Virtualmente asociale
Posté par atempodiblog le 6 décembre 2015
Virtualmente asociale
«Ciascuno con una propria storia che si struggeva di rivelare»…
di Annalisa Teggi – Capriole Cosmiche
Di solito, anzi spesso, anzi sempre, quando ero adolescente/giovane nessuno si accorgeva se ero o non ero presente a una festa, se me ne andavo dopo cinque minuti, se mancavo a una gita degli scout e occasioni simili. Ero la classica persona trasparente, che nessuno nota. Non ne facevo un problema, stavo bene in disparte.
Ma la trasformazione dei rapporti interpersonali, che ora passano attraverso ogni sorta di social networks, ha fatto anche di me una “prima donna”. Ho sperimentato sulla mia pelle che abbandonare un gruppoWhatsapp equivale a un lutto, equivale a dichiarare una guerra mondiale.
Sarà per quel verbo «tizio ha abbandonato il gruppo», perché fa pensare al malvagio che abbandona il cane in autostrada o al padre degenere che abbandona la famiglia per mettersi con la giovane segretaria. «Abbandonare» è un verbo decisamente troppo forte per il mondo di Whatsapp, è inadeguato. Io opterei per «tizio ora se ne frega di questo gruppo».
Infatti, io non ho abbandonato proprio nessuno. E torniamo dunque ai fatti.
Esiste una categoria sociale pericolosa, i genitori degli alunni. Quando questa congrega si organizza in cellule pseudo-terroristiche come il gruppo Whatsapp «Mamme della classe 3 A» il mondo è in pericolo. Succedono cose assurde: gente che per i corridoi di scuola non ti guarda neppure in faccia, si permette di criticarti virtualmente con una familiarità che nemmeno tuo marito ha. È assurdo il livello di intimità e amicizia fittizie che si creano solo virtualmente.
E poi la moltiplicazione del gossip, delle inutilità verbali, dei cuoricini e dei sorrisi. Ecco, a fronte di una discussione seria degenerata in chiacchiere da bar, mi sono detta che Whatsapp va bene per quando mio marito è all’estero e mi aggiorna su cosa fa, ma non va bene se a tema c’è l’educazione dei miei figli. E dopo aver visto una lista di n-mila messaggi sul suddetto gruppo di mamme, ho deciso di cambiare rotta. Ho chiesto a me stessa un sacrificio: se ci sono questioni o problemi che riguardano la scuola, fai la fatica di parlarne a viva voce con le altre mamme, non delegare al virtuale. E poi, semplicemente, mi sono tolta dal gruppo. Senza rancori, senza scenate… esattamente come accadeva da adolescente, quando andavo via da una festa e nessuno mi badava.
Apriti cielo. Si è generato il panico universale. Sono state ipotizzate cause disastrose, alcune hanno avuto sensi di colpa tremendi, è stata anche chiamata in causa la maestra per verificare che io stessi bene. Incontrandomi allegra e spensierata nei corridoi, c’è chi ha pensato: «Come fa lei a parlare tranquilla con noi, visto che non è più nel gruppo?». Bé, d’ora in poi io parlo e parlerò con le altre mamme nei corridoi, mi concedo il lusso di questo social network gratuito e non virtuale. Mi ripropongo di essere un po’ meno sociale virtualmente, magari di passare per una asociale virtuale.
Questa scelta non è un dito puntato contro gli altri, ma un’educazione e attenzione che voglio imporre a me stessa. La scorsa settimana ho partecipato a Firenze a un evento scolastico nazionale, Performance d’Autore, in occasione del quale 700 studenti italiani delle scuole superiori si sono incontrati per approfondire la conoscenza di un autore della letteratura italiana non troppo studiato, Vasco Pratolini (famoso soprattutto per Metello).
Per preparare i ragazzi a questa giornata di studio e dibattito avevamo suggerito loro la lettura di alcuni testi di Pratolini, tra cui il bellissimo racconto Lungo viaggio di Natale. E proprio questo testo si è rivelato di un’attualità disarmante.
La voce narrante racconta un suo viaggio in treno nella notte della Vigilia di Natale per tornare da suo padre. Siamo nell’Italia del secondo dopoguerra – quasi un altro mondo, rispetto a noi – e siamo su un vagone di terza classe, freddissimo. Il protagonista è seduto da solo in questo vagone gelido e il controllore gli suggerisce di cambiare posto, di spostarsi nel vagone attiguo che è pieno di gente: «’Stia mica lì solitario! Vada più avanti che c’è più gente! Dove c’è gente c’è calore».
Il protagonista si sposta e nel vagone accanto trova un microcosmo di gente diversa e molto colloquiale. Sono tutti sconosciuti, ma immediatamente si mettono a parlare tra loro. C’è una prostituta di Genova, un minatore che ha vissuto per vent’anni in Francia, un milanese arrogante, un russo che a stento capisce qualcosa di italiano e altri. Insomma, mondi lontani e si direbbe incompatibili tra loro. E invece nasce tra loro un’intimità immediata, ciascuno condivide le proprie idee, litiga, ironizza, deride. Il narratore commenta: «Noi eravamo già tutti amici, creature che si facevano caldo l’una con l’altra, ciascuno con una propria storia che si struggeva di rivelare».
Ogni uomo è una storia, ma non solo. Ogni uomo è una storia che si strugge di rivelare. Cioè: l’uomo naturalmente vuole condividere la sua storia. La propria storia ciascuno la comprende guardandola attraverso gli occhi di qualcun altro, ma non tanto perché sono gli altri a spiegarci chi siamo, bensì perché il vero di noi emerge nel momento della condivisione e non nel mondo dei propri pensieri.
Mettendo a tema questo racconto, è stato per me immediato chiedere ai ragazzi che avevo di fronte: quando oggi saliamo su un treno accade quel che racconta Pratolini? No. Ognuno sta per conto suo, cuffie nelle orecchie, e smanetta col cellulare. Si sente parte di una comunità, che per lo più è virtuale (fatta di persone che non sono presenti), e si preclude la possibilità di essere parte delle piccole comunità in cui si imbatte concretamente.
«Ma come? – si obietterà – È meglio mettersi a parlare con uno sconosciuto piuttosto che scrivere su Whatsapp alla mia migliore amica?» Probabilmente sì. Non voglio fare la bacchettona che rifiuta la tecnologia. Ma colgo un rischio, su di me innanzitutto. Sento che diventa facile delegare alla tecnologia, cioè ai messaggi virtuali, le cose importanti. Quante volte sento la tentazione di pensare a una persona e dire «questa cosa gliela scrivo, anziché dirgliela a voce» e mi rendo conto che spesso sono questioni importanti quelle che sarei tentata di delegare al mondo virtuale, perché è facile e mi toglie la fatica del batticuore di guardare negli occhi quella persona. Si tratta di una solitudine pericolosamente mascherata da «socialità» e che rischia di farci perdere TRE piccioni con una fava: sul treno, col mio cellulare accesso, rischio di allontanarmi dalla mia amica che è il destinatario del mio messaggio e sicuramente mi allontano dalla trama di vita che ho a un centimetro da me. Da ultimo, ma non meno importante, perdo anche un pezzo di me, se è vero che la mia storia si rivela quando ne rendo partecipe la piccola comunità delle persone a me care, o anche degli sconosciuti con cui chiacchiero.
È fatica parlare di persona alla gente. A volte non ti ascoltano. A volte parlano troppo. A volte ti verrebbe da voltargli le spalle. Però è solo dalla fatica che nasce qualcosa, come le doglie del parto: nessuno le vorrebbe attraversare … ma portano frutto.
Ora, lo so che è uscito il nuovo libro di Bruno Vespa e pure quello di Fabio Volo, ma io mi azzardo lo stesso a consigliarvi di leggere quel racconto di Pratolini e di comprare il libro in cui è contenuto, Diario sentimentale. Forse non sarebbe improprio sottotitolarlo: «Incontri di varia umanità, per gente che ha il coraggio di essere virtualmente un po’ meno sociale».
PS: avevo concluso la scrittura di questo articolo, ma il telegiornale mi ha messo a conoscenza di un fatto accaduto a Giacarta. Un 24enne ha causato un incidente con la sua Lamborghini, in cui è rimasto ucciso un uomo e altri passanti sono stati gravemente feriti. Il pilota del bolide è rimasto illeso e mentre stava uscendo dalla sua vettura accartocciata era già intento a scrivere messaggi col cellulare. Emblematico: hai intorno il disastro, ma tu sei già altrove.
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