Immigrati e propaganda, quei semi cattivi

Posté par atempodiblog le 21 juin 2015

Accoglienza negata
Immigrati e propaganda, quei semi cattivi
Perché le parole sono come semi: circolano, si depositano. Poi affondano le radici.
di Maria Corradi – Avvenire

Immigrati e propaganda, quei semi cattivi dans Articoli di Giornali e News 5wwktc

Girano in questi giorni in Italia certe parole e umori, che appena qualche anno fa avresti giudicato indicibili. Ha cominciato giorni fa Beppe Grillo, evocando una capitale «invasa da topi e clandestini». Infelice espressione che poi Grillo ha corretto, ma si sa, certe frasi forti come schiaffi, sentite alla radio e alla tv, restano nelle orecchie, e, peggio, in testa. “Topi e clandestini”, immaginati insieme, quasi fossero categorie affini, a predare Roma, è una greve suggestione: di quelle che poi senti ripetere nei bar, come refrain di canzoni sgradevoli, ma che si incollano nella memoria. Poi, è stata la volta della lettera della Rsu (Rappresentanza sindacale unitaria) dell’Atm, l’Azienda dei trasporti milanese, in cui si annunciava il rifiuto di trasferire i migranti dalla Stazione Centrale ai centri di accoglienza, per timori legati a ragioni sanitarie. Leggi, per paura della scabbia, diffusa fra chi arriva con i barconi dalle coste sud del Mediterraneo.

Ora, si immagina che un conducente di bus non abbracci i passeggeri e, inoltre, la scabbia, grazie a Dio, non è l’ebola. Il ministero della Salute ripete, anzi, che è un’infezione dermatologica banale, che si contrae solo con un prolungato e stretto contatto, e che è facilmente curabile.  L’Atm, per parte sua, ha precisato che i bus, dopo i trasporti ai centri di accoglienza, vengono igienizzati. Ma le righe di quella lettera restano e colpiscono, anche perché vengono dai lavoratori di un’azienda che è una colonna di Milano, e quasi un simbolo della sua tradizione di solidarietà e tolleranza. I sindacati confederali da quel documento hanno preso le distanze. Ma certe parole, “migranti”, “scabbia”, “bus”, annodate fra loro, rimangono almeno nel retropensiero, si riflettono nell’istintivo tirarsi indietro, sul tram, se sale un passeggero malconcio, che pare uno di “quelli della Stazione”.

A Ventimiglia, invece, al sindaco che chiedeva l’intervento della Protezione civile per i migranti accampati al confine, non è stata data risposta. Per il nuovo governatore, il forzista Giovanni Toti, quei 200 sugli scogli non sono materia di competenza della Regione. Ma che vento mesto, avaro, soffia in certe risposte negate, o nelle parole dette come per sbaglio e subito magari corrette, e però ormai immesse nei media. Vent’anni fa, una rappresentanza di lavoratori che si fosse rifiutata di trasportare profughi sarebbe stata impensabile. Così come il non mandare la Protezione civile in aiuto a uomini, comunque li si voglia qualificare, affamati e senzatetto. Ma, con l’aumento della pressione dei migranti e dei profughi, pare insorgere in più d’uno un istinto atavico, che ricorda quello dei branchi, quando difendono il loro territorio dagli intrusi. Per ora sono solo parole; ma parole come “topi”, “malattia” e “contagio”, che suscitano ripugnanza, voglia di barriere, di muri.

Gli stessi popoli perseguitati da guerre e carestie, che tutti compiangevano finché stavano a casa loro, presentandosi nel nostro “territorio” vengono vissuti come pericolosi e quasi nemici. C’è, poi, naturalmente, chi volentieri soffia su queste paure ataviche.  Ma qualcosa viene meno, si corrompe, anche nelle mezze parole, ed è l’immagine stessa di un popolo, ciò che noi pensiamo di noi stessi, ciò che lasciamo ai figli.

Nella Laudato si’, il Papa accenna al dramma dei migranti, e non solo dei rifugiati, ma anche di quelli che fuggono «la miseria aggravata dal degrado ambientale», che «non sono riconosciuti come rifugiati e portano il peso della propria vita abbandonata senza alcuna tutela». Francesco conclude: «La mancanza di reazioni di fronte a questi drammi dei nostri fratelli e sorelle è un segno della perdita di quel senso di responsabilità per i nostri simili su cui si fonda ogni società civile».  Nemmeno una società “cristiana”, ma, prima ancora, “civile”, questo dobbiamo restare, è il Papa a ricordarcelo. “Civile”, una società civile non è qualcosa in cui dovremmo volerci tutti riconoscere? Ma non bisogna lasciare circolare certe parole, certe irrazionali paure, certe inammissibili ripugnanze. E non bisogna dare dall’alto di uno scranno di governo regionale esempi di ostracismo e di rifiuto. Perché le parole sono come semi: circolano, si depositano. Poi affondano le radici.

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