Il nome di Dio

Posté par atempodiblog le 28 février 2016

Roveto Ardente

Ma che cos’è «il nome di Dio»? Quando ne parliamo, ci torna in mente l’immagine di Mosè, che nel deserto vede un roveto che arde, ma non si consuma. In un primo momento, spinto dalla curiosità, si avvicina per vedere questo avvenimento misterioso quand’ecco che dal roveto una voce lo chiama, e questa voce gli dice: «lo sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe» (Es 3,6). Questo Dio lo rimanda in Egitto con l’incarico di condurre fuori dall’Egitto il popolo d’Israele e guidarlo nella terra promessa. Nel nome di Dio, Mosè dovrà chiedere al faraone la liberazione di Israele.

Ma nel mondo di allora c’erano molti dèi; così Mosè chiede a Dio il suo nome, il nome con il quale questo Dio dimostra la sua particolare autorità di fronte agli altri dèi. L’idea del nome di Dio appartiene quindi inizialmente al mondo politeistico; in esso anche questo Dio deve darsi un nome. Ma il Dio che chiama Mosè è veramente Dio. Dio nel senso vero e proprio non esiste nella pluralità. Dio è per sua natura uno solo. Per questo non può entrare nel mondo degli dèi come uno dei tanti, non può avere un nome in mezzo agli altri nomi.

Così la risposta di Dio è insieme rifiuto e assenso. Egli dice di sé semplicemente: «Io sono colui che sono» – Egli è, e basta. Questa affermazione è insieme nome e non-nome. Perciò era assolutamente corretto che in Israele non si pronunciasse questa autodefinizione di Dio percepita nella parola YHWH, che non la si degradasse a una specie di nome idolatrico. E pertanto non è corretto che nelle nuove traduzioni della Bibbia si scriva come un qualsiasi nome questo nome per Israele sempre misterioso e impronunciabile, riducendo così il mistero di Dio, del quale non esistono né immagini né nomi pronunciabili, all’ordinarietà di una comune storia delle religioni.

Resta però vero che Dio non ha semplicemente rifiutato la richiesta di Mosè, e per comprendere questo strano intreccio di nome e non-nome dobbiamo renderci conto di che cos’è veramente un nome. Potremmo dire in modo molto semplice: il nome crea la possibilità dell’invocazione, della chiamata. Stabilisce una relazione. Se Adamo dà un nome agli animali, ciò non significa che egli esprima la loro natura, ma che li integra nel suo mondo umano, li mette nella condizione di poter essere chiamati da lui. Da lì capiamo ora che cosa, positivamente, sia inteso col nome di Dio: Dio stabilisce una relazione tra sé e noi. Si rende invocabile. Egli entra in rapporto con noi e ci dà la possibilità di stare in rapporto con Lui. Ma ciò significa: Egli si consegna in qualche modo al nostro mondo umano. È divenuto accessibile e perciò anche vulnerabile. Affronta il rischio della relazione, dell’essere con noi.

Ciò che giunge a compimento nell’incarnazione ha avuto inizio con la consegna del nome. Di fatto vedremo nella riflessione sulla preghiera sacerdotale di Gesù che Egli lì si presenta come il nuovo Mosè:
«Ho fatto conoscere il tuo nome agli uomini…» (Gv 17,6). Ciò che ebbe inizio presso il roveto ardente nel deserto del Sinai si compie presso il roveto ardente della croce. Dio ora è davvero divenuto accessibile nel suo Figlio fatto uomo. Egli fa parte del nostro mondo, si è consegnato, per così dire, nelle nostre mani.

Benedetto XVI – Gesù di Nazareth, Ed. Rizzoli

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