Storie di filo spinato
Posté par atempodiblog le 14 septembre 2015
Storie di filo spinato
Escludere, segregare. Ieri le mandrie della prateria, oggi profughi e migranti. In mezzo, le guerre
di Roberto Reja – Il Foglio
Barriere difensive sulla costa sud dell’Inghilterra durante la Seconda guerra mondiale. Due bambine guardano il mare al di là della rete di filo spinato
Da qualche tempo, la sera, finito il lavoro nella fattoria – perché a sessant’anni si dava ancora da fare nella sua proprietà, seicento ettari di terra vicino alla cittadina di DeKalb, in Illinois – da qualche tempo Joseph F. Glidden si rigirava con una certa cautela tra le mani quel filo di ferro intorno al quale aveva stretto altri piccoli pezzi di filo di ferro ritorti e tagliati obliquamente alle due estremità come minuscoli stiletti. Era un’idea che aveva appena cominciato a circolare, un marchingegno semplice che sembrava promettere un impiego efficace come recinzione: per tenere lontani gli animali allo stato brado dai terreni coltivati, per tenere chiusi e controllati i propri allevamenti. Ma c’era qualcosa che ancora non andava, ed era il motivo per cui Glidden si rigirava quel rosario di spine tra le mani: il filo di ferro liscio, era già stato sperimentato, si deformava e si allentava quando batteva forte il sole, e quei suoi anellini acuminati, per quanto stretti, alla lunga non ne volevano sapere di stare fermi. Doveva esserci una soluzione, lo spronava anche la moglie Lucinda. Va detto che nemmeno la prima sera, comunque, Glidden aveva usato per i suoi esperimenti le forcine per i capelli di lei, come si sarebbe ricamato più tardi. Verosimile, invece, che Lucinda gli chiedesse con insistenza un rimedio per gli animali che entravano liberamente nel giardino e le rovinavano piante e fiori. La soluzione arrivò, altrettanto semplice e anche per questo a suo modo geniale: un secondo filo di ferro intrecciato al primo, che garantiva una maggiore robustezza all’insieme e manteneva fisse le punte di ferro. Non era il primo, anche se per gli altri si trattava soprattutto di tentativi, non era nato dal niente, ma era quello il filo spinato che conosciamo ancora oggi.
Come le spine che proteggono un fiore: ci avevano provato con delle siepi di rovi, ma occorrevano quasi cinque anni perché crescessero. Come una corona di spine, se lo si guarda da un’altra prospettiva, tanto che non passò molto tempo dalla sua invenzione perché fosse chiamato “corda del diavolo”. Nodo e chiodo insieme. Pochi oggetti hanno una storia così controversa, un’immagine e un significato tanto negativi per l’uso che se n’è fatto. Perché nonostante la sua minaccia sia ben visibile e i suoi effetti per questo evitabili, il filo spinato è diventato da tempo, ormai, la raffigurazione stessa dell’oppressione. Più inquietante, sempre, di un muro. Limite che fa la voce grossa, che sottolinea con il suo carico simbolico i compiti che gli sono affidati: escludere o segregare. E pochi oggetti hanno una storia così lunga, sempre uguali a se stessi o appena evoluti nella macabra efficienza: le lame saldate di oggi al posto delle spine. Dalle praterie americane di fine Ottocento, per tenere a bada le bestie, ai confini dell’Ungheria, per fermare profughi e migranti, dalle frontiere di inconciliabili nemici, in medio ed estremo oriente, a quelle che dividono paesi poveri da altri ricchi, nelle Americhe. Sui muri di cinta delle caserme, nelle carceri a garantire (o solo a suggerire) la massima sicurezza. In certi paesi a isolare quartieri, a delimitare benessere e malessere sociale.
Semplice, economico, sufficientemente efficace per ciò che gli si chiede: così si spiega la longevità del filo spinato, che dopo quasi un secolo e mezzo sopravvive in tempi in cui un computer diventa obsoleto in pochi anni. Talmente semplice, anzi, che si potrebbe pensare sia nato molto prima di quel 24 novembre 1874 in cui Glidden ottenne il brevetto per la sua invenzione. L’avevano preceduto per la verità due francesi e un americano del New Jersey negli anni Sessanta con tentativi più rudimentali: punte da applicare nella parte superiore delle recinzioni in legno per evitare che fossero scavalcate, dunque per ragioni di sicurezza, più che di contenimento del bestiame, e altri tre americani, che volevano ovviare alla scarsità di pietra e legname per i recinti tradizionali, ma i cui prodotti non arrivarono mai a essere commercializzati.
Nell’autunno del 1873, un ulteriore esperimento, una striscia di legno chiodato da fissare a un filo come deterrente per il passaggio del bestiame, è in mostra alla fiera annuale della contea di DeKalb. Glidden e due amici, un taglialegna e un commerciante di ferramenta, ne rimangono colpiti. Tempo sei mesi e ciascuno dei tre presenta un suo progetto all’ufficio brevetti. Quello vincente è di Glidden. L’agricoltore, che da giovane avrebbe voluto fare l’insegnante, s’è ingegnato: i primi venti metri li ha prodotti aiutandosi con un macinino da caffè. Ma ora deve pensare più in grande. Studia una macchina per la produzione del filo spinato in larga scala, entra in società con Isaac L. Ellwood, il commerciante di ferramenta, e insieme fondano la Barb Fence Company. Start-up da manuale: il filo spinato ha un immediato successo, e i profitti crescono. Dalle 4.500 tonnellate del 1875 la produzione (ripresa poi dall’American Steel and Wire Company e all’inizio del Novecento dalla United States Steel) passa alle 135.000 del 1901. Glidden l’anno successivo vende la sua quota nell’azienda per 60.000 dollari alla Washburn and Moen Manufacturing Company di Worcester, Massachusetts, mantenendo le royalty del suo brevetto. Diventerà uno degli uomini più ricchi d’America.
L’America, negli anni immediatamente precedenti, sembrava essersi fermata sulla soglia del Mississippi. Dal fiume alle Montagne Rocciose si stendeva quello che veniva spesso definito il Grande deserto americano, un oceano d’erba abitato principalmente da nativi americani e da cowboy con le loro mandrie da portare dal Texas verso gli snodi ferroviari per i mercati del nord-est. Ma alla metà del secolo prese piede l’idea che gli Stati Uniti dovessero espandersi da costa a costa, e a muoversi verso ovest dovevano essere gli agricoltori, perché erano loro, a differenza degli allevatori, che potevano costituirsi in comunità e dar vita a insediamenti permanenti. Nel 1862 il presidente Lincoln firmava lo Homestead Act: la legge concedeva a ogni cittadino il diritto di proprietà su 80 ettari di terra pubblica, a condizione che li coltivasse e che vi si stabilisse per almeno cinque anni. La terra era fertile, ma le coltivazioni erano minacciate dai bovini allo stato brado, dalle mandrie di passaggio. I recinti di filo spinato contribuirono anche più della ferrovia, che nel 1869 aveva realizzato il primo collegamento transcontinentale, alla conquista della prateria e del West. L’impresa lasciò sul campo molte vittime: gli indiani d’America, costretti ad arretrare e chiusi nelle riserve; i bisonti, che erano la loro principale fonte di sostentamento, a un passo dall’estinzione; l’impero del bestiame, fondato sul pascolo libero, sull’“open range”, la legge non scritta del libero accesso all’erba e all’acqua, fortemente penalizzato. E in più la conquista significò la morte di un mito americano, quello del cowboy.
“Perché hai lasciato il Texas, non c’è anche là la prateria a perdita d’occhio?”, chiede un giovane al disincantato Dempsey Rae, Kirk Douglas nel western di King Vidor “L’uomo senza paura”. “Certo”, risponde con malinconia il cowboy, che ha trovato lavoro nel Wyoming dopo che suo fratello è morto a causa di una lite per la “corda del diavolo”, “ma là hanno messo il filo spinato. Prima era tutto aperto, fin dove arrivava lo sguardo, fin dove un cavaliere poteva andare o guidare la sua mandria. Niente poteva fermarti, nessun ostacolo”. Dopo il 1880, lo scontro tra vaccari e coloni si fece più duro: i bovini morivano, i cowboy tagliavano i recinti, una foto dell’epoca ce li mostra con in mano una cesoia, il volto celato da una maschera bianca. E qualche volta nella guerra del filo spinato ci scappava il morto. Sono di questo periodo le voci e gli aneddoti sulla signora Glidden, che Alan Krell, autore nel 2002 di “The Devil’s Rope – A cultural history of barbed wire”, ritiene una spolverata di femminilità tesa a ingentilire l’invenzione di un oggetto che nell’immaginario aveva già preso una piega piuttosto cupa. Niente, naturalmente, a confronto di quanto sarebbe successo dopo, quando l’avrebbero usato non più per le bestie ma per gli uomini.
Le prime tracce di un impiego del filo spinato in guerra risalgono al conflitto ispanico-americano del 1898: le truppe americane lo adoperano per proteggere i loro accampamenti. Durante la guerra russo-giapponese del 1904-1905 assumono grande importanza per entrambe le parti le fortificazioni temporanee. Réginald Kann, inviato francese tra le postazioni russe, vede “reti di fil di ferro e fili spinati, bocche di lupo semplici e con paletti, disposte su quattro file; mine interrate ad accensione elettrica, in una parola tutti i tipi standard di difesa erano stati utilizzati dando alle postazioni un aspetto formidabile”. Già l’anno successivo a quel conflitto lontano, un ufficiale francese può scrivere che “le difese accessorie riconosciute come le più efficaci per la guerra di campagna sono le reti di fil di ferro. Pressoché invalicabili e invulnerabili al fuoco dell’artiglieria, esse rappresentano l’ostacolo più serio per l’assalitore”.
Tutto vero, se applicato a buona parte della guerra che sarebbe scoppiata di lì a meno di un decennio. In realtà, nonostante quelle note premonitrici, nonostante il filo spinato fosse nominato nel regolamento dell’esercito britannico fin dal 1888, i reparti che andarono in combattimento nell’estate del 1914 non ne erano muniti, perché quasi tutti, dagli alti comandi in giù, si aspettavano una guerra rapida, su fronti mobili, che sarebbe durata al più tardi fino a Natale. Fu all’inizio dell’autunno, quando si scavarono le prime trincee, che i soldati cominciarono a usarlo recuperandolo alla meglio dai villaggi vicini. Ma ci si rese subito conto dell’efficacia di una tale barriera protettiva e l’industria prese a produrre filo spinato specificamente per uso bellico: quello utilizzato fino a quel momento nei campi aveva di regola sette coppie di spine per metro, mentre il nuovo tipo militare veniva realizzato con quattordici o più. I fanti lanciati all’assalto ne sperimentarono tutte le insidie.
“Centinaia di morti, molti della trentasettesima brigata, erano sparpagliati come i resti di un naufragio. La maggior parte era morta sul territorio e sulla rete dei fili spinati nemici come dei pesci presi in una rete. Pendevano in posture grottesche. Alcuni sembravano pregare; erano morti in ginocchio e il reticolato aveva impedito la caduta”, scriveva un soldato britannico. Quella del corpo, ancora vivo o morto, aggrovigliato e lacerato tra i fili spinati è un’immagine ricorrente nell’inferno disperante della terra di nessuno. Il corpo del nemico o del compagno d’armi, un corpo talvolta da salvare a rischio della propria vita. (Emotivamente edulcorato nel passaggio dalla persona all’animale e trasferito su un terreno meno gravido di orrore, è uno dei cardini narrativi di “War Horse”, il film del 2011 in cui Steven Spielberg ha raccontato l’epopea di un cavallo negli anni della Prima guerra mondiale: Joey, che si è messo a galoppare all’impazzata sul campo di battaglia, supera le trincee e finisce intrappolato nel reticolo di spine della no man’s land. Il cavallo non ha divisa: un soldato inglese e uno tedesco usciranno timidamente dalle loro trincee per andare a liberarlo).
Nell’arco di poco tempo migliaia di chilometri di filo spinato avvolgono le fortificazioni e marcano la terra di nessuno: un regolamento francese del 1915 stabilisce un minimo di due linee parallele di picchetti a distanza di circa tre metri, uno britannico del ’17 prescrive per un reticolato uno spessore minimo di nove metri. “Idea geometrica geniale, la rete di fil di ferro consiste proprio nel togliere il superfluo, l’imponente, a vantaggio della pura efficacia, svuotando la muraglia difensiva e lasciandone soltanto un sottile scheletro metallico. E’ facile da riparare o da sostituire. Si può lavorare alle reti di notte o con la nebbia…”, scrive Olivier Razac nella sua “Storia politica del filo spinato” (2001). E tuttavia, indipendentemente dal fatto che l’artiglieria sempre più pesante e l’avvento del carro armato avranno in qualche modo ragione anche di questa barriera difensiva, il filosofo francese nota che il filo spinato è sì un aspetto saliente nel ricordo della Grande guerra, “ma nella misura in cui la sua evocazione non condensa, metaforicamente, l’essenziale del senso della guerra, né della guerra di trincea, non si può dire che ne sia diventato un simbolo… Diventerà simbolo universale solo dopo aver assunto un ruolo decisivo al centro stesso della catastrofe moderna, nell’esperienza totalitaria assoluta dei campi di concentramento e di sterminio nazisti”.
Nei campi nazisti – già a partire dal primo, Dachau, sorto nel 1933 – il sistema di segregazione è piuttosto omogeneo ed è affidato quasi interamente al filo spinato. Le baracche, le torrette esterne di sorveglianza intervallate ogni ottanta metri, un doppio recinto di fili spinati carichi di corrente elettrica alto circa quattro metri. E’ tutto, o quasi. E’ l’essenziale. E’ il limite, il muro nella sua forma più dispotica: reclude, ha perso ogni valenza protettiva o di difesa, stabilisce una gerarchia indiscutibile (là dove, nelle trincee della Grande guerra, garantiva almeno, nel bene e nel male, la parità dei contendenti). E ancora una volta si può dire economico, facile da installare, facile da smontare e ora anche mortalmente efficace quando è carico di corrente elettrica. Da solo basta a evocare l’universo concentrazionario, e specularmente, una sua falla a negarlo. “La libertà. La breccia nel filo spinato ce ne dava l’immagine concreta”, disse Primo Levi dopo la liberazione da Auschwitz. “Questa espressività – aggiunge Olivier Razac – ha consentito di non riconoscere, quando non si voleva vederle, alcune forme concentrazionarie, perché mancava il filo spinato”. Joë Nordmann non aveva creduto alla testimonianza di Margarete Buber-Neumann sui lager sovietici: che un campo potesse essere grande come due volte la Danimarca era “incomprensibile” per una mente offuscata dall’ideologia. “Ma di che cosa parlava dunque? Era quello un campo di concentramento staliniano? Senza mura, senza fili spinati?”.
“E’ il miglior recinto del mondo. Leggero come l’aria. Più forte del whisky. Meno caro della polvere da sparo. Tutto in acciaio e lungo molti chilometri”, strillava John W. Gates, primo grande venditore di filo spinato nel diffidente Texas di fine Ottocento. Il filo spinato conserva buona parte di questo suo imprinting ed è tuttora largamente utilizzato, più di quanto in fondo ci aspetteremmo. Ma forse il suo tempo si sta davvero esaurendo, per cedere il passo a tecnologie più sofisticate. Anche se nuovi sistemi di controllo dello spazio ancora più leggeri e meno visibili e con la fedina simbolica immacolata potrebbero rivelarsi più subdoli e infidi, molto più pericolosi.
Laisser un commentaire
Vous devez être connecté pour rédiger un commentaire.