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Anniversario Superga. Padre Lombardi: amavo Grande Torino, tragedia per Italia

Posté par atempodiblog le 4 mai 2015

Anniversario Superga. Padre Lombardi: amavo Grande Torino, tragedia per Italia
di Radio Vaticana

Il 4 maggio del 1949, l’intera squadra di calcio del “Grande Torino” periva nella tragedia di Superga. L’aereo, che trasportava la compagine granata di ritorno da una partita amichevole in Portogallo, si schiantò ai piedi della Basilica della collina di Superga, vicino Torino. Il disastro causò clamore e dolore, non solo nel mondo sportivo, per la scomparsa di una squadra di “invincibili”, emblema di un’Italia che usciva faticosamente dalla Seconda Guerra Mondiale. Giancarlo La Vella ne ha parlato con il nostro direttore generale, padre Federico Lombardi, sostenitore granata sin da bambino:

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Immagine tratta da: Il napolista

R. - Io ero troppo piccolo per fare dei grandi ragionamenti su quell’evento. In realtà mi ricordo benissimo quel giorno e la notizia che arrivò. Io avevo sei o sette anni, ma tenevo già per il “Grande Torino” e, come gran parte dei ragazzini che abitavano a Torino in quegli anni, eravamo pieni di entusiasmo e orgogliosi di questa squadra che effettivamente rappresentava il vigore, l’impegno sportivo e anche la capacità di ottenere dei buoni risultati che gli sportivi sanno indicare quando sono dei grandi campioni anche ai giovani della loro epoca.

Quindi ricordo che questa notizia quel giorno piombò su di noi e su tutta la città come una nuvola nera, un momento di grandissima emozione e di grandissimo turbamento; la città rimase attonita e sconvolta. Noi guardavamo verso la collina di Superga esterrefatti, senza riuscire a renderci conto che poteva essere accaduta una cosa di questo genere.

Certamente fu una scossa molto grande e, come sempre, il dolore fu profondissimo per tutta la città, ma anche per l’Italia, che fu colpita da questa tragedia. Ma ricordo anche che, in tempi molto brevi, si manifestò una grande volontà di riprendere e di continuare a raccogliere un’eredità di natura sportiva, ma certamente dal valore anche umano, che avevamo ricevuto da questa squadra così ammirata giustamente da tutti.

Quindi una tragedia che, però, fu anche occasione di impegno morale, non solo sportivo, per continuare a raggiungere i risultati, a riprendere la vita del Paese, che si stava rialzando e ricostruendo dopo le gravi tragedie della guerra. Quindi una notizia terribile, una grande tragedia, un dolore profondissimo e sconvolgente, ma anche un’occasione per riaffermare la continuità di un impegno.

D. – Il grande Torino di Valentino Mazzola, forse caso unico di una squadra apprezzata non solo dai suoi sostenitori, ma da tutta Italia e forse da tutta Europa, anche se all’epoca non c’erano le coppe internazionali. Una squadra che, nonostante all’epoca si giocasse molto in difesa, invece aveva fatto dell’attacco la sua tattica di gioco …

R. – Percepivo questo valore di una squadra con cui ci si identificava molto profondamente, sia da parte dei ragazzi, dei giovani, ma anche della città e in un certo senso della stessa società italiana. Il tempo della ricostruzione, dopo la guerra, è stato un periodo in cui abbiamo potuto apprezzare moltissimo l’impegno puro, non ancora contaminato da esperienze negative di corruzione o di altro e quindi un impegno estremamente positivo, che poteva indicare orizzonti e ideali alla società che si rialzava dopo la tragedia della guerra.

D. – Un periodo quello in cui forse anche l’antagonismo con gli juventini era molto affievolito vista la grandezza di questa squadra; una Juventus che poi continua a vincere anche oggi e quindi il nome della città di Torino viene comunque tenuto alto …

R. – Sì, effettivamente c’è una grande tradizione sportiva dovuta a tutte e due le squadre con una sana rivalità, ma diciamo che a volte si manifesta in termini piuttosto intensi, ma mi auguro sempre rispettosi ed onesti.

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Argentina, candidato agli altari in giacca e cravatta

Posté par atempodiblog le 4 mai 2015

Argentina, candidato agli altari in giacca e cravatta
Parla il postulatore della causa Shaw, l’imprenditore argentino «ricco ma santo» citato dal Papa in una recente intervista
di Andrea Bonzo – Vatican Insider

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Potrebbe essere il primo beato al mondo «in giacca e cravatta». E se lo dice il Papa, c’è da crederci. «Sto portando avanti la causa di beatificazione di un ricco imprenditore argentino, Enrique Shaw che era ricco, ma santo», ha rivelato il pontefice in una recente intervista con l’emittente messicana Televisa. «Una persona può avere denaro», ha affermato Francesco, spiegando come la sua frequente condanna al «dio denaro» non vuole essere un’accusa ai ricchi in quanto tali. «Dio il denaro lo concede perché lo si amministri bene. E quest’uomo lo amministrava bene. Non con paternalismo, ma facendo crescere quelli che avevano bisogno del suo aiuto».

Le parole del Papa su Shaw, passate quasi inavvertite sui media europei, hanno avuto molta eco in Argentina. «Per noi è stata una grande allegria che il Papa lo abbia menzionato», conferma a Terre d’America il postulatore Juan Navarro Floria. «Conosceva perfettamente la situazione; è stato lui a chiedere a Roma di aprire la causa quando era ancora Arcivescovo di Buenos Aires», riferisce Navarro Floria, avvocato e docente di Diritto ecclesiastico. «Ha iniziato la causa qui come Arcivescovo e l’ha ricevuta a Roma, da Papa. È bello che la senta propria».

Enrique Shaw potrebbe essere il primo imprenditore al mondo a essere dichiarato beato. Ragioni ce ne sono. La biografia di questo argentino lo vede fortemente impegnato nella difesa dei diritti degli operai e nel difficile tentativo di coniugare impresa e valori cristiani. Una figura modernissima, commenta Navarro Floria. «Un laico, un padre di famiglia, dirigente della società civile impegnato nella chiesa del suo tempo. Insomma, un nostro contemporaneo, quando solitamente i santi appartengono ad altre epoche, anche dal punto di vista iconografico».

Shaw, rampollo di una famiglia altolocata di Buenos Aires, dopo una breve parentesi in marina («fu tra i primi ufficiali a dare la comunione ai soldati, quando la pratica era mal vista nell’esercito argentino» ricorda Navarro Floria), decise di dedicarsi agli affari al termine della seconda guerra mondiale. Nel 1952 fondò, insieme ad altri imprenditori, l’Associazione Cristiana dei Dirigenti di Impresa (Acde), ancora molto attiva e facente parte dell’Uniapac, l’Unione mondiale degli Imprenditori cattolici, il cui presidente attuale è proprio un argentino. Fu inoltre tra i fondatori dell’Università Cattolica argentina, presidente dell’Azione cattolica del suo paese e fondatore del Movimento familiare cristiano.

Ma la sua fede gli causò anche problemi. Nel 1955, durante la fase finale del primo governo di Perón, Shaw fu tra le persone imprigionate in seguito all’ondata di violenze che si scatenò in Argentina contro esponenti cattolici, religiosi e laici, e durante la quale vennero anche incendiate diverse chiese e la curia di Buenos Aires. «Fu un momento drammatico, perché nessuno poteva sapere cosa sarebbe successo», spiega Navarro Floria. Ma anche in quel caso Shaw diede dimostrazione di altruismo. «Raccogliendo il materiale per la causa di canonizzazione ci siamo imbattuti in testimonianze molto belle. Per esempio, la gente raccontava di come Shaw regalasse ai compagni di cella i materassi che la sua famiglia gli portava perché stesse più comodo. Lo stesso faceva con il cibo, si prendeva cura dei compagni di prigionia».

Shaw fu un lavoratore instancabile, che nell’azienda di cui fu amministratore delegato, le «Cristallerie Regolleau», ideò un – per l’epoca innovativo – fondo pensionistico e una mutua per garantire servizi medici, sussidi per malattia e prestiti per urgenze in casi di matrimoni, nascite o morti per i 3400 operai.

Un imprenditore che fu sempre coerente con i valori in cui credeva, anche quando si scontravano con le dure leggi del mercato, tema quest’ultimo particolarmente caro a papa Francesco. Un esempio fu quanto accadde nel 1961, quando l’azienda diretta da Shaw venne ceduta a capitali statunitensi; i soci d’oltremare decisero di licenziare 1200 persone. Shaw, già malato del tumore che l’avrebbe ucciso un anno dopo, a soli 41 anni, «si oppose – benché sapesse fosse la decisione economicamente più razionale – dicendo che prima avrebbero dovuto licenziare lui», spiega Navarro Floria. «Quindi ideò un piano che prevedeva il mantenimento di tutto il personale destinando alcuni operai ad altre mansioni fino a quando il momento di crisi non sarebbe stato alle spalle. In quell’occasione viaggiò addirittura negli Stati Uniti per affrontare gli azionisti e convincerli a non licenziare gli impiegati. Ha sempre privilegiato questo aspetto» assicura il Postulatore argentino.

Il profilo imprenditoriale di Shaw ha portato due storici spagnoli, Gustavo Villapalos e Enrique San Miguel, a paragonarlo, nel libro «Il Vangelo degli audaci», ad altri cattolici che si sono distinti nel XX secolo per il loro impegno sociale e politico, personaggi del calibro di Konrad Adenauer, Robert Kennedy o Aldo Moro.

Shaw imprenditore e Shaw studioso della dottrina sociale della Chiesa e della teologia francese. «Fu un precursore dello spirito del Concilio», sintetizza Navarro Floria. Le sue idee le espresse in congressi, conferenze, pubblicazioni e scritti. Un lascito monumentale. «Uno dei lavori più difficili della causa di canonizzazione è stato riunire tutti gli scritti di Shaw, che sono stati inviati a Roma nel 2013 e approvati dalla Congregazione per la Causa dei Santi nel gennaio del 2015. Per noi è stata una gioia che il Papa lo abbia citato – osserva Navarro Floria – anche perché è una causa che sente sua, l’ha aperta qui nel 2005, quando era arcivescovo di Buenos Aires e l’ha ricevuta a Roma da Papa».

Rimane da designare il relatore per la positio, a cui sta lavorando la postulatrice a Roma, Silvina Correale, puntualizza Navarro Floria. È il primo passo perché Shaw venga dichiarato venerabile. A quel punto bisognerà aspettare il miracolo. Segnalazioni di grazie ricevute ce ne sono, ammette il postulatore dando prova di cautela, «ma bisogna essere sicuri; qui siamo già in un campo che non dipende più dalla volontà umana…».

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Papa: Dante luce nella “selva oscura”

Posté par atempodiblog le 4 mai 2015

Papa: Dante luce nella “selva oscura”
di Avvenire

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Un “profeta di speranza” e un “annunciatore” della liberazione per ogni uomo e donna. È quanto Papa Francesco scrive di Dante Alighieri, nel giorno in cui in Italia si celebrano solennemente i 750 anni dalla nascita del sommo poeta. In un messaggio inviato al cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, Francesco ricorda l’ammirazione nutrita nei secoli dai Pontefici nei riguardi dell’Alighieri.

Dante Alighieri, ovvero il poeta della “possibilità di riscatto”, del “cambiamento profondo”, per il quale nessuna “natural burella” – nessuna umana debolezza – potrà risultare così impraticabile da impedire all’uomo che lo vuole di riuscire “a riveder le stelle”. C’è un’eco forte delle sue convinzioni nel ritratto che Francesco fa del celeberrimo autore della “Commedia”.

Il Papa della misericordia ravvisa nei versi immortali di Dante un aspetto potente di quel rinnovamento che nasce da un cuore che si apre a una dimensione più grande. “Ci invita ancora una volta – scrive nel suo messaggio – a ritrovare il senso perduto o offuscato del nostro percorso umano e a sperare di rivedere l’orizzonte luminoso in cui brilla in pienezza la dignità della persona umana”. Del resto, osserva, tutta la Commedia può essere letta “come un grande itinerario, anzi come un vero pellegrinaggio, sia personale e interiore, sia comunitario, ecclesiale, sociale e storico”.  Come un “paradigma di ogni autentico viaggio in cui l’umanità è chiamata a lasciare quella che Dante definisce”,  in una strofa del Purgatorio, “l’aiuola che ci fa tanto feroci”.

Il Messaggio del Papa è un compendio di quanto in passato i suoi predecessori abbiano detto, citato e attinto dal Vate fiorentino per conferire un tratto di bellezza a un aspetto del loro magistero e soprattutto per ammirare come la fede avesse potuto ispirare parole così intramontabili. Ad esempio Benedetto XVI, che per il sesto centenario della morte di Dante, proprio indicando il “ben poderoso slancio d’ispirazione” che “egli trasse dalla fede divina, esortò a considerare “l’importanza di una corretta e non riduttiva lettura dell’opera di Dante soprattutto nella formazione scolastica ed universitaria”.

O Paolo VI che 50 anni fa, chiudendo il Vaticano II impresse nella sua Lettera Apostolica Altissimi cantus quell’affermazione recisa: “Nostro è Dante! Nostro, vogliamo dire, della fede cattolica”, individuando  nella Commedia un fine “pratico e trasformante”, poiché – affermò – l’opera “non si propone solo di essere poeticamente bella e moralmente buona, ma in alto grado di cambiare radicalmente l’uomo e di portarlo dal disordine alla saggezza, dal peccato alla santità, dalla miseria alla felicità, dalla contemplazione terrificante dell’inferno a quella beatificante del paradiso”.

Anche San Giovanni Paolo II – rammenta il Papa – ha fatto “spesso” riferimento alle opere dell’Alighieri e nella prima Enciclica, Lumen fidei, scrive Francesco, “ho scelto anch’io di attingere a quell’immenso patrimonio di immagini, di simboli, di valori costituito dall’opera dantesca” quando per “descrivere la luce della fede, luce da riscoprire e recuperare affinché illumini tutta l’esistenza umana, mi sono basato proprio sulle suggestive parole del Poeta, che la rappresenta come «favilla, / che si dilata in fiamma poi vivace / e come stella in cielo in me scintilla”.

In definitiva, conclude Papa Francesco, “onorando Dante Alighieri come già ci invitava a fare Paolo VI, noi – è la considerazione di Francesco – potremo arricchirci della sua esperienza per attraversare le tante selve oscure ancora disseminate nella nostra terra e compiere felicemente il nostro pellegrinaggio nella storia, per giungere alla méta sognata e desiderata da ogni uomo: ‘L’amor che move il sole e l’altre stelle’”

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Il Papa a Ostia: visita alla parrocchia Regina Pacis

Posté par atempodiblog le 4 mai 2015

“Fede non è ipocrisia”. Così il Papa alla Regina Pacis di Ostia
Il Papa a Ostia: visita alla parrocchia “Regina Pacis”. Testo integrale dell’omelia

di Radio Vaticana

Il Papa a Ostia: visita alla parrocchia Regina Pacis dans Commenti al Vangelo 1z6dvlf

Una parola che Gesù ripete spesso, soprattutto durante l’Ultima Cena, è: “Rimanete in me”. Non staccatevi da me, rimanete in me. E proprio la vita cristiana è questo rimanere in Gesù. Questa è la vita cristiana: rimanere in Gesù. E Gesù, per spiegarci bene cosa vuol dire con questo, usa questa bella figura della vite: “Io sono la vite vera, voi i tralci”. E ogni tralcio che non è unito alla vite finisce per morire, non dà frutto; e poi è buttato fuori, per fare il fuoco. Servono tanto per questo, per fare il fuoco – sono molto, molto utili – ma non per dare frutto. Invece i tralci che sono uniti alla vite, ricevono dalla vite il succo di vita e così si sviluppano, crescono e danno i frutti. Semplice, semplice l’immagine. Ma rimanere in Gesù significa essere unito a Lui per ricevere la vita da Lui, l’amore da Lui, lo Spirito Santo da Lui.

E’ vero, tutti noi siamo peccatori, ma se noi rimaniamo in Gesù, come i tralci con la vite, il Signore viene, ci pota un po’, perché noi possiamo dare più frutto. Lui sempre ha cura di noi. Ma se noi ci stacchiamo da lì, non rimaniamo nel Signore: siamo cristiani a parole soltanto, ma non di vita; siamo cristiani, ma morti, perché non diamo frutto, come i tralci staccati dalla vite. Rimanere in Gesù vuol dire avere la voglia di ricevere la vita da Lui, anche il perdono, anche la potatura, ma riceverla da Lui. Rimanere in Gesù significa: cercare Gesù; pregare; la preghiera. Rimanere in Gesù significa accostarsi ai sacramenti: l’Eucaristia; la riconciliazione. Rimanere in Gesù – e questo è il più difficile di tutti – significa fare quello che ha fatto Gesù, avere lo stesso atteggiamento di Gesù.

Ma quando noi spelliamo gli altri per esempio, o quando noi chiacchieriamo, non rimaniamo in Gesù: Gesù mai lo ha fatto questo. Quando noi siamo bugiardi, non rimaniamo in Gesù: mai lo ha fatto. Quando noi truffiamo gli altri con questi affari sporchi che sono alla mano di tutti, siamo tralci morti, non rimaniamo in Gesù. Rimanere in Gesù è fare lo stesso che faceva Lui: fare il bene, aiutare gli altri, pregare il Padre, curare gli ammalati, aiutare i poveri, avere la gioia dello Spirito Santo.

Una bella domanda per noi cristiani è questa: “Io rimango in Gesù o sono lontano da Gesù? Sono unito alla vite che mi dà vita o sono un tralcio morto, che è incapace di dare frutto, dare testimonianza?”

E, anche, ci sono altri tralci, di cui Gesù non parla qui, ma ne parla da un’altra parte: quelli che si fanno vedere come discepoli di Gesù, ma fanno il contrario di un discepolo di Gesù, e sono i tralci ipocriti. Forse vanno tutte le domeniche a Messa, forse fanno faccia di immaginetta, tutte pie, eh, ma poi vivono come se fossero pagani. E a questi Gesù, nel Vangelo, li chiama ipocriti.

Gesù è buono, ci invita a rimanere in Lui. Lui ci dà la forza e se noi scivoliamo in peccati – ma tutti siamo peccatori – Lui ci perdona, perché Lui è misericordioso. Ma quello che Lui vuole sono queste due cose: che noi rimaniamo in Lui e che noi non siamo ipocriti. E con questo una vita cristiana va avanti.

E cosa ci dà il Signore se rimaniamo in Lui? Lo abbiamo sentito: “Se rimanete in me, e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto”. Ma, una forza nella preghiera “Chiedete quello che volete”, cioè la preghiera potente che Gesù fa quello che chiediamo. Ma se la nostra preghiera è debole – come “Eh sì è in Gesù, ma non è in Gesù…” – la preghiera non dà i suoi frutti, perché il tralcio non è unito alla vite. Ma se il tralcio è unito alla vite, cioè “se voi rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete, vi sarà fatto”. E questa è la preghiera onnipotente. Da dove viene questa onnipotenza della preghiera? Dal rimanere in Gesù; dall’essere unito a Gesù, come il tralcio alla vite. Che il Signore ci dia questa grazia.

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