Lettera aperta al Clero del servo di Dio Enrico Medi

Posté par atempodiblog le 31 mai 2016

Lettera aperta al Clero del servo di Dio Enrico Medi

Enrico Medi

Sacerdoti,

io non sono un Prete e non sono mai stato degno neppure di fare il chierichetto. Sappiate che mi sono sempre chiesto come fate voi a vivere dopo aver detto Messa. Ogni giorno avete DIO tra le vostre mani. Come diceva il gran re San Luigi di Francia, avete «nelle vostre mani il re dei Cieli, ai vostri piedi il re della terra». Ogni giorno avete una potenza che Michele Arcangelo non ha. Con le vostre parole trasformate la sostanza di un pezzo di pane in quella del Corpo di Gesù Cristo in persona. VOI OBBLIGATE DIO A SCENDERE IN TERRA! SIETE GRANDI! SIETE CREATURE IMMENSE! LE PIU’ POTENTI CHE POSSANO ESISTERE. Chi dice che avete energie angeliche, in un certo senso, si può dire che sbaglia per difetto.

Sacerdoti, vi scongiuriamo: SIATE SANTI! Se siete santi voi, noi siamo salvi. Se non siete santi voi, noi siamo perduti!

Sacerdoti, noi vi vogliamo ai piedi dell’Altare. A costruire opere, fabbriche, giornali, lavoro, a correre qua e là in Lambretta o in Millecento, siamo capaci noi. Ma a rendere Cristo presente ed a rimettere i peccati, siete capaci SOLO VOI!

Siate accanto all’Altare. Andate a tenere compagnia al SIGNORE. La vostra giornata sia: preghiera e Tabernacolo, Tabernacolo e preghiera. Di questo abbiamo bisogno. Nostro Signore è solo, è abbandonato. Le chiese si riempiono [si fa per dire] soltanto per la Messa. Ma Gesù sta là 24 su 24 e chiama le anime. A tutti, anche a noi, ma in particolare a te, sacerdote, dice di continuo: «Tienimi compagnia. Dimmi una parola. Dammi un sorriso. Ricordati che t’amo. Dimmi soltanto « Amore mio, ti voglio bene »: ti coprirò di ogni consolazione e di ogni conforto».

Sacerdoti, parlateci di DIO! Come ne parlavano Gesù, Paolo Apostolo, Benedetto da Norcia, Francesco Saverio, Santa Teresina. IL MONDO HA BISOGNO DI DIO! DIO, DIO, DIO Vogliamo. E non se ne parla. Si ha paura a parlare di DIO. Si parla di problemi sociali, del pane. Ve lo dice uno scienziato: nel mondo C’E’ PANE! CI SONO RISORSE CHE, se ben distribuite, possono garantire una vita, forse modesta, ma CERTAMENTE PIU’ CHE DIGNITOSA A 100 MILIARDI DI UOMINI! L’UOMO HA FAME DI DIO! E si uccide per disperazione. Dobbiamo credere, ecco il compito delle Missioni: donare DIO al mondo!

Suore, scusate se vi parlo così: tornate ad abituarvi al silenzio!

Bello tutto, la preghiera collettiva è potentissima davanti al Signore. Ricordatevi, però, che si può fare una preghiera insieme anche lontani 100.000 km. La vicinanza è nel cuore di DIO, non nel contatto dei gomiti. Anzi, anche a contatto di gomiti, perché noi non disprezziamo le realtà concrete, visibili e materiali. Ma attenti a non esagerare. Chi volesse dire solitudine soltanto sbaglia, ma chi dice solo appiccicamento di cuore sbaglia. Sbagliano l’uno e l’altro.

Enrico Medi (servo di Dio)

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GIOVANNA D’ARCO/ Il ritorno dell’anello in una Francia lacerata e incerta

Posté par atempodiblog le 29 mai 2016

GIOVANNA D’ARCO/ Il ritorno dell’anello in una Francia lacerata e incerta
di Paolo Gulisano – Il Sussidiario.net

anello di Giovanna d' Arco

L’Anello ha lasciato l’Inghilterra. Non si tratta dell’anello di Sauron distrutto a suo tempo nel fuoco di Monte Fato grazie all’eroismo degli Hobbit dell’inglese Tolkien, ma di un anello dallo straordinario significato storico che da circa 600 anni si trovava “prigioniero” oltremanica: l’anello di Giovanna d’Arco. Si tratta di un anello in metallo, molto semplice, racchiuso in una custodia in legno che i genitori avevano regalato alla futura “pulzella d’Orleans” in occasione della sua prima comunione. Al suo interno due iscrizioni, IHS (Gesù) e MAR (Maria).

Secondo quanto scrive il settimanale francese Point de vue, Giovanna d’Arco non si sarebbe mai separata dal suo anello. Lo indossava anche durante la cattura ad opera dell’esercito del regno di Borgogna, alleato degli inglesi. Questo anello rappresenta l’unica reliquia della santa che venne arsa sul rogo il 30 maggio 1431, condannata come eretica da un tribunale che emise — come noto — una sentenza di tipo politico, volendo togliere di mezzo colei che aveva risvegliato la Francia cristiana soggiogata al potere inglese.

Giovanna, mistica visionaria, guerriera che non ferì né uccise mai nessuno, occupa un posto glorioso nella storia religiosa e civile di Francia. La sua memoria venne rimossa dalla cultura ufficiale dopo la Rivoluzione del 1789, dopo gli anni di Napoleone, e ancor di più dalle repubbliche laiciste susseguitesi dall’800, ma non uscì mai dall’immaginario popolare, da un popolo fedele che alla sua memoria era rimasto profondamente legato, tanto che molti soldati dell’Armèe francese nelle trincee della prima guerra mondiale si rivolgevano in preghiera alla sua protezione. Il grande poeta Charles Péguy venne ispirato dalla sua figura e dalla sua vita per realizzare una delle sue opere più significative, Il mistero della carità di Giovanna d’Arco.

Come ebbe a dire anni fa il cardinale francese Roger Etchegaray, Giovanna secoli dopo il suo martirio continua ad esserci contemporanea, perché sono la stessa Francia e la stessa Chiesa, ambedue così straziate, a risvegliare il nostro interesse per lei. Il cuore di Giovanna d’Arco si è colmato di pietà a contatto con la miseria del suo tempo: una Francia lacerata ed incerta del proprio destino. Era mossa da pietà per il regno di Francia. E questo per umile adesione alla volontà di Dio. Si pensi alla pena con cui, mentre prendeva le armi a Vaucouleurs, ammise: “Preferirei piuttosto filare accanto alla mia povera madre, perché questo non è il mio mestiere”. “Giovanna sa che la patria non è un’astrazione o un pregiudizio, è una realtà molto concreta. Non è con le idee che si costruisce una patria, ma con la terra che si attacca alla suola delle scarpe”, disse il cardinale.

Non c’è storia più francese della sua. Non vi è un solo uomo o una sola donna francese che possa considerarsi più francese di lei per quella sua vivacità spontanea, che resta tale persino durante la sua prigionia, per quel suo meraviglioso equilibrio che ne rivela le umili origini. 

Giovanna, la sua pietà di umile contadina, la simpatia e commozione che suscitò nel popolo, è l’anima profonda della Francia, quella che due secoli di violento laicismo non hanno cancellato. Così si spiega la passione con cui Philippe de Villiers, un aristocratico popolare figlio della Vandea, la terra che più venne violentata dal terrore giacobino, un uomo che ha dedicato la sua vita a difendere la memoria storica della sua terra, ad affrontare le enormi difficoltà imposte a chi in Francia cerchi di fare politica sostenendo i valori umani e cristiani, ha fortemente voluto riportare “a casa” l’anello di Giovanna. De Villiers è da sempre un ammiratore e un devoto della pulzella, ed è autore tra l’altro del libro Roman de Jeanne d’Arc, e quando nelle scorse settimane ha saputo che l’anello sarebbe stato battuto all’asta a Londra, non ha avuto esitazioni: era assolutamente necessario recuperare l’anello della santa pastorella di Domrémy. Così, insieme al figlio Nicolas, in poche ore è riuscito a mettere insieme — grazie ad offerte private e alla cospicua offerta del Parco Storico vandeano del Puy de Fou di cui è presidente — il denaro necessario per affrontare la sfida dell’asta, sfida che è stata molto difficile. Alla fine il volitivo vandeano ce l’ha fatta: per la cifra di 376mila e 830 euro è riuscito ad assicurarsi la reliquia.

“Una vittoria — ha dichiarato Philippe de Villiers — che appartiene a tutta la Francia. Abbiamo così riscattato la pulzella”. Ed ha ancora annunciato che è partita una campagna di studio e di ricerche per approfondire la “tracciabilità” dell’importante reliqua. Sembra, sempre secondo il settimanale francese Point de vue, che l’anello che indossava Giovanna d’Arco sino alla condanna al rogo fosse stato consegnato a Henri de Beaufort, vescovo di Winchester che assistette al processo. Successivamente l’anello passò al nipote, il re Enrico IV, per poi essere trasmesso ad un ramo cadetto, la famiglia Cavendish-Bentinck dei duchi di Portland, poi a lady Ottoline Morrel che l’offrì in dono al pittore Augustus John. Quest’ultimo cedette l’anello ad un collezionista inglese prima della guerra, nel 1914. Due vendite all’asta, nel 1929 e nel 1947, chez Sotheby’s. Il nuovo proprietario si chiama James Hasson ed è un medico che vive a Londra. Dopo la definitiva acquisizione di Philippe e Nicolas de Villiers ora l’anello di Giovanna d’Arco ritorna finalmente in Francia. Sarà esposto, a disposizione di tutti, dopo un esilio durato quasi 600 anni.

Giovanna, eroina della propria patria perché santa di Dio, ci indica che è la carità che viene da Dio che ci fa amare la concretezza del particolare. È proprio questa carità frutto di grazia a stabilire il limite di ogni progetto politico, così che sia alieno da pretese totalizzanti. La missione profetica della Chiesa, di tutti i suoi figli e figlie, consiste in primo luogo nell’affermare che Dio soltanto è Dio, fonte e termine della storia; una missione che Giovanna di Orléans ha perfettamente adempiuto.

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Papa Francesco: La mitezza è una delle virtù dei diaconi

Posté par atempodiblog le 29 mai 2016

GIUBILEO STRAORDINARIO DELLA MISERICORDIA
GIUBILEO DEI DIACONI

OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO

Piazza San Pietro
Domenica, 29 maggio 2016

[Multimedia]

Papa Francesco

«Servitore di Cristo» (Gal 1,10). Abbiamo ascoltato questa espressione, con la quale l’Apostolo Paolo si definisce, scrivendo ai Galati. All’inizio della lettera si era presentato come «apostolo», per volontà del Signore Gesù (cfr Gal 1,1). I due termini, apostolo e servitore, stanno insieme, non possono mai essere separati; sono come due facce di una stessa medaglia: chi annuncia Gesù è chiamato a servire e chi serve annuncia Gesù.

Il Signore ce l’ha mostrato per primo: Egli, la Parola del Padre, Egli, che ci ha portato il lieto annuncio (Is 61,1), Egli, che è in sé stesso il lieto annuncio (cfr Lc 4,18), si è fatto nostro servo (Fil 2,7), «non è venuto per farsi servire, ma per servire» (Mc 10,45). «Si è fatto diacono di tutti», scriveva un Padre della Chiesa (Policarpo, Ad Phil. V,2). Come ha fatto Lui, così sono chiamati a fare i suoi annunciatori.

Il discepolo di Gesù non può andare su una strada diversa da quella del Maestro, ma se vuole annunciare deve imitarlo, come ha fatto Paolo: ambire a diventare servitore. In altre parole, se evangelizzare è la missione consegnata a ogni cristiano nel Battesimo, servire è lo stile con cui vivere la missione, l’unico modo di essere discepolo di Gesù. È suo testimone chi fa come Lui: chi serve i fratelli e le sorelle, senza stancarsi di Cristo umile, senza stancarsi della vita cristiana che è vita di servizio.

Da dove cominciare per diventare «servi buoni e fedeli» (cfr Mt 25,21)? Come primo passo, siamo invitati a vivere la disponibilità. Il servitore ogni giorno impara a distaccarsi dal disporre tutto per sé e dal disporre di sé come vuole. Si allena ogni mattina a donare la vita, a pensare che ogni giorno non sarà suo, ma sarà da vivere come una consegna di sé. Chi serve, infatti, non è un custode geloso del proprio tempo, anzi rinuncia ad essere il padrone della propria giornata. Sa che il tempo che vive non gli appartiene, ma è un dono che riceve da Dio per offrirlo a sua volta: solo così porterà veramente frutto.

Chi serve non è schiavo dell’agenda che stabilisce, ma, docile di cuore, è disponibile al non programmato: pronto per il fratello e aperto all’imprevisto, che non manca mai e spesso è la sorpresa quotidiana di Dio. Il servitore è aperto alla sorpresa, alle sorprese quotidiane di Dio. Il servitore sa aprire le porte del suo tempo e dei suoi spazi a chi gli sta vicino e anche a chi bussa fuori orario, a costo di interrompere qualcosa che gli piace o il riposo che si merita. Il servitore trascura [va oltre] gli orari. A me fa male al cuore quando vedo un orario, nelle parrocchie: “Dalla tal ora alla tal ora”. E poi? Non c’è porta aperta, non c’è prete, non c’è diacono, non c’è laico che riceva la gente… Questo fa male. Trascurare [andare oltre] gli orari: avere questo coraggio, di trascurare [andare oltre] gli orari. Così, cari diaconi, vivendo nella disponibilità, il vostro servizio sarà privo di ogni tornaconto ed evangelicamente fecondo.

Anche il Vangelo odierno ci parla di servizio, mostrandoci due servitori, da cui possiamo trarre preziosi insegnamenti: il servo del centurione, che viene guarito da Gesù, e il centurione stesso, al servizio dell’imperatore. Le parole che questi manda a riferire a Gesù, perché non venga fino alla sua casa, sono sorprendenti e sono spesso il contrario delle nostre preghiere: «Signore, non disturbarti! Io non sono degno che tu entri sotto il mio tetto» (Lc 7,6); «non mi sono ritenuto degno di venire da te» (v. 7); «anch’io infatti sono nella condizione di subalterno» (v. 8). Davanti a queste parole Gesù rimane ammirato. Lo colpisce la grande umiltà del centurione, la sua mitezza.

E la mitezza è una delle virtù dei diaconi. Quando il diacono è mite, è servitore e non gioca a “scimmiottare” i preti, no, è mite. Egli, di fronte al problema che lo affliggeva, avrebbe potuto agitarsi e pretendere di essere esaudito, facendo valere la sua autorità; avrebbe potuto convincere con insistenza, persino costringere Gesù a recarsi a casa sua. Invece si fa piccolo, discreto, mite, non alza la voce e non vuole disturbare. Si comporta, forse senza saperlo, secondo lo stile di Dio, che è «mite e umile di cuore» (Mt 11,29).

Dio infatti, che è amore, per amore si spinge persino a servirci: con noi è paziente, benevolo, sempre pronto e ben disposto, soffre per i nostri sbagli e cerca la via per aiutarci e renderci migliori. Questi sono anche i tratti miti e umili del servizio cristiano, che è imitare Dio servendo gli altri: accogliendoli con amore paziente, comprendendoli senza stancarci, facendoli sentire accolti, a casa, nella comunità ecclesiale, dove non è grande chi comanda, ma chi serve (cfr Lc 22,26). E mai sgridare, mai. Così, cari diaconi, nella mitezza, maturerà la vostra vocazione di ministri della carità.

Dopo l’Apostolo Paolo e il centurione, nelle letture odierne c’è un terzo servo, quello che viene guarito da Gesù. Nel racconto si dice che al suo padrone era molto caro e che era malato, ma non si sa quale fosse la sua grave malattia (v. 2). In qualche modo, possiamo anche noi riconoscerci in quel servo. Ciascuno di noi è molto caro a Dio, amato e scelto da lui, ed è chiamato a servire, ma ha anzitutto bisogno di essere guarito interiormente. Per essere abili al servizio, ci occorre la salute del cuore: un cuore risanato da Dio, che si senta perdonato e non sia né chiuso né duro. Ci farà bene pregare con fiducia ogni giorno per questo, chiedere di essere guariti da Gesù, di assomigliare a Lui, che “non ci chiama più servi, ma amici” (cfr Gv 15,15).

Cari diaconi, potete domandare ogni giorno questa grazia nella preghiera, in una preghiera dove presentare le fatiche, gli imprevisti, le stanchezze e le speranze: una preghiera vera, che porti la vita al Signore e il Signore nella vita. E quando servite alla mensa eucaristica, lì troverete la presenza di Gesù, che si dona a voi, perché voi vi doniate agli altri.

Così, disponibili nella vita, miti di cuore e in costante dialogo con Gesù, non avrete paura di essere servitori di Cristo, di incontrare e accarezzare la carne del Signore nei poveri di oggi.

Tratto da: La Santa Sede

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I sacerdoti comunicano l’abbraccio del Padre misericordioso

Posté par atempodiblog le 29 mai 2016

giubileo sacerdoti

Il 3 giugno, solennità del Sacratissimo Cuore di Gesù, a 160 anni dall’introduzione di questa festività da parte di Pio IX, viene celebrato il Giubileo dei Sacerdoti che è ispirato alla Misericordia.

I Sacerdoti guidano come pastori sulla strada della Verità: sono ministri della salvezza. Trasmettono il Vangelo: sono ministri della Parola. Comunicano l’abbraccio del Padre misericordioso: sono ministri del perdono. Dispensano, con i sacramenti, il Dono di Dio: sono ministri della grazia della Riconciliazione. In questo giorno come non ricordare il santo Curato d’Ars, Giovanni Maria Vianney (1786-1859), Padre San Pio da Pietrelcina (1887-1968), San Leopoldo Mandic (1886-1942) e il gesuita Padre Felice Cappello, il famoso “Confessore di Roma” (1879-1962). Un grazie a Dio per il loro ministero al Confessionale!
Mons. Giuseppe Greco

«La Porta Santa ci ricorda un’altra Porta che il Concilio Vaticano II spalancò 50 anni fa: la porta verso il mondo, per portare a tutti la misericordia di Dio».
Papa Francesco

Tratto: la Domenica

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La grandezza dell’umiltà. La virtù che salverà il mondo

Posté par atempodiblog le 29 mai 2016

Presentazione de “La grandezza dell’umiltà. La virtù che salverà il mondo”, autore padre Livio Fanzaga, Edizioni PIEMME

L' Angelus di Millet

Sarebbe un errore considerare l’umiltà una virtù di dettaglio, come se fosse un ornamento prezioso, ma non necessario. Nonostante questa virtù sia una caratteristica fondamentale del Figlio di Dio e della Vergine che lo ha generato, essa non gode la fama di altre virtù ritenute più eccellenti. In realtà è una virtù fondamentale, essendo il terreno sul quale crescono tutte le altre, ma soprattutto è una delle più difficili da conseguire, tanto da poter dire che l’umiltà è la misura della santità. Infatti, se è vero che la carità è la regina di tutte le virtù, è per la presenza dell’umiltà che essa “non si gonfi a”, rischiando di corrompere se stessa. Grazie all’umiltà, più uno cresce in santità e più si ritiene un peccatore. Cadrebbe rovinosamente dalla vetta della perfezione un santo che si compiacesse di essere tale. L’umiltà è una virtù talmente ardua da raggiungere che è pressoché sconosciuta nelle religioni e nelle culture non cristiane: questo fiore rarissimo è cresciuto nel giardino della divina rivelazione ed è rimasto un’esclusiva del cristianesimo. L’umiltà infatti è una luce di verità che viene da Dio e che rivela all’uomo la sua condizione esistenziale di creatura. Laddove regna la tenebra, l’uomo è in balìa del suo io, sempre pronto a prevaricare pur di affermare se stesso.

La grandezza di questa virtù, messa ai margini della vita sociale, si coglie nella contrapposizione al vizio capitale della superbia. Nella Sacra Scrittura, come nella tradizione spirituale cristiana, la superbia, con tutte le sue proliferazioni, è il più insidioso e il più deleterio dei vizi. Infatti è a causa della pretesa di Adamo di essere «come Dio» che l’umanità è precipitata nella catastrofe esistenziale in cui si trova, perdendo non solo Dio, ma anche i doni di cui l’uomo era stato ricolmato. La superbia viene messa al primo posto nella scala dei vizi capitali ed è considerata la madre di tutti gli altri. La sua origine è il veleno iniettato dalla serpe infernale che non tollera l’umile sottomissione alla divina volontà. In ultima istanza, la superbia è il rifiuto del proprio status di creatura, nella folle esaltazione di se stessi e nell’illusione di essere padroni della propria vita. Persino la cultura pagana, pur non conoscendo l’umiltà nella mirabile luce della divina rivelazione, coglie la pericolosità del tentativo dell’uomo di andare oltre i propri limiti. Il peccato di «Hybris», col quale l’uomo sfida il divino, è considerato dai Greci il più grave e il più gravido di conseguenze. L’uomo di oggi, nel suo tentativo di costruire un mondo senza Dio, mettendosi al suo posto, ha dimenticato la grande lezione della sapienza antica.

Le riflessioni che si snodano nei capitoli del libro hanno come scopo di portare il lettore nel santuario della sua interiorità, per conoscere nel medesimo tempo la sua miseria e la sua grandezza. L’umiltà infatti è uno sguardo di verità su se stessi, che permette di vedere il male che deturpa e, nel medesimo tempo, l’immagine divina che eleva e che nobilita. L’uomo non è mai così grande come quando riconosce di essere un peccatore, guardando se stesso e gli altri con lo sguardo della compassione. Ma non è mai così in pericolo come quando si chiude nell’arroganza, credendosi superiore agli altri, e si indurisce nell’incapacità di chiedere perdono. Solo la virtù dell’umiltà è la medicina che consente all’uomo di liberarsi dalla tirannia del suo “io” e di gustare dentro di sé la dolcezza della pace.

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L’umiltà è una perla rara
L’umiltà è per sua natura una virtù nascosta, come i fiori che, sul finire dell’inverno, si celano sotto la neve, come se temessero di mostrarsi nel loro splendore. L’umiltà è schiva e non ama il palcoscenico, benché poche virtù più di essa meritino l’applauso. L’umiltà è silenziosa, perché non vuole attirare l’attenzione e preferisce mettersi in ascolto invece di salire in cattedra. L’umiltà, nella corsa sfrenata verso la visibilità, preferisce l’angolo di ombra, dove nessuno la nota. L’umiltà, alla scalata che porta alla gloria, preferisce la discesa nella valle oscura. L’umiltà cede volentieri il primo posto, dove tutti fanno ressa, e si sistema all’ultimo dove nessuno la spodesta. L’umiltà veste i panni dimessi della persona qualunque, perché desidera passare inosservata. L’umiltà tende la mano quando nessuno guarda, perché non si sappia a chi appartenga. L’umiltà più cresce e più diminuisce di statura, fino a perdersi fra la spazzatura. L’umiltà è operosa, ma fa sparire le tracce, lasciando una scia di profumo soave. L’umiltà ama l’oblio, per perdersi completamente in Dio. Fare l’elogio dell’umiltà è un’impresa ardua. Solo l’umilissima Vergine ne è stata capace. L’umiltà è una perla di inestimabile valore, ma è così rara che pochi la trovano. [...]

L’umiltà luce di verità
L’umiltà è una luce che permette di guardare a se stessi con misericordia, prendendo atto che siamo creature fragili e inclini a commettere errori. L’umile non fa fatica a riconoscersi peccatore. Questo spiega perché i santi, più avanzavano nel cammino di conversione e più si battevano il petto. Tuttavia non fermavano lo sguardo sulle proprie miserie, ma lo elevavano sulla compassione divina, che è sempre pronta a perdonare chi riconosce le proprie colpe.

L’umiltà è uno sguardo vero sulla realtà, vista nella luce di Dio. L’umile vede se stesso e gli altri a partire da Colui che conosce ogni cosa nella sua verità. C’è un legame profondo fra l’umiltà e la verità. L’una è la causa, l’altra l’effetto. L’umiltà ti permette di vedere le cose così come sono, come Dio le vede. Non potrai certo avere la profondità del suo sguardo, ma ti poni nella giusta prospettiva. Quando guardi a te stesso nella luce divina, non potrai mai disprezzarti perché, insieme alla tua miseria, vedrai la tua grandezza. Allo stesso modo non potrai esaltarti, perché ti sarà chiaro che nulla è tuo e tutto ti è stato donato.

Potremmo definire l’umiltà lo sguardo interiore che vede le cose grazie alla luce vera che viene dall’alto. Più una persona è umile e più il suo sguardo è luminoso. Per questo le persone più sono umili e più sono sapienti. L’umile ancella del Signore ha meritato di essere la sede della sapienza.

Al contrario la superbia è una forma di accecamento. I superbi se ne rendono conto soltanto se hanno la grazia di convertirsi e di fare l’esperienza della luce divina. Diversamente avviene per loro quanto detto da Gesù riguardo a coloro che sono ciechi, ma credono di vedere, e perciò il loro peccato rimane (cfr. Giovanni 9, 41).

Per quale motivo la superbia è una forma di accecamento spirituale? La ragione risiede nel fatto che il superbo non vede la realtà attraverso la luce di Dio, cercando di partecipare al suo sguardo, ma attraverso la finestra angusta del proprio io.

In ogni uomo c’è la luce dell’intelletto che gli viene donata dal Creatore, grazie alla quale diviene capace di conoscere le cose divine, ma essa si estingue nella misura in cui si allontana dalla fonte. Più l’uomo esalta il suo io, sostituendosi a Dio, e più precipita nelle tenebre della menzogna.

Comprendi, caro amico, che vi è pure un rapporto di causa ed effetto fra superbia e menzogna. Non per nulla l’angelo ribelle è bollato da Gesù come colui che «non ha perseverato nella verità, perché non vi è verità in lui. Quando dice il falso, parla del suo, perché è menzognero e padre della menzogna» (Giovanni 8, 44).

La menzogna della superbia ha la sua radice nell’esaltazione dell’“io” che, nella vita di una persona, ha preso il posto di Dio. Il superbo non vede più la realtà così com’è, nella luce della verità, ma la vede deformata nella falsa luce della menzogna. Si illude di vedere, ma in realtà è accecato. Non distingue più il bene dal male, il vero dal falso, il giusto dall’ingiusto. Non è più in grado di incamminarsi sulla via della salvezza, mentre corre sempre più veloce sulla via della rovina. Solo quando piegherà le ginocchia e invocherà la luce dall’alto, cadranno le squame dai suoi occhi – come accadde a Saulo, divenuto Paolo – e incomincerà a vedere. L’accecamento è la conseguenza inevitabile di quando si guarda alla realtà nella prospettiva dell’io. Tutto viene falsificato perché a fondamento della vita viene messa una creatura al posto del Creatore. Se la superbia è avvolta dalla tenebra della menzogna, l’umiltà si ammanta della luce di verità.

L’umile non si disprezza, non cede a forme di falsa modestia, ma cerca lo sguardo di Dio. Non esita a professarsi creatura, nella consapevolezza gioiosa della sua totale dipendenza dal Creatore. Nella luce divina vede il suo nulla, perché non esisterebbe se Dio non lo sostenesse. Vede anche i suoi limiti, le sue miserie, le sue ferite e i suoi peccati. Più il suo occhio è limpido e più la realtà si manifesta al suo sguardo come Dio la vede. Coglie fino in fondo la malizia e l’orrore di ogni peccato commesso, ma nel medesimo tempo l’amore che ha portato Gesù fino alla morte di croce. Non si nasconde, non si giustifica, ma lascia che l’amore misericordioso curi le ferite. Non fa fatica a professarsi peccatore, bisognoso di perdono e di redenzione. Lascia che il suo cuore sia trafitto dalla compunzione, perché possa scendere copiosa la grazia del perdono. L’umile chiede, l’umile accetta, l’umile ringrazia. Questo è ciò che Dio desidera di più, perché la sua infinita misericordia trovi cuori che la accolgono. L’umile vede anche la grande dignità nella quale Dio ha collocato l’uomo, creandolo capace di conoscerlo, di amarlo e di servirlo. L’umile vede la bellezza e la grandezza della sua persona, sulla quale Dio si è chinato per elevarla fino a sé. L’umile vede le grazie e i doni che l’Onnipotente riversa sulle sue creature, ma sa che potrebbe perdere tutto con un solo movimento falso del cuore. Col cuore pieno di gratitudine ringrazia e canta la gloria di Dio. Egli sa che la gloria di Dio non è la celebrazione di se stesso, ma la partecipazione delle sue creature alla sua immensa grandezza. L’umile gode della sua piccolezza ed è felice di essere una creatura, alla quale il Padre celeste ha dato la dignità di figlio. L’umile non indietreggia dinanzi alle missioni che Dio gli affida, perché sa che la falsa umiltà è una forma di superbia, ma le accetta con coraggio, confidando nell’aiuto di Dio. È con questo atteggiamento che Davide ha affrontato e sconfitto Golia. Ed è con questa umiltà coraggiosa che l’ancella del Signore è divenuta la madre del Salvatore. L’umile vede gli altri nella luce di Dio: non li considera dei rivali, non li guarda dall’alto in basso, non si lascia morsicare dalla serpe dell’invidia, non si considera superiore a nessuno.

Chi si sente perdonato, amato e apprezzato da Dio non sente il bisogno di sminuire gli altri, di criticarli e di metterli in cattiva luce. Al contrario gioisce perché il giardino di Dio è ricolmo di una grande varietà di fiori, ognuno con la sua specifica bellezza. Lui si considera un fiore che concorre con tutti gli altri all’opera mirabile della creazione e della redenzione. L’umiltà ottiene il dono della conoscenza delle cose divine e rende sapienti le persone semplici e nascoste. È nei loro cuori che brilla la luce limpida della verità.

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Papa Francesco: non si elimina la sofferenza sopprimendo chi soffre

Posté par atempodiblog le 25 mai 2016

Papa Francesco: non si elimina la sofferenza sopprimendo chi soffre
Occorre diffondere “un concetto di scienza che si fa servizio e non seleziona”: è quanto afferma il Papa in un messaggio, a firma del cardinale segretario di Stato Pietro Parolin, ai partecipanti al Convegno promosso al Policlinico Gemelli di Roma sul tema “Custodire la vita: l’Hospice perinatale, una risposta scientifica, etica e umana alla diagnosi prenatale”.
di Sergio Centofanti – Radio Vaticana

Policlinico Universitario Gemelli

Papa Francesco invita “al quotidiano impegno di attuazione del progetto di Dio sulla vita proteggendola con coraggio e amore, con lo stile della vicinanza e della prossimità, prendendo le distanze dalla cultura dello scarto, che propone solo itinerari di morte pensando di eliminare la sofferenza sopprimendo chi soffre”. Il Pontefice auspica il raggiungimento di “nuovi traguardi nel servizio della persona e nel progresso della scienza medica in costante riferimento ai perenni valori umani e cristiani, cercando di rispondere al massimo della povertà quale è la situazione del bambino con gravi patologie, con il massimo dell’amore”.

Nel suo intervento al Convegno, mons. Claudio Giuliodori, assistente ecclesiastico generale dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, ha sottolineato che “di fronte ad una cultura e ad una prassi sanitaria che hanno imboccato le scorciatoie dell’abbandono delle persone più fragili e dei loro familiari”, l’Hospice perinatale del Gemelli “vuole essere una presenza forte e coraggiosa, di alto profilo scientifico e con un chiaro approccio etico e umano alle problematiche dei nascituri e delle loro famiglie”. Oggi – ha ricordato – “sotto la pressione di nuove e maggiori conoscenze scientifiche e soprattutto di tecnologie riproduttive sempre più raffinate, si assiste da una parte alla ricerca ossessiva della generazione della vita, producendola ad ogni costo e in ogni modo senza alcuna considerazione per la dignità della donna e, soprattutto, per i diritti del nascituro, ridotto a prodotto biologico da sottoporre a tutte le selezioni di qualità che si applicano alla produzione dei beni di consumo. Dall’altra parte proprio perché equiparato ad un prodotto, si ritiene di poterne fare ciò che si vuole in modo indiscriminato. L’incalzante ritornello che esalta e assolutizza l’affermazione dei diritti individuali viene spesso usato come grimaldello culturale e legislativo per autorizzare ogni forma di pratica medica che trasforma il desiderio di paternità e maternità in diritto da assecondare senza alcuna remora. Vengono giustificate così la fecondazione in vitro, la creazione di embrioni in laboratorio e il loro congelamento, la riduzione selettiva dopo l’impianto, l’interruzione di gravidanza per qualsiasi ragione e al minimo sospetto, spesso anche infondato, che ci possano essere complicazioni”. “L’uomo – ha detto mons. Giuliodori – si è sostituito a Dio facendosi signore e padrone della vita e decidendo secondo le istanze del momento chi ha diritto a vivere e chi no, senza interrogarsi più su ciò che sia bene e ciò che sia male, giusto o ingiusto, vero o falso”.

E’ una situazione – ha osservato – “che rende fragile il nascituro ma anche i genitori, soprattutto quando vengono a trovarsi di fronte ad un sistema sanitario che ha imboccato decisamente la strada della selezione eugenetica e che propone, come ‘soluzione terapeutica’ (e non possiamo non sottolineare l’ipocrisia e l’intrinseca contraddittorietà di una tale espressione) la soppressione dell’incolpevole creatura, rea solo di aver ancor più bisogno della cura e dell’amore dei genitori e della dedizione scientifica e assistenziale dei sanitari. Lo stupore e la meraviglia di fronte alla vita nascente non può venir meno davanti all’insorgere di qualche problema che può presentarsi. Forse pensiamo che nel corso complessivo della vita non si possano presentare difficoltà e imprevisti, situazioni di malattia grave e di morte? Ma nessuno si arroga il diritto di sopprimere l’altro perché ha dei problemi, piuttosto si cerca di aiutarlo come meglio possibile da affrontare le difficoltà”.

Spesso, i genitori – ha rilevato – “in presenza di problematiche durante il tempo della gestazione, si trovano da soli ad affrontare il dilemma di come farsi carico di eventuali criticità o annunciate malformazioni. La tentazione di scartare quella vita che ha delle maggiori fragilità o risulta incompatibile con la sopravvivenza dopo il parto, può essere forte e diventa quasi insuperabile quando viene presentata come ‘soluzione terapeutica’ avvallata e, spesso, consigliata dai medici stessi. Ma così si aggiunge sofferenza a sofferenza e non si risolve affatto il problema perché ogni vita soppressa volontariamente lascia sempre un vuoto e una ferita”.

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Papa Francesco: santità è sperare con coraggio un passo avanti al giorno

Posté par atempodiblog le 24 mai 2016

Papa Francesco: santità è sperare con coraggio un passo avanti al giorno
“Camminare alla presenza di Dio in modo irreprensibile”. Questo, ha affermato Papa Francesco all’omelia della Messa a Casa S. Marta, vuol dire muoversi verso la santità. Un impegno che però ha bisogno di un cuore che sappia sperare con coraggio, mettersi in discussione, aprirsi “con semplicità” alla grazia di Dio.
di Alessandro De Carolis – Radio Vaticana

Santo Padre

Non si compra, la santità. Né la guadagnano la migliori forze umane. No, “la santità semplice di tutti i cristiani”, “la nostra, quella che dobbiamo fare tutti i giorni”, afferma il Papa, è una strada che si può percorrere solo se a sostenerla sono quattro elementi imprescindibili: coraggio, speranza, grazia, conversione.

Il cammino del coraggio
Francesco commenta il brano liturgico tratto dalla prima Lettera di Pietro, che definisce un “piccolo trattato sulla santità”. Quest’ultima, dice, è anzitutto un “camminare alla presenza di Dio in modo irreprensibile”:

“Questo camminare: la santità è un cammino, la santità non si può comprare, non si vende. Neppure si regala. La santità è un cammino alla presenza di Dio, che devo fare io: non può farlo un altro nel mio nome.

Io posso pregare perché quell’altro sia santo, ma il cammino deve farlo lui, non io. Camminare alla presenza di Dio, in modo irreprensibile. E io userò oggi alcune parole che ci insegnino come è la santità di ogni giorno, quella santità – diciamo – anche anonima. Primo: coraggio. Il cammino verso la santità vuole coraggio”.

Speranza e grazia
“Il Regno dei Cieli di Gesù”, ripete il Papa, è per “quelli che hanno il coraggio di andare avanti” e il coraggio, osserva subito dopo, è mosso dalla “speranza”, la seconda parola del viaggio che porta alla santità. Il coraggio che spera “in un incontro con Gesù”. Poi c’è il terzo elemento, quando Pietro scrive: “Ponete tutta la vostra speranza in quella grazia”:

“La santità non possiamo farla noi da soli. No, è una grazia. Essere buono, essere santo, andare tutti i giorni un po’ un passo avanti nella vita cristiana è una grazia di Dio e dobbiamo chiederla. Coraggio, un cammino. Un cammino, che si deve fare con coraggio, con la speranza e con la disponibilità di ricevere questa grazia. E la speranza: la speranza del cammino.

E’ tanto bello quel capitolo XI della Lettera agli Ebrei, leggetelo. Racconta il cammino dei nostri padri, dei primi chiamati da Dio. E come loro sono andati avanti. E del nostro padre Abramo dice: ‘Ma, lui uscì senza sapere dove andasse’. Ma con speranza”.

Convertirsi tutti i giorni
Nella sua lettera, Pietro – prosegue Francesco – mette in rilievo l’importanza di un quarto elemento. Quando invita i suoi interlocutori a non conformarsi “ai desideri di un tempo”, li sprona essenzialmente a cambiare dal di dentro il proprio cuore, in un continuo, quotidiano lavorio interiore:

“La conversione, tutti i giorni: ‘Ah, Padre, per convertirmi io devo fare penitenze, darmi delle bastonate…’. ‘No, no, no: conversioni piccole. Ma se tu sei capace di riuscire a non sparlare di un altro, sei sul buon cammino per diventare santo’. E’ così semplice!

Io so che voi mai sparlate degli altri, no? Piccole cose… Ho voglia di fare una critica al vicino, al compagno di lavoro: mordere la lingua un po’. Si gonfierà un po’ la lingua, ma il vostro spirito sarà più santo, in questo cammino. Niente di grande, mortificazioni: no, è semplice.

Il cammino della santità è semplice. Non tornare indietro, ma sempre andare avanti, no? E con fortezza”.

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Il salto da fare

Posté par atempodiblog le 24 mai 2016

Gesù

“A proposito di Gesù, c’è un salto da fare che non riguarda solo i non-credenti, ma anche i credenti. Per i non-credenti il salto è passare da «Gesù solo uomo» a «Gesù anche Dio». Per i credenti il salto è passare da «Gesù personaggio» a «Gesù persona». Per «Gesù personaggio» io intendo un Gesù che rimane sostanzialmente nel passato, del quale si può parlare a piacimento ma al quale, o con il quale, nessuno si sogna di parlare. Se uno parla a Giulio Cesare o a Napoleone lo mandano naturalmente in manicomio, invece Gesù persona è un Gesù vivo, è Gesù che ha detto «io sono con voi tutti i giorni», è Gesù risorto, con il quale si può parlare e al quale si può parlare.

La maggioranza dei cristiani, ahimè, non è mai passata dal Gesù personaggio — cioè un insieme di dottrine, di dogmi — a Gesù persona viva; non è passata mai da «Gesù Egli» a «Gesù Tu». Per questo la fede di molti cristiani è come il sole invernale, che illumina ma non riscalda. Permettetemi, carissimi amici, di confidarvi quello che ha riempito e riempie la mia vita di serenità, di pace e di gioia. Ed è precisamente un rapporto personale, da amico, continuo, così semplice e familiare con Gesù”.

di padre Raniero Cantalamessa
Tratto da: Una casa sulla Roccia

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Quelli che si alzano al mattino e sorridono alla vita

Posté par atempodiblog le 24 mai 2016

Quelli che si alzano al mattino e sorridono alla vita
Padre Livio Fanzaga – Radio Maria

Padre Livio Fanzaga

Papa Francesco appare sempre sorridente e così conquista il cuore degli umili e dei semplici. Non è il sorriso forzato di chi nasconde il malumore, ma l’espressione di una gioia intima che trabocca dal cuore. E’ la gioia che nasce dall’incontro con Gesù nostra pace e nostra felicità.

Che dire di quei cristiani “duri e puri”, che guardano il mondo dall’alto in basso, che ti scrutano con l’occhio indagatore e che ti puntano il dito minaccioso?

Sono quelli che non sorridono, ma al contrario ringhiano ogni volta che saltano giù dal letto. A loro offriamo come medicina salutare le parole di Francesco:

“La carta di identità del cristiano è la gioia del vangelo. Noi possiamo andare avanti verso quella speranza che i primi cristiani dipingevano come un’ancora in cielo. Noi prendiamo la corda e andiamo lì, verso quella speranza che ci dona gioia. Un cristiano è un uomo e una donna di gioia nel cuore. Non esiste un cristiano senza gioia! ‘Ma, Padre, io ne ho visti tanti!’ Non sono cristiani! Dicono di esserlo, ma non lo sono! Gli manca qualcosa.

La carta di identità del cristiano è la gioia, la gioia del Vangelo, la gioia di essere eletti da Gesù, salvati da Gesù, rigenerati da Gesù; la gioia di quella speranza che ci aspetta; la gioia che, anche nelle croci e nelle sofferenze di questa vita, si esprime in un altro modo, che è la pace, nella certezza che Gesù ci accompagna, che è con noi”.

Quando ti alzi al mattino benedici il mondo, sul quale risplende il sole della speranza.

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La bellezza incantevole e la dolcezza ineffabile della Sapienza incarnata

Posté par atempodiblog le 22 mai 2016

La bellezza incantevole e la dolcezza ineffabile della Sapienza incarnata
Da: ‘L’amore dell’eterna Sapienza’ di  San Luigi Maria Grignion de Montfort

Montfort

La Sapienza s’è fatta uomo solo per attirare i cuori degli uomini alla sua amicizia ed alla sua imitazione. Ecco perché s’è compiaciuta di adornarsi di tutte le amabilità e dolcezze umane più incantevoli e sensibili, senza difetti né brutture.

I) La Sapienza è dolce nelle sue origini
Se noi la consideriamo nelle sue origini, essa è soltanto bontà e dolcezza. È dono dell’amore del Padre ed effetto di quello dello Spirito Santo. È data a noi dall’amore ed è formata dall’amore: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito». È dunque tutta amore, anzi è l’amore stesso del Padre e dello Spirito Santo.

È nata dalla madre più dolce, affettuosa e bella, dalla divina Maria. Volete spiegarmi la dolcezza di Gesù? Spiegatemi prima la dolcezza di Maria sua madre, alla quale egli somiglia nella soavità del temperamento. Gesù è figlio di Maria e, perciò, in lui non si trova né fierezza né rigore né bruttezza e ancora infinitamente meno che nella madre, perché è la Sapienza eterna, la dolcezza e la bellezza stessa.

II) È dolce, secondo i profeti
I profeti, ai quali venne rivelata in anticipo la Sapienza incarnata, la chiamano pecorella e agnello mansueto. Predicono che per la sua dolcezza non spezzerà una canna incrinata, e non spegnerà uno stoppino dalla fiamma smorta, cioè che avrà tanta bontà che quando un povero peccatore sarà mezzo affranto, accecato, perduto per le proprie colpe e quasi con un piede nell’inferno, non lo lascerà perdersi del tutto, a meno ch’egli stesso non la costringa.

San Giovanni Battista, che per quasi trent’anni restò nel deserto a meritarsi con le sue austerità la conoscenza e l’amore della Sapienza incarnata, appena la vide, additandola ai discepoli, esclamò: «Ecco l’agnello di Dio, ecco colui che toglie il peccato del mondo!». Non disse infatti come sembra avrebbe dovuto: «Ecco l’Altissimo, ecco il Re della gloria, ecco l’Onnipotente…». Conoscendola però a fondo più di qualsiasi altro uomo del passato o del futuro, disse: «Ecco l’agnello di Dio! Ecco la Sapienza eterna che per inebriare i cuori e rimettere i nostri peccati ha unito in sé tutte le dolcezze di Dio e dell’uomo, del cielo e della terra!».

III) È dolce nel nome
Ma che cosa ci dice il nome di Gesù, il nome proprio della Sapienza incarnata, se non carità ardente, amore infinito e dolcezza incantevole?

Gesù, Salvatore, colui che salva l’uomo, colui del quale è prerogativa amare e salvare l’uomo! «Nulla si canta di più soave, nulla si ascolta di più giocondo, nulla si pensi di più dolce di Gesù, il Figlio di Dio!»
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Oh, quanto è dolce all’orecchio ed al cuore di un’anima predestinata il nome di Gesù! «È miele sulla bocca, melodia nell’orecchio, giubilo nel cuore!».

IV) È dolce nel volto
«Gesù è dolce nel volto, dolce nelle parole, dolce nelle azioni».

L’amabilissimo Salvatore aveva un volto così dolce e buono, che invaghiva i cuori e gli occhi di quanti lo vedevano. I pastori che vennero a trovarlo nella stalla furono attratti dalla dolcezza e soavità del suo viso, tanto che restavano giorni interi come rapiti fuori di sé a guardarlo. I re, anche i più fieri, non appena conobbero le dolci attrattive di questo bel bambino, deposta ogni fierezza, caddero senza difficoltà ai piedi della sua culla.

Quante volte si dissero l’un l’altro: «Amici, com’è dolce star qui! Non si trovano nei nostri palazzi gaudii simili a quelli che si gustano in questa stalla alla vista di questo Dio-bambino!».

Quando Gesù era giovanissimo, le persone afflitte ed i bambini venivano da tutti i paesi vicini per vederlo e gioire con lui. Si dicevano a vicenda: «Andiamo a vedere il piccolo Gesù, il bel bambino di Maria». La bellezza e la maestà del suo volto, diceva san Giovanni Crisostomo, erano così dolci ed al tempo stesso così imponenti, che quanti lo videro non poterono non amarlo.

Qualche re molto distante dalla sua terra, alla fama della sua bellezza volle averne il ritratto, e si racconta che nostro Signore medesimo lo abbia inviato al re Abgar in segno di speciale benevolenza.

Alcuni autori assicurano che i soldati romani ed i giudei gli velarono il volto per maltrattarlo e schiaffeggiarlo con maggior libertà, perché dai suoi occhi e dal viso gli traspariva uno splendore di bellezza così dolce ed incantevole che disarmava i più crudeli.

V) È dolce nelle parole
Gesù è dolce nelle parole. Mentre viveva in terra, conquistava tutti con la dolcezza delle parole, e non lo si udì mai alzare troppo la voce né discutere con animosità, proprio come avevano predetto i profeti: «Non griderà né alzerà il tono, non farà udire in piazza la sua voce».

Chi l’ascoltava spassionatamente era colpito dalle parole di vita che uscivano dalla sua bocca, tanto da esclamare: «Mai un uomo ha parlato come parla quest’uomo!». E chi lo odiava, molto sorpreso dall’eloquenza e sapienza delle sue parole, si chiedeva: «Da dove mai viene a costui questa sapienza?».

Parecchie migliaia di umili persone abbandonarono le case e le famiglie per andarlo ad ascoltare fin nell’interno del deserto, trascorrendo diversi giorni senza bere e senza mangiare, solo sazi della soavità della sua parola.

E con la dolcezza del parlare, quasi come un’esca, attrasse gli apostoli alla sua sequela, guarì gli ammalati più incurabili, consolò i più afflitti. A Maria Maddalena, desolata, disse soltanto «Maria!» e la colmò di gioia e di dolcezza.

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Educare i figli

Posté par atempodiblog le 22 mai 2016

educare

Educare i figli è come tenere in mano una saponetta bagnata: se la stringi troppo schizza via; se la stringi poco, non la tieni in mano.

Educare è come costruire un capolavoro di equilibrio!

Educare è come insegnare ad andare in bicicletta: il bambino ha bisogno di essere sorretto e al tempo stesso di essere libero. Come la lavanda diventa fieno se le togli il profumo, così l’educazione diventa allevamento se le togli i valori .

Don Pino Pellegrino

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L’infinito culto di amore alla Santissima Trinità

Posté par atempodiblog le 22 mai 2016

SS Trinità

“Lo Spirito Santo vivente in te è l’infinito culto di amore alla Santissima Trinità per te e tuo”.

Beato Giustino M. Russolillo

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Nessuno mai è una cosa

Posté par atempodiblog le 20 mai 2016

Il caso Antinori e le nostre indifferenze
Nessuno mai è una cosa
di Marina Corradi – Avvenire
Tratto da: Radio Maria

Marina Corradi

Dopo l’arresto del ginecologo Severino Antinori e il sequestro della clinica per la infertilità Matris spuntano dalle carte dell’inchiesta di Milano i nomi di 23 ragazze, che si sarebbero prestate alla ovodonazione. Si scopre che vengono dall’Albania, dalla Romania, dal Sudamerica, da Paesi poveri; solo due le italiane – una di Messina e una di Bari, cioè da un Sud con ampie sacche di disoccupazione e povertà. E queste provenienze, incrociate con la nota scarsità di ovodonatrici in Italia, tale che anche degli ospedali pubblici hanno dovuto rivolgersi all’estero, dovrebbero fare pensare. Pare improbabile che una giovane donna rumena o cubana venga da tanto lontano, semplicemente animata dalla altruistica volontà di donare le sue cellule germinali, dietro a un modesto rimborso spese.

Se questa volontà generosa fosse davvero tale, non si capisce perché non dovrebbe aiutare a diventare madri delle sue connazionali, amiche o parenti. Invece gli itinerari di queste donne sono gli stessi, a pensarci, della manodopera meno qualificata, quella di colf e badanti, che convergono verso l’Italia, spesso pagate in nero. La versione divulgata da alcuni media, secondo cui le donatrici sarebbero delle donne straniere dalla mentalità più “libera” e evoluta della nostra, appare dunque contraddetta da quei passaporti: quando non ci sia di mezzo un rapporto di sangue o di amicizia, è il bisogno che spinge a mettere a disposizione il proprio patrimonio biologico.

D’altronde, e senza bisogno di inchieste penali, era abbastanza chiaro che difficilmente una donna si sottopone a esami medici, bombardamenti ormonali e un intervento chirurgico, per pura gratuità. Si inizia a delineare cioè, fra le pieghe dalla fecondazione assistita, l’emergere di una sorta di Lumpenproletariat, un nuovo sottoproletariato femminile disponibile a mettere in vendita una parte del proprio corpo, e non certo una parte irrilevante, giacché da quegli ovuli, quando vengano fecondati, può nascere un bambino. Fa pensare, che trenta o quarant’anni fa il femminismo gridasse nelle strade d’Occidente contro lo sfruttamento delle donne, e ora invece cominci a diventare pensabile vendere la propria fecondità, o perfino a rendersi disponibili a una gestazione per altri, “affittando” il proprio utero. Si registra, è vero, un sussulto di fronte a questa “modernità” nelle fila del femminismo storico o semplicemente fra donne esponenti della cultura e della politica; eppure questo condivisibile rigetto non appare ancora qualcosa di elitario, di riservato alla metà “giusta” del mondo? Poi invece dall’Albania e dal Sudamerica, e perfino dal nostro Sud, arrivano giovani donne disposte a « donare » la loro fecondità, per bisogno.

«Con quel che ho preso dall’intervento mi sono pagata tre mesi di affitto», ha raccontato una ragazza spagnola a un giornale italiano, descrivendo la propria esperienza in una clinica del suo Paese. Il mondo del precariato e della disoccupazione giovanile di massa forse sfocia anche nella disponibilità a cedere qualcosa del proprio corpo. Sarà una vittoria del progresso, della modernità? Ne dubitiamo fortemente. Piuttosto ci pare la ultima declinazione di una certa visione attuale del mondo, secondo cui tutto è mercato, tutto si può vendere. E ci sarà magari anche qualcuno che dirà: che male ci sarebbe, se anche le donne fertili mettessero i loro ovuli a disposizione delle meno fortunate, dietro un ragionevole compenso. Ma sono obiezioni che valgono in linea teorica, finché si discute di estranee. Immaginiamoci invece che una nostra figlia ci annunci che ha firmato il contratto, e che sarà madre biologica di figli che non vedrà mai. Chi di noi resterebbe indifferente? Ci sono cose che attengono alla natura degli esseri umani, e che non possono essere vendute senza che, consenziente o no che sia il venditore, ci sia sfruttamento. La questione sta nel vedere il mondo come un unico grande mercato globale, o nel riconoscere che ci sono cose inalienabili – ciò che sappiamo molto bene, quando parliamo di figli nostri. In fondo, il mondo ridotto a mercato spesso denunciato dal Papa finisce quando si pensa all’altro come a un figlio, e non come a una cosa.

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S. Pietro: Messa del card. Bagnasco per il 50.mo di sacerdozio

Posté par atempodiblog le 19 mai 2016

Card Bagnasco

Papa Francesco lo aveva detto nel suo discorso ai vescovi italiani: un sacerdote “non ha un’agenda da difendere” perché affida “ogni giorno” la sua vita a Dio. Il card. Angelo Bagnasco ha riecheggiato questo pensiero all’omelia della Messa celebrata [...] nella basilica di San Pietro per il suo 50.mo di sacerdozio.

Stare nella volontà di Dio e nella pace
“Sappiamo ormai per esperienza – ha detto il presidente della Cei – che è impossibile vivere di programmi e attività, e che il lavoro generoso è per noi, il frutto è nelle mani di Dio”.

“Abbiamo tutti bisogno di un cuore caldo – ha detto ancora – e sappiamo che il calore interiore, capace di riempire la vita e di rivestire ogni azione di eternità, non è dato dal successo, dal consenso, dal seguito che si può conseguire, ma dallo stare umile nella volontà di Dio: nella pace! Solo questo è il segreto della nostra vita di sacerdoti e di celibi”.

La vicinanza a Papa Francesco
Il card. Bagnasco ha espresso “affettuosa vicinanza e piena e operosa collaborazione” a Papa Francesco. “Preghiamo – ha detto – stretti al Santo Padre che, vicini alla tomba dell’Apostolo Pietro, prega con noi e per noi. Noi preghiamo per lui, per la sua missione di Pastore universale”.

Solo l’amore di Dio ci spinge ad amare i fratelli
In precedenza il cardinale aveva ricordato come guardando agli anni trascorsi di sacerdozio, “abbiamo meglio compreso che è il Signore la sorgente della carità pastorale, non noi, la nostra buona volontà, le nostre doti: solo il suo amore per noi ci rende capaci e ci spinge ad amare i fratelli senza trattenerli a noi stessi; a diventare un frammento di pane per la fame degli uomini; ad essere mano misericordiosa di Cristo che accoglie, ascolta, accompagna i poveri e i deboli nel corpo e nello spirito”. Per questo, ha concluso, “non finiremo mai di ringraziare il Signore!”.

E poi l’invito: “Preghiamo, cari amici, gli uni per gli altri, per i nostri presbiteri, le comunità affidate alla nostra cura di Padri e Pastori”. (A.D.C.)

Fonte: Radio Vaticana

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Papa: soldi e potere sporcano la Chiesa, basta arrampicatori

Posté par atempodiblog le 17 mai 2016

Papa: soldi e potere sporcano la Chiesa, basta arrampicatori
La via che indica Gesù è la via del servizio, ma spesso nella Chiesa si ricercano potere, soldi e vanità. E’ il vibrante richiamo di Papa Francesco, nella Messa mattutina a Casa Santa Marta. Il Pontefice ha quindi sottolineato che i cristiani devono vincere la “tentazione mondana” che divide la Chiesa e ha messo in guardia dagli “arrampicatori” che sono tentati di distruggere l’altro “per salire in alto”.
di Alessandro Gisotti – Radio Vaticana

Santo Padre Francesco

Gesù insegna ai suoi discepoli la via del servizio, ma loro si domandano chi sia il più grande tra loro. Francesco ha preso spunto dal passo del Vangelo odierno per soffermarsi sulle tentazioni mondane che, anche oggi, rovinano la testimonianza della Chiesa. “Gesù – ha osservato il Papa – parla un linguaggio di umiliazione, di morte, di redenzione e loro parlano un linguaggio da arrampicatori: chi andrà più in alto nel potere?”.

Cristiani vincano la tentazione di “arrampicarsi”, di avere il potere
Questa, ha detto, è “una tentazione che avevano loro”, erano “tentati dal modo di pensare del mondo mondano”. Si chiedono chi sia il più grande, mentre Gesù dice loro di essere l’ultimo, “il servitore di tutti”:

“Nella strada che Gesù ci indica per andare avanti, il servizio è la regola. Il più grande è quello che più serve, quello che più è al servizio degli altri, non quello che si vanta, che cerca il potere, i soldi… la vanità, l’orgoglio… No, questi non sono i grandi. E quello che è accaduto qui con gli apostoli, anche con la mamma di Giovanni e Giacomo, è una storia che accade ogni giorno nella Chiesa, in ogni comunità.

‘Ma da noi, chi è il più grande? Chi comanda?’ Le ambizioni. In ogni comunità – nelle parrocchie o nelle istituzioni – sempre questa voglia di arrampicarsi, di avere il potere”.

Anche nella Prima Lettura, che propone un passo della Lettera di San Giacomo, si mette in guardia dalle passioni per il potere, dalle invidie, dalle gelosie che distruggono l’altro”.

No alle chiacchiere che sporcano l’altro pur di comandare
Questo, riprende, è anche il messaggio di oggi  per la Chiesa. Il mondo parla di chi ha più potere per comandare, Gesù afferma di essere venuto al mondo “per servire”, non “per essere servito”:

“La vanità, il potere… E come e quando ho questa voglia mondana di essere con il potere, non di servire, ma di essere servito, non si risparmia mai come arrivare: le chiacchiere, sporcare gli altri… L’invidia e le gelosie fanno questa strada e distruggono.

E questo noi lo sappiamo, tutti. Questo accade oggi in ogni istituzione della Chiesa: parrocchie, collegi, altre istituzioni, anche nei vescovadi… tutti. La voglia dello spirito del mondo, che è spirito di ricchezza, vanità e orgoglio”

“Due modi di parlare”, constata Francesco, Gesù insegna il servizio e i discepoli discutono su chi sia il più grande fra loro. “Gesù – ribadisce – è venuto per servire e ci ha insegnato la strada nella vita cristiana: il servizio, l’umiltà”.

Lo spirito mondano è nemico di Dio, divide la Chiesa
“Quando i grandi santi dicevano di sentirsi tanto peccatori – rammenta – è perché avevano capito questo spirito del mondo che era dentro di loro e avevano tante tentazioni mondane”.

“Nessuno di noi – ammonisce – può dire: no, io sono una persona santa, pulita”:

“Tutti noi siamo tentati da queste cose, siamo tentati di distruggere l’altro per salire in su. E’ una tentazione mondana, ma che divide e distrugge la Chiesa, non è lo Spirito di Gesù.

E’ bello, immaginiamo la scena: Gesù che dice queste parole e i discepoli che dicono ‘no, meglio non domandare troppo, andiamo avanti’, e i discepoli che preferiscono discutere fra loro sopra su chi di loro sarà il più grande.

Ci farà bene pensare alle tante volte che noi abbiamo visto questo nella Chiesa e alle tante volte che noi abbiamo fatto questo, e chiedere al Signore che ci illumini, per capire che l’amore per il mondo, cioè per questo spirito mondano, è nemico di Dio”.

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