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30 gennaio, Family Day

Posté par atempodiblog le 23 janvier 2016

Family Day

Cari amici,

come cristiani e come cittadini siamo chiamati in questo passaggio storico a dare una chiara testimonianza sul valore del matrimonio e della famiglia, che sono un patrimonio irrinunciabile dell’umanità intera. Si tratta del matrimonio fra uomo e donna, indissolubile, fedele e fecondo, dono di Dio Creatore, saldamente fondato sulla legge naturale.

“Non può esserci confusione tra la famiglia voluta da Dio e ogni altro tipo di unione” ci ha ammonito Papa Francesco.

Noi cristiani non siamo contro nessuno ma semplicemente siamo a favore della famiglia col padre, la madre e i figli, i nonni, le nonne e così via… Ne indichiamo la bellezza e la grandezza e vogliamo testimoniarlo con la realtà di numerose famiglie che sono il tessuto vivo della società e senza le quali non avremmo futuro.

Chiediamo allo stato di prendersi cura della famiglia, di favorire la natalità, di non abbandonare a se stessi gli anziani, di aprire la strada del futuro ai giovani. Questi sono gli obbiettivi prioritari per i quali bisogna fare molto di più.

Per dare segni di risveglio alla nostra società malata partecipiamo spiritualmente e, se possibile, anche di persona al Family Day (giorno della famiglia) sabato 30 Gennaio h. 14 presso il Circo Massimo a Roma.

Maria, Regina della famiglia protegga le nostre famiglie e l’Italia intera.

di Padre Livio Fanzaga – Radio Maria

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Mons. Celli: comunicare il calore della Chiesa

Posté par atempodiblog le 22 janvier 2016

“Fare attenzione a ciò che si dice e a come si dice”
Mons. Celli: comunicare il calore della Chiesa
“Se non è ‘stare con Gesù’, è affannarsi per tante cose”. Sono parole di mons. Claudio Maria Celli, presidente del Pontificio Consiglio per le comunicazioni sociali, alla Messa, stamane, nella Chiesa di Santa Maria in Traspontina. Tra i concelebranti, mons. Dario Edoardo Viganò, prefetto della Segreteria per la comunicazione, e padre Federico Lombardi, direttore della Sala Stampa Vaticana e di Radio Vaticana.  L’occasione: la pubblicazione del Messaggio del Papa per la Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali e l’imminente memoria di San Francesco di Sales, patrono dei giornalisti e degli operatori della comunicazione (24 gennaio).
A cura di Fausta Speranza – Radio Vaticana

Chiesa

Comunicazione e vocazione
Mons. Celli ha sottolineato che “anche la comunicazione è vocazione”, ma solo se rientra “nel grande piano di amore di Dio per l’uomo”. Ha ricordato l’esempio di San Francesco di Sales, che restava solo pochi minuti al giorno senza pensare alle “cose di Dio”, per poi sottolineare l’importanza di  “stare davvero con Gesù”. Significa – ha spiegato – seguirlo e fare le sue stesse scelte, richiamandosi all’invito evangelico di “predicare e scacciare i demoni”.

“Fare attenzione a ciò che si dice e a come si dice”
Mons. Celli ha sottolineato quanto sia difficile per ognuno di noi accettare “il chiodo della Croce” quando ci tocca. Eppure questo significa seguire Gesù ma – ha raccomandato – non senza ricordarsi la gioia e la tenerezza che riceviamo da Dio e che siamo chiamati a esprimere all’altro. E qui il richiamo al cuore della predicazione di Papa Francesco: mons. Celli ha ricordato l’invito del Papa alla Chiesa ad aprirsi, a farsi “Chiesa in uscita” e poi l’invito deciso a far sentire “il calore della Chiesa madre”. Dunque, in tema di comunicazione, mons. Celli ha lasciato la raccomandazione precisa a “fare attenzione a ciò che si dice e a come si dice”.

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Papa: comunicare verità con misericordia, creare ponti non esclusioni

Posté par atempodiblog le 22 janvier 2016

Papa: comunicare verità con misericordia, creare ponti non esclusioni
La comunicazione deve costruire ponti, sanare le ferite e toccare i cuori delle persone. E’ uno dei passaggi del Messaggio di Papa Francesco per la 50.ma Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali, sul tema: “Comunicazione e Misericordia: un incontro fecondo”, giornata che quest’anno si celebra, in molti Paesi, domenica 8 maggio. Nel documento, pubblicato oggi, il Pontefice ribadisce che il vero potere della comunicazione è la “prossimità” e chiede ai cristiani di comunicare la verità con amore, senza giudicare le persone. Quindi, esorta a rendere anche i social network luoghi di misericordia dove si favoriscono le relazioni e la condivisione.
di Alessandro Gisotti – Radio Vaticana

Papa Francesco

“Ciò che diciamo e come lo diciamo, ogni parola e ogni gesto dovrebbe poter esprimere la compassione, la tenerezza e il perdono di Dio per tutti”.

Nell’Anno Santo della Misericordia, Papa Francesco ricorda innanzitutto che “l’amore, per sua natura, è comunicazione”. Per questo “siamo chiamati a comunicare da figli di Dio con tutti, senza esclusione”. In particolare, si legge nel Messaggio, “è proprio del linguaggio e delle azioni della Chiesa trasmettere” la  misericordia di Dio, “toccare i cuori delle persone”. Quindi, invita a diffondere il “calore della Chiesa Madre”, quel “calore che dà sostanza alle parole della fede” e che accende “la scintilla che le rende vive”.

La comunicazione deve creare ponti, superare le incomprensioni
La comunicazione, sottolinea Francesco, “ha il potere di creare ponti, di favorire l’incontro e l’inclusione”. E confida la sua gioia nel “vedere persone impegnate a scegliere con cura parole e gesti per superare le incomprensioni, guarire la memoria ferita e costruire pace e armonia”. Le parole, ribadisce, “possono gettare ponti”. E questo sia nell’ambiente fisico sia in quello digitale”.

Di qui l’invito ad usare le parole per “uscire dai circoli viziosi delle condanne e delle vendette, che continuano ad intrappolare gli individui e le nazioni”. La parola del cristiano “si propone di far crescere la comunione”. Anche quando “deve condannare con fermezza il male – rileva – cerca di non spezzare mai la relazione”.

Francesco invita a riscoprire il “potere della misericordia” di sanare le ferite. “Tutti – constata – sappiamo in che modo vecchie ferite e risentimenti trascinati possono intrappolare le persone e impedire loro di comunicare e di riconciliarsi”. In questi casi, è il suo incoraggiamento, “la misericordia è capace di attivare un nuovo modo di parlare”. Francesco cita Shakespeare laddove ne Il Mercante di Veneziaafferma che “la misericordia non è un obbligo. Scende dal cielo come il refrigerio della pioggia sulla terra. È una doppia benedizione: benedice chi la dà e chi la riceve”.

Il linguaggio dei leader politici non alimenti odio e paura
Per il Papa, è “auspicabile che anche il linguaggio della politica e della diplomazia si lasci ispirare dalla misericordia” e fa appello “a quanti hanno responsabilità istituzionali” affinché “siano sempre vigilanti” sul loro modo di esprimersi. È facile, ammette, “cedere alla tentazione” di alimentare “le fiamme della sfiducia, della paura, dell’odio”. Proprio per questo, allora, bisogna avere il coraggio di “orientare le persone verso processi di riconciliazione”. “Come vorrei che il nostro modo di comunicare, e anche il nostro servizio di pastori nella Chiesa – è l’auspicio del Papa – non esprimessero mai l’orgoglio superbo del trionfo su un nemico, né umiliassero coloro che la mentalità del mondo considera perdenti e da scartare!”.

La misericordia, riafferma con forza, “può aiutare a mitigare le avversità della vita e offrire calore a quanti hanno conosciuto solo la freddezza del giudizio”.

Comunicare la verità con amore, non giudicare le persone
Lo stile della nostra comunicazione, si legge ancora nel Messaggio, “sia tale da superare la logica che separa nettamente i peccatori dai giusti”. Noi, è la sua convinzione, “possiamo e dobbiamo giudicare situazioni di peccato” ma “non possiamo giudicare le persone, perché solo Dio può leggere in profondità nel loro cuore”. Si deve “ammonire chi sbaglia, denunciando la cattiveria e l’ingiustizia di certi comportamenti”, ma sempre ricordandosi che la verità è Cristo, “la cui mite misericordia è la misura della nostra maniera di annunciare la verità e di condannare l’ingiustizia”. Dunque, la verità va affermata “con amore” perché solo cosi “si toccano i cuori di noi peccatori”.

“Parole e gesti duri o moralistici – avverte – corrono il rischio di alienare ulteriormente coloro che vorremmo condurre alla conversione e alla libertà, rafforzando il loro senso di diniego e di difesa”.

Fondamentale ascoltare l’altro, senza presunzione di onnipotenza
Il Papa mette l’accento sulle relazioni nella famiglia per rispondere a quanti “pensano che una visione della società radicata nella misericordia” sia “idealistica” o “indulgente”: “i genitori ci hanno amato e apprezzato per quello che siamo più che per le nostre capacità e i nostri successi”. E incoraggia “a pensare alla società umana” proprio come a “una casa o una famiglia dove la porta è sempre aperta e si cerca di accogliersi a vicenda”. “Comunicare – evidenzia il Messaggio – significa condividere, e la condivisione richiede l’ascolto, l’accoglienza. Ascoltare è molto più che udire”. Ascoltare infatti rimanda alla comunicazione “e richiede la vicinanza”. “Ascoltare – scrive il Papa – significa anche essere capaci di condividere domande e dubbi, di percorrere un cammino fianco a fianco, di affrancarsi da qualsiasi presunzione di onnipotenza e mettere umilmente le proprie capacità e i propri doni al servizio del bene comune”. “Ascoltare non è mai facile. A volte – commenta – è più comodo fingersi sordi”. “Nell’ascolto – rimarca – si consuma una sorta di martirio, un sacrificio di sé stessi”: “Saper ascoltare è una grazia immensa, è un dono che bisogna invocare per poi esercitarsi a praticarlo”.

Anche sui social network, comunicare con misericordia
Francesco si sofferma anche sulla realtà della comunicazione digitale. “Anche e-mail, sms, reti sociali, chat – afferma – possono essere forme di comunicazione pienamente umane”. Per il Papa, “non è la tecnologia che determina se la comunicazione è autentica o meno, ma il cuore dell’uomo”. E invita a far sì che i social network favoriscano le relazioni e non conducano “ad un’ulteriore polarizzazione e divisione tra le persone”. Anche in Rete “si costruisce una vera cittadinanza”.

“L’ambiente digitale – prosegue – è una piazza, un luogo di incontro, dove si può accarezzare o ferire, avere una discussione proficua o un linciaggio morale”. La Rete, quindi, deve “essere ben utilizzata” e “aperta alla condivisione”. La comunicazione con il suo sviluppo, ribadisce, “è un dono di Dio”, ma rappresenta “anche una grande responsabilità”. Ancora una volta definisce quello della comunicazione come il potere della “prossimità”. “L’incontro tra la comunicazione e la misericordia – esorta il Papa – è fecondo” proprio “nella misura in cui genera una prossimità”. “In un mondo diviso, frammentato, polarizzato – conclude – comunicare con misericordia significa contribuire alla buona, libera e solidale prossimità tra i figli di Dio e fratelli in umanità”.

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“Porta un fiore a Maria… e lascia sbocciare la verità!”

Posté par atempodiblog le 22 janvier 2016

Veglia mariana dedicata a donne e madri
“Porta un fiore a Maria… e lascia sbocciare la verità!”
Si terrà la sera del 26 gennaio presso la Basilica di Santa Maria Maggiore, a Roma, e in contemporanea presso altri sette importanti Santuari italiani
della Redazione di Zenit

S M Maggiore

Si terrà presso la Basilica di Santa Maria Maggiore, a Roma, il 26 gennaio 2016, dalle ore 20.45 alle ore 22.15, la Veglia mariana dedicata alle donne e alle madri “Porta un fiore a Maria… e lascia sbocciare la verità!”, promossa da alcune Associazioni e Movimenti ecclesiali italiani e in collaborazione con la Diocesi di Roma.

La Veglia si terrà in contemporanea presso il Pontificio Santuario della Beata Vergine di Pompei, il Santuario della Santa Casa di Loreto, la Basilica di Sant’Antonio di Padova, il Convento Santuario di San Pio da Pietrelcina, la Basilica Santuario della Madonna delle Lacrime di Siracusa, la Basilica Santuario Sant’Antonio di Messina, e altre Basiliche e Santuari che stanno aderendo all’iniziativa.

Nei momenti in cui la confusione regna, le coscienze si fanno erronee e si assopiscono, l’unità di un popolo è attentata, i credenti ricorrono con fede alla preghiera. La preghiera è la vita spirituale di un popolo: ci fa coscientizzare quanto accade sotto i nostri occhi e ci spinge a discernere il bene dal male. La preghiera compie sempre miracoli! Le donne e gli uomini della preghiera, nel tempo della crisi dell’umano, sono la più grande riserva di speranza e di difesa della vita, riconosciuta e custodita come dono d’amore. Nella preghiera è il segreto del vero umanesimo, che non esclude Dio dalla storia, che non sfida la creazione, le creature, il Creatore. Chi prega ha il coraggio di rischiare con il cuore puro e sconfigge la paura, l’indifferenza, l’individualismo. Chi prega ha sempre voglia di impegnarsi!

Guardando a Maria, Madre di tutti i credenti, chiediamo al Signore che ridesti nel nostro Paese lo stupore per la bellezza della maternità e della paternità, della dignità della donna e dell’uomo e del loro amore sponsale e generativo in una famiglia.

Gli organizzatori invitato tutti a partecipare, specie donne e madri, alle quali chiedono di “portare un fiore a Maria”: sbocci nei nostri cuori la verità per il bene comune!

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Papa Francesco: chi entra in un Santuario si senta a casa sua

Posté par atempodiblog le 21 janvier 2016

“A volte, basta semplicemente una parola, un sorriso, per far sentire una persona accolta e benvoluta”
Papa Francesco: chi entra in un Santuario si senta a casa sua
Soprattutto in questo Giubileo della Misericordia, ogni pellegrino abbia la gioia di sentirsi accolto e amato dalla Chiesa. E’ quanto affermato da Papa Francesco nell’udienza ai partecipanti al Giubileo degli operatori di pellegrinaggi e rettori di Santuari, ricevuti in Vaticano. Il Pontefice ha sottolineato che sull’accoglienza “ci giochiamo tutto”, l’accoglienza infatti è “davvero determinante per l’evangelizzazione”. Dal Papa anche un nuovo invito ai sacerdoti ad essere misericordiosi con quanti si accostano al confessionale.
di Alessandro Gisotti – Radio Vaticana

Papa Francesco: chi entra in un Santuario si senta a casa sua dans Apparizioni mariane e santuari amtpp3

“Andare pellegrini ai santuari è una delle espressioni più eloquenti della fede del popolo di Dio”. Francesco esordisce sottolineando il suo apprezzamento per la “religiosità popolare”. Un amore per la pietà popolare che viene da lontano, dai suoi anni in Argentina e che ha trovato una significativa espressione nel Documento di Aparecida. Il Papa la definisce “una genuina forma di evangelizzazione, che ha bisogno di essere sempre promossa e valorizzata, senza minimizzare la sua importanza”.

Nei Santuari si vive la profondità spirituale della pietà popolare
Nei santuari, constata, “la nostra gente vive la sua profonda spiritualità, quella pietà che da secoli ha plasmato la fede con devozioni semplici, ma molto significativa”:

“Sarebbe un errore ritenere che chi va in pellegrinaggio viva una spiritualità non personale ma di massa. In realtà, il pellegrino porta con sé la propria storia, la propria fede, luci e ombre della propria vita. Ognuno porta nel cuore un desiderio speciale e una preghiera particolare”.

Chi entra nei santuari si senta come a casa sua
“Chi entra nel santuario – prosegue – sente subito di trovarsi a casa sua, accolto, compreso, e sostenuto”.

Il santuario, riprende, “è realmente uno spazio privilegiato per incontrare il Signore e toccare con mano la sua misericordia”. “Confessare in un santuario – aggiunge a braccio – è un’esperienza di toccare con mano la misericordia di Dio”. E si sofferma dunque sul valore dell’accoglienza, che definisce “parola-chiave”:

“Con l’accoglienza, per così dire, ‘ci giochiamo tutto’. Un’accoglienza affettuosa, festosa, cordiale, e paziente! Ci vuole pazienza eh!

I Vangeli ci presentano Gesù sempre accogliente verso coloro che si accostano a Lui, specialmente i malati, i peccatori, gli emarginati. E ricordiamo quella sua espressione: ‘Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato’.

L’accoglienza è determinante per l’evangelizzazione
Gesù, rileva Francesco, “ha parlato dell’accoglienza, ma soprattutto l’ha praticata”. E annota che quando i peccatori come Matteo o Zaccheo accolgono Gesù nella loro casa, cambia la loro vita. E’ interessante, soggiunge, che il Libro degli Atti degli Apostoli si concluda con la scena di san Paolo che, prigioniero a Roma, “accoglieva tutti quelli che venivano da lui”. La sua casa, dunque, “era il luogo dove annunciava il Vangelo”:

“L’accoglienza è davvero determinante per l’evangelizzazione. A volte, basta semplicemente una parola, un sorriso, per far sentire una persona accolta e benvoluta.

Il pellegrino che arriva al santuario è spesso stanco, affamato, assetato… E tante volte questa condizione fisica rispecchia anche quella interiore. Perciò, questa persona ha bisogno di essere accolta bene sia sul piano materiale sia su quello spirituale”.

Il pellegrino abbia la gioia di sentirsi compreso ed amato
È importante, afferma ancora, “che il pellegrino che varca la soglia del santuario si senta trattato più che come un ospite, come un familiare”, “deve sentirsi a casa sua, atteso, amato e guardato con occhi di misericordia”.

E evidenzia che questo deve valere per tutti anche per un “turista curioso”, “perché in ognuno c’è un cuore che cerca Dio, a volte senza rendersene pienamente conto”:

“Facciamo in modo che ogni pellegrino abbia la gioia di sentirsi finalmente compreso e amato. In questo modo, tornando a casa proverà nostalgia per quanto ha sperimentato e avrà il desiderio di ritornare, ma soprattutto vorrà continuare il cammino di fede nella sua vita ordinaria”.

I sacerdoti che confessano abbiano cuore impregnato di misericordia
Un’accoglienza del tutto particolare, sottolinea poi, “è quella che offrono i ministri del perdono di Dio”.

Il santuario, infatti, “è la casa del perdono, dove ognuno si incontra con la tenerezza del Padre che ha misericordia di tutti, nessuno escluso”:

“Chi si accosta al confessionale lo fa perché è pentito del proprio peccato: è pentito del proprio peccato. Sente il bisogno di accostarsi lì… Percepisce chiaramente che Dio non lo condanna, ma lo accoglie e lo abbraccia, come il Padre del figlio prodigo, per restituirgli la dignità filiale (cfr Lc 15,20-24).

I sacerdoti che svolgono un ministero nei santuari devono avere il cuore impregnato di misericordia; il loro atteggiamento dev’essere quello di un padre”.

“Viviamo con fede e con gioia questo Giubileo – ha concluso Francesco – viviamolo come un unico grande pellegrinaggio”.

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Il Papa: gelosia e invidia, peccati brutti che uccidono con le parole

Posté par atempodiblog le 21 janvier 2016

Il Papa: gelosia e invidia, peccati brutti che uccidono con le parole
Il Papa ha celebrato la Messa del mattino nella Cappella di Santa Marta nel giorno in cui la Chiesa celebra la memoria di Sant’Agnese, vergine e martire. All’omelia ha parlato della gelosia e dell’invidia: il Signore – è stata la sua preghiera – ci preservi da questi peccati brutti che esistono anche nelle nostre comunità cristiane e usano la lingua per uccidere gli altri.
di Sergio Centofanti – Radio Vaticana

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L’invidia è un peccato brutto che cresce come erba cattiva
La Prima Lettura (1 Sam 18, 6-9: 19,1-7) racconta la gelosia di Saul, Re d’Israele, nei confronti di Davide. Dopo la vittoria contro i filistei  le donne cantano con gioia dicendo: “Ha ucciso Saul i suoi mille e Davide i suoi diecimila”. Così, da quel giorno – sottolinea Papa Francesco – Saul guarda con sospetto Davide, pensando che possa tradirlo, e decide di ucciderlo. Poi segue il consiglio del figlio e ci ripensa. Ma dopo ritorna sui suoi pensieri cattivi. La gelosia – rileva il Papa – è “una malattia” che torna e porta all’invidia:

“Cosa brutta è l’invidia! E’ un atteggiamento, è un peccato brutto. E nel cuore la gelosia o l’invidia crescono come cattiva erba: cresce, ma non lascia crescere buon’erba. Tutto quello che gli sembra di fargli ombra, gli fa male. Non è in pace! E’ un cuore tormentato, è un cuore brutto! Ma anche il cuore invidioso – lo abbiamo sentito qui – porta ad uccidere, alla morte. E la Scrittura lo dice chiaramente: per l’invidia del diavolo è entrata la morte nel mondo”.

L’invidia uccide anche nelle nostre comunità
L’invidia “uccide” – afferma il Papa – “e non tollera che un altro abbia qualcosa che io non ho. E sempre soffre, perché il cuore dell’invidioso o del geloso soffre. E’ un cuore sofferente!”. E’ una sofferenza che desidera “la morte degli altri. Ma quante volte – esclama – nelle nostre comunità – non dobbiamo andare troppo lontano per vedere questo – per gelosia si uccide con la lingua. Uno ha invidia di questo, di quell’altro e incominciano le chiacchiere: e le chiacchiere uccidono!”:

“E io, pensando e riflettendo su questo passo della Scrittura, invito me stesso e tutti a cercare se nel mio cuore c’è qualcosa di gelosia, c’è qualcosa di invidia, che sempre porta alla morte e non mi fa felice; perché sempre questa malattia di porta a guardare quello che di buono ha l’altro come se fosse contro di te. E questo è un peccato brutto! E’ l’inizio di tante, tante criminalità. Chiediamo al Signore che ci dia la grazia di non aprire il cuore alle gelosie, di non aprire il cuore alle invidie, perché sempre queste cose portano alla morte”.

Gesù consegnato per invidia
“Pilato – conclude il Papa – era intelligente e Marco nel Vangelo dice che Pilato se ne era accorto che i capi degli scribi” gli avevano consegnato Gesù per invidia:

“L’invidia – secondo l’interpretazione di Pilato, che era molto intelligente, ma codardo! – è quella che ha portato alla morte Gesù. Lo strumento, l’ultimo strumento. Glielo avevano consegnato per invidia”.

Non consegnare mai alla morte un fratello, una sorella, della parrocchia
“Anche chiedere al Signore la grazia di non consegnare mai, per invidia, alla morte un fratello, una sorella della parrocchia, della comunità, neanche un vicino del quartiere: ognuno ha i suoi peccati, ognuno ha le sue virtù. Sono proprie di ognuno. Guardare il bene e non uccidere con le chiacchiere per invidia o per gelosia”.

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Papa Francesco: non c’è Santo senza passato, né peccatore senza futuro

Posté par atempodiblog le 19 janvier 2016

Papa Francesco: non c’è Santo senza passato, né peccatore senza futuro
Dio non si ferma alle apparenze, ma vede il cuore. E’ quanto affermato da Francesco nella Messa mattutina a Casa Santa Marta, incentrata sulla Prima Lettura che narra l’elezione del giovane Davide a re d’Israele. Il Papa ha sottolineato che, anche nella vita dei Santi, ci sono tentazioni e peccati, come dimostra proprio la vita di Davide, ma mai – ha avvertito – bisogna “usare Dio per vincere una causa propria”.
di Alessandro Gisotti – Radio Vaticana

Santo Padre in preghiera

Il Signore rigetta Saul “perché aveva il cuore chiuso”, non gli aveva ubbidito e pensa dunque a scegliere un altro re. Papa Francesco ha preso spunto dal Primo Libro di Samuele laddove si narra l’elezione di Davide.

Il Signore vede il cuore, non si ferma alle apparenze
Una scelta lontana dai criteri umani, ha sottolineato, giacché Davide era il più piccolo dei figli di Iesse, un ragazzino. Ma il Signore fa capire al profeta Samuele che per lui non conta l’apparenza, “il Signore vede il cuore”:

“Noi siamo tante volte schiavi delle apparenze, schiavi delle cose che appaiono e ci lasciamo portare avanti da queste cose: ‘Ma questo sembra…’ Ma il Signore sa la verità. E così questa storia… Passano i sette figli di Iesse e il Signore non sceglie alcuno, li lascia passare. Samuele è un po’ in difficoltà e dice al Padre: ‘Nemmeno costui, Signore, hai scelto?’ ‘Sono qui tutti i giovani, i sette?’ ‘Ma, sì, ce n’è uno, il piccolo, che non conta, che ora sta pascolando il gregge’. Agli occhi degli uomini questo ragazzino non contava”…

Davide riconosce il suo peccato e chiede perdono
Non contava per gli uomini, ha ripreso il Papa, ma il Signore lo sceglie e comanda a Samuele di ungerlo e lo Spirito del Signore “irruppe su Davide”, e da quel giorno in poi “tutta la vita di Davide è stata la vita di un uomo unto dal Signore, eletto dal Signore”. “Allora – si domanda Francesco – il Signore lo ha fatto Santo?” No, è la sua risposta, “il Re Davide è il Santo Re Davide, questo è vero, ma Santo dopo una vita lunga”, anche una vita con peccati:

“Santo e peccatore. Un uomo che ha saputo unire il Regno, ha saputo portare avanti il popolo d’Israele. Ma aveva le sue tentazioni… aveva i suoi peccati: è stato anche un assassino. Per coprire la sua lussuria, il peccato di adulterio… ha comandato di uccidere. Lui! ‘Ma il Santo Re Davide ha ucciso?’ Ma quando Dio ha inviato il profeta Natan per fargli vedere questa realtà, perché lui non si era accorto della barbarie che aveva ordinato, ha riconosciuto ‘ho peccato’ e ha chiesto perdono”.

Così, prosegue il Papa, “la sua vita è andata avanti. Ha sofferto nella sua carne il tradimento del figlio, ma mai ha usato Dio per vincere una causa propria”. Ha così ricordato che quando Davide deve fuggire da Gerusalemme rimanda indietro l’Arca e dichiara che non userà il Signore a sua difesa. E quando veniva insultato, Davide in cuor suo pensava: “Me lo merito”.

Non esiste Santo senza passato, né un peccatore senza futuro
Poi, ha annotato Francesco, “viene la magnanimità”: poteva uccidere Saul “ma non l’ha fatto”. Ecco il Santo re Davide, grande peccatore, ma pentito. “A me – ha confidato il Papa – commuove la vita di quest’uomo” che ci fa pensare anche alla nostra vita:

“Tutti noi siamo stati scelti dal Signore per il Battesimo, per essere nel suo Popolo, per essere Santi; siamo stati consacrati dal Signore, in questo cammino della santità. E’ stato leggendo questa vita (di Davide ndr), da un bambino – ma, un bambino no… era un ragazzo – da un ragazzo ad un vecchio, che ha fatto tante cose buone e altre non tanto buone, mi viene di pensare che nel cammino cristiano, nel cammino che il Signore ci ha invitato a fare, mi viene da pensare che non c’è alcun Santo senza passato, neppure alcun peccatore senza futuro”.

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Catechista il pomeriggio e fattone la sera: salvato da un perdono

Posté par atempodiblog le 15 janvier 2016

Catechista il pomeriggio e fattone la sera
Salvato da un perdono
di Emanuele
Fonte: SOG – Frati Minori Assisi
Tratto da: Una casa sulla Roccia

chirichetto

Raccontare di me oggi è rendermi conto della trasformazione naturale che c’è stata innanzitutto nella relazione con Dio ed in tutte le mie relazioni; è vedermi diventare finalmente un donatore di amore e non più uno che lo ruba dove gli capita.

A 14 anni ero un ragazzo tranquillo anche, forse, un po’ tonto. Ero tutto casa e chiesa, già animatore in parrocchia senza sapere bene chi fosse Dio per me. Già rubacchiavo l’amore ma non me ne rendevo conto e lo facevo perché in famiglia qualcosa era mancato sopratutto il rapporto con mio padre: uomo dai mille vizi e incapace (non per colpa sua) di amare veramente qualcuno.

Questo accade fin da quando sei piccolo e ti lascia ferite di cui crescendo non ti accorgi, e lasci andare.

Arrivano i 16 anni e con questi il lento declino. Mio padre si ammala, ha un’emorragia cerebrale (finirà su di una sedia a rotelle) ed io e mia sorella rimaniamo a casa da soli, imparando a fare le cose da grandi quando nessuno dei due lo era. Ed è qui che mi rendo conto di una cosa: io, in fondo, non avevo fatto nulla per meritarmi tutto quello che era successo: né di avere un padre così, né tutta quella sofferenza.

E allora mi chiedo in continuazione perché: “perché a me? Cosa ti ho fatto di male? Ed ora come si aggiustano le cose?”. Queste domande erano dirette a Dio. Mi sono arrabbiato con Lui e ho deciso che quelle domande non le avrei più ascoltate.

Comincia così la mia doppia vita: catechista il pomeriggio, perché ti da quella dose di accettazione che in fondo desideri e di cui hai bisogno, fattone la sera.

Comincia il tram tram delle canne e dello spaccio. É un attimo: da una si passa a due, poi a tre e alla fine arrivi a 19 anni intorno ad una quindicina di canne al giorno. Ovviamente la rabbia non diminuisce, così decido di porre un freno anche con la chiesa: Dio me l’aveva fatta troppo grossa, oramai ero “grande” avevo un papà (rabbioso) sulla sedia a rotelle in casa. Mia madre e mia sorella decidono di scappare perché vivere con lui era diventato impossibile ed io resto lì, a fare cosa?

Una sera decido di smettere di fumare, al tempo la chiamai tachicardia, ora direi una bella “manona” di Dio sulla mia testa. Nessuna ripercussione, nessun tentennamento. Le persone che mi conoscono ridono quando gli dico di aver smesso (oh ridono di gusto eh!!). Le domande che fino al giorno prima avevo sotterrato tornano a galla e oramai sono gigantesche. Tutte rispondo ad un bel buco nero che chiamo “perché nessuno mi ama?”.

Questo era quello che ero. Poi è avvenuta la lenta ri-conversione, un po’ come Maria Maddalena al sepolcro che si volta indietro e finalmente riconosce Gesù: un giorno un’amica mi porta, con una scusa, in chiesa e mi fa conoscere un sacerdote e lui di punto in bianco mi offre di vederci per un caffè. Accetto il caffè convinto che mi avrebbe fatto un’omelia gigantesca e invece si dimostra solamente accogliente, mi lascia parlare di tutto e alla fine parlo anche di Dio che scopro di avere abbandonato solo io. Lui era lì ed io lo riconosco di nuovo e parlo di Lui come non ho mai fatto.

Li ricomincia il rapporto con Dio fatto di preghiera, messe (anche in mezzo alla settimana), parlare con Dio a tu per tu in quella cappellina che diventa quasi casa tua.

Lentamente mi riapproprio di me stesso, di ciò che sono e Dio mi dimostra il suo amore infinito nonostante io continui a rubare l’amore in tutte le cose che faccio, dal servizio alla relazione con la mia ragazza, fino al 2 agosto di quest’anno. In Porziuncola porto la mia sofferenza in un pianto liberatorio lungo dieci anni di lacrime sotterrate. Mi tocca il Suo amore, il Suo abbraccio paterno, quello che avevo sempre desiderato da mio padre. Lui da Padre me lo regala. Dico tra me e me: vedi a lasciar spazio a Lui che cose che fa?!

Avevo scoperto la Provvidenza per me, e ora la volevo concretizzare in casa, con mio padre. Oramai lo avevo già perdonato perché, in fondo, mi aveva donato la cosa più importante: la vita, che avevo scoperto essere bellissima.

Ma forse lui non aveva perdonato me. Un giorno lo ritrovo lì in casa, in un lago di sangue per via della dialisi e dal momento in cui inizio a prendermi cura di lui ci ritroviamo ancorati ad un amore nuovo, ad un modo di guardarci nuovo che non è il nostro ma Grazia vera di Dio. Oggi facciamo cose da padre a figlio mai fatte in vita nostra, non volano più insulti dentro casa ed io ho scoperto l’amore e come si dona in maniera gratuita, spezzandosi per qualcun altro, proprio come se fossimo eucarestia.

Ho scoperto che Dio non dà una vita diversa ma fa diversa la vita, ti dona quel famoso cuore di carne di cui parla il profeta Ezechiele, quel cuore che dice: “la vita è bella”, centrati in Dio è meravigliosa! Per quante cose brutte possano succederci c’è un Amore più grande per te, gratuito, che se gli lasci spazio fa veramente miracoli.

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Quando “manca la pietà nel cuore, sempre si pensa male”

Posté par atempodiblog le 12 janvier 2016

Eli ed Anna

La scena descritta dal libro di Samuele fa prima udire le parole accorate di Anna e poi i pensieri del sacerdote, il quale non riuscendo a udire niente bolla con malevola superficialità il muto bisbiglìo della donna: per lui è solo “un’ubriaca”. E invece, come poi accadrà, quel pianto a dirotto sta per strappare a Dio il miracolo richiesto:

“Anna pregava in cuor suo e si muovevano soltanto le labbra, ma la voce non si udiva. Questo è il coraggio di una donna di fede che con il suo dolore, con le sue lacrime, chiede al Signore la grazia. Tante donne brave sono così nella Chiesa, tante!, che vanno a pregare come se fosse una scommessa… Ma pensiamo soltanto a una grande, Santa Monica, che con le sue lacrime è riuscita ad avere la grazia della conversione di suo figlio, Sant’Agostino. Tante ce ne sono così”.

Eli, il sacerdote, è “un povero uomo” verso il quale, ammette Papa Francesco, “sento una certa simpatia” perché “anche in me trovo difetti che mi fanno avvicinare a lui e capirlo bene”. “Con quanta facilità – afferma il Papa – noi giudichiamo le persone, con quanta facilità non abbiamo il rispetto di dire: ‘Ma cosa avrà nel suo cuore? Non lo so, ma io non dico nulla…’”. Quando “manca la pietà nel cuore, sempre si pensa male” e non si comprende chi invece prega “col dolore e con l’angoscia” e “affida quel dolore e angoscia al Signore”.

Tratto da: Radio Vaticana

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Papa: misericordia, carta di identità di Dio. Libro-intervista con Tornielli

Posté par atempodiblog le 12 janvier 2016

Papa: misericordia, carta di identità di Dio. Libro-intervista con Tornielli
La misericordia è “la carta di identità” di Dio: così Papa Francesco nel libro-intervista “Il nome di Dio è misericordia”, da oggi in libreria. Il volume riporta una conversazione del Pontefice con Andrea Tornielli, vaticanista del quotidiano “La Stampa” e coordinatore del sito web “Vatican Insider” Suddiviso in nove capitoli e 40 domande, il libro – edito da Piemme – ha la copertina autografa di Papa Francesco. La prima copia del volume, in italiano, è stata consegnata ieri pomeriggio al Pontefice, presso Casa Santa Marta.
di Isabella Piro – Radio Vaticana

Il nome di Dio è Misericordia

Intervista registrata lo scorso luglio
Luglio 2015, Casa Santa Marta: Papa Francesco è da poco rientrato dal suo viaggio apostolico in Ecuador, Bolivia e Paraguay. È un pomeriggio afoso quando riceve il giornalista Andrea Tornielli, munito di tre registratori. Su un tavolino davanti a sé, il Pontefice ha una concordanza della Bibbia e le citazioni dei Padri della Chiesa. La misericordia è il tema della conversazione che nasce tra i due, in vista del Giubileo straordinario che si aprirà cinque mesi dopo. Oggi, i frutti di quel dialogo sono raccolti nel libro “Il nome di Dio è misericordia”.

Capitolo 1: è tempo di misericordia
Preghiera, riflessione sui Pontefici precedenti e un’immagine della Chiesa come “ospedale da campo” che “riscalda i cuori delle persone con la vicinanza e la prossimità”: sono questi i tre fattori, spiega il Papa, che lo hanno spinto ad indire un Giubileo della misericordia. “La nostra epoca è un tempo opportuno” per questo, dice, perché oggi si vive un duplice dramma: si è smarrito il senso del peccato e lo si considera anche incurabile, inguaribile, imperdonabile. Per questo, l’umanità ferita da tante “malattie sociali” – povertà, esclusione, schiavitù del terzo millennio, relativismo – ha bisogno di misericordia, di quella “carta di identità di Dio”, di Colui “rimane sempre fedele” anche se il peccatore Lo rinnega.

La grazia della vergogna rende il peccatore consapevole del peccato
Centrale poi la riflessione del Papa sul tema della vergogna, intesa come “una grazia” perché rende il peccatore consapevole del proprio peccato. E particolare la sottolineatura del così detto “apostolato dell’orecchio”, ossia della capacità dei confessori di “ascoltare con pazienza” perché oggi le persone “cercano soprattutto qualcuno che sia disposto a donare il proprio tempo per ascoltare i loro drammi e le loro difficoltà”. Tra l’altro – nota il Papa – è per questo che tanti si rivolgono ai chiromanti. Il Pontefice rimarca inoltre “che se il confessore non può assolvere, dia comunque una benedizione, anche senza assoluzione sacramentale”, perché “l’amore di Dio c’è anche per chi non è nella disposizione di ricevere il Sacramento”.

Essere confessori è una grande responsabilità
“Abbiate tenerezza con queste persone – dice il Papa ai sacerdoti – non allontanatele”, perché “la gente soffre” e “essere confessori è una grande responsabilità”. Al riguardo, il Pontefice cita il caso di sua nipote: “Io ho una nipote che ha sposato civilmente un uomo prima che lui potesse avere il processo di nullità matrimoniale – racconta – Quest’uomo era tanto religioso che tutte le domeniche, andando a Messa, andava al confessionale e diceva al sacerdote: ‘Io so che lei non mi può assolvere, ma ho peccato in questo e in quest’altro, mi dia una benedizione’. Questo è un uomo religiosamente formato”.

Capitolo 2: confessione non è tintoria, né tortura. Ascoltare, non interrogare
D’altronde, si va al confessionale “non per essere giudicati”, ma per “qualcosa di più grande del giudizio: per l’incontro con la misericordia” di Dio, senza la quale “il mondo non esisterebbe”. Per questo, sottolinea il Pontefice, il confessionale non deve essere né “una tintoria”, in cui lavare via a secco il peccato come una semplice macchia, né “una sala di tortura” in cui scontrarsi con “l’eccesso di curiosità” di alcuni confessori, curiosità a volte “un po’ malata”, morbosa, che trasforma la confessione in un interrogatorio.

Capitolo 3: riconoscersi peccatori. Il cuore a pezzi è offerta gradita a Dio
Invece, “nel dialogo con il confessore bisogna essere ascoltati, non interrogati” e quindi il sacerdote deve “consigliare con delicatezza”. Ma per ottenere la misericordia di Dio, ribadisce nuovamente Francesco, è importante  riconoscersi peccatori, perché “il cuore a pezzi è l’offerta più gradita al Signore, è il segno che siamo coscienti del nostro bisogno di perdono, di misericordia”.  Il Papa ricorda, poi, che la misericordia di Dio è “infinitamente più grande del nostro peccato” , perché il Signore “ci primerea”, “ci anticipa, ci attende” sempre “con il suo perdono, con la sua grazia”. “Il solo fatto che una persona vada al confessionale – spiega Francesco – indica che c’è già un inizio di pentimento”. E a volte vale di più “la presenza impacciata ed umile di un penitente che fa fatica a parlare, piuttosto che le tante parole di qualcuno che descrive il suo pentimento”.

Capitolo 4: anche il Papa ha bisogno della misericordia di Dio
Dal suo canto, il Papa si definisce “un uomo che ha bisogno della misericordia di Dio” e offre alcuni consigli al penitente e al confessore: al primo, suggerisce di non essere superbo, ma di “guardare con sincerità a se stesso ed al proprio peccato”, così da ricevere il dono della misericordia di Dio. Ai confessori, invece, Francesco suggerisce di pensare innanzitutto ai propri peccati, poi di ascoltare “con tenerezza”, senza “scagliare mai la prima pietra”, ma cercando di “assomigliare a Dio nella sua misericordia”. Come modello, il Pontefice cita il padre che va incontro al figliol prodigo e lo abbraccia, prim’ancora che il giovane ammetta i suoi peccati. “Questo è l’amore di Dio – sottolinea il Papa – Questa è la sua sovrabbondante misericordia”.

Capitolo 5: Chiesa condanna il peccato, ma abbraccia il peccatore
Di fronte a chi, poi, a volte, afferma che nella Chiesa c’è “troppa misericordia”, il Papa risponde sottolineando che “la Chiesa condanna il peccato”, ma “allo stesso tempo abbraccia il peccatore che si riconosce tale, gli parla della misericordia infinita di Dio”. Bisogna perdonare “settanta volte sette, cioè sempre”, dice il Pontefice, perché “Dio è un padre premuroso, attento, pronto ad accogliere qualsiasi persona che muova un passo o che abbia il desiderio di muovere un passo” verso di Lui, e “nessun peccato umano, per quanto grave, può prevalere sulla misericordia e limitarla”. La Chiesa, quindi, “non è al mondo per condannare, ma per permettere l’incontro con quell’amore viscerale che è la misericordia di Dio”.

Chiesa sia “in uscita”, “ospedale da campo” per i bisognosi di perdono
Per fare questo, però, essa deve essere “Chiesa in uscita”, “ospedale da campo che va incontro ai tanti ‘feriti’ bisognosi di ascolto, comprensione, perdono e amore”. È importante, infatti, “accogliere con delicatezza chi si ha di fronte, non ferire la sua dignità”, afferma il Pontefice, citando un’esperienza personale, risalente ai tempi in cui era parroco in Argentina: una donna che si prostituiva per mantenere i suoi figli, lo ringraziò perché il futuro Papa l’aveva sempre chiamata “Signora”.

Capitolo 6: non leccarsi le ferite del peccato, ma muoversi verso Dio
E ancora, Francesco mette in guardia dall’atteggiamento di chi dispera “della possibilità di essere perdonato” e preferisce leccarsi le ferite del peccato, impedendone di fatto la guarigione. “Questa è una malattia narcisista che porta l’amarezza”, nota il Papa, e in cui si riscontra “un piacere nell’amarezza, un piacere ammalato”. Al contrario, “la medicina c’è”: basta solo muovere un passo verso Dio o avere almeno il desiderio di muoverlo, “prendendo sul serio la propria condizione”, senza credersi “autosufficienti” e senza dimenticare le nostre origini, “il fango da cui siamo stati tratti, il nostro niente”. E questo “vale soprattutto per i consacrati”, sottolinea il Papa. Nella vita, infatti, l’importante non è “non cadere mai”, bensì “rialzarsi sempre”. Questo, allora, è il compito della Chiesa: “Far percepire alle persone che è sempre possibile ricominciare se soltanto permettiamo a Gesù di perdonarci”.

Delicatezza, e non emarginazione, per le persone omosessuali
Rispondendo, poi, ad una domanda sulle persone omosessuali, il Papa spiega quanto detto nel 2013, durante la conferenza stampa di ritorno da Rio de Janeiro, ovvero “Se una persona è gay, cerca il Signore e ha buona volontà, chi sono io per giudicarla?”. “Avevo parafrasato a memoria il Catechismo della Chiesa cattolica – dice Francesco – dove si spiega che queste persone vanno trattate con delicatezza e non si devono emarginare”. Il Papa apprezza la dicitura “persone omosessuali” perché – spiega – “prima c’è la persona, nella sua interezza e dignità”, che “non è definita soltanto dalla sua tendenza omosessuale”. “Io preferisco che le persone omosessuali vengano a confessarsi, che restino vicine al Signore, che si possa pregare insieme”, aggiunge il Pontefice.

Misericordia è dottrina, è primo attributo di Dio
Quanto al rapporto tra verità, dottrina e misericordia, Francesco spiega: “Io amo piuttosto dire: la misericordia è vera”, “è il primo attributo di Dio”. “Poi si possono fare riflessioni teologiche su dottrina e misericordia – aggiunge – ma senza dimenticare che la misericordia è dottrina”. A tal proposito, il Papa cita “i dottori della legge, i principali oppositori di Gesù, che lo sfidano in nome della dottrina”: essi seguono una logica di pensiero e di fede che guarda “alla paura di perdere i giusti, i già salvati”. Gesù, invece, segue un’altra logica: quella che redime il peccato, accoglie, abbraccia, trasforma il male in bene, la condanna in salvezza. È la logica di un Dio che è amore, spiega il Papa, un Dio che vuole la salvezza di tutti gli uomini, che non si ferma “a studiare a tavolino la situazione”, valutando i pro e i contro. Per il Signore, ciò che conta davvero è “raggiungere i lontani e salvarli”, sanare e integrare “gli emarginati che stanno fuori” dalla società.

Logica di Dio è logica dell’amore che scandalizza i “dottori della legge”
Certo, sottolinea Francesco: questa logica può scandalizzare, allora come oggi, provocando “il mugugno” di chi è abituato ai propri “schemi mentali ed alla propria purità ritualistica”, invece di “lasciarsi sorprendere” da un amore più grande. Al contrario, è proprio questa logica la strada che il Signore ci indica di fronte alle persone che “soffrono nel fisico e nello spirito”, per vincere così “pregiudizi e rigidezze” ed evitare di giudicare e condannare “dall’alto della propria sicurezza”. Andare verso gli emarginati ed i peccatori – aggiunge il Papa – non significa permettere ai lupi di entrare nel gregge, bensì cercare di raggiungere tutti testimoniando la misericordia, senza mai cadere nella tentazione di sentirci “i giusti o i perfetti”.

Adesione formale alle regole porta a  degradazione dello stupore
Chi si scopre “ammalato nell’anima”, infatti, deve trovare porte aperte, non chiuse; accoglienza, non giudizio o condanna; aiuto, non emarginazione. I cristiani che “spengono ciò che lo Spirito Santo accende nel cuore di un peccatore”, spiega Francesco, sono come i dottori della legge, “sepolcri imbiancati” che, con ipocrisia, vivevano attaccati alla lettera della legge, sapevano solo chiudere porte, segnare confini, ma trascuravano l’amore. Se prevale l’adesione formale alle regole – mette in guardia il Papa – allora si verifica “la degradazione dello stupore”, ossia il venir meno dello stupore di fronte alla salvezza donata da Dio, e ciò ci spinge a credere di “poter fare da soli, di essere noi i protagonisti”. Questo atteggiamento “è alla base del clericalismo” e porta i ministri di Dio a credersi “padroni della dottrina, titolari di un potere”.

Legge della Chiesa è inclusiva, non esclusiva
La Chiesa non deve mai essere così, afferma il Papa, non deve avere l’atteggiamento di chi impone “pesanti fardelli” sulle spalle della gente, senza volerli muovere “neppure con un dito”. “Ad alcune persone tanto rigide – dice il Papa – farebbe bene una scivolata perché così, riconoscendosi peccatori, incontrerebbero Gesù”. “La grande legge della Chiesa – infatti – è quella dell’et et e non quella dell’aut aut”. A tal proposito Francesco cita esempi negativi, come i cinquemila dollari richiesti ad una donna per un processo di accertamento di nullità matrimoniale o come il funerale in Chiesa rifiutato ad un bambino perché non battezzato.

Capitolo 7: corruzione, peccato elevato a sistema. Peccatori sì, corrotti no!
Ampia, poi, la riflessione di Francesco sulla corruzione, definita come “il peccato elevato a sistema e divenuto abito mentale, modo di vivere”. Il corrotto pecca e non si pente, dice il Papa, finge di essere cristiano e con la sua doppia vita dà scandalo, crede di non dover più chiedere perdono, passa la vita in mezzo alle scorciatoie dell’opportunismo, a prezzo della dignità sua e degli altri. Con la sua “faccia da santarellino”, il corrotto evade le tasse, licenzia i dipendenti per non assumerli definitivamente, sfrutta il lavoro nero e poi si vanta delle sue furbizie con gli amici o magari va a Messa la domenica, ma poi pretende una tangente sul lavoro. E “spesso non si accorge del suo stato” come “chi ha l’alito pesante”. “Peccatori sì, corrotti no!”, esorta il Papa, invitando a pregare, durante il Giubileo, perché Dio faccia breccia nel cuore dei corrotti, donando loro “la grazia della vergogna”.

Giustizia non basta da sola, serve misericordia
Poi, il Pontefice ricorda che la misericordia è “un elemento indispensabile” perché vi sia fratellanza tra gli uomini. La giustizia da sola, infatti, non basta: con la misericordia, Dio va oltre la giustizia, “la ingloba e la supera” nell’amore. “Non c’è giustizia senza perdono – dice ancora Francesco, sulla scia di Giovanni Paolo II – e la capacità di perdono sta alla base di ogni progetto di una società futura, più giusta e solidale”. Non solo: “la misericordia contagia l’umanità” e ciò si riflette “nella giustizia terrena, nelle norme giudiziarie”. Basti pensare al crescente rifiuto della pena di morte che si registra a livello mondiale.

Famiglia, prima scuola di misericordia
“Con la misericordia la giustizia è più giusta”, sottolinea ancora il Papa, rimarcando che questo non significa “essere di manica larga, spalancare le porte delle carceri a chi si è macchiato di reati gravi”, bensì aiutare chi è caduto a rialzarsi, perché Dio “perdona tutto”, “fa miracoli anche con la nostra miseria” e la sua misericordia “sarà sempre più grande di ogni peccato”, tanto che nessuno può porvi un limite. Il Pontefice ricorda, poi, che la famiglia “è la prima scuola della misericordia”, perché in essa “si è amati e si impara ad amare, si è perdonati e si impara a perdonare”.

Capitolo 8: compassione vince globalizzazione dell’indifferenza
Quanto alle caratteristiche dell’amore infinito di Dio, Papa Bergoglio ricorda che Dio ci ama con compassione e misericordia; la prima ha un volto più umano, la seconda invece è divina. Infatti, Gesù non guarda alla realtà dall’esterno, “come se scattasse una fotografia”, ma “si lascia coinvolgere”. Di questa compassione c’è bisogno oggi, spiega il Papa, e ce n’è bisogno per vincere “la globalizzazione dell’indifferenza”.

Capitolo 9: praticare opere di misericordia, è in gioco credibilità dei cristiani
A conclusione del libro-intervista, il Papa si sofferma sulle opere di misericordia, corporali e spirituali: “Sono attuali e sempre valide – dice – restano alla base dell’esame di coscienza ed aiutano ad aprirsi alla misericordia di Dio”. Di qui, l’esortazione a servire Gesù “in ogni persona emarginata”, esclusa, affamata, assetata, nuda, carcerata, malata, disoccupata, perseguitata, profuga. Nell’accoglienza dell’emarginato, ferito nel corpo, e del peccatore, ferito nell’anima, si gioca infatti “la credibilità dei cristiani”, conclude il Pontefice. Perché in fondo, come diceva San Giovanni della Croce, “alla sera della vita, saremo giudicati sull’amore”.

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Il cammino del perdono

Posté par atempodiblog le 10 janvier 2016

Il cammino del perdono

Coltivare Amore

Un’ascoltatrice di Radio Maria: Ciao padre Livio, buonasera a tutti!

P. Livio: Buonasera anche a te!

Ascoltatrice: Grazie! Sto chiamando a proposito della Divina Misericordia… C’è una domanda che mi martella in testa da tanto tempo, da anni… Ho provato a parlarne con qualche sacerdote, però le loro risposte non mi convincono. Ecco, il discorso è questo: la gente, a volte, si aspetta, da noi che frequentiamo la Chiesa, che perdoniamo qualsiasi cosa… di tutto e di più, ma quando ti ritrovi davanti delle persone… ad esempio dei parenti… Ecco, pongo direttamente questa cosa, brevemente… I parenti da tanti anni ti tormentano a causa di interessi, ti hanno calunniato, ti hanno fatto del male e tanto di più e, poi, dopo tanti anni, anche dopo venti anni, questa gente ti cerca sempre perché vuole “fare pace con te”. Se dai un rifiuto, ti rinfaccia il fatto che tu non li perdoni; “come mai se sei cristiana…”, in maniera ipocrita si scandalizzino di questo.

A me è successo, una volta, che per aver rinunciato a questo mi hanno anche alzato le mani contro. Ecco perché dico che la pace è assurda… A conclusione di tutto questo: come si può perdonare questa gente che soltanto a vederla stai male fisicamente? Stai male proprio fisicamente!

Sto attenta a non odiare, perché so che questo sentimento non deve albergare nel nostro cuore, però sto male e sarebbe falso fare pace, perdonali, quando in realtà tu non sai neanche se li hai effettivamente perdonati, perché sai questa gente ancora ti vuol male.

La prego Padre Livio mi faccia capire perché io non riesco mai a trovare una risposta concreta a tutto questo. Non ho capito la Misericordia fino a dove spingerla perché credo che è quella del cuore. La pace dentro la si trova se veramente si perdona, se si ama il proprio fratello, ma se questo viene meno perché ti fa stare male solo la sua presenza…

Padre Livio:
Ok! Questo è un problema molto diffuso. Ma no, tu hai detto una bella frase. La cosa che veramente…, le caricature del perdono, no?…

No alla caricatura del perdono
Tempo fa successe un fatto molto grave qui ad Erba, come sapete, e abbiamo avuto una bellissima testimonianza di una famiglia che ha perdonato. Poi, però, divenne un caso argomento mass-mediatico che si prolungò per settimane, per mesi… per cui mi ricordo che i cronisti andavano davanti ad una persona, una madre che aveva avuto un figlio ucciso o il marito assassinato e domandavano: “allora… ha perdonato? Ha perdonato? Ha perdonato?”. Cioè… la caricatura del perdono… ma dico: “ma scherziamo?”.

La fatica del cuore
Perdonare è una fatica del cuore, occorre del tempo, non è che dall’oggi al domani faccio scattare il perdono, cioè, non so come dire, è un processo di conquista del proprio cuore e il primo passo, come ha detto bene la signora, è impedire all’odio di entrare nel cuore. Se tu hai ricevuto un torto e lasci che il diavolo ti punga e immetta il suo veleno nel tuo cuore, questo ti indurisce il cuore stesso, quindi la prima cosa da fare è vegliare alla porta del cuore perché non entri l’odio.

Niente odio, niente vendetta
All’inizio ci sarà il desiderio di giustizia, ecc… poi pian piano le cose cambieranno, però una cosa che bisogna fare assolutamente è quella di non odiare e di non vendicarsi, capito? Niente odio, niente vendetta. Dopo, pian piano, si va avanti e si prega per i propri nemici, cioè per quelle persone che mi han fatto del male, io prego per loro e si va avanti ancora pian piano, si vede se sono disposte alla riappacificazione… Se sono sinceramente pentite e mi chiedono perdono, son disposto a darlo; non voglio già dire: “perdono, perdono”, no, se io vedo una persona che mi ha fatto del male che è sinceramente pentita, mi saluta, mi si avvicina… valuto, sia pure non con faciloneria, perché se no è inutile che mi cerca, andiamo a bere mezza bottiglia di champagne che dopodiché litighiamo subito. No, bisogna vedere se il cuore ha fatto il suo cammino interiore.

Perdonare non vuol dire necessariamente stringere amicizia
Il perdono, umanamente parlando, è un cammino, mica tutti possono fare come Gesù Cristo, che dall’alto della Croce, ha detto: “Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno”. Magari per dire sinceramente quelle parole bisogna essere Gesù Cristo, allora se una persona però ti dice che si è pentita e ti chiede perdono, insomma come il figliol prodigo al Padre, questo lo si dà, ma dare il perdono non significa necessariamente diventare amici, perché l’amicizia è un’altra cosa.

Noi dobbiamo essere in pace con tutti, ma l’amicizia e tutto il resto sono altre cose che non c’entrano col perdono. Io posso perdonare uno che mi ha fatto un torto grave, ma non per questo io divento suo amico, lo rispetto, voglio dire che ci vuole tutto un procedimento al riguardo; questo l’ho voluto mettere bene in evidenza.

La disponibilità a ricevere il perdono
Uno fa un “cammino del perdono” ma guarda se l’altro fa discernimento, se l’altro è disponibile, capito?
A far sì che questa cosa vada in porto ci vuole la disponibilità, perché ci sono quelli che sono doppi, cioè non sono persone sincere, non sono persone affidabili, va guardato cosa c’è nel cuore perché se no quello ti frega due volte, poi ti frega tre volte… scusate, ma questa è la verità per cui non è che quando Giuda uscì per tradire Gesù, il Signore gli disse: “Eh, Giuda! Guarda che ti perdono”. Il perdono non è una caricatura di questo genere, se Giuda fosse andato da Gesù ai piedi della Croce e avesse pianto e chiesto perdono, Dio lo avrebbe perdonato. D’altra parte Gesù avendo visto Pietro in quell’affanno, lo ha guardato e Pietro pianse amaramente. Guardate che pianse amaramente Pietro e per quello fu perdonato.

Il pentimento di chi ha fatto un torto
Ci vuole il pentimento di chi ha fatto il torto. Se ci trovassimo di fronte una persona che non si pente del grave torto commesso, sicuramente io non lo odio, io non mi vendico, io prego per lui e sono disponibile al perdono, magari posso anche aiutarlo dicendo una buona parola, ma il perdono si dà a chi si pente.

Senza pentimento l’assoluzione del prete non è valida
D’altra parte cosa fa Dio? Dio dà il perdono a chi si pente, perché se uno va a confessarsi e non si pente l’assoluzione amministrata dal prete non vale. Non vale se non c’è il pentimento. Senza pentimento non c’è il perdono dei peccati, mettetevelo bene in testa! Questo è Vangelo! Né più, né meno.

Niente commedie
Senza il pentimento non c’è il perdono dei peccati, anche chi ha fatto un grave torto deve pentirsi e chiedere perdono all’altra persona, non deve creare le barricate, deve essere disponibile a darlo anche a tendere la mano, se no si recita la commedia, non si fa qualcosa di serio.

Quando i cuori cambiano si vede nell’altro un fratello
Il perdono si ha quando due persone, una dopo aver ricevuto una grave ingiustizia e l’altra persona che l’ha fatta, si abbracciano, ma perché i cuori son cambiati.

Se uno ha cambiato il cuore si nota, vede nell’altro un fratello. Non c’è niente da fare, se uno è veramente pentito lo abbracci.

Il cambiamento di cuore funziona se uno è veramente pentito, così ti viene spontaneo perdonarlo, se è veramente pentito, ma se non c’è questo pentimento cosa vuoi fare? Stai sulle tue, c’è poco da fare.

Trascrizione di una telefonata intercorsa tra un’ascoltatrice di Radio Maria e Padre Livio Fanzaga durante una Catechesi Giovanile del dicembre 2015

Divisore dans San Francesco di Sales

Ricorda
Durante la santa Messa ho visto Gesù disteso in croce che mi ha detto: «Mia discepola, abbi un grande amore per coloro che ti fanno soffrire, fa’ del bene a coloro che ti odiano». Ho risposto: «O mio Maestro, Tu vedi bene che non ho sentimenti d’amore per loro, e questo mi rattrista». Gesù mi ha risposto: «Il sentimento non è sempre in tuo potere. Da questo riconoscerai se hai amore, se dopo aver ricevuto dispiaceri e contrarietà, non perdi la calma, ma preghi per coloro dai quali hai ricevuto le sofferenze e desideri per loro il bene». Quando sono tornata… (dal Diario di Santa Faustina Kowalska)

Gesù: «Non lasciarti guidare dal sentimento poiché esso non sempre è in tuo potere, ma tutto il merito sta nella volontà». (dal Diario di Santa Faustina Kowalska)

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Marija: Senza Dio non c’è pace

Posté par atempodiblog le 9 janvier 2016

Messaggio della Regina della Pace di Medjugorje a Marija del 25/12/2015

“Cari figli! 
Anche oggi vi porto mio figlio Gesù tra le braccia e da esse vi do la Sua pace e la nostalgia del Cielo. Prego con voi per la pace e vi invito ad essere pace. Vi benedico tutti con la mia benedizione materna della pace. Grazie per aver risposto alla mia chiamata”.

Marija Pavlovic Lunetti

Telefonata di Padre Livio e Marija – 25 dicembre 2015
Marija: Senza Dio non c’è pace

Tratto da: Radio Maria Fb

Marija: Oggi è stata un’apparizione con la nostalgia del Paradiso, del Cielo. La Madonna è arrivata con Gesù Bambino in braccio. Gesù ci ha guardato come un bambino sveglio, ma non ha detto niente. La Madonna ha pregato su di noi. Io ho raccomandato tutti noi e tutte le persone che si sono raccomandate alle nostre preghiere. L’apparizione è stata abbastanza corta e anche il messaggio. Mi sembrava che la Madonna avesse fretta di tornare in Paradiso. Era gioiosa, tranquilla e soprattutto bella. Il suo sguardo e con Gesù Bambino trasmette a noi un grande desiderio e una grande gioia di essere stati scelti da Lei, di essere quelli che Lei chiama suoi angeli e suoi figli. Come ogni Natale, è arrivata con i vestiti dorati, noi diciamo ricamati d’oro, più ricchi, più belli, più raggianti.

P. Livio: Nel Natale del 2012 invece il messaggio l’ha dato Gesù Bambino, unica volta che Lui ha parlato in 34 anni. Alzandosi con autorità, ha detto: “Io sono la vostra pace. Vivete i miei comandamenti”. Ricordo che tu mi hai chiamato dicendo che era successo una cosa stranissima (Marija non ricordava più quel messaggio). Spiegami come mai che appena ricevuto il messaggio lo sai trascrivere perfettamente, ma dopo qualche tempo lo dimentichi.
Marija: Si perché lo scriviamo subito e abbiamo l’immagine della Madonna. Il messaggio è come impresso nella nostra mente. L’esperienza con la Madonna è così forte per noi che ci rimane come un timbro nel cuore, perché è molto forte e pregnante la sua presenza nella nostra vita. E’ una grazia speciale. Perché noi con la Madonna facciamo esperienza del Paradiso ed entriamo in un’altra dimensione. Non so se riesco a farvi capire. Ma dopo l’apparizione torniamo a vivere come tutti gli esseri umani e dimentichiamo. Però resta la certezza della fede.

P. Livio: Come interpreti le parole: “nostalgia del Cielo? Come un desiderio di morire presto?
Marija: Questa nostalgia dobbiamo averla sempre. Non è che dobbiamo morire per andare in Cielo. La Madonna dice di cominciare a vivere il Paradiso qui sulla terra. Perché se noi abbiamo questa nostalgia del Cielo, del Paradiso, questo desiderio di Dio, cominciamo a vivere in modo diverso, sopportando e combattendo anche fino al martirio… I martiri andavano cantando incontro alla morte. Oggi forse Gesù non chiede da noi la morte, ma chiede che moriamo a tante cose inutili e di attaccarci alle cose spirituali che non marciscono. Oggi tante persone non hanno questo spirito del Natale e del loro rapporto con Dio. Per questo penso che la Madonna ci chiede di avere la nostalgia del Cielo.

P. Livio: La Madonna chiede di “essere pace, ma siamo in tempi tribolati nei quali “satana è sciolto dalle catene“ (messaggio del 1° gennaio 2001), con prove, tentazioni e sofferenze quotidiane. Come conservare la pace in mezzo a tutto questo?
Marija: E’ vero, la Madonna in quel messaggio ci ha detto che satana è sciolto dalle catene, ma ci ha anche invitato a consacrarci al suo Cuore Immacolato e al Cuore di suo Figlio Gesù. Io penso che se noi siamo sotto il manto della Madonna, come Lei tante volte ci ha chiesto, se siamo preghiera, se siamo pace, se siamo speranza, non dobbiamo avere paura… Il Signore ci dà la pace. La Madonna ci dice che dobbiamo cercare questa pace, e ci aiuta con la sua presenza, i suoi messaggi.

P. Livio: E’ con la nostra pace con Dio che il mondo troverà la pace?
Marija: Io credo che se non c’è Dio non c’è pace… La Madonna chiede di essere positivi, perché un cristiano è chiamato ad essere uno che ha la speranza, uno che ha la gioia di vivere. La Madonna ci chiama ad essere gioia, essere espressione della gioia. Nel precedente messaggio ci ha chiesto di pregare per le sue intenzioni. Io ho subito pensato: chissà che cosa la Madonna ci sta nascondendo per non spaventarci. Ma noi preghiamo e poi tante volte ha detto che, grazie alle nostre preghiere, aveva vinto il bene. Ci sono tante cose che non vanno, ma Lei dice: “Pregate”.

P. Livio: Tu pensi che con l’aiuto di quelli che rispondono alla chiamata la Madonna vincerà la sua battaglia per la pace nel mondo?
Marija: La Madonna ha già vinto. Io penso a quello che ha detto fin dai primi anni: “Dio mi ha permesso di essere in mezzo a voi”. Credo profondamente che Dio ha mandato sua Madre in mezzo a noi per dare una svolta alla nostra vita e all’umanità, anche se non ne siamo coscienti. Ma io vedo già questa svolta che comincia col trionfo del Cuore Immacolato di Maria grazie a tanti cuori, a tante famiglie, a tanti gruppi di preghiera, a tante persone umili, semplici che hanno accolto i messaggi della Madonna… Purtroppo la società moderna ha dimenticato l’anima e ha perso il desiderio di Dio e del soprannaturale… Io credo fermamente che nella società e nelle relazioni internazionali tante cose si sono cambiate in modo positivo grazie alla Madonna, al suo messaggio e alla sua presenza. Con Lei sparisce il dubbio, con Lei c’è speranza, con Lei c’è la pace, con Lei c’è Dio. A questa nostra umanità povera, incapace, confusa, triste, a questa umanità che ha messo l’io al centro, Lei sta portando Dio…

Lungo tutta questa notte qui a Medjugorje ci sarà l’adorazione per ringraziare Gesù della presenza della Madonna e dei suoi messaggi.

Marija ha quindi pregato il “Magnificat” e il Gloria.
Padre Livio ha concluso con la benedizione.

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Il «Canto dell’Epifania» di Paul Claudel

Posté par atempodiblog le 4 janvier 2016

E ai vespri Claudel aprì gli occhi
Il «Canto dell’Epifania» del poeta che si convertì nel Natale del 1886 all’ascolto del Magnificat
di Mons. Inos Biffi – L’Osservatore Romano

adorazione re magi giotto

L’Epifania è tra le feste a cui Claudel ha dedicato il suo canto. Tornato d’improvviso e in maniera inaspettata alla fede durante i vespri natalizi del 1886, all’ascolto del Magnificat («In un istante il mio cuore fu toccato e credetti»), le celebrazioni non cessarono di attrarre e di ispirare la sua pietà.

L’anno sacro, suggestivamente definito Corona benignitatis anni Dei , avrebbe fatto scaturire in lui una vena sovrabbondante di poesia, in un fondersi di grazia e di natura, di dogma e di immagini, di mistero e di bellezza; e il suo stesso verso, attingendo alla fonte dell’orazione della Chiesa — largamente intessuta di Scrittura — si sarebbe rinnovato.

Era, d’altronde, affine al suo genio immergersi nel fluire del tempo con la sua materia e le sue figure e attingervi ciò che non trapassa, cioè la «benignità di Dio»; sentire il trascorrere degli anni — «dall’inizio del mondo fino ai nostri giorni» — non come un succedersi vano e confuso di secoli, ma come «una processione», formata da patriarchi o popolata di santi in cammino, di generazione in generazione, incontro alla «pienezza del tempo» (Galati , 4, 41), incontro a «Giuseppe, sposo di Maria dalla quale è nato Cristo» (Matteo , 1, 16) (cfr. Processional pour saluer le siècle nouveau).

Né mancheranno, a incentivare e conferire esuberanti risorse al gusto e alla sensibilità liturgica di Claudel, i vari soggiorni monastici a Solesmes e a Ligugé, mentre concorrerà a alluminarli la frequentazione dell’opera classica di Guéranger, L’année liturgique .

Veramente, già per il tempo succeduto alla laboriosa e dolorosa conversione, Claudel ricorderà: «Il grande libro che mi si era aperto e dove feci le mie classi, era la Chiesa. Per sempre sia resa lode a questa grande madre maestosa sulle cui ginocchia ho imparato tutto. Passavo tutte le domeniche a Notre-Dame e vi andavo il più spesso possibile in settimana. Il dramma sacro si dispiegava davanti a me con una magnificenza che oltrepassava ogni mia immaginazione. Ah, non era più il povero linguaggio dei libri di devozione! Era la più profonda e grandiosa poesia, erano i gesti più augusti, che mai fossero stati affidati a degli esseri umani. A confronto del canto sublime dell’ Exsultet gli accenti più inebrianti di Sofocle e di Pindaro erano insipidi» (Ma conversion).

Il progetto di Claudel di comporre un’ampia raccolta di poemi sul calendario liturgico risale al primo decennio del secolo scorso. In una lettera del gennaio del 1909 ad André Gide, l’autore di Tête d’or e di Partage de midi manifestava la sua intenzione di comporre «un ciclo di canti», «nella forma popolare delle vecchie sequenze», raggruppati secondo le suddivisioni tradizionali del Breviario: un tentativo — come scriveva allo stesso Gide qualche mese dopo — «di riprendere la tradizione di Notkero, di Adamo di San Vittore e di Prudenzio».

Esattamente, da quel progetto, riportato a termini più ridotti, nacque la Corona benignitatis anni Dei , una successione di poemi dove la memoria liturgica è volta in poesia, com’era avvenuto, prim’ancora che per gli autori citati da Claudel, per l’innologia insuperata di sant’Ambrogio e per gli Inni sacri di Alessandro Manzoni. A questa Corona appartiene il Canto dell’Epifania (Le chant de l’Épiphanie), definitivamente compiuto nel 1913.

Siamo nell’ora mattutina «dell’Anno tutto nuovo»; «la brina cricchia sotto i piedi come cristallo»; la terra brillando «appare nella sua veste battesimale», e «Gesù, frutto dell’antico Desiderio», quando ormai dicembre è terminato, si manifesta «nell’irraggiarsi dell’Epifania». I tre Magi — Claudel si rifà alla tradizione popolare — si sono mossi troppo in ritardo per arrivare a Natale, e a guidarli è «una stella del Cielo», che «si ferma» dove dimora e presiede «Maria con il suo Dio tra le braccia». Ora «non si tratta che di aprire gli occhi e guardare»: «da dodici giorni è nato il Figlio di Dio con noi». Per il poeta l’Epifania è anzitutto uno sguardo intenso e silenzioso che si posa sul Signore e sulla sua Madre.

I tre saggi offrono i loro doni, e «noi con loro contempliamo Gesù Cristo, in questo giorno della sua triplice manifestazione».

Il primo mistero che lo rivela è la venuta di Gaspare, Melchiorre e Baldassare, al seguito di un stella «fissa dall’inizio del mondo che si mette in cammino». I primi a stare intorno alla mangiatoia sono «i poveri», «buone donne e pastori con molte pecore, che senza alcuna difficoltà, con voce unanime, confessano il Salvatore». «Essi sono così poveri», che il Figlio di Dio «si trova con loro come a casa propria».

Diverso è il caso dei Magi, ma ecco l’implorazione a Maria per loro: «Madre di Dio, accogliete queste persone oneste, che neppure per un istante dubitano di quello che hanno veduto (…), insieme con quello che vi presentano». «Sono doni ricchi di significato e di grande valore: l’oro, che è campione della Fede priva di inganni o di scarti (…); la mirra, il cui profumo sepolcrale e amaro è il simbolo della Carità»; mentre l’«oncia di incenso recata da Melchiorre è la Speranza».

«La seconda Epifania di Nostro Signore è il giorno del Suo battesimo nel Giordano. L’acqua diviene un sacramento in virtù del Verbo che ad essa si unisce. Dio entra nudo nelle fonti di queste acque profonde in cui siamo sepolti. Come esse Lo fanno uno con noi, così ci fanno uno con Lui. Fino all’ultimo pozzo nel deserto, fino alla fossa precaria aperta lungo il cammino, non c’è una goccia d’acqua ormai che non basti per fare un cristiano». Da quelle acque profonde — prosegue il poeta — ebbro e nudo il Signore riemerge, e allora «il Vostro ultimo languore, prima della morte; il Vostro ultimo grido sulla Croce, è che Voi avete sete ancora». Secondo il poeta, Cristo si immerge in tutta l’acqua dell’universo; è assetato di ogni goccia dell’Oceano: per dire la sete di salvezza della quale è riarso.

Segue il «terzo mistero», compiutosi alle nozze di Cana, «quando [o Signore], sulla parola pronunziata a mezza voce dalla Vostra Madre, mutaste in vino l’acqua furtiva contenuta nelle dieci anfore di pietra. (…) Basta una parola di Dio, perché le nostre acque imputridite si mutino in ottimo vino», perché un vino dapprima scadente, risulti alla fine il «vino migliore».

E così «l’Epifania del giorno è passata, e non resta che quella della notte», quando i Magi, per una strada diversa da quella della loro venuta, ridiscendono, tornando ai loro Paesi: «La notte è ridiventata la stessa e tutto da ogni parte arde in silenzio».

È «la grande Notte della fede», che il poeta saluta: «Salve, grande Notte della fede (…)! La patria di un cattolico è la Notte, non la nebbia; la nebbia che acceca e che soffoca, che entra nella bocca e negli occhi, che passa per tutti i sensi, in cui camminano, senza saper dove sono, l’incredulo e l’indifferente». «Ecco la notte migliore del giorno», segnare la via: «Ecco l’Anno tutto nuovo, che si innalza uguale coi suoi milioni di occhi tutt’intorno verso il punto polare», e «nel mezzo del Cielo il tuo seggio, o Maria, Stella del Mare!».

L’Epifania è l’apparizione del Signore, che non dissipa l’oscurità della fede. Il giusto vive di fede. E, pure, è diffusa su di lui una Luce sicura, che infallibilmente lo guida sulla via della visione.

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Genoveffa de Troia e i tre “no”

Posté par atempodiblog le 4 janvier 2016

I tre “no”  di Genoveffa de Troia
Vita, insegnamento e spiritualità di un’anima distesa sulla Croce
di fr. Leonardo Triggiani – Voce di Padre Pio

Genoveffa de Troia e Padre Pio

Genoveffa nacque a Lucera (Foggia) il 21 dicembre 1887 da Pasquale De Troia e Vincenza Terlizzi. La piccola era tanto malferma in salute che si temeva di perderla da un momento all’altro. A quattro anni apparve una piaga sulla sua gamba destra, che mai accennò a guarire. Col passare degli anni, le piaghe si moltiplicarono sempre più sul suo corpo che divenne tutto una piaga: il piede destro, un moncherino attaccato all’arto da una sottilissima lamina di sostanza che dava la sensazione di un imminente distacco; le ossa mostravano fori profondi; il cranio, lentamente roso, aveva l’aspetto di un crivello.

Genoveffa fu la prima di cinque figli. Quando nacque, anche se malaticcia, arricchì la sua povera casa, fece sentire ricchi i suoi genitori. Venuta l’età della scuola, dovette rinunciarvi, anche a motivo di salute, oltre che di povertà. I suoi l’affidarono alle Suore della Carità residenti nell’ex convento dei Frati Cappuccini in Lucera, perché apprendesse qualcosa di utile per la vita, e le Suore le affidarono anche il compito di tenere pulita la chiesetta conventuale. Lei accettò di buon animo, perché ciò le dava la possibilità di stare vicino al tabernacolo.

Mai un lamento sfuggì dalle sue labbra: «Viva Gesù! Tutto per Gesù!» – erano le parole che le fiorivano sulla bocca allorché si acuivano i dolori.

Nata in una famiglia povera, tanto povera da essere costretta a cambiare ben 14 volte abitazione tra Lucera e Foggia: inadempiente nel pagamento della pigione perché povera, veniva sistematicamente sfrattata e sloggiata. Fu sofferente al punto da restare immobile e incollata al suo lettino per 44 anni. Genoveffa aveva compreso bene lo spirito delle beatitudini evangeliche, tanto da rispondere a chi le chiedeva come stava: «Sto bene perché soffro, starei male se non soffrissi».

Per comprendere il messaggio di Genoveffa, è necessaria una carellata sui suoi dolori. Si può dire che ella la croce l’ha trovata nella culla, l’ha portata in vita e l’ha lasciata nella tomba! Fin da piccola, consegnò la sua anima a Dio e il suo corpo ai dolori! Già dalla nascita era apparso un corpicino da nulla, al quale il medico previde non più di 24 ore di vita. Per questo fu subito battezzata e cresimata.

«La gioia di Dio bussa alla porta dei sofferenti, non per deriderli, ma per compiervi la sua paradossale opera di trasfigurazione» (Paolo VI). E Dio ha bussato spesso alla porta di Genoveffa, tanto che qualcuno non ha esitato a definirla la «Novella Rita da Cascia», per via degli interminabili anelli di tutta una catena di dolori fisici e morali.

Padre Pio, esperto sulla via della croce, diceva di Genoveffa: «È un’anima prediletta di Gesù distesa da molti anni sulla croce».

Tre “no” hanno caratterizzato la sua pur lunga giornata terrena. A quattro anni, strani dolori e piaghe per il corpo. In uno dei tanti viaggi all’Incoronata dove la mamma annualmente la portava per implorare la guarigione della figlia, una voce l’avvolge e le dice: «Tu non guarirai mai».

A 11-12 anni, stando dalle suore a Lucera, chiede di diventare una di loro. Proprio una suora le dice chiaro il secondo no: «Tu non sarai mai suora».

A 16-17 anni, nella chiesa di sant’Anna a Lucera, mentre spolvera l’altare, una voce le dice chiaro il terzo no: «Ti metterai a letto e non ti alzerai mai più».

Sono tre “no” uno più pesante dell’altro che avrebbero distrutto qualsiasi fibra e intelligenza. Lei ne esce rafforzata.

Genoveffa aveva l’abitudine, quasi scrupolosa, di non lasciare mai nessuno senza risposta: così per le lettere che riceveva, così per le preghiere che le venivano richieste. E quando prometteva di pregare – cosa, questa, che lei faceva sempre – s’impegnava a farlo sul serio, persona per persona. Non bastandole, per questo, le ore del giorno, ricorreva a quelle della notte. Gli amici non la lasciavano mai troppo tempo sola. Aveva il segreto di una parola semplice, chiara, nutrita di teologia, anche se illetterata.

Genoveffa era convinta che è bello servire Dio, è ancora più bello servirlo nel dolore fino alla morte. E la sua “Via crucis” durò 44 anni, durante i quali i suoi amici hanno assistito al progressivo sbocciare di un fiore di affascinante bellezza.

L’11 dicembre 1949, alle ore 10,35, Genoveffa si addormentò in terra e si risvegliò in cielo. Dal 25 aprile 1965 il suo corpo riposa nella chiesa dell’Immacolata dei Padri Cappuccini in Foggia. Il 7 marzo 1992, il Papa ha solennemente proclamato esservi assoluta certezza circa l’eroicità delle virtù di Genoveffa. A partire da quel radioso mattino, Genoveffa gode del titolo di “Venerabile”. Tutto lascia sperare di vedere presto l’umile Terziaria Cappuccina di Via Briglia nella gloria degli altari.

Genoveffa insegna che l’ora meglio impiegata della nostra vita è quella in cui amiamo di più il Signore, come lo scopo della nostra vita è di realizzare il sogno che Dio ha concepito sulla nostra culla, ricordando che la vita ci è data per fabbricare per noi la virtù e per gli altri la felicità. Genoveffa, benché analfabeta, questo l’aveva capito molto bene e ne fece il programma della sua vita: beneficò gli altri, santificò se stessa!

A 66 anni anni dalla sua morte, dopo una lunga interminabile vita crocifissa, dopo che la Chiesa ha proclamato l’eroicità delle sue virtù e l’ha detta Venerabile, lei – Genoveffa – l’umile sofferente di Via Briglia a Foggia, dice a noi ancora pellegrini quaggiù “gementi e piangenti in una valle di lacrime”: «Beati quelli che nel cuore della notte credono nello splendore dell’alba». 

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Il pregiudizio degli adulti

Posté par atempodiblog le 3 janvier 2016

vecchi e giovani

A un bambino si può dire tutto, tutto. Mi ha sempre sconcertato il pensiero di quanto poco i grandi conoscano i piccoli, persino i padri e le madri, conoscono male i bambini,  i loro stessi figli.

Ai bambini non bisogna nascondere niente col pretesto che sono piccoli e che per loro è troppo presto per sapere. Che idea triste e infelice! E come si rendono ben conto i bambini che i genitori li considerano troppo piccoli e non in grado di capire, mentre invece capiscono tutto.

I grandi non sanno che un fanciullo può dare consigli estremamente importanti anche nelle questioni più difficili. Oh, Dio! Eppure quando uno di questi teneri uccellini ti guarda fiducioso e contento, ti vergogni di ingannarlo.

Fëdor Dostoevskij – L’idiota

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