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Francesco: tutti si guardino dall’essere ipocriti, anche il Papa

Posté par atempodiblog le 11 septembre 2015

“Dov’è misericordia e discrezione,
ivi non è superfluità
né durezza di cuore”.

San Francesco d’Assisi

papa carezza

Francesco: tutti si guardino dall’essere ipocriti, anche il Papa
Per essere misericordiosi verso gli altri, dobbiamo avere il coraggio di accusare noi stessi. E’ quanto affermato da Papa Francesco nella Messa mattutina a Casa Santa Marta. Il Pontefice ha sottolineato che dobbiamo imparare a non giudicare gli altri, altrimenti diventiamo ipocriti. Un rischio, ha avvertito, da cui tutti si devono guardare “dal Papa in giù”.
di Alessandro Gisotti – Radio Vaticana

“Generosità del perdono, generosità della misericordia”. Papa Francesco ha sottolineato che, in questi giorni, la Liturgia ci ha fatto riflettere sullo stile cristiano rivestito di sentimenti di tenerezza, bontà, mansuetudine e ci esortava a sopportarci a vicenda.

Avere il coraggio di accusare se stessi
Il Signore, ha proseguito, ci parla della “ricompensa”: “non giudicate, non sarete giudicati. Non condannate e non sarete condannati”:

“Ma noi possiamo dire: ‘Ma, questo è bello, eh?’. E ognuno di voi può dire: ‘Ma Padre, è bello, ma come si fa, come si incomincia, questo? E qual è il primo passo per andare su questa strada?’. Il primo passo lo vediamo oggi, sia nella prima Lettura, sia nel Vangelo. Il primo passo è l’accusa di se stessi. Il coraggio di accusare se stessi, prima di accusare gli altri. E Paolo loda il Signore perché lo ha eletto e rende grazie perché ‘mi ha dato fiducia mettendo me al suo servizio, perché io ero’ ‘un bestemmiatore, un persecutore e un violento’. Ma è stata misericordia”.

Guardarsi dall’essere ipocriti, dal Papa in giù
San Paolo, ha soggiunto, “ci insegna ad accusare noi stessi. E il Signore, con quell’immagine della pagliuzza che è nell’occhio di tuo fratello e della trave che è nel tuo, ci insegna lo stesso”. Bisogna prima togliere la trave dal proprio occhio, accusare se stessi. “Primo passo – ha ribadito Francesco – accusa te stesso” e non sentirsi “il giudice per togliere la pagliuzza dagli occhi degli altri”:

“E Gesù usa quella parola che soltanto usa con quelli che hanno doppia faccia, doppia anima: ‘Ipocrita!’. Ipocrita. L’uomo e la donna che non imparano ad accusare se stessi diventano ipocriti. Tutti, eh? Tutti. Incominciando dal Papa in giù: tutti. Se uno di noi non ha la capacità di accusare se stesso e poi dire, se è necessario, a chi si devono dire le cose degli altri, non è cristiano, non entra in questa opera tanto bella della riconciliazione, della pacificazione, della tenerezza, della bontà, del perdono, della magnanimità, della misericordia che ci ha portato Gesù Cristo”.

Fermiamoci in tempo quando ci viene di sparlare degli altri
Il primo passo, dunque, ha ribadito è questo: chiedere “la grazia al Signore di una conversione” e “quando mi viene in mente di pensare ai difetti degli altri, fermarsi”:

“Quando mi viene la voglia di dire agli altri i difetti degli altri, fermarsi. E io? E avere il coraggio che ha Paolo, qui: ‘Io ero un bestemmiatore, un persecutore, un violento’ … Ma quante cose possiamo dire di noi stessi? Risparmiamo i commenti sugli altri e facciamo commenti su noi stessi. E questo è il primo passo su questa strada della magnanimità. Perché quello che sa guardare soltanto le pagliuzze nell’occhio dell’altro, finisce nella meschinità: un’anima meschina, piena di piccolezze, piena di chiacchiere”.

Chiediamo al Signore la grazia, ha detto ancora il Papa, “di seguire il consiglio di Gesù: essere generosi nel perdono, essere generosi nella misericordia”. Per canonizzare “una persona – ha concluso – c’è tutto un processo, c’è bisogno del miracolo, e poi la Chiesa” la proclama santa. “Ma – ha annotato – se si trovasse una persona che mai, mai, mai avesse parlato male dell’altro”, la “si potrebbe canonizzare subito”.

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Francesco: Gesù è misericordioso, chi non perdona non è cristiano

Posté par atempodiblog le 10 septembre 2015

Francesco: Gesù è misericordioso, chi non perdona non è cristiano
Pace e riconciliazione. Papa Francesco ha sviluppato l’omelia nella Messa mattutina a Casa Santa Marta partendo da questo binomio. Il Pontefice ha condannato quanti producono armi per uccidere nelle guerre, ma ha anche messo in guardia dai conflitti all’interno delle comunità cristiane. Dal Papa, inoltre, una nuova esortazione ai sacerdoti ad essere misericordiosi come lo è il Signore.
di Alessandro Gisotti – Radio Vaticana

papa misericordioso

Gesù è il principe della pace perché genera pace nei nostri cuori. Papa Francesco ha preso spunto dalle letture del giorno per soffermarsi sul binomio pace-riconciliazione. E subito si è chiesto se “noi ringraziamo tanto” per “questo dono della pace che abbiamo ricevuto in Gesù”. La pace, ha detto, “è stata fatta, ma non è stata accettata”.

Basta produrre armi, la guerra annienta
Anche oggi, tutti i giorni, “sui telegiornali, sui giornali – ha constatato con amarezza – vediamo che ci sono le guerre, le distruzioni, l’odio, l’inimicizia”.

“Anche ci sono uomini e donne che lavorano tanto – ma lavorano tanto! – per fabbricare armi per uccidere, armi che alla fine divengono bagnate nel sangue di tanti innocenti, di tanta gente. Ci sono le guerre! Ci sono le guerre e c’è quella cattiveria di preparare la guerra, di fare le armi contro l’altro, per uccidere! La pace salva, la pace ti fa vivere, ti fa crescere; la guerra ti annienta, ti porta giù”.

Chi non sa perdonare, non è cristiano
Tuttavia, ha soggiunto, la guerra non è solo questa, “è anche nelle nostre comunità cristiane, fra noi”. E questo, ha sottolineato, è il “consiglio” che oggi ci dà la liturgia: “Fate la pace fra voi”. Il perdono, ha aggiunto, è la “parola chiave”: “Come il Signore vi ha perdonato, così fate anche voi”.

“Se tu non sai perdonare, tu non sei cristiano. Sarai un buon uomo, una buona donna… Perché non fai quello che ha fatto il Signore. Ma pure: se tu non perdoni, tu non puoi ricevere la pace del Signore, il perdono del Signore. E ogni giorno, quando preghiamo il Padre Nostro: ‘Perdonaci, come noi perdoniamo…’. E’ un ‘condizionale’. Cerchiamo di ‘convincere’ Dio di essere buono, come noi siamo buoni perdonando: al rovescio. Parole, no? Come si cantava quella bella canzone: ‘Parole, parole, parole’, no? Credo che Mina la cantasse… Parole! Perdonatevi! Come il Signore vi ha perdonato, così fate voi”.

La lingua distrugge, fa la guerra
C’è bisogno di “pazienza cristiana”, ha ripreso. “Quante donne eroiche ci sono nel nostro popolo – ha detto – che sopportano per il bene della famiglia, dei figli tante brutalità, tante ingiustizie: sopportano e vanno avanti con la famiglia”. Quanti uomini “eroici ci sono nel nostro popolo cristiano – ha proseguito – che sopportano di alzarsi presto al mattino e andare al lavoro – tante volte un lavoro ingiusto, mal pagato – per tornare in tarda serata, per mantenere la moglie e i figli. Questi sono i giusti”. Ma, ha ammonito, ci sono anche quelli che “fanno lavorare la lingua e fanno la guerra”, perché “la lingua distrugge, fa la guerra!”. C’è un’altra parola chiave, ha poi detto Francesco, “che viene detta da Gesù nel Vangelo”: “misericordia”. E’ importante “capire gli altri, non condannarli”.

Sacerdoti siano misericordiosi, non bastonino la gente in confessionale
“Il Signore, il Padre è tanto misericordioso – ha affermato – sempre ci perdona, sempre vuol fare la pace con noi”. Ma “se tu non sei misericordioso – ha avvertito il Papa – rischi che il Signore non sia misericordioso con te, perché noi saremo giudicati con la stessa misura con la quale noi giudichiamo gli altri”:

“Se tu sei prete e non te la senti di essere misericordioso, dì al tuo vescovo che ti dia un lavoro amministrativo, ma non scendere in confessionale, per favore! Un prete che non è misericordioso fa tanto male nel confessionale! Bastona la gente. ‘No, Padre, io sono misericordioso, ma sono un po’ nervoso…’. ‘E’ vero… Prima di andare in confessionale va dal medico che ti dia una pastiglia contro i nervi! Ma sii misericordioso!’. E anche fra noi misericordiosi. ‘Ma quello ha fatto questo… Io cosa ho fatto?’; ‘Quello è più peccatore di me!’: chi può dire questo, che l’altro sia più peccatore di me? Nessuno di noi può dire questo! Soltanto il Signore sa”.

Come insegna San Paolo, ha dunque evidenziato, bisogna rivestirsi di “sentimenti di tenerezza, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di magnanimità”. Questo, ha detto Francesco, “è lo stile cristiano”, “lo stile col quale Gesù ha fatto la pace e la riconciliazione”. “Non è la superbia, non è la condanna, non è sparlare degli altri”. Che il Signore, ha concluso, “ci dia a tutti noi la grazia di sopportarci a vicenda, di perdonare, di essere misericordiosi, come il Signore è misericordioso con noi”.

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Preghiera a san Nicola da Tolentino per le anime purganti

Posté par atempodiblog le 10 septembre 2015

Preghiera a san Nicola da Tolentino per le anime purganti dans Festa dei Santi e dei fedeli defunti San-Nicola-da-Tolentino-IMG

San Nicola da Tolentino che durante la tua vita terrena fosti di grande aiuto per le anime afflitte del Purgatorio, ora in Cielo sii per me avvocato ed intercessore presso Dio; avvalora queste mie povere preghiere per ottenere dalla divina clemenza la liberazione ed il sollievo di quelle anime dalle quali spero grande aiuto.

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8 settembre: Natività della Beata Vergine Maria

Posté par atempodiblog le 8 septembre 2015

8 settembre: Natività della Beata Vergine Maria

compleanno madonna

La Vergine Maria, fin dal primo momento della sua esistenza terrena, è la stella che illumina la notte dell’umanità, la lucerna che rischiara le tenebre di cui le creature hanno voluto —e vogliono— circondarsi a causa del peccato. Con la sua apparizione nel mondo, duemila anni fa, un lume di purezza e di bontà si accese sulla terra. Come l’aurora è annuncio della venuta del nuovo giorno, “così Maria fin dalla sua concezione immacolata ha preceduto la venuta del Salvatore, il sorgere del sole di giustizia nella storia del genere umano”. Da questa Vergine Immacolata nascerà la Stirpe che schiaccerà la testa del Serpente, Cristo Signore Nostro, che è sceso dal Cielo per riscattarci dal peccato e darci la sua stessa Vita, con lo Spirito Santo, affinché noi viviamo per Dio.

Per questa ragione, perché fosse degna di arrivare a essere la Madre di Dio, Maria fu concepita senza macchia di peccato originale, preservata immune da qualsiasi colpa personale, per quanto lieve potesse sembrare, e arricchita con ogni specie di doni e grazie dallo Spirito Santo. Quanto è meravigliosa Nostra Madre, figlie e figli miei! “Più di Te, soltanto Dio!”, ci piace ripeterle, sapendo che —come insegna la tradizione della Chiesa— de Maria numquam satis, mai potremo lodare ed esaltare la Vergine Santissima come Ella merita. Osiamo dire —perché ci ascolta!—: Madre, libera le tue figlie e i tuoi figli —tutti e ciascuno— da ogni macchia, da tutto ciò che ci allontana da Dio, anche a costo di soffrire, anche a costo della vita.

Beato Álvaro del Portillo

315fyfr dans Fede, morale e teologia

2e2mot5 dans Diego Manetti Nascita di Maria (di Maria Valorta)

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Migranti, il risveglio civile e cristiano dell’Europa

Posté par atempodiblog le 8 septembre 2015

Un respiro antico e nuovo
Migranti, il risveglio civile e cristiano dell’Europa
di Marina Corradi – Avvenire

europa

C’è qualcosa che rimane addosso, guardando le foto delle stazioni di Vienna e di Monaco, con i bambini che scendono dai treni e avvolti in coperte azzurre stellate sorridono, ancora increduli di essere in un posto in cui li accolgano, in pace. Quel qualcosa è stupore per la brusca e per una volta benigna svolta che in pochi giorni ha ribaltato le drammatiche cronache dai Balcani; e, insieme, una quasi indicibile commozione, perché è da tanto tempo che quasi avevamo smesso di sperare, nel sentire pronunciare la parola « Europa ».

È da anni ormai che in questa nostra Unione vediamo poco più di una polverosa congerie di norme e vincoli, dimentica degli ideali per cui, dopo una guerra terribile e milioni di morti, era nata. Quasi sola era la voce del Papa che esortava all’accoglienza, come di nuovo, con forza, domenica all’Angelus; esortazione subito abbracciata dalla Chiesa italiana, che già all’emergenza migrazione da anni instancabilmente lavora. E anche l’Italia, e il suo soccorso generoso prima in mare, e poi a terra, era guardato da molti come un vano buonismo.

Oggi la gente in fuga che approda dalla Turchia in Grecia grida « Europa! ». Per la rotta dei Balcani arrivano a Vienna, e alzano due dita nella « v » di vittoria. Hanno perso ogni cosa, gli restano solo i figli: eppure esultano, perché otterranno asilo in Europa. In un mondo, con tutti i suoi affanni, in pace: dove le case sventrate di Aleppo torneranno solo la notte, negli incubi, e poi, al mattino, col sole si dissolveranno.

Certo, dicono, la Germania ha bisogno di braccia, se vuole sostenere la sua crescita, e aprendo ai siriani – i più colti, e i più assimilabili, con i loro tratti occidentali – ha fatto i suoi conti; ma è mai esistita una migrazione che non avesse, per il Paese che spalancava le sue porte, un tornaconto economico? E che cos’altro potrebbe rimediare, in un’Europa sempre più canuta e senza figli, al vuoto demografico, se non l’arrivo di nuove genti, profughe, o migranti? Finora era stata soprattutto l’Italia, con tutti i suoi difetti ma anche la generosità della sua gente, a soccorrere. Ora ciò che vediamo sotto ai nostri occhi, nella brusca svolta impressa da Angela Merkel, è in fondo la riedizione moderna di quei movimenti che nei secoli hanno colmato le regioni d’Europa, quando per carestia, o epidemie, si creavano dei vuoti.

Nuove popolazioni, più o meno pacificamente, subentravano, e si amalgamavano a chi c’era prima. Recavano con sé la voglia di vivere e la tenacia di chi aveva lasciato la sua terra; quella forza, era ciò che portavano in dono alla patria nuova. E non stiamo noi, oggi, a guardare sbalorditi questi siriani che con i bambini in braccio hanno camminato per centinaia di chilometri, superato i muri di filo spinato, dormito per strada, sofferto la fame, eppure ce l’hanno fatta e sono qui, vivi? C’è un frammento di storia remota, in quei treni che arrivano alla Westbahnhof di Vienna, così come nelle preghiere di ringraziamento di quelli che sbarcano a Lampedusa.

Quanto al vuoto che questa gente va a colmare, non è stata carestia, né guerra: solo le culle vuote di un Occidente forse sazio, forse sfibrato. Dove gli ideali ereditati dai padri fondatori hanno lasciato il posto all’abitudine, dove la democrazia è data per scontata, e ciò che tiene forzatamente insieme sembra l’euro, più di ogni altra cosa.

E invece per la gente di Aleppo e Kobane, quella bandiera azzurra con le stelle è bella, anzi, meravigliosa. Ci fasciano i loro figli, perché in Europa potranno diventare grandi. Non come i mille Aylan di cui non sapremo il nome, perduti in fondo al mare, o sotto alle macerie. No, questi figli vivranno; perciò per quei padri e quelle madri l’Europa è una cosa grande. E forse, grazie a loro, potremmo tornare a credere un po’ di più anche noi, in questa Europa. Senza avere paura, come dice qualcuno, di una « invasione », e per di più di islamici: giacché sbarrare le nostre porte a quella gente, come grida il Papa, sarebbe stata la negazione stessa delle nostre radici cristiane.

Perché il cristianesimo non è bandiera su una rocca, ma vive nelle facce di chi lo testimonia: e a Lampedusa, o a Vienna, o nei mille luoghi in cui chi arriva è accolto, si tramanda questa testimonianza. A volte perfino immemore, magari come habitus « naturalmente » cristiano, ereditato in volti laici. In fondo, è questo il fiato dell’Europa che oggi ci commuove, alle stazioni di Vienna e Monaco, o sulle motovedette italiane nel Canale di Sicilia. Come l’eco di un respiro largo, e molto antico.

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Parrocchie aperte, la Chiesa si muove dopo l’appello del Papa sui migranti

Posté par atempodiblog le 8 septembre 2015

Parrocchie aperte, la Chiesa si muove dopo l’appello del Papa sui migranti
Da Treviso a Siracusa massima disponibilità ad accogliere le famiglie di profughi dopo l’invito di Francesco di domenica scorsa all’Angelus
di Paolo Conti – Corriere della Sera

papa e migranti

L’invito del Papa ad accogliere i migranti ha avviato la complessa, vasta macchina della chiesa italiana: 27.133 parrocchie e 226 diocesi, 33.714 preti diocesani, 84.406 religiose professe, 7.723 istituti secolari. Ieri la Conferenza episcopale italiana, con una nota congiunta del presidente, cardinale Angelo Bagnasco, e del segretario, Nunzio Galantino ha assicurato a papa Francesco che la sua esortazione«trova le nostre chiese in prima fila nel servizio, nell’accompagnamento e nella difesa dei più deboli». Bagnasco e Galantino danno appuntamento al Consiglio episcopale permanente, che si riunirà dal 30 settembre al 2 ottobre, per «individuare modalità e indicazioni da offrire a ogni diocesi».

Obiettivo 100 mila profughi
Tutto fa pensare che l’obiettivo fissato da Bagnasco, assorbire 100.000 profughi, verrà raggiunto. A Roma il cardinal vicario, Agostino Vallini, fa sapere di aver dato «indicazioni operative» per l’accoglienza nelle parrocchie. Il telefono di monsignor Enrico Feroci, direttore della Caritas diocesana romana, non fa che squillare: «Molte parrocchie mi annunciano di aver risistemato locali, aspettano istruzioni. Occorrerà metterci in contatto con le autorità pubbliche per risolvere, serenamente ma velocemente, molti problemi tecnici e organizzativi». Burocratici, insomma, legati alla registrazione degli stranieri, l’assistenza sanitaria e scolastica, la stessa agibilità dei locali destinati a casa -alloggio. Per ora c’è un assoluto, totale vuoto giuridico. Ma sono in tanti a essersi mossi, come don Giampiero Palmieri, parroco di san Frumenzio a Roma (Prati Fiscali) che ha concluso i lavori in tempi-record. L’arciprete di San Pietro, cardinal Angelo Comastri, conferma che le due parrocchie vaticane ospiteranno famiglie approdate a Lampedusa. Funziona a pieno ritmo la mensa del centro Astalli, dei padri Gesuiti (l’ordine del pontefice) che assicura 500 pasti al giorno nel cuore di Roma, a cento metri dalla casa di Berlusconi in via del Plebiscito. Papa Francesco l’ha visitata il 10 settembre 2013, due anni fa.

A Milano
Il cardinale Angelo Scola, arcivescovo di Milano, annuncia di aver messo a disposizione altri 6 immobili con 130 posti che si aggiungono ai 781 già indicati, e altre 10 parrocchie si sono dichiarate pronte. Anche Scola chiede «un passo in avanti sulle leggi e le regole che normano questa accoglienza». Il problema, insomma, c’è ed è urgente. Scola aggiunge altri interrogativi: «Perché i tempi per il rilascio dei documenti sono spesso così lunghi? Perché non si può permettere che i migranti, su base volontaria, possano partecipare col loro lavoro alle esigenze della comunità?»
A Genova, il cardinal Angelo Bagnasco ha dato un tetto a 70 profughi nel seminario arcivescovile: la diocesi ne alloggia in tutto 400. L’arcivescovo di Pompei, Tommaso Caputo, sta ospitando dodici donne e due bambini provenienti dall’Africa nella Casa Emanuel del santuario. L’arcivescovo di Firenze, cardinal Giuseppe Betori, ha chiesto «un ancor maggiore coinvolgimento di tutte le parrocchie»: ma già 100 persone sono alloggiate nelle strutture diocesane e parrocchiali fiorentine. Vicenza ed Avezzano accoglieranno famiglie di profughi in arcivescovado.

I 25 mila di Bosco Minniti
E poi ci sono le mille realtà di base, come la parrocchia siracusana di Bosco Minniti che dal 2008 a oggi ha visto transitare 25.000 profughi, tutti accolti nei locali parrocchiali. Racconta il parroco, Carlo D’Antoni: «Nei momenti di massimo flusso dormono in chiesa, nei sacchi a pelo, e al mattino dopo si torna alle normali attività ecclesiastiche. Non tutti i fedeli capiscono, c’è chi vorrebbe “starsene in pace”, Ma questo è il nostro preciso dovere, la chiesa è la casa di tutti». Don Aldo Danieli, parroco di Paderno di Ponzano, Treviso, ha spalancato da tempo le porte della sala parrocchiale: centinaia di migranti si sono avvicendati in attesa di una sistemazione. La piccola parrocchia di Mezzano, Caserta, 400 abitanti, affitterà un monolocale. Si muovono anche Comunità come la Papa Giovanni XXIII che ha collocato 800 immigrati nelle diverse strutture sparse sul territorio nazionale. L’esercito disarmato del Papa combatte così la sua battaglia.

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Immuni da favoritismi personali

Posté par atempodiblog le 6 septembre 2015

due pesi

Fratelli miei, la vostra fede nel Signore nostro Gesù Cristo, Signore della gloria, sia immune da favoritismi personali.

San Giacomo Apostolo

Divisore dans San Francesco di Sales

Se qualcuno dei nostri dipendenti ha un modo di fare sgarbato, o ci riesce antipatico, può fare qualunque cosa, la prenderemo sempre per traverso; non cessiamo di umiliarlo e siamo pronti al rimprovero; al contrario, se qualcuno ci va a genio, può fare quello che vuole, lo scuseremo sempre. Ci sono dei figli veramente buoni e bravi, ma invisi ai loro papà e alle loro mamme solo a causa di difetti fisici e magari poi sono preferiti quelli viziosi, perché hanno delle belle qualità fisiche. In ogni campo diamo la preferenza ai ricchi sui poveri, anche se non sono di stirpe più nobile o più virtuosi; diamo la preferenza anche a quelli vestiti meglio.
[...] Filotea, sii costante e giusta nelle tue azioni: mettiti sempre al posto del prossimo e metti lui al tuo e così giudicherai rettamente; quando compri fa la venditrice e quando vendi fa la compratrice e vedrai che riuscirai a vendere e comprare secondo giustizia.

San Francesco di Sales

Divisore dans San Francesco di Sales

Lo zio di Saint-Loup non mi onorò non dico di una parola, ma nemmeno di uno sguardo. Se squadrava gli sconosciuti (e durante quella breve passeggiata lanciò due o tre volte il suo terribile e profondo sguardo a colpo di sonda su passanti trascurabili e della più modesta estrazione) in compenso non guardava mai, a giudicare da me, le persone che conosceva – come un poliziotto in missione segreta che tenga gli amici fuori della sua sorveglianza professionale.

Marcel Proust – Alla ricerca del tempo perduto

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Papa: “Per il Giubileo ogni parrocchia, monastero e santuario d’Europa accolga una famiglia di profughi”

Posté par atempodiblog le 6 septembre 2015

Papa: “Per il Giubileo ogni parrocchia, monastero e santuario d’Europa accolga una famiglia di profughi”
Il Santo Padre all’Angelus invita ogni parrocchia ad ospitare una famiglia di profughi. Inoltre ci dice che creiamo tante isole inaccessibili e inospitali: la coppia chiusa, la famiglia chiusa, il gruppo chiuso, la parrocchia chiusa, la patria chiusa…
Francesco lancia l’appello informando che anche le due parrocchie in Vaticano accoglieranno rifugiati. Un invito alla pace per Colombia e Venezuela
di Salvatore Cernuzio – Zenit

papa francisco angelus

Continua a invocare Misericordia Papa Francesco, in vista del Giubileo straordinario ad essa dedicata, specie per le “decine di migliaia di profughi che fuggono dalla morte per la guerra e per la fame, e sono in cammino verso una speranza di vita”. Nell’Angelus di oggi, in piazza San Pietro, questo non resta un sollecito a sé stante ma diventa un invito preciso e concreto che il Pontefice rivolge a parrocchie, comunità religiose, monasteri e santuari di tutta Europa.

Ognuno di essi, in preparazione all’Anno Santo, è chiamato ad accogliere una famiglia di immigrati, “incominciando dalla mia diocesi di Roma”, domanda il Santo Padre, informando che « anche le due parrocchie del Vaticano accoglieranno in questi giorni due famiglie di profughi”.  Questo gesto – sottolinea – esprime la “concretezza” del Vangelo di oggi, che “ci chiama ad essere ‘prossimi’ dei più piccoli e abbandonati” e « a dare loro una speranza concreta » che non sia soltanto dire: “Coraggio, pazienza!…”, ma una speranza che “è combattiva, con la tenacia di chi va verso una meta sicura”.

Inoltre, “la Misericordia di Dio viene riconosciuta attraverso le nostre opere, come ci ha testimoniato la vita della beata Madre Teresa di Calcutta, di cui ieri abbiamo ricordato l’anniversario della morte”, evidenzia il Pontefice. E si rivolge in particolare ai suoi “fratelli” vescovi d’Europa, “veri pastori, perché nelle loro diocesi sostengano questo mio appello, ricordando che Misericordia è il secondo nome dell’Amore: «Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me»”.

L’invito ad ‘aprirsi’ all’altro è stato il centro pure della catechesi del Santo Padre prima della preghiera mariana, orientata dal Vangelo della liturgia odierna che racconta la guarigione di un sordomuto da parte di Cristo. “Un evento prodigioso – osserva Francesco – che mostra come Gesù ristabilisca la piena comunicazione dell’uomo con Dio e con gli altri uomini”.

Il miracolo, inoltre, è ambientato nella zona della Decapoli, cioè in pieno territorio pagano; “pertanto – spiega il Papa – quel sordomuto che viene portato da Gesù diventa simbolo del non-credente che compie un cammino verso la fede. Infatti la sua sordità esprime l’incapacità di ascoltare e di comprendere non solo le parole degli uomini, ma anche la Parola di Dio. E san Paolo ci ricorda che «la fede nasce dall’ascolto della predicazione»”.

Da notare anche che Gesù porta l’uomo lontano dalla folla: Lui “non vuole dare pubblicità al gesto che sta per compiere”, evidenzia Francesco, ma nemmeno “che la sua parola sia coperta dal frastuono delle voci e delle chiacchiere dell’ambiente”. “La Parola di Dio che il Cristo ci trasmette ha bisogno di silenzio per essere accolta come Parola che risana, che riconcilia e ristabilisce la comunicazione”, dice.

Poi il Messia tocca le orecchie e la lingua del sordomuto: per “ripristinare”, cioè, la relazione con quell’uomo “bloccato nella comunicazione” cerca prima di “ristabilire il contatto”. Ma il miracolo “è un dono dall’alto”, evidenzia il Santo Padre, che Gesù implora dal Padre, per questo alza gli occhi al cielo e comanda: “Apriti!”. Allora “le orecchie del sordo si aprono, si scioglie il nodo della sua lingua e si mette a parlare correttamente”.

Tutto ciò mostra che “Dio non è chiuso in sé stesso, ma si apre e si mette in comunicazione con l’umanità”: questo è l’insegnamento che traiamo da tale episodio evangelico, secondo il Papa. “Nella sua immensa misericordia – prosegue – supera l’abisso dell’infinita differenza tra Lui e noi, e ci viene incontro. Per realizzare questa comunicazione con l’uomo, Dio si fa uomo: non gli basta parlarci mediante la legge e i profeti, ma si rende presente nella persona del suo Figlio, la Parola fatta carne. Gesù è il ‘grande costruttore di ponti’, che costruisce in sé stesso il grande ponte della comunione piena con il Padre”.

Ma questo Vangelo parla anche di noi, spesso “ripiegati e chiusi in noi stessi” da creare « tante isole inaccessibili e inospitali”. “Persino i rapporti umani più elementari a volte creano delle realtà incapaci di apertura reciproca: la coppia chiusa, la famiglia chiusa, il gruppo chiuso, la parrocchia chiusa, la patria chiusa… E quello non è di Dio, quello è nostro, è il nostro peccato », afferma il Pontefice.

Eppure, prosegue, “all’origine della nostra vita cristiana, nel Battesimo, ci sono proprio quel gesto e quella parola di Gesù: ‘Effatà! – Apriti!’. E il miracolo si è compiuto: siamo stati guariti dalla sordità dell’egoismo e dal mutismo della chiusura e del peccato, e siamo stati inseriti nella grande famiglia della Chiesa. E possiamo ascoltare Dio che ci parla e comunicare la sua Parola a quanti non l’hanno mai ascoltata, o a chi l’ha dimenticata e sepolta sotto le spine delle preoccupazioni e degli inganni del mondo”.

La preghiera è dunque per la Vergine Maria, “donna dell’ascolto e della testimonianza gioiosa”, perché possa « sostenerci nell’impegno di professare la nostra fede e di comunicare le meraviglie del Signore a quanti incontriamo sul nostro cammino ». In primo luogo, i migranti e tutti coloro che abbandonano le proprie case e famiglie per fuggire ad una morte certa, nonché cruenta.

Dopo l’Angelus, Papa Francesco pronuncia poi “una parola in spagnolo sulla situazione tra Venezuela e Colombia”: “In questi giorni – dice - i vescovi di Venezuela e Colombia si sono riuniti per esaminare insieme la dolorosa situazione che si è creata nella frontiera di entrambi i paesi. Vedo in questo incontro un chiaro segno di speranza. Invito a tutti in particolare all’amato popolo venezuelano e colombiano a pregare, perché con uno spirito di solidarietà e fraternità si possano superare le difficoltà attuali”.

Un pensiero va anche alla beatificazione avvenuta ieri a Gerona, in Spagna, delle tre religiose dell’Istituto delle Suore di San Giuseppe, Fidelia Oller, Giuseppa Monrabal e Faconda Margenat, uccise per la fedeltà a Cristo e alla Chiesa. “Malgrado le minacce e le intimidazioni, queste donne rimasero coraggiosamente al loro posto per assistere i malati, confidando in Dio – sottolinea il Papa - La loro eroica testimonianza, fino all’effusione del sangue, dia forza e speranza a quanti oggi sono perseguitati a motivo della fede cristiana. E noi sappiamo che sono tanti”.

Prima di congedarsi e augurare il consueto “Buona domenica e buon pranzo”, Bergoglio ricorda che due giorni fa sono stati inaugurati a Brazzaville, capitale della Repubblica del Congo, gli undicesimi Giochi Africani, a cui partecipano migliaia di atleti da tutto il Continente. Esprime quindi l’auspicio “che questa grande festa dello sport contribuisca alla pace, alla fraternità e allo sviluppo di tutti i paesi dell’Africa”.

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Preghiera per i rifugiati

Posté par atempodiblog le 5 septembre 2015

madre teresa

Mio Signore!
Tutta questa gente
ha perduto terra e case
e molti sono stati privati
anche degli affetti più cari.
Dammi forza, Signore,
di intercedere per loro
presso il Padre,
ma soprattutto
di innestare nell’azione
la preghiera.
Amen.

Beata Madre Teresa di Calcutta

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Papa Francesco: nella Chiesa c’è una malattia, seminare divisione

Posté par atempodiblog le 4 septembre 2015

Papa Francesco: nella Chiesa c’è una malattia, seminare divisione
Nella Chiesa c’è una malattia: quella di seminare divisione e zizzania. I cristiani, invece, sono chiamati a pacificare e riconciliare, come ha fatto Gesù: è quanto ha detto il Papa nell’omelia della Messa mattutina a Casa Santa Marta.
di Sergio Centofanti – Radio Vaticana

papa francesco

Semino pace o zizzania?
Nella Lettera ai Colossesi San Paolo mostra la carta d’identità di Gesù, che è il primogenito di Dio – ed è Dio stesso – e il Padre lo ha inviato per “riconciliare e pacificare”  l’umanità con Dio dopo il peccato. “La pace è opera di Gesù” – ha detto il Papa – di quel suo “abbassarsi per obbedire fino alla morte e morte di Croce”. “E quando noi parliamo di pace o di riconciliazione, piccole paci, piccole riconciliazioni, dobbiamo pensare alla grande pace e alla grande riconciliazione” che “ha fatto Gesù. Senza di Lui non è possibile la pace. Senza di Lui non è possibile la riconciliazione”.

“Il compito nostro” – ha sottolineato Papa Francesco – in mezzo alle “notizie di guerre, di odio, anche nelle famiglie” – è essere “uomini e donne di pace, uomini e donne di riconciliazione”:

“E ci farà bene domandarci: ‘Io semino pace? Per esempio, con la mia lingua, semino pace o semino zizzania?’. Quante volte abbiamo sentito dire di una persona: ‘Ma ha una lingua di serpente!’, perché sempre fa quello che ha fatto il serpente con Adamo ed Eva, ha distrutto la pace. E questo è un male, questa è una malattia nella nostra Chiesa: seminare la divisione, seminare l’odio, seminare non la pace.

Ma questa è una domanda che tutti i giorni fa bene che noi ce la facciamo: ‘Io oggi ho seminato pace o ho seminato zizzania?’

‘Ma, alle volte, si devono dire le cose perché quello e quella…’: con questo atteggiamento cosa semini tu?”.

Chi porta pace è santo, chi “chiacchiera” è come un terrorista
I cristiani, dunque, sono chiamati ad essere come Gesù, che “è venuto da noi per pacificare, per riconciliare”:

“Se una persona, durante la sua vita, non fa altra cosa che riconciliare e pacificare la si può canonizzare: quella persona è santa. Ma dobbiamo crescere in questo, dobbiamo convertirci: mai una parola che sia per dividere, mai, mai una parola che porti guerra, piccole guerre, mai le chiacchiere.

Io penso: cosa sono le chiacchiere? Eh, niente, dire una parolina contro un altro o dire una storia: ‘Questo ha fatto…’. No! Fare chiacchiere è terrorismo perché quello che chiacchiera è come un terrorista che butta la bomba e se ne va, distrugge: con la lingua distrugge, non fa la pace. Ma è furbo, eh? Non è un terrorista suicida, no, no, lui si custodisce bene”.

Mordersi la lingua
Papa Francesco ripete una piccola esortazione:

“Ogni volta che mi viene in bocca di dire una cosa che è seminare zizzania e divisione e sparlare di un altro… Mordersi la lingua! Io vi assicuro, eh? Che se voi fate questo esercizio di mordersi la lingua invece di seminare zizzania, i primi tempi si gonfierà così la lingua, ferita, perché il diavolo ci aiuta a questo perché è il suo lavoro, è il suo mestiere: dividere”.

Quindi, la preghiera finale: “Signore tu hai dato la tua vita, dammi la grazia di pacificare, di riconciliare. Tu hai versato il tuo sangue, ma che non mi importi che si gonfi un po’ la lingua se mi mordo prima di sparlare di altri”.

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Le esigenze dell’amore

Posté par atempodiblog le 4 septembre 2015

Le esigenze dell’amore

madre speranza

L’unione con il nostro prossimo deve essere come quella delle membra del corpo che si aiutano scambievolmente nell’agire, nel perfezionarsi, in tutto; essa ci chiede di allontanare da noi tutto ciò che la può ostacolare. In particolare ci chiede di combattere i vizi mediante le virtù contrarie, soprattutto con l’umiltà.

Non bisogna invidiare nessuno; l’amore deve partire dal cuore ed essere manifestato nelle opere. Dobbiamo avere molta stima degli altri e parlarne sempre bene; non riferire ad altri quanto si è udito sul conto loro, tanto più se sono cose che li possono amareggiare. Usare sempre parole buone che favoriscano la carità; guardarsi dalle parole pungenti che possono ferire; astenersi dall’ostinazione, dal contraddire, dal riprendere quando non è opportuno.

Non basta compiere opere buone, ma bisogna compierle in modo che esprimano la nostra buona volontà.

Quando si verificasse uno screzio con gli altri, non rispondere nello stesso tono, ma dissimulare con umiltà.

Ricordiamo che quando qualcuno ci procura dei dispiaceri, dobbiamo:

  • tenere ben lontano da noi anche solo il desiderio della vendetta; far sì che il nostro perdono non consista solamente nel non desiderare il male dell’altro, ma nel procurare che in noi non rimanga alcun residuo di amarezza o di fastidio;
  • non conservare avversione contro nessuno; astenerci dai giudizi temerari, tanto più gravi quanto più lo è la cosa di cui in cuor nostro accusiamo l’altro;
  • non dimentichiamo che i giudizi temerari provengono in primo luogo dalla nostra superbia.

Beata Speranza di Gesù (Maria Josefa Alhama Valera)

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Francesco: umiltà e stupore aprono il cuore all’incontro con Gesù

Posté par atempodiblog le 3 septembre 2015

Francesco: umiltà e stupore aprono il cuore all’incontro con Gesù
La capacità di riconoscerci peccatori ci apre allo stupore dell’incontro con Gesù: è quanto ha detto il Papa durante la Messa del mattino a Casa Santa Marta nel giorno in cui la Chiesa celebra la memoria di San Gregorio Magno, Papa e Dottore della Chiesa.
di Sergio Centofanti – Radio Vaticana

papa francesco I

Ci sono due modi per incontrare Gesù
Commentando il Vangelo del giorno sulla pesca miracolosa, con Pietro che getta le reti fidandosi di Gesù anche dopo una notte trascorsa senza aver preso nulla, il Papa parla della fede come incontro con il Signore. Innanzitutto – ha affermato – “a me piace pensare che la maggior parte del suo tempo” Gesù “lo passava sulle strade, con la gente; poi in tarda serata se ne andava da solo a pregare”, ma “incontrava la gente, cercava la gente”. Da parte nostra, abbiamo due modi di incontrare il Signore. Il primo è quello di Pietro, degli apostoli, del popolo:

“Il Vangelo usa la stessa parola per questa gente, per il popolo, per gli apostoli, per Pietro, sono rimasti ‘stupiti’: ‘Lo stupore infatti aveva invaso lui e tutti quelli’. Quando viene questo sentimento di stupore… E il popolo sentiva Gesù e sentiva questo stupore, e cosa diceva: ‘Ma questo parla con autorità. Mai un uomo ha parlato con questo’. Un altro gruppo che incontrava Gesù non lasciava che entrasse nel loro cuore lo stupore, sentiva Gesù, faceva i suoi calcoli, i dottori della legge: ‘Ma è intelligente, è un uomo che dice le cose vere, ma a noi non convengono queste cose, no, eh!’. Facevano i calcoli, prendevano distanza”.

Anche i demoni sanno che Gesù è il Figlio di Dio
Gli stessi demoni – osserva il Papa – confessavano, cioè proclamavano che Gesù era il “Figlio di Dio”, ma come i dottori della legge e i cattivi farisei “non avevano la capacità dello stupore, erano chiusi nella loro sufficienza, nella loro superbia. Pietro riconosce che Gesù è il Messia ma confessa anche di essere un peccatore:

“I demoni arrivano a dire la verità su di Lui, ma su di loro non dicono nulla. Non possono: la superbia è tanto grande che gli impedisce di dirlo. I dottori della legge dicono: ‘Ma questo è intelligente, è un rabbino capace, fa dei miracoli, eh!’. Ma non dicono: ‘Noi siamo superbi, noi siamo sufficienti, noi siamo peccatori’. L’incapacità di riconoscerci peccatori ci allontana dalla vera confessione di Gesù Cristo. E questa è la differenza”.

Facile dire che Gesù è il Signore, difficile riconoscersi peccatori
E’ la differenza che c’è tra l’umiltà del pubblicano che si riconosce peccatore e la superbia del fariseo che parla bene di se stesso:

“Questa capacità di dire che siamo peccatori ci apre allo stupore dell’incontro di Gesù Cristo, il vero incontro. Anche nelle nostre parrocchie, nelle nostre società, anche tra le persone consacrate: quante persone sono capaci di dire che Gesù è il Signore? Tante! Ma che difficile è dire sinceramente: ‘Sono un peccatore, sono una peccatrice’. E’ più facile dirlo degli altri, eh? Quando si chiacchiera, eh? ‘Questo, quello, questo sì…’. Tutti siamo dottori in questo, vero? Per arrivare a un vero incontro con Gesù è necessaria la doppia confessione: ‘Tu sei il Figlio di Dio e io sono un peccatore’, ma non in teoria: per questo, per questo, per questo e per questo…”.

La grazia di incontrare Gesù e lasciarsi incontrare da Lui
Pietro – sottolinea il Papa – poi dimentica lo stupore dell’incontro e rinnega il Signore: ma poiché “è umile, si lascia incontrare dal Signore e quando i loro sguardi si incontrano, lui piange, torna alla confessione: ‘Sono peccatore’”. E il Papa conclude: “Il Signore ci dia la grazia di incontrarlo ma anche di lasciarci incontrare da Lui. Ci dia la grazia, tanto bella, di questo stupore dell’incontro. E ci dia la grazia di avere la doppia confessione nella nostra vita: ‘Tu sei il Cristo, il Figlio di Dio vivo, credo. E io sono un peccatore, credo’”.

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Ratzinger alla Messa per gli ex-allievi: «L’epidemia del cuore porta alla corruzione»

Posté par atempodiblog le 2 septembre 2015

Ratzinger alla Messa per gli ex-allievi: «L’epidemia del cuore porta alla corruzione»
Il Papa emerito: assume importanza decisiva «l’igiene interiore»; «verità, amore e bontà che vengono da Dio rendono l’uomo puro»
della Redazione di Torino di Vatican Insider

ratzinger

«Verità, amore e bontà che vengono da Dio rendono l’uomo puro, e verità, amore e bontà si incontrano nella Parola, che libera dalla “smemoratezza” di un mondo che non pensa più a Dio». È il cuore dell’omelia che il papa emerito Benedetto XVI ha pronunciato [il 30 agosto 2015] durante la Messa da lui presieduta nella chiesa del Campo Santo teutonico in Vaticano, alla quale hanno partecipato i membri dello Schuelerkreis (il «Circolo degli Allievi» di Ratzinger) e del Nuovo Schuelerkreis, riuniti nei giorni scorsi a Castel Gandolfo per riflettere sul tema «Come parlare oggi di Dio», con la partecipazione del sacerdote e filosofo ceco Tomas Halik. Lo riferisce il sito della Fondazione Ratzinger.

Non viene a noi anche dall’esterno il male che ci aggredisce? È il senso dell’interrogativo posto dal Pontefice emerito nella sua omelia in tedesco. Certo, è necessario essere purificati da tutta l’impurità che sta fuori: «Potremmo – ha affermato Benedetto XVI – rispondere con un’igiene esteriore alle tante malattie e a volte epidemie che ci minacciano». È bene avere questo tipo di responsabilità per l’esteriore affinché la morte non prevalga, ha notato il Papa emerito. E tuttavia, ha proseguito, questo non basta, perché c’è anche «l’epidemia del cuore», quella interiore, che «porta alla corruzione e ad altre sporcizie ancora, quelle che conducono l’uomo a pensare solo a sé e non al bene». Così assume importanza decisiva, accanto al culto, l’ethos, ovvero «l’igiene interiore»: «Cosa fa l’uomo puro? Qual è l’autentica forza di purificazione? Come si giunge all’igiene del cuore?», ha domandato Benedetto XVI.

«In un altro passo del Vangelo – ha continuato – il Signore dice ai suoi: “Voi siete puri, a causa della parola che vi ho annunciato”». Si diventa dunque puri per mezzo della Parola: «La Parola è Gesù Cristo stesso e noi incontriamo la Parola anche in coloro che Lo riflettono, che ci mostrano il volto di Dio e che riflettono la sua mitezza, la sua umiltà di cuore, la sua semplicità, la sua amorevolezza, la sua sincerità».

Al termine della Messa, si è svolta nei locali attigui  del Campo Santo teutonico una cerimonia per l’inaugurazione dell’«Aula Papa Benedetto-Joseph Ratzinger», che il Papa emerito ha benedetto. Nel suo intervento introduttivo, monsignor Hans Peter Fischer, rettore del Collegio teutonico, ha annunciato che il 18 novembre si terrà la cerimonia di apertura della Biblioteca romana Joseph Ratzinger-Benedetto XVI, interamente dedicata alla sua vita e al suo pensiero come studioso e come Pontefice, all’interno della Biblioteca del Collegio teutonico e dell’Istituto romano della Società di Goerres, in Vaticano.

Tra i presenti alla cerimonia di oggi [...], i cardinali Christoph Schoenborn, arcivescovo di Vienna, e Kurt Koch, presidente del Pontificio Consiglio per l’Unità dei Cristiani, l’arcivescovo Georg Gaenswein, prefetto della Casa pontificia e segretario particolare di Benedetto XVI.

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Charles Peguy e l’innesto dell’Eterno nel temporale

Posté par atempodiblog le 2 septembre 2015

Charles Peguy e l’innesto dell’Eterno nel temporale
di Francesco Angoli – Libertà e Persona

peguy

Molto amato da don Luigi Giussani, raccontato da Pigi Colognesi in molti suoi libri, Charles Peguy (1873-1914) è stato uno scrittore e polemista francese, passato dal socialismo al cattolicesimo.

Ciò che Peguy vuole sottolineare  è la “riabilitazione del temporale” come cuore del cristianesimo. Il cristianesimo si fonda sull’Incarnazione, cioè sulla volontà dell’Eterno di salvare il mondo, il tempo, entrandoci dentro, assumendolo sino in fondo.

Scriveva Peguy che il cuore della fede, della fiducia dei credenti, sta nel “coinvolgimento del temporale nell’eterno e dell’eterno nel temporale”. Perché “tolto il coinvolgimento non c’è più nulla. Non c’è più un mondo da salvare. Non c’è più alcun cristianesimo. Non c’è più redenzione, né incarnazione e neanche creazione. Ci sono solo cocci senza nome, materiali senza forma, calcinacci e rovine; rovine informi, cumuli e macerie, mucchi e affastellamenti; scompigli, disastri…”.

Se l’Eterno è entrato nel tempo, ogni tempo, ogni istante di tempo, ogni momento apparentemente insignificante di tempo, porta in sè un significato più grande. L’Infinito trasforma, continuamente, il finito, e la miseria umana diventa così, a chi la sa guardare e vivere alla luce dell’eternità, grandezza.

Per capirlo basti pensare alla Veronica: colei che asciugò il volto di Cristo, di Dio, “con un fazzoletto, con un vero fazzoletto, con un fazzoletto per soffiarsi il naso, con un fazzoletto imperituro asciugò quella faccia augusta, la sua vera faccia, la sua faccia reale, la sua faccia di uomo… quella faccia di sudore, tutta in sudore, tutta sporca, tutta polverosa, tutta piena della polvere delle vie; tutta piena della polvere della terra; la polvere della sua faccia, la comune polvere, la polvere di tutti, la polvere della sua faccia; incollata dal sudore”.

Per Peguy vi sono uomini che si illudono di salvare il tempo con il tempo (i socialisti, gli scientisti, tutti quelli che affidano all’uomo, da solo, la salvezza del mondo); ed altri, che magari professano a parole la fede cristiana, i quali non avendola davvero compresa credono di salvarsi dal tempo, rifuggendo lontano, nello spiritualismo, in una fede disincarnata, in un grido di maledizione che rinnega la speranza cristiana.

Questo tempo che viviamo, afferma Peguy, è ammorbato dai “mali del mondo moderno”; mali che lo scrittore esamina senza infinigimenti; eppure anche oggi.

Egli è qui.
È qui come il primo giorno. 
È qui tra di noi come il giorno della sua morte.
In eterno è qui tra di noi proprio come il primo giorno.
In eterno tutti i giorni. 
È qui fra di noi in tutti i giorni della sua eternità. 
Il suo corpo, il suo medesimo corpo, pende dalla medesima croce;
I suoi occhi, i suoi medesimi occhi, tremano per le medesime lacrime;
Il suo sangue, il suo medesimo sangue, sgorga dalle medesime piaghe;
Il suo cuore, il suo medesimo cuore, sanguina dal medesimo amore.
(…)
È la medesima storia, esattamente la stessa, eternamente la stessa, che è accaduta in quel tempo e in quel paese e che accade tutti i giorni in tutti i giorni di ogni eternità.
(Da: Il mistero della carità di Giovanna D’Arco)

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Gustave Thibon, testimone della speranza

Posté par atempodiblog le 2 septembre 2015

Gustave Thibon, testimone della speranza
Vita e opere di un Socrate cristiano nato e morto in terra di Francia. Una saggezza profonda alimentata dal silenzio e dalla comunione coi ritmi naturali – stile che gli valse l’epiteto di “filosofo contadino”. Ne promana un messaggio dirompente per l’Occidente disperato nella sua immemore sazietà
di Emiliano Fumaneri – La Croce – Quotidiano

gustave thibon

Urge nel nostro tempo, così affascinato dalla confusione tra naturale e artificiale, la riscoperta di una grande figura del cattolicesimo francese del XX secolo. Alludo al «filosofo contadino» Gustave Thibon, l’uomo che come pochi altri ha insistito sulla necessità di un «ritorno al reale» (l’espressione che dà il titolo alla sua opera più conosciuta).

Col Rinascimento e la Riforma protestante all’homo simplex aristotelico e cristiano, nel quale soma e pneuma convivono in armonica e dinamica unità, si è progressivamente sostituito un homo duplex caratterizzato dal dualismo e dall’irriducibile scissione di spirito e vita. Tra i due, Thibon prende chiaramente le parti dell’homo simplex. Per lui, infatti, esiste una intima solidarietà tra lo spirito e la vita: «Lo spirito e la vita», scrive, «sono fatti per essere uniti e distinti».

Il reale non è un cumulo di esperienze e fatti sconnessi. Esso possiede una norma oggettiva di verità istillata dal Creatore, origine e fine di tutte le cose. È questa norma a determinarne l’ordine. Solo allora è possibile, analogamente alle leggi che regolano il funzionamento dell’organismo umano, distinguere anche una fisiologia e una patologia del corpo sociale.

Il contatto con la terra è al centro delle attenzioni di Thibon, che nasce il 2 settembre 1903 a Saint-Marcel-d’Ardèche, un piccolo borgo agricolo del Basso Vivarese. È il figlio unico di una famiglia di notabili residente nel villaggio da diversi secoli ma solo da poche generazioni ritornata alla cura della terra e alla coltivazione delle vigne.

A sei anni comincia a frequentare la scuola comunale del piccolo villaggio nativo. La scuola però è un peso per il piccolo Thibon. Il suo desiderio, infatti, è lavorare la terra. Sarà accontentato soltanto nel 1916, a tredici anni, quando il padre viene chiamato alle armi. Toccherà dunque a Gustave occuparsi del rude lavoro dei campi.

Nutrito di poesia dal genitore fin dall’infanzia (conosce a memoria migliaia di versi) ma indifferente ai temi religiosi, il giovane Gustave trascorre un’adolescenza agnostica. Thibon non ama la scuola, ma ha il culto dei libri, che considera i suoi veri maestri. È così che a ventitré anni, assalito da una veemente passione per la conoscenza, si getta con impeto febbrile nello studio delle lingue: impara da solo il latino, il greco e il tedesco. Affronta testi di filosofia e teologia, si cimenta anche nella matematica e nella biologia.

Dopo una giovinezza errabonda che lo porta in Gran Bretagna, in Italia e nell’Africa del Nord, Thibon si riconcilia con la fede cattolica grazie alla lettura di Léon Bloy, all’incontro con Madre Marie-Thérèse du Sacré- Coeur, priora del Carmelo di Avignone, e con Jacques Maritain, cui deve la scoperta dell’opera di san Tommaso d’Aquino. Maritain lo incoraggia a scrivere e la sua amicizia (interrotta in seguito a divergenze di giudizio su Charles Maurras e l’Action française) gli permetterà di pubblicare i primi articoli sulla Revue Thomiste.

Nel 1938 sposa Paulette Gleize, da cui ha una figlia, Marie-Thérèse. Paulette, purtroppo, non sopravvive al parto. L’anno successivo un saggio pubblicato sulla rivista Civilisations lo fa conoscere a Gabriel Marcel, di cui diventa amico. È sempre l’incoraggiamento degli amici a consentirgli di vincere la naturale inclinazione alla modestia e spingerlo così a pubblicare, nel 1940, l’opera che lo rivela al grande pubblico: Diagnostics. Essai de physiologie
sociale (Diagnosi. Saggio di fisiologia sociale). La raccolta Poèmes nel frattempo gli vale il Prix des Poètes catholiques. Quello stesso anno convola a seconde nozze con Yvette Roudil, che gli darà due figli: Geneviève e JeanPierre.

Il 7 agosto del 1941 accoglie presso di sé la filosofa Simone Weil, caduta in disgrazia per la sua opposizione al Governo di Vichy. È l’incontro decisivo della vita di Thibon. Tra l’inquieta pensatrice di origini ebraiche e il philosophe-paysan si instaura un rapporto profondo improntato alla massima schiettezza e a un’altissima stima reciproca, tanto che la Weil decide di affidargli i propri manoscritti quando lascia la Francia per gli Stati Uniti nell’aprile 1942.

Sempre nel 1942 esce L’Échelle de Jacob (Lascala di Giacobbe), cui segue l’anno successivo Retour au rèel (Ritorno al reale). È la fine agosto del 1943: ad Ashford, poco distante da Londra, si spegne Simone Weil, piegata dalla tubercolosi. Dopo la prematura morte della filosofa è proprio Thibon a incaricarsi di rivelarne al mondo il nome e il genio. Pubblica così alcuni estratti dei suoi diari col titolo La Pesanteur et la Grâce (1947), edito in italiano come L’ombra e la grazia (trad. it., Comunità, Milano 1951).

Successivamente Thibon pubblica Ce que Dieu a uni (1945), Nietzsche ou le dèclin de l’esprit (1948), Solution sociale (1951), Simone Weil telle que nous l’avons connue (1952), Crise moderne de l’amour (1953), Notre regard qui manque à la lumière (1955), Vous serez comme des dieux (1959).

Nel 1964 gli viene assegnato il Grand Prix de littérature dell’Académie française. Seguirà un lungo periodo di inattività editoriale. Solo dopo quindici anni di silenzio Thibon tornerà a pubblicare. Appaiono così L’Ignorance étoilée (1974), L’Équilibre et l’harmonie (1976), Le Voile et le Masque (1958), L‘Illusion féconde (1995). Nel 2000 riceve un altro prestigioso riconoscimento: il Grand Prix de philosophie dell’Acadèmie française.

Alla morte, che lo coglie nel suo villaggio il 19 gennaio 2001, Gustave Thibon lascia al mondo – oltre a tre figli, i nipoti e un ricordo indelebile nel cuore di chi l’ha conosciuto – una ventina di opere, innumerevoli articoli e testi di conferenze, oltre a una considerevole mole di scritti rimasti senza pubblicazione.

Presso le Éditions du Rocher sono usciti, postumi, due volumi di note e pensieri thiboniani – Aux ailes de la lettre. Pensées inédites (1932-1982) e Parodies et mirages ou la décadence d’un monde chrétien. Notes inédites (1935-1978). Infine va segnalato la pubblicazione di un ulteriore volume contenente la trascrizione di alcune conferenze dello scrittore francese: Les hommes de l’éternel. Conférences au grand public (1940- 1985), Mame, 2012.

La diffusione dell’opera di Thibon in Italia è frutto dell’amicizia coi militanti di Alleanza Cattolica, per i quali ancora oggi i suoi testi rimangono un importante punto di riferimento. I due testi, pubblicati negli anni ’70 dalle Edizioni Volpe grazie all’interessamento di Marco Tangheroni, sono stati riproposti da Effedieffe nel 1998 in un unico volume, Ritorno al reale. Prime e seconde diagnosi in tema di fisiologia sociale, con una premessa di Marco Respinti.

Nella nostra lingua sono state tradotte anche le raccolte di aforismi thiboniani La scala di Giacobbe (1947), Il pane di ogni giorno (1949), L’uomo maschera di Dio (1971). Sono stati pubblicati anche Quel che Dio ha unito. Saggio sull’amore (1947), Vivere in due (1955), Crisi moderna dell’amore (1957), Nietszche o il declino dello spirito (1964). Infine va segnalato il librotestimonianza scritto col padre domenicano Joseph- Marie Perrin, Simone Weil come l’abbiamo conosciuta (2000).

Sebbene orientato da Jacques Maritain sulla via maestra del tomismo, nel pensiero di Gustave Thibon trovano spazio anche la mistica carmelitana di San Giovanni della Croce, l’opera di Ludwig von Klages, Blaise Pascal, Charles Péguy, senza dimenticare la grande ammirazione per Victor Hugo e l’incessante confronto con Friedrich Nietzsche. La stretta comunione con i ritmi della natura e la familiarità col silenzio accumulano in lui quelle vaste riserve interiori che riverserà nelle sue opere, mentre la profondità del pensiero, la penetrante lucidità del giudizio e la folgorante bellezza dello stile – espressa soprattutto in forma aforistica – gli valgono la considerazione di prestigiosi intellettuali come Marcel de Corte, Gabriel Marcel, Henri Massis.

Thibon non ama lo spirito di sistema, è soprattutto scrittore da aforismi. Fedele al dettato di un altro grande cultore della brevità, il colombiano Nicolás Gómez Dávila («I libri seri non ammaestrano: sollecitano»), privilegia il frammento in luogo del sistema chiuso, onnicomprensivo. Niente è più alieno allo scrittore francese che il disprezzo e la sufficienza nei confronti del lettore, i contrassegni della vanità e del divismo letterario. Egli sa, con Pascal, che «ci si convince meglio con le ragioni trovate da se stessi che non con quelle venute in mente ad altri ». L’ebbrezza conquistatrice è sterile: «La verità orgogliosa non può dare niente. I doni supremi devono essere offerti con mani supplichevoli».

Le parole thiboniane, parole sorgive, aurorali, nate dall’intimità col silenzio, circonfuse e nutrite di silenzio, sanno addentrarsi nel segreto dell’anima come schegge luminose. Parole penetranti, che riecheggiano nell’intimità alla ricerca di misteriose corrispondenze. È una scrittura dal lungo respiro, che tende all’infinito dell’eternità. E perciò stesso essa è esigente, richiede la forte collaborazione del lettore. La sua lettura richiede tempo: il tempo della semina, della sedimentazione e della maturazione. È una scrittura folgorante, mossa dall’aspirazione di concentrare la più alta densità di significato nel minimo spazio di parole. Naturale dunque che prediliga la frammentarietà dell’aforisma, la forma letteraria che più si approssima al silenzio.

La filosofia francese è sempre stata percorsa da due correnti fondamentali di pensiero: una di tipo cartesiano, razionalista, e l’altra di stampo pascaliano, intuizionista. Thibon sposa l’immediato dell’intuzione di Pascal, ma non per questo esclude la meditazione razionale e riflessa, concreta e non astratta. Intuire non è sragionare. Così il filosofo di Saint-Marcel confessa la propria predilezione per la via del simbolo e dell’immagine («Credo alle immagini più che alle idee. L’idea circoscrive, l’immagine evoca»), abraccia il metodo dell’intuizione immediata capace di penetrare internamente la fonte inesauribile della realtà per captarne l’essenza profonda.

Nelle sue opere Thibon espone la propria preoccupazione per quello che considera il male più profondo della nostra epoca: la perdita di contatto con il reale. L’irrealismo nasce quando i pensieri, gli affetti e gli atti umani sono privi di comunione col loro oggetto concreto. Thibon non nega certo il ruolo prezioso del ragionamento astratto. Si tratta di uno strumento indispensabile nell’ordine della conoscenza umana, purché non sia privato del contatto con la realtà. Quando ciò accade, l’astrazione viene lasciata a se stessa e finisce per generare l’irrealismo sotto forma di intellettualismo o di soggettivismo, laddove si dia il primato alla ragione o al sentimento.

Ecco perché si rende necessaria, nel nostro tempo, un’opera di apostolato del senso comune. «Un tempo – scrive il filosofo francese in un celebre passo di Ritorno al reale – il cristianesimo dovette lottare contro la natura: quella natura era tanto dura, tanto ermeticamente chiusa che la grazia durava fatica a intaccarla. Oggi dobbiamo lottare per la natura, al fine di salvare il minimo di salute terrena necessaria all’innesto del soprannaturale».

L’architrave del pensiero thiboniano poggia su due princìpi: l’opposizione agli idoli e l’amore per l’unità. Due momenti che tuttavia, scrive, «si fondono in un unico, perché l’idolo rappresenta la parte innalzata al tutto, ma soltanto distruggendo gli idoli si può ricostruire l’unità». Se «Dio non ha creato che unendo», il peccato dell’uomo consiste nel separare ciò che Dio ha unito: «La metafisica della separazione è la metafisica stessa del peccato».

Il nostro tempo, segnato dall’oblio dell’Essere e delle verità supreme, è funestato dalla lotta senza quartiere tra gli idoli. Non può che essere la guerra endemica la condizione strutturale di un mondo dominato da false divinità: nessuna di esse, infatti, può permettere alle altre di elevarsi al di sopra di tutte per reclamare la signoria spettante all’unico vero Dio. Il conflitto tra gli idoli garantisce così l’impossibilità dell’autentica trascendenza. Procurare la
morte rappresenta la vera vocazione dell’idolatria: la sete di sangue divora l’idolo, mentre l’odio viscerale per l’Essere lo vota al nulla e alla menzogna. Per il Socrate cristiano vivente in Thibon l’autentico spirito filosofico consiste invece «nel preferire alle menzogne che fanno vivere le verità che fanno morire».

Il suo pensiero rifiuta tanto le seduzioni del progressismo quanto le sirene del tradizionalismo. Più che un iconoclasta della reazione, Thibon è un testimone della speranza. «L’epoca in cui tutto abbiamo perduto », scrive, «è anche quella in cui tutto possiamo ritrovare». Se la metafisica della speranza thiboniana si rivela impermeabile ai fuochi fatui del progressismo, certo non indulge alle suggestioni tradizionaliste o alle utopie archeologiche. «Che m’importa dunque il passato in quanto passato? Non vi accorgete che quando piango sulla rottura di una tradizione, è soprattutto all’avvenire che penso. Quando vedo marcire una radice, ho pietà dei fiori che seccheranno domani per mancanza di linfa».

La devota memoria del passato non deve indurci a «considerare la morte delle cose mortali come una sconfitta irreparabile. Non aggrapparsi totalmente, disperatamente alla materialità (nel senso più ampio) di una tradizione, di una istituzione, d’un regime. Occorre salvare l’anima delle cose cui il vento della morte ha spazzato via il corpo». L’affermazione di valori soprastorici ed eterni non va confusa con l’immagine di una realtà storica compiuta e
realizzata. «La vera fedeltà non consiste […] nell’impedire ogni cambiamento, ma più precisamente nell’impregnare ogni cambiamento di eterno».

«Il thibonismo è una filosofia del buon senso », ha scritto il suo allievo Hervé Pasqua. La profondità degli abissi appartiene al grande, immenso oceano della normalità. Piatta e superficiale è solo la terra calpestata dagli idoli. Pertanto la vera saggezza sta nell’essere fedeli tanto al realismo della terra quanto alle verità eterne del cielo, giacché «le cose supreme non fioriscono che al di là della tomba. Ma esse cominciano quaggiù e la loro fragile semenza è nei nostri cuori, e niente fiorisce nel cielo, che non sia prima germogliato sulla terra».

La tentatazione di quanti giungono all’Assoluto, ha detto Jean Guitton, è di annullare l’esistenza del Relativo. Ciò che è difficile da accettare non è tanto che Dio ci sia, è comprendere perché non sia tutto, capire perché abbia fatto qualcosa che non sia Lui. Non è tanto difficile affermare che Dio esiste, quanto accettare che l’uomo sia. Thibon è un pellegrino dell’assoluto, ma sa anche riconoscere le ragioni del relativo e del contingente. Consapevole che «la nostra eternità non è la negazione del tempo, ne è la fidanzata», diffida perciò degli eccessi di quegli idealisti che, come dice Péguy, «hanno le mani pure, ma non hanno mani» e che invece di incarnare il proprio ideale se ne servono per denigrare la realtà e l’umano.

È un pensiero incarnato, conscio che questa sintesi di sintesi di assoluto e di relativo deve abbracciare anche il campo sociale. Una comunità umana esercita un’influenza benefica quando sa trasmettere valori eterni. Quando in una civiltà «il temporale è irrigato senza posa dall’eterno», come accadeva ai tempi della cristianità, tradizioni e costumi assolvono la funzione di intermediari tra l’uomo e il suo fine trascendente. L’esempio dei santi provvede a mostrare che i cristiani devono essere al tempo stesso «visionari del cieli e prodigiosi operai sulla terra». L’armonia e la durata di una società sono assicurate soltanto dal rispetto della sua legge fondamentale. È la legge della comunità di destino, che poggia sul principio di interdipendenza o di reciproca solidarietà.

Nella comunità di destino – il cui esempio più tipico è rappresentato dalla famiglia – l’interesse personale coincide con l’assolvimento del proprio dovere. Una società è sana, afferma Thibon, nella misura in cui tende ad attenuare la tensione tra interesse e dovere, è malsana nelle misura in cui tende a esasperarla.

L’eredità di Gustave Thibon non si esaurisce con la morte del suo autore. La sua opera lascia dietro di sé un messaggio di speranza per l’occidente sazio e disperato: «L’unica nobiltà dell’uomo, la sola via di salvezza consiste nel riscatto del tempo per mezzo della bellezza, della preghiera e dell’amore. Al di fuori di questo, i nostri desideri, le nostre passioni, i nostri atti non sono che «vanità e soffiar di vento», risacca del tempo che il tempo divora. Tutto ciò
che non appartiene all’eternità ritrovata appartiene al tempo perduto».

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