Stepinac, l’arcivescovo della discordia
«Non è lecito sterminare zingari ed ebrei perché apparterrebbero a razze inferiori. Se si accettano i princìpi nazisti, che sono senza fondamento, ci sarebbe ancora sicurezza per un qualche popolo della terra?». Così tuonava l’arcivescovo di Zagabria nella sua cattedrale. Era il 25 ottobre 1942. Nel 1998 Giovanni Paolo II lo beatificò, ma la strada per la canonizzazione è irta di rancori
di Giuseppe Brienza – La Croce – Quotidiano
Le speranze dei cattolici croati di vedere canonizzato il beato cardinale Alojzije Stepinac, arcivescovo di Zagabria e martire del comunismo titino, si sono molto affievolite dopo che, il 28 maggio scorso, l’inviato speciale del Papa cardinale Kurt Koch, si è incontrato a Belgrado con il Presidente della Serbia, il nazional-socialista Tomislav Nikolić, dal quale ha tratto reazioni alquanto negative rispetto alla canonizzazione di Stepinac. Nikolić, noto per aver professato ammirazione assoluta per il comunismo cubano (ed è stato infatti il primo presidente della Serbia che ha visitato l’isola di Castro dopo la disintegrazione della ex- Iugoslavia), ha affermato «che la canonizzazione di Stepinac distruggerebbe tutto ciò che di buono è stato fatto finora per migliorare i rapporti tra la Croazia e la Serbia». L’arcivescovo di Zagabria, così come tutti i cattolici di varie nazionalità perseguitati dal regime comunista ex-Iugoslavo, scontano ancora l’ostracismo dei serbi-nazionalisti che considerano l’essere fedele alla Chiesa di Roma sinonimo di “ustascia”, cioè appartenente al movimento fascista fondato da Ante Pavelić che fu a capo del primo Stato Indipendente di Croazia.
Quando San Giovanni Paolo II portò nel 1998 agli altari l’arcivescovo di Zagabria molte furono le proteste che si levarono dagli ambienti anticattolici che accusarono il papa d’aver beatificato un “criminale di guerra”. Alcune pubblicazioni accusarono persino il prelato d’esser stato un fiero sostenitore della politica degli ustascia e di aver taciuto o persino benedetto la loro pulizia etnica (si veda a tal proposito il libro di Marco Aurelio Rivelli “L’arcivescovo del genocidio”).
Sulla base di queste mistificazioni, “Toma”, questo è il soprannome dell’attuale presidente serbo, ha lanciato un chiaro messaggio al card. Koch ed al Vaticano a proposito del definitivo riconoscimento della santità dell’arcivescovo di Zagabria: «dopo che avete contato i chicchi di grano in una mano, metteteli nell’altra mano e contateli di nuovo». Un messaggio che, ha osservato il traduttore italiano delle omelie del cardinale Stepinac, è apparso molto chiaro: «la Chiesa non deve canonizzare Stepinac senza il consenso dei serbi – che, evidentemente, non ci sarà mai –, altrimenti le tensioni tra serbi e croati, e di conseguenza tra la Chiesa ortodossa e quella cattolica, potrebbero di nuovo acuirsi» (Guido Villa, Stepinac, chi non vuole la canonizzazione, in La Nuova Bussola Quotidiana, 5 luglio 2015).
Il cardinale Koch ha proposto la formazione di un gruppo di esperti della Chiesa cattolica e della Chiesa ortodossa serba, per indagare su tutte le circostanze storiche relative alla vita ed all’opera di Stepinac, cercando così, attraverso l’approfondimento ed il dialogo fra tutte le parti coinvolte, di creare un’atmosfera di collaborazione e di superamento dei vari veti.
L’attuale presidente della Croazia Kolinda Grabar Kitarović, da parte sua, si è un po’ lavata le mani della questione e di questa che appare a tutti gli effetti una “persecuzione tardiva” della memoria del beato cardinale Stepinac, lamentandosi addirittura che la costituzione della commissione di esperti proposta dalla Chiesa cattolica «avrebbe dovuto essere presa molto prima» (art. cit.).
Ma perché spaventa così tanto la canonizzazione del beato Alojzije Stepinac? Innanzitutto perché la sua vicenda si inserisce a pieno titolo in tutti quei passaggi della storia Iugoslava dell’ultimo secolo che, come da noi del resto, sono ancora soggetti versioni di comodo se non a “vulgate” ideologiche di vari ex-, post-, neo-comunisti, oggi spesso riciclati in salsa nazionalista. Non sono poi neanche da trascurare, naturalmente, gli strascichi del conflitto che ha caratterizzato, fin dalla fondazione nel 1918, croati e serbi come cittadini di quel primo Stato unitario slavo che, più tardi, fu chiamato Iugoslavia. Ma, ci pare, che il segno predominante dell’attuale ostracismo a Stepinac rimane l’ottusa insofferenza ad una Fede ed una fedeltà che vanno oltre le categorie umane dell’etnia e del territorio. Tanto è vero che, in questo clima, una sorte simile rispetto a quella dello “stop” subito dalla canonizzazione di Stepinac, è stata riservata alla causa di beatificazione, recentemente avviata, del cardinale Franjo Kuharić, arcivescovo di Zagabria dal 1970 al 1997 e ordinato dallo stesso Stepinac, assieme ad altri 21 giovani seminaristi croati, proprio sessant’anni fa, il 15 luglio 1945. Al card. Kuharić i serbi rimproverano infatti l’appoggio dato all’azione militare “Tempesta”, conclusa dalla NATO il 5 agosto del 1995 e celebrata piuttosto in Croazia come “Giornata della vittoria”.
Come dimostrato dall’abbondante documentazione storica che lo riguarda, sintetizzata peraltro da un “Quaderno de L’Osservatore Romano” (cfr. Giampaolo Mattei, Il cardinale Alojzije Stepinac. Una vita eroica, Città del Vaticano 1999), la figura del beato Stepinac è assolutamente limpida. Pur accogliendo favorevolmente l’indipendenza della Croazia proclamata nel 1941, egli conservò una lucida capacità di giudizio sul regime ustascia, avvertendo che la benedizione di Dio poteva scendere sul Paese e sul popolo croato «solamente se si fosse osservata la Legge di Dio quale espressa nei Dieci Comandamenti» (art. cit.). In diverse omelie Stepinac condannò coraggiosamente le stragi di serbi, ebrei e rom attuate dalle milizie di Pavelić, denunciando la politica razziale del governo croato attuata su imitazione di quella della Germania nazista.
Stepinac arrivò a sospendere “a divinis” alcuni preti della sua diocesi per essersi macchiati di atrocità, attivandosi in tutto e per tutto non appena ebbe sentore delle deportazioni degli ebrei. Così scrisse ad esempio una lettera al ministro dell’interno Andrija Artuković per dirgli che: «Se effettivamente questa iniziativa è stata concepita mi prendo la libertà di rivolgermi a te per prevenire, grazie alla tua autorità, un attacco illegale a cittadini che non sono responsabili di nulla».
L’arcivescovo non si limitò solo a proteste e reclami privati, ma agì a più riprese in loro favore: prese sotto la sua protezione degli ebrei nascondendoli nella tenuta vescovile di Brezovica, organizzò il trasporto di decine di bambini verso la Turchia, procurò cibo, vestiario, passaporti ad altri e tentò di convincere il ministro d’Italia in Croazia, Raffaele Casertano, ad accogliere dei giovani ebrei. Stepinac giunse persino a denunciare pubblicamente l’Olocausto: «Tutte le razze e tutte le nazioni sono state create a immagine di Dio (…) Non è lecito sterminare zingari ed ebrei perché apparterebbero a razze inferiori. Se si accettassero i principi nazisti, che sono senza fondamento, ci sarebbe ancora qualche sicurezza per un qualche popolo della terra?» come dichiarò il 25 ottobre 1942 nella cattedrale di Zagabria.
Alla fine della Seconda Guerra Mondiale, in un clima di inaudita violenza contro la Chiesa cattolica, Stepinac fu arrestato dalle autorità comuniste una prima volta il 17 maggio 1945, e trattenuto in carcere fino al 3 giugno. Il giorno dopo la sua liberazione, egli fu convocato da Tito, il quale gli offrì la guida di una cosiddetta “Chiesa cattolica popolare”, separata da Roma, con la promessa di una posizione di onore nel nuovo Stato jugoslavo a guida comunista. Stepinac rifiutò, firmando in questo modo la sua condanna. Fu quindi di nuovo arrestato, sottoposto a un processo-farsa e condannato a sedici anni di reclusione in regime di carcere duro. Dopo cinque anni di prigionia nel carcere di Lepoglava, sottoposto a continui maltrattamenti, umiliazioni e a diversi tentativi di avvelenamento, fu assegnato al confino nella parrocchia natia di Krašić, non lontano da Zagabria, dove fu tenuto prigioniero fino al 1960 a causa di una malattia contratta in carcere, ma esiste la testimonianza di un carceriere che afferma d’averlo avvelenato (cfr. Giovani Sale, “Il cardinale Stepinac, un sostenitore dei «Diritti di Dio» e dell’uomo”, La Civiltà Cattolica 5 dicembre 1998).
L’arcivescovo Stepinac non fu affatto un criminale di guerra e, se di lui si ha un’immagine diversa, come ha ipotizzato lo storico liberale Sergio Romano, ciò è dovuto alla persistenza della vulgata comunista negli studi storici slavi e, purtroppo, anche italiani.
Stepinac si batté coraggiosamente prima contro il nazismo e poi contro il comunismo e, come riconosciuto da Pio XII nella lettera apostolica ‘Dum maerenti animo’ (29 giugno 1956), la sua vicenda è associata a quella degli altri grandi Pastori martiri dei sistemi atei del Novecento. «Ci rivolgiamo anzitutto a voi – scrisse papa Pacelli -, diletti figli Nostri, cardinali di santa romana Chiesa, Giuseppe Mindszenty, Luigi Stepinac e Stefano Wyszynski, che noi stessi abbiamo rivestiti della dignità della romana porpora per gli insigni meriti da voi acquistati nel disimpegno dei doveri pastorali e nella difesa della libertà della Chiesa».