorno per questo, chiedere di essere guariti da Gesù, di assomigliare a Lui, che “non ci chiama più servi, ma amici” (cfr Gv 15,15).

Cari diaconi, potete domandare ogni giorno questa grazia nella preghiera, in una preghiera dove presentare le fatiche, gli imprevisti, le stanchezze e le speranze: una preghiera vera, che porti la vita al Signore e il Signore nella vita. E quando servite alla mensa eucaristica, lì troverete la presenza di Gesù, che si dona a voi, perché voi vi doniate agli altri.

Così, disponibili nella vita, miti di cuore e in costante dialogo con Gesù, non avrete paura di essere servitori di Cristo, di incontrare e accarezzare la carne del Signore nei poveri di oggi.

Tratto da: La Santa Sede

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I sacerdoti comunicano l’abbraccio del Padre misericordioso

Posté par atempodiblog le 29 mai 2016

giubileo sacerdoti

Il 3 giugno, solennità del Sacratissimo Cuore di Gesù, a 160 anni dall’introduzione di questa festività da parte di Pio IX, viene celebrato il Giubileo dei Sacerdoti che è ispirato alla Misericordia.

I Sacerdoti guidano come pastori sulla strada della Verità: sono ministri della salvezza. Trasmettono il Vangelo: sono ministri della Parola. Comunicano l’abbraccio del Padre misericordioso: sono ministri del perdono. Dispensano, con i sacramenti, il Dono di Dio: sono ministri della grazia della Riconciliazione. In questo giorno come non ricordare il santo Curato d’Ars, Giovanni Maria Vianney (1786-1859), Padre San Pio da Pietrelcina (1887-1968), San Leopoldo Mandic (1886-1942) e il gesuita Padre Felice Cappello, il famoso “Confessore di Roma” (1879-1962). Un grazie a Dio per il loro ministero al Confessionale!
Mons. Giuseppe Greco

«La Porta Santa ci ricorda un’altra Porta che il Concilio Vaticano II spalancò 50 anni fa: la porta verso il mondo, per portare a tutti la misericordia di Dio».
Papa Francesco

Tratto: la Domenica

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La grandezza dell’umiltà. La virtù che salverà il mondo

Posté par atempodiblog le 29 mai 2016

Presentazione de “La grandezza dell’umiltà. La virtù che salverà il mondo”, autore padre Livio Fanzaga, Edizioni PIEMME

L' Angelus di Millet

Sarebbe un errore considerare l’umiltà una virtù di dettaglio, come se fosse un ornamento prezioso, ma non necessario. Nonostante questa virtù sia una caratteristica fondamentale del Figlio di Dio e della Vergine che lo ha generato, essa non gode la fama di altre virtù ritenute più eccellenti. In realtà è una virtù fondamentale, essendo il terreno sul quale crescono tutte le altre, ma soprattutto è una delle più difficili da conseguire, tanto da poter dire che l’umiltà è la misura della santità. Infatti, se è vero che la carità è la regina di tutte le virtù, è per la presenza dell’umiltà che essa “non si gonfi a”, rischiando di corrompere se stessa. Grazie all’umiltà, più uno cresce in santità e più si ritiene un peccatore. Cadrebbe rovinosamente dalla vetta della perfezione un santo che si compiacesse di essere tale. L’umiltà è una virtù talmente ardua da raggiungere che è pressoché sconosciuta nelle religioni e nelle culture non cristiane: questo fiore rarissimo è cresciuto nel giardino della divina rivelazione ed è rimasto un’esclusiva del cristianesimo. L’umiltà infatti è una luce di verità che viene da Dio e che rivela all’uomo la sua condizione esistenziale di creatura. Laddove regna la tenebra, l’uomo è in balìa del suo io, sempre pronto a prevaricare pur di affermare se stesso.

La grandezza di questa virtù, messa ai margini della vita sociale, si coglie nella contrapposizione al vizio capitale della superbia. Nella Sacra Scrittura, come nella tradizione spirituale cristiana, la superbia, con tutte le sue proliferazioni, è il più insidioso e il più deleterio dei vizi. Infatti è a causa della pretesa di Adamo di essere «come Dio» che l’umanità è precipitata nella catastrofe esistenziale in cui si trova, perdendo non solo Dio, ma anche i doni di cui l’uomo era stato ricolmato. La superbia viene messa al primo posto nella scala dei vizi capitali ed è considerata la madre di tutti gli altri. La sua origine è il veleno iniettato dalla serpe infernale che non tollera l’umile sottomissione alla divina volontà. In ultima istanza, la superbia è il rifiuto del proprio status di creatura, nella folle esaltazione di se stessi e nell’illusione di essere padroni della propria vita. Persino la cultura pagana, pur non conoscendo l’umiltà nella mirabile luce della divina rivelazione, coglie la pericolosità del tentativo dell’uomo di andare oltre i propri limiti. Il peccato di «Hybris», col quale l’uomo sfida il divino, è considerato dai Greci il più grave e il più gravido di conseguenze. L’uomo di oggi, nel suo tentativo di costruire un mondo senza Dio, mettendosi al suo posto, ha dimenticato la grande lezione della sapienza antica.

Le riflessioni che si snodano nei capitoli del libro hanno come scopo di portare il lettore nel santuario della sua interiorità, per conoscere nel medesimo tempo la sua miseria e la sua grandezza. L’umiltà infatti è uno sguardo di verità su se stessi, che permette di vedere il male che deturpa e, nel medesimo tempo, l’immagine divina che eleva e che nobilita. L’uomo non è mai così grande come quando riconosce di essere un peccatore, guardando se stesso e gli altri con lo sguardo della compassione. Ma non è mai così in pericolo come quando si chiude nell’arroganza, credendosi superiore agli altri, e si indurisce nell’incapacità di chiedere perdono. Solo la virtù dell’umiltà è la medicina che consente all’uomo di liberarsi dalla tirannia del suo “io” e di gustare dentro di sé la dolcezza della pace.

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L’umiltà è una perla rara
L’umiltà è per sua natura una virtù nascosta, come i fiori che, sul finire dell’inverno, si celano sotto la neve, come se temessero di mostrarsi nel loro splendore. L’umiltà è schiva e non ama il palcoscenico, benché poche virtù più di essa meritino l’applauso. L’umiltà è silenziosa, perché non vuole attirare l’attenzione e preferisce mettersi in ascolto invece di salire in cattedra. L’umiltà, nella corsa sfrenata verso la visibilità, preferisce l’angolo di ombra, dove nessuno la nota. L’umiltà, alla scalata che porta alla gloria, preferisce la discesa nella valle oscura. L’umiltà cede volentieri il primo posto, dove tutti fanno ressa, e si sistema all’ultimo dove nessuno la spodesta. L’umiltà veste i panni dimessi della persona qualunque, perché desidera passare inosservata. L’umiltà tende la mano quando nessuno guarda, perché non si sappia a chi appartenga. L’umiltà più cresce e più diminuisce di statura, fino a perdersi fra la spazzatura. L’umiltà è operosa, ma fa sparire le tracce, lasciando una scia di profumo soave. L’umiltà ama l’oblio, per perdersi completamente in Dio. Fare l’elogio dell’umiltà è un’impresa ardua. Solo l’umilissima Vergine ne è stata capace. L’umiltà è una perla di inestimabile valore, ma è così rara che pochi la trovano. [...]

L’umiltà luce di verità
L’umiltà è una luce che permette di guardare a se stessi con misericordia, prendendo atto che siamo creature fragili e inclini a commettere errori. L’umile non fa fatica a riconoscersi peccatore. Questo spiega perché i santi, più avanzavano nel cammino di conversione e più si battevano il petto. Tuttavia non fermavano lo sguardo sulle proprie miserie, ma lo elevavano sulla compassione divina, che è sempre pronta a perdonare chi riconosce le proprie colpe.

L’umiltà è uno sguardo vero sulla realtà, vista nella luce di Dio. L’umile vede se stesso e gli altri a partire da Colui che conosce ogni cosa nella sua verità. C’è un legame profondo fra l’umiltà e la verità. L’una è la causa, l’altra l’effetto. L’umiltà ti permette di vedere le cose così come sono, come Dio le vede. Non potrai certo avere la profondità del suo sguardo, ma ti poni nella giusta prospettiva. Quando guardi a te stesso nella luce divina, non potrai mai disprezzarti perché, insieme alla tua miseria, vedrai la tua grandezza. Allo stesso modo non potrai esaltarti, perché ti sarà chiaro che nulla è tuo e tutto ti è stato donato.

Potremmo definire l’umiltà lo sguardo interiore che vede le cose grazie alla luce vera che viene dall’alto. Più una persona è umile e più il suo sguardo è luminoso. Per questo le persone più sono umili e più sono sapienti. L’umile ancella del Signore ha meritato di essere la sede della sapienza.

Al contrario la superbia è una forma di accecamento. I superbi se ne rendono conto soltanto se hanno la grazia di convertirsi e di fare l’esperienza della luce divina. Diversamente avviene per loro quanto detto da Gesù riguardo a coloro che sono ciechi, ma credono di vedere, e perciò il loro peccato rimane (cfr. Giovanni 9, 41).

Per quale motivo la superbia è una forma di accecamento spirituale? La ragione risiede nel fatto che il superbo non vede la realtà attraverso la luce di Dio, cercando di partecipare al suo sguardo, ma attraverso la finestra angusta del proprio io.

In ogni uomo c’è la luce dell’intelletto che gli viene donata dal Creatore, grazie alla quale diviene capace di conoscere le cose divine, ma essa si estingue nella misura in cui si allontana dalla fonte. Più l’uomo esalta il suo io, sostituendosi a Dio, e più precipita nelle tenebre della menzogna.

Comprendi, caro amico, che vi è pure un rapporto di causa ed effetto fra superbia e menzogna. Non per nulla l’angelo ribelle è bollato da Gesù come colui che «non ha perseverato nella verità, perché non vi è verità in lui. Quando dice il falso, parla del suo, perché è menzognero e padre della menzogna» (Giovanni 8, 44).

La menzogna della superbia ha la sua radice nell’esaltazione dell’“io” che, nella vita di una persona, ha preso il posto di Dio. Il superbo non vede più la realtà così com’è, nella luce della verità, ma la vede deformata nella falsa luce della menzogna. Si illude di vedere, ma in realtà è accecato. Non distingue più il bene dal male, il vero dal falso, il giusto dall’ingiusto. Non è più in grado di incamminarsi sulla via della salvezza, mentre corre sempre più veloce sulla via della rovina. Solo quando piegherà le ginocchia e invocherà la luce dall’alto, cadranno le squame dai suoi occhi – come accadde a Saulo, divenuto Paolo – e incomincerà a vedere. L’accecamento è la conseguenza inevitabile di quando si guarda alla realtà nella prospettiva dell’io. Tutto viene falsificato perché a fondamento della vita viene messa una creatura al posto del Creatore. Se la superbia è avvolta dalla tenebra della menzogna, l’umiltà si ammanta della luce di verità.

L’umile non si disprezza, non cede a forme di falsa modestia, ma cerca lo sguardo di Dio. Non esita a professarsi creatura, nella consapevolezza gioiosa della sua totale dipendenza dal Creatore. Nella luce divina vede il suo nulla, perché non esisterebbe se Dio non lo sostenesse. Vede anche i suoi limiti, le sue miserie, le sue ferite e i suoi peccati. Più il suo occhio è limpido e più la realtà si manifesta al suo sguardo come Dio la vede. Coglie fino in fondo la malizia e l’orrore di ogni peccato commesso, ma nel medesimo tempo l’amore che ha portato Gesù fino alla morte di croce. Non si nasconde, non si giustifica, ma lascia che l’amore misericordioso curi le ferite. Non fa fatica a professarsi peccatore, bisognoso di perdono e di redenzione. Lascia che il suo cuore sia trafitto dalla compunzione, perché possa scendere copiosa la grazia del perdono. L’umile chiede, l’umile accetta, l’umile ringrazia. Questo è ciò che Dio desidera di più, perché la sua infinita misericordia trovi cuori che la accolgono. L’umile vede anche la grande dignità nella quale Dio ha collocato l’uomo, creandolo capace di conoscerlo, di amarlo e di servirlo. L’umile vede la bellezza e la grandezza della sua persona, sulla quale Dio si è chinato per elevarla fino a sé. L’umile vede le grazie e i doni che l’Onnipotente riversa sulle sue creature, ma sa che potrebbe perdere tutto con un solo movimento falso del cuore. Col cuore pieno di gratitudine ringrazia e canta la gloria di Dio. Egli sa che la gloria di Dio non è la celebrazione di se stesso, ma la partecipazione delle sue creature alla sua immensa grandezza. L’umile gode della sua piccolezza ed è felice di essere una creatura, alla quale il Padre celeste ha dato la dignità di figlio. L’umile non indietreggia dinanzi alle missioni che Dio gli affida, perché sa che la falsa umiltà è una forma di superbia, ma le accetta con coraggio, confidando nell’aiuto di Dio. È con questo atteggiamento che Davide ha affrontato e sconfitto Golia. Ed è con questa umiltà coraggiosa che l’ancella del Signore è divenuta la madre del Salvatore. L’umile vede gli altri nella luce di Dio: non li considera dei rivali, non li guarda dall’alto in basso, non si lascia morsicare dalla serpe dell’invidia, non si considera superiore a nessuno.

Chi si sente perdonato, amato e apprezzato da Dio non sente il bisogno di sminuire gli altri, di criticarli e di metterli in cattiva luce. Al contrario gioisce perché il giardino di Dio è ricolmo di una grande varietà di fiori, ognuno con la sua specifica bellezza. Lui si considera un fiore che concorre con tutti gli altri all’opera mirabile della creazione e della redenzione. L’umiltà ottiene il dono della conoscenza delle cose divine e rende sapienti le persone semplici e nascoste. È nei loro cuori che brilla la luce limpida della verità.

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