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La divina unione tra la Madonna e il glorioso San Giuseppe

Posté par atempodiblog le 1 août 2015

Il santo proposito di San Giuseppe

Il fatto che l’Evangelista, pur evidenziando il proposito di verginità di Maria, la presenti ugualmente come sposa di Giuseppe costituisce un segno della attendibilità storica di ambedue le notizie. Si può supporre che tra Giuseppe e Maria, al momento del fidanzamento, vi fosse un’intesa sul progetto di vita verginale. Del resto, lo Spirito Santo, che aveva ispirato a Maria la scelta della verginità in vista del mistero dell’Incarnazione e voleva che questa avvenisse in un contesto familiare idoneo alla crescita del Bambino, poté ben suscitare anche in Giuseppe l’ideale della verginità.

Giovanni Paolo II

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La divina unione tra la Madonna e il glorioso San Giuseppe

Ora qual divina unione tra nostra Signora ed il glorioso san Giuseppe! Unione, che faceva, che quel bene de’ beni eterni nostro Signore, fosse ed appartenesse a san Giuseppe, così come apparteneva a Maria, non secondo la natura, che aveva presa nelle viscere della nostra gloriosa Vergine; natura, che era stata formata dallo Spirito Santo del purissimo sangue di Lei; ma secondo la grazia, la quale lo rendeva partecipe di tutti i beni della sua cara sposa, e la quale faceva che egli andasse meravigliosamente crescendo nella perfezione; e ciò per la comunicazione continua, che aveva con nostra Signora, la qual possedeva tutte le virtù in così alto grado, che nessun altra né candida, né pura creatura vi può giungere.

Nientedimeno il glorioso san Giuseppe era quello, che maggiormente vi si approssimava; e siccome si vede uno specchio ricevere i raggi del sole dal riverbero d’un altro specchio, e rimandarli cosi al vivo che non si potrebbe quasi giudicare qual sia quello, che li riceve immediatamente dal sole, o quello, che non li riceve se non per riflesso; parimente nostra Signora era come un purissimo specchio opposto ai raggi del Sole di giustizia: raggi, che apportavano nell’anima sua tutte le virtù nella loro perfezione; quali perfezioni, e virtù facevano un riflesso così perfetto in san Giuseppe, che pareva quasi  ch’egli fosse così perfetto, o che avesse le virtù in sì alto grado, come le aveva la Vergine santissima.

Ma in particolare (per non deviare dal nostro proposito) in qual grado pensiamo noi che avesse la verginità, quella virtù, che ci rende simili agli angioli? Se la santissima Vergine non fu solamente vergine tutta pura, e tutta candida; ma come canta la santa Chiesa nel responsorio delle lezioni dei mattutini, santa ed immacolata verginità, cioè che era la stessa verginità: quanto pensiamo noi che quel che fu eletto da parte dell’eterno Padre per custode della sua verginità, o per dir meglio per compagno (poiché ella non aveva bisogno d’esser guardata da altri, che da se medesima) quanto dico, doveva egli esser grande in questa virtù?

Ambedue avevano fatto voto d’osservar verginità in tutto il tempo della lor vita, ed ecco che Iddio vuole che siano uniti col legame di un santo matrimonio, non già per farli disdire, né pentirsi del voto; ma per confermarli, e fortificarli l’un l’altro a perseverare nella santa impresa; e per questo lo fecero ancora di viver verginalmente insieme in tutto il resto della lor vita.

Tratto da: Trattenimenti spirituali di San Francesco di Sales Vescovo e Principe di Ginevra Volume unico. – Brescia : Tipografia Pasini nel Pio Istituto di S. Barnaba, 1830, pp. 363 – 364.

Divisore dans San Francesco di Sales

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Bisogno di misericordia

Posté par atempodiblog le 1 août 2015

Bisogno di misericordia
di don Federico Pichetto – Il Sussidiario

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C’è un fatto di cronaca che, nel brusio delle mille emergenze estive, non è riuscito a far sentire a sufficienza la propria voce. Alcuni giorni fa – erano le 4.30 del mattino – sulla tangenziale di Napoli un uomo di 29 anni (un millenial!), in evidente stato di ebbrezza, ha deciso repentinamente di invertire la rotta del suo viaggio e di intraprendere, senza scrupoli, la tangenziale stessa in senso di marcia contrario. L’ora era davvero molto particolare e per 5 Km quest’uomo, che a bordo aveva anche la propria compagna di 22 anni, non ha incrociato nessuno fin tanto che un altro automobilista, appena svegliatosi per recarsi a lavoro, non ha percorso lo stesso tratto di strada in direzione corretta arrivando inevitabilmente a scontrarsi col ventinovenne ubriaco.

Immediata è partita la richiesta di soccorsi, ma proprio lì – in quel frangente fra la chiamata dei soccorsi e il loro arrivo – un uomo ignaro di tutto è passato accanto all’incidente ed è rimasto sgomento dallo spettacolo delle lamiere accartocciate. Ha constatato che per il povero automobilista sobrio non c’era più niente da fare e ha intercettato il braccio del conducente dell’altro mezzo che cercava di districarsi tra i rottami della tragedia. Accanto a lui i respiri ansimanti di una compagna che si sarebbe spenta in ospedale da lì a poco e il silenzio totale di una tangenziale fantasma in un’anonima alba di luglio. L’uomo ignaro non conosceva la dinamica dell’incidente e si è accostato al “pirata della strada” prendendogli la mano, consolandolo e facendogli forza fino all’arrivo dell’ambulanza.

Che strana questa vicenda! Pur essendo lucida e inequivocabile, è come se nascondesse dentro qualcosa di affascinante e di tremendo allo stesso tempo, ossia la pietà – la compassione – per il carnefice e la sua mostruosità. Nella società della colpa tutto questo è ovviamente impensabile e l’uomo ignaro è stato in poche ore ricoperto da insulti sul web, stigmatizzando una pietà non meritata e un dolore – che il primo soccorritore esprimeva – come un dolore inutile, sprecato.  Non è certamente mia intenzione, dunque, fare la morale su questo episodio, ma porre qualche riflessione sì.

La prima che mi viene in cuore è questa: ci rendiamo conto di quanto sia più facile guardare alle cose per quello che sono quando siamo disarmati e senza pregiudizi? Quell’uomo, il soccorritore, non sapeva niente e – proprio per questo – ha potuto trattare il carnefice da “uomo”. I gesti di carità, nella vita della Chiesa, sono nati in forma anonima proprio per questo: una carità è vera nella misura in cui è gratuita, nella misura in cui l’altro proprio non la merita. Fare la carità a chi la merita non è cristianesimo, è un’ultima forma di filantropia. 

Quanta ribellione sento poter crescere in chi legge queste affermazioni: mi rendo conto che tanti pensano all’assassino dei propri figli, a chi perseguita i cristiani nel mondo, agli irresponsabili che con i loro gesti hanno fatto male alla vita propria e di chi li circondava. Ma la carità, la misericordia, è anzitutto per loro. Il primo perdonato è il buon ladrone che – per inciso – non era crocifisso perché aveva rubato delle pere al mercato, ma quasi certamente per fatti di sangue. Eppure egli per noi è buono. La sua bontà non si è manifestata tanto nel non fare il male, ma nel lasciarsi guardare dal Bene, da Colui che è il Bene.

Il Cristo sulla croce non ha formulato un codice etico esclusivo, ma ha guardato all’altro – perfino al ladrone – come ad un povero. Io sono fermamente convinto che questa nostra resa – parlo di molti cristiani in occidente – alla mentalità capitalista abbia regalato al marxismo in tutte le sue salse la parola “povero”. Mentre la povertà è qualcosa che è entrata nella storia come “sorella” solo con il Cristianesimo. Noi siamo un popolo di poveri, un popolo di salvati. E non possiamo non essere pieni, nei nostri occhi, di quella tenerezza che ci ha tratto fuori dal nulla.

Chi si lascia prendere dalla foga della giustizia spesso non cerca di restituire a ciascuno le sue responsabilità, ma solo di rintracciare un colpevole, qualcuno da biasimare e da odiare. Nel volto dell’altro, diciamocelo, noi non vediamo anzitutto il volto del povero, ma l’incarnazione della parte più meschina di noi condannando la quale crediamo di poter facilmente condannare e chiudere i conti con noi stessi.

Puniamo nostra moglie, ma forse puniamo noi, puniamo i nostri figli, ma forse puniamo il nostro Io, puniamo il mondo, ma forse puniamo il nostro male, quello che abbiamo terribilmente paura di fare e di essere. Per questo il perdono fa bene: perché riporta l’altro a quello che è, ossia il riflesso di un bene promesso, una parte di me nuovamente amabile.

Noi, pertanto, non abbiamo bisogno di vendetta o di vittoria, noi abbiamo bisogno di lacrime, abbiamo bisogno di misericordia. Per questo vorrei finire spingendomi ancora un po’ oltre e chiedermi chi può restituire uno sguardo del genere alla nostra vita. Forse ci costa ammetterlo, ma solo il divino può salvare l’umano, solo la Presenza del divino cambia, trasforma, perdona. Non sono le nostre idee sulla Chiesa, sul Papa, sulla società, sulla politica, sull’amore o sul lavoro a salvare quello che sta avvenendo. Non è l’esibizione scomposta di una lezione morale che salva il nostro matrimonio, che salva i nostri figli, che salva noi stessi dal mostro che siamo. E’ un Altro. E’ il primo soccorritore che passa quando ancora non è arrivata nessuna ambulanza e – senza indagare troppo – ci prende la mano e ci perdona.

Senza la chiarezza di questo bisogno continueremo a giustificare le decisioni già prese con discorsi fondati su parole in definitiva mai vissute. In fin dei conti noi pensiamo di non aver bisogno di nessuno per guardare nostra figlia, per ascoltare nostro marito o per sopportare il nostro collega molesto. Noi sappiamo già come lui dovrebbe essere e abbiamo fior di teorie pronte a spiegare la bontà del nostro giudizio, la sua stessa ortodossia ed evidenza. Rimane il fatto, però, che lui, che lei, c’è, ci sono. E quel braccio che penzola fuori dalle lamiere all’alba di una mattina di luglio rischia di trovarci pieni di giusti giudizi, ma poveri di vera compassione. Lasciandoci soli nel nostro splendido fortino. Capaci di tutto, ma incapaci di piangere per il povero che vive dentro di noi.

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SENTENZA SARAH SCAZZI/ Sabrina, Cosima e la pietà dell’Innominato che non c’è

Posté par atempodiblog le 1 août 2015

SENTENZA SARAH SCAZZI/ Sabrina, Cosima e la pietà dell’Innominato che non c’è
di Monica Mondo – Il Sussidiario

SENTENZA SARAH SCAZZI/ Sabrina, Cosima e la pietà dell’Innominato che non c’è dans Articoli di Giornali e News n1tn5u

Del delitto di Avetrana, si attendeva la sentenza con malsana ansietà, in un tempo in cui le notizie più gravi non smuovono alcuna attenzione. C’è da riflettere, sulla passione morbosa con cui il pubblico, da sempre, segue le efferatezze della cronaca nera, inscenando discussioni con gli amici, i colleghi, occupando le telefonate con la suocera, per non dire dei talk show serali. D’estate, poi, col caldo il cervello fuma, e non c’è massacro a Kobane o sequestro di cristiani che turbi la stanca resa all’afa. Ma il sangue dietro l’angolo, quello ridesta, spinge agli straordinari in tv e perfino le edicole morenti si rivitalizzano per un po’. E si vogliono sapere tutti i particolari, i dettagli più macabri, si scava nelle esistenze dei presunti assassini, si attendono i processi non, come si dovrebbe, con mestizia, ragionando sul male degli uomini, ma tifando per la sentenza, quasi sempre la più dura. Meglio ancora se i delitti si tingono un po’ di rosa, e c’è di mezzo un tradimento o un segreto amoroso.

Meglio se c’è un’innocente che muova la commozione più superficiale, che un “povero angelo!” non si nega a nessuno. E’ lo stesso pubblico che di solito se ne infischia di testimoniare, di svolgere un dovere civile, di mostrare almeno indignazione davanti alle ingiustizie di diverso tipo. Lo stesso pubblico che, appartato nelle riposte stanze di casa, ha fatto spallucce e pensato a proteggere, coprire, giustificare i criminali, per non aver guai, per non crearsi nemici, perché nulla cambi. E’ accaduto così anche nel delitto Scazzi. La cosa forse più incredibile e passata in sordina è la quantità di dichiarazioni false e inattendibili di molti interpellati a deporre. Un paese chiuso, per una famiglia chiusa, impenetrabile, nei suoi recessi di follia. Come in una novella di Verga, quelle più truci, quelle di una realtà di lupi e sepolti in miniera, con le bestie. Come in una tragedia antica, dove almeno c’era la nobiltà di esagerare gli eventi a scopo catartico. Avetrana è un nome che d’ora in poi alimenterà sospetti e inquietudine, toccherà aggirarsi guardinghi, diffidare di ogni sguardo o sorriso, e spiace per le persone perbene.

Due donne sono in carcere, da anni. Con l’ergastolo davanti, poca roba. Sono madre e figlia, l’assassinata è la loro nipote. Perché? Non s’è mai capito davvero, ed è impossibile forse capirlo. Nessuna possibile causa appare lontanamente plausibile. Gelosia tra due ragazzine? Maddai. La follia, soltanto quella. Eppure per follia non si pianifica ogni cosa, la trappola, la cintura intorno al collo, l’amica in attesa deviata col cellulare, il coinvolgimento del cane guardiano, papà Michele, che obbedisca ancora un volta, e trovi il modo di sbarazzarsi del corpo. Col fratello, pure. E magari si accusi, tanto la sua vita peggio di così. E poi le menzogne, le recite a favor di telecamera, di una ragazza solo un po’ grassoccia e a disagio con quel piercing al naso, ma come tante, come quelle che escono coi nostri figli. Da che mondo ancestrale proviene, su cosa e da chi s’è formata, quali sogni, desideri, futuro, sentimenti covava, se non quelli della vipera, della fiera troppo stupida per non sapere che il male non si può nascondere, viene a galla come i cadaveri gonfi e orrendi dai pozzi.

Piangeva, piange, Sabrina. Prega la madre, invoca i santi (di quale pantheon di divinità feroci?) che consolino questa messa in croce che grida vendetta, come fa ogni buona donna di mafia. Che donne sono, queste due donne, in cui misericordia e amorevolezza, tenerezza sono bandite, per farle dure come scorza e aspre come l’aceto. La corte d’appello, dopo tre giorni di camera di consiglio, ha confermato per entrambe l’ergastolo. C’erano ben sedici giudici popolai, costretti a vedere immagini incancellabili, ad ascoltare oscene scusanti, a pensare ogni attimo agli occhi e ai sogni di quella ragazzina bionda, uccisa da mani che credeva amiche.

Hanno deciso, anche senza prove plateali, arma del delitto, confessioni, eccetera. Si è detto sempre che si trattava di un processo indiziario. Epperò quando gli indizi sono tanti, si sommano, e fanno una prova. Ergastolo, ovvero una vita perduta, distrutta, finita, parrebbe, e allora sarebbe giusta e migliore la fine, per mano propria o di stato. Invece tocca credere che anche quelle due vite disgraziate hanno un senso, perché sono state volute, perché possono fare della loro rovina la salvezza, per se stesse e per gli altri. Possono trasformare le loro mani omicide in mani pronte a curare, sanare, accarezzare, perdonare, anzitutto la propria colpa.

Sì, viene in mente l’Innominato. S’è trovato di fronte un animo grande, che ha avuto pietà anche della sua nefandezza. E’ questa pietà che dobbiamo covare in noi, anche per gli assassini, perché il nostro sistema di detenzione, il nostro modo di guardarli non sia mai privo di speranza e possibilità di perdono. E’ troppo facile sibilare disprezzo, odio, e augurare la morte. Le bestie, fanno così, e non hanno ragione. Cosima e Sabrina, hanno fatto così. Lo sgomento, invece. Che porti a pregare, a osare chiedere la redenzione. O il male ci farà prede, e non avremo più voglia di guardare al domani.

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Una nazione che ha dimenticato la buona notizia
di Angela Pellicciari – Il Tempo

[...] Siamo diventati una nazione senza Dio. Una nazione che ha dimenticato la buona notizia: Gesù è venuto per salvare i peccatori. Cioè noi. La patria del cattolicesimo ha compiuto un’apostasia di massa e non sa nemmeno più cosa sia il peccato. Abbiamo scordato che il peccato ci toglie la vita perché ci separa da Dio autore della vita. E così un prete, durante l’omelia al funerale della ragazza assassinata, può augurarsi che “le bestie” che hanno compiuto un simile misfatto non facciano parte della comunità dei fedeli locali. Ma come? La buona notizia è che Gesù è venuto per quelle bestie. Perché quelle bestie possano cambiare vita e smettere di essere tali.

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