Il «Canto dell’Epifania» di Paul Claudel

Posté par atempodiblog le 4 janvier 2016

E ai vespri Claudel aprì gli occhi
Il «Canto dell’Epifania» del poeta che si convertì nel Natale del 1886 all’ascolto del Magnificat
di Mons. Inos Biffi – L’Osservatore Romano

adorazione re magi giotto

L’Epifania è tra le feste a cui Claudel ha dedicato il suo canto. Tornato d’improvviso e in maniera inaspettata alla fede durante i vespri natalizi del 1886, all’ascolto del Magnificat («In un istante il mio cuore fu toccato e credetti»), le celebrazioni non cessarono di attrarre e di ispirare la sua pietà.

L’anno sacro, suggestivamente definito Corona benignitatis anni Dei , avrebbe fatto scaturire in lui una vena sovrabbondante di poesia, in un fondersi di grazia e di natura, di dogma e di immagini, di mistero e di bellezza; e il suo stesso verso, attingendo alla fonte dell’orazione della Chiesa — largamente intessuta di Scrittura — si sarebbe rinnovato.

Era, d’altronde, affine al suo genio immergersi nel fluire del tempo con la sua materia e le sue figure e attingervi ciò che non trapassa, cioè la «benignità di Dio»; sentire il trascorrere degli anni — «dall’inizio del mondo fino ai nostri giorni» — non come un succedersi vano e confuso di secoli, ma come «una processione», formata da patriarchi o popolata di santi in cammino, di generazione in generazione, incontro alla «pienezza del tempo» (Galati , 4, 41), incontro a «Giuseppe, sposo di Maria dalla quale è nato Cristo» (Matteo , 1, 16) (cfr. Processional pour saluer le siècle nouveau).

Né mancheranno, a incentivare e conferire esuberanti risorse al gusto e alla sensibilità liturgica di Claudel, i vari soggiorni monastici a Solesmes e a Ligugé, mentre concorrerà a alluminarli la frequentazione dell’opera classica di Guéranger, L’année liturgique .

Veramente, già per il tempo succeduto alla laboriosa e dolorosa conversione, Claudel ricorderà: «Il grande libro che mi si era aperto e dove feci le mie classi, era la Chiesa. Per sempre sia resa lode a questa grande madre maestosa sulle cui ginocchia ho imparato tutto. Passavo tutte le domeniche a Notre-Dame e vi andavo il più spesso possibile in settimana. Il dramma sacro si dispiegava davanti a me con una magnificenza che oltrepassava ogni mia immaginazione. Ah, non era più il povero linguaggio dei libri di devozione! Era la più profonda e grandiosa poesia, erano i gesti più augusti, che mai fossero stati affidati a degli esseri umani. A confronto del canto sublime dell’ Exsultet gli accenti più inebrianti di Sofocle e di Pindaro erano insipidi» (Ma conversion).

Il progetto di Claudel di comporre un’ampia raccolta di poemi sul calendario liturgico risale al primo decennio del secolo scorso. In una lettera del gennaio del 1909 ad André Gide, l’autore di Tête d’or e di Partage de midi manifestava la sua intenzione di comporre «un ciclo di canti», «nella forma popolare delle vecchie sequenze», raggruppati secondo le suddivisioni tradizionali del Breviario: un tentativo — come scriveva allo stesso Gide qualche mese dopo — «di riprendere la tradizione di Notkero, di Adamo di San Vittore e di Prudenzio».

Esattamente, da quel progetto, riportato a termini più ridotti, nacque la Corona benignitatis anni Dei , una successione di poemi dove la memoria liturgica è volta in poesia, com’era avvenuto, prim’ancora che per gli autori citati da Claudel, per l’innologia insuperata di sant’Ambrogio e per gli Inni sacri di Alessandro Manzoni. A questa Corona appartiene il Canto dell’Epifania (Le chant de l’Épiphanie), definitivamente compiuto nel 1913.

Siamo nell’ora mattutina «dell’Anno tutto nuovo»; «la brina cricchia sotto i piedi come cristallo»; la terra brillando «appare nella sua veste battesimale», e «Gesù, frutto dell’antico Desiderio», quando ormai dicembre è terminato, si manifesta «nell’irraggiarsi dell’Epifania». I tre Magi — Claudel si rifà alla tradizione popolare — si sono mossi troppo in ritardo per arrivare a Natale, e a guidarli è «una stella del Cielo», che «si ferma» dove dimora e presiede «Maria con il suo Dio tra le braccia». Ora «non si tratta che di aprire gli occhi e guardare»: «da dodici giorni è nato il Figlio di Dio con noi». Per il poeta l’Epifania è anzitutto uno sguardo intenso e silenzioso che si posa sul Signore e sulla sua Madre.

I tre saggi offrono i loro doni, e «noi con loro contempliamo Gesù Cristo, in questo giorno della sua triplice manifestazione».

Il primo mistero che lo rivela è la venuta di Gaspare, Melchiorre e Baldassare, al seguito di un stella «fissa dall’inizio del mondo che si mette in cammino». I primi a stare intorno alla mangiatoia sono «i poveri», «buone donne e pastori con molte pecore, che senza alcuna difficoltà, con voce unanime, confessano il Salvatore». «Essi sono così poveri», che il Figlio di Dio «si trova con loro come a casa propria».

Diverso è il caso dei Magi, ma ecco l’implorazione a Maria per loro: «Madre di Dio, accogliete queste persone oneste, che neppure per un istante dubitano di quello che hanno veduto (…), insieme con quello che vi presentano». «Sono doni ricchi di significato e di grande valore: l’oro, che è campione della Fede priva di inganni o di scarti (…); la mirra, il cui profumo sepolcrale e amaro è il simbolo della Carità»; mentre l’«oncia di incenso recata da Melchiorre è la Speranza».

«La seconda Epifania di Nostro Signore è il giorno del Suo battesimo nel Giordano. L’acqua diviene un sacramento in virtù del Verbo che ad essa si unisce. Dio entra nudo nelle fonti di queste acque profonde in cui siamo sepolti. Come esse Lo fanno uno con noi, così ci fanno uno con Lui. Fino all’ultimo pozzo nel deserto, fino alla fossa precaria aperta lungo il cammino, non c’è una goccia d’acqua ormai che non basti per fare un cristiano». Da quelle acque profonde — prosegue il poeta — ebbro e nudo il Signore riemerge, e allora «il Vostro ultimo languore, prima della morte; il Vostro ultimo grido sulla Croce, è che Voi avete sete ancora». Secondo il poeta, Cristo si immerge in tutta l’acqua dell’universo; è assetato di ogni goccia dell’Oceano: per dire la sete di salvezza della quale è riarso.

Segue il «terzo mistero», compiutosi alle nozze di Cana, «quando [o Signore], sulla parola pronunziata a mezza voce dalla Vostra Madre, mutaste in vino l’acqua furtiva contenuta nelle dieci anfore di pietra. (…) Basta una parola di Dio, perché le nostre acque imputridite si mutino in ottimo vino», perché un vino dapprima scadente, risulti alla fine il «vino migliore».

E così «l’Epifania del giorno è passata, e non resta che quella della notte», quando i Magi, per una strada diversa da quella della loro venuta, ridiscendono, tornando ai loro Paesi: «La notte è ridiventata la stessa e tutto da ogni parte arde in silenzio».

È «la grande Notte della fede», che il poeta saluta: «Salve, grande Notte della fede (…)! La patria di un cattolico è la Notte, non la nebbia; la nebbia che acceca e che soffoca, che entra nella bocca e negli occhi, che passa per tutti i sensi, in cui camminano, senza saper dove sono, l’incredulo e l’indifferente». «Ecco la notte migliore del giorno», segnare la via: «Ecco l’Anno tutto nuovo, che si innalza uguale coi suoi milioni di occhi tutt’intorno verso il punto polare», e «nel mezzo del Cielo il tuo seggio, o Maria, Stella del Mare!».

L’Epifania è l’apparizione del Signore, che non dissipa l’oscurità della fede. Il giusto vive di fede. E, pure, è diffusa su di lui una Luce sicura, che infallibilmente lo guida sulla via della visione.

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