Claudel cantò lo Spirito divoratore: la Pentecoste dall’analisi della teologia alla sintesi della poesia in un articolo di don Inos Biffi
Posté par atempodiblog le 18 mai 2015
La riflessione sulla Pentecoste dall’analisi della teologia
E Claudel cantò lo Spirito divoratore alla sintesi della poesia
di don Inos Biffi – L’Osservatore Romano
Dopo la Risurrezione di Gesù viene lo Spirito. Al termine dell’itinerario terreno del Figlio di Dio, il Padre, insieme con Lui e tramite Lui, elargisce il Dono. La pienezza dello Spirito non è data ai credenti, i «fiumi di acqua viva» (Giovanni, 7, 38) non scorrono, prima che Gesù sia stato glorificato, poiché è dal suo seno che sgorgano. E infatti, secondo Giovanni il Signore appare la sera di Pasqua ad alitare sui discepoli lo Spirito Santo. L’umanità è redenta e la storia del mondo “finisce” quando su tutti e per tutti lo Spirito è disponibile. Allora è compiuta la vicenda di Cristo e quella degli uomini. L’arcano disegno divino aveva esattamente questa sostanza e questo fine: creare una umanità che possedesse lo Spirito del Padre e del Figlio, che ricevesse il vincolo o l’amore, che li unisce e li rende presenti nell’umanità e nel cuore, o nell’esistenza, di ogni credente.
Dove c’è Gesù glorificato là c’è lo Spirito; dove c’è lo Spirito là c’è il Signore Gesù, che per mezzo dello Spirito è presente e opera. Non è facile parlare dello Spirito. Lo si avverte, ma non in una figura umana, com’è del Figlio, e non in una rappresentazione che all’uomo è immediata, quella della paternità com’è del Padre. Lo Spirito viene come alluso attraverso dei simboli: «un rombo, come di vento che si abbatte gagliardo, all’improvviso», «lingue come di fuoco», che si dividono ed eccitano la parola, ottenendo sorprendentemente l’unità e l’intesa, là dove ci si aspetterebbe l’incomprensione. È la prima grazia dello Spirito Santo: quella di poter credere e di poter riconoscere — come dice Paolo — che «Gesù è Signore» (1 Corinzi, 12, 3), quella di annunziare «le grandi opere di Dio» (Atti, 2, II).
Lasciati a noi stessi non avremmo la fede e non potremmo essere il Popolo di Dio: rimarremmo nella confusione, dove non è possibile capirsi, dove la lingua invece di comunione provoca rissa e isolamento, e dove la freddezza del cuore ci separa reciprocamente. Lo Spirito crea la Chiesa e la tiene insieme, e chi partecipa dello Spirito ne vive e ne rivela il mistero. A verificare questa dimensione e questa condizione “spirituale” per capire la Chiesa e per essere Chiesa ci induce oggi — dichiara Bernardo di Clairvaux — la «solennità dello Spirito Santo, che è come la realtà più dolce che esiste in Dio, che è la benignità di Dio, colui che è il principio della santità» (Sermo in die Pentecostes, I, 1). Se lo Spirito vince le resistenze reciproche e genera la comunione, allora si rivela con chiarezza sia la radice dei carismi sia la loro finalità: la radice è lo Spirito, di cui ogni grazia è manifestazione, e la finalità è il bene di tutta la Chiesa. Lo Spirito non chiude in sé, ma apre agli, altri. Ogni impegno e ogni lavoro non può servire l’interesse personale o la vanagloria. Su questa misura si diventa cauti prima di domandare il riconoscimento di un carisma, prima di pretenderne l’esercizio, e anche prima di stupirsi che non venga riconosciuto o che sia contestato.
Quando si tiene troppo a un “carisma”, la probabilità va nel senso che non sia autentico. Sul tema dello Spirito ci illuminano alcune riflessioni di san Tommaso, forse non molto note. Egli scrive: «Cristo appare a quanti sono radunati insieme; così lo Spirito discende su quelli che sono uniti tra loro: Cristo e lo Spirito si fanno presenti soltanto a coloro che sono legati dall’amore» (Super Euangelium Iohannis reportatio, 20, 4, n. 2529); «Molto felicemente Paolo attribuisce le grazie allo Spirito che è l’Amore, poiché ogni servizio è grazia che proviene dall’amore del Signore, al quale si serve» (Super I Ad Corinthios XI – XVI reportatio, 12, 1, n. 723); «Dalla forza dello Spirito Santo otteniamo di essere rigenerati e di essere ricreati per la salvezza» (ibidem, n. 734).
San Tommaso sta commentando le parole dell’Apostolo: «Tutti ci siamo abbeverati a un solo Spirito» (1 Corinzi, 12, 13), e prosegue dicendo: «Questo abbeverarsi si può intendere del refrigerio interiore che lo Spirito Santo offre al cuore umano, estinguendo la sete dei desideri del peccato; oppure si può intendere della bevanda sacramentale, consacrata dallo Spirito» (Super I Ad Corinthios XI – XVI reportatio , n. 734). Infatti appartiene allo Spirito se i sacramenti non si risolvono in puri atti umani ma trascendono, nella loro intenzione e nel loro effetto, le possibilità che un uomo può raggiungere.
A Pentecoste si rinnova il senso del ministero come docilità allo Spirito del Signore, e la consapevolezza che nella Chiesa tutto riesce se viene dalla virtù dello Spirito: la Parola e la sua predicazione, i sacramenti con i loro riti, le opere con i loro traguardi. Allo stesso modo si ravviva il senso della Chiesa come mistero, luogo e manifestazione dello Spirito Santo contro ogni rischio di fraintendimento, quasi che a definirla e a farla consistere siano le nostre attività per se stesse o siano i nostri puri criteri, mentre la Chiesa è il segno della riuscita del Signore che agisce con lo Spirito Santo. Urge riportarsi a questa genesi, quando sembri che la Chiesa venga concepita come realtà che riesce all’uomo.
Ma lo Spirito anima la Chiesa inabitando l’anima dei giusti. È una inabitazione senza strepito, silenziosa, che purifica e stabilisce l’amicizia, iniziando e guidando la storia più preziosa e più segreta, quella che si svolge anzitutto agli occhi del Padre: una storia non facilmente programmabile, ricca di sorprese, poiché non è lo Spirito che dev’essere obbediente all’anima, ma l’anima allo Spirito. Allora abbiamo l’adorazione nel cuore e l’obbedienza che coincide con la vita (cfr. ibidem, n. 718). Un santo è un uomo “spirituale” la cui esistenza si muove per l’istigazione e l’inclinazione dello Spirito, il quale ha le sue vie, che sono sempre le vie di Gesù Cristo, ma non nella forma che immediatamente potremmo immaginare. Lo Spirito fa nascere la preghiera, il modo fondamentale di porsi di fronte a Dio, e ne provoca gli accenti. Lo Spirito spinge non tanto all’apparenza quanto alla “latitanza”, poiché la vita che egli sostiene è la vita “interiore”, che ha sempre, se è sana e autentica, una buona dose di distacco, di indifferenza e di segreto.
San Bernardo descrive così l’opera dello Spirito: «Solo lo Spirito Santo ti spinge a camminare con sollecitudine insieme con il tuo Dio. Egli scruta le profondità dei nostri cuori, opera il discernimento dei pensieri e delle intenzioni e non tollera nell’abitacolo del cuore, che è suo possesso, neanche una minima pagliuzza, ma subito la brucia con il fuoco del suo sguardo penetrante. Egli ammonisce la memoria, le ispira pensieri santi, allontana la nostra pigrizia e il nostro torpore; fa da maestro al nostro intelletto e muove la volontà, aiuta la nostra infermità» (Sermo in die Pentecostes, II, 8; I, 5).
Ma non solo dei teologi santi e dei mistici hanno interpretato così lo Spirito Santo. Lo hanno interpretato anche dei poeti cristiani. Claudel nel suo Hymne de la Pentecôte lo invoca con questi accenti:
«O sole della luce di Dio con noi! O bellezza della luce di Dio concepita prima dell’aurora! Guarisci questo occhio mortale! Risuscita questo cuore addormentato. Vieni, Spirito divoratore! Vieni, o morte della morte! Vieni, ansia dell’amore, punta che distrugge la pigrizia. Vieni, giudizio e gusto, scienza del bene e del male, forza ingenua dei Martiri, vibrazione dell’intelligenza e della conoscenza saporosa. O Dio, io sento la mia anima folle in me che piange e che canta».
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