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Armeni, il massacro del passato che Ankara non vuole affrontare

Posté par atempodiblog le 15 avril 2015

La storia
Armeni, il massacro del passato che Ankara non vuole affrontare
Un genocidio di cui gli attuali governanti e i turchi di oggi non hanno alcuna colpa. Ma negandolo si comportano come se fossero colpevoli
di Antonio Ferrari – Corriere della Sera

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Spesso basta un accenno per provocare la reazione della Turchia. Reazione quasi sempre scomposta, perché Ankara si rifiuta, ostinatamente, di riconoscere che nel suo lontano passato (un secolo fa) c’è una macchia indelebile, che si chiama «genocidio del popolo armeno». Genocidio di cui gli attuali governanti e i turchi di oggi non hanno alcuna colpa, ma negandolo si comportano come se fossero colpevoli. Infatti processano scrittori, giornalisti, intellettuali: insomma tutti coloro che non si sottopongono alla censura delle istituzioni.

Che vi sia stato un «genocidio» è fuor di dubbio. Si può definire altrimenti lo sterminio di quasi un milione e mezzo di armeni, nel 1915? Allora la Turchia, che nella Prima guerra mondiale era alleata della Germania, e ormai consapevole della definitiva disintegrazione dell’Impero Ottomano, decise una ruvida operazione di pulizia etnica, lanciando una feroce campagna. Con un preciso obiettivo: eliminare in maniera radicale quell’indisponente minoranza cristiana (una delle più antiche), che osava contrastare il potere centrale del gigante musulmano. Un’operazione dettata da mostruoso cinismo. Le deportazioni cominciarono proprio come sarebbe accaduto, pochi decenni dopo, per gli ebrei. Lo stesso Adolf Hitler, nel 1939, si riferì allo sterminio degli armeni come ad un fatto «di cui ormai nessuno parla più». Si salvarono soltanto coloro che riuscirono a fuggire dalle città e dalle campagne più esposte, che cercarono di nascondersi, o che furono protetti da qualche coraggioso «Giusto» (ve ne erano tantissimi anche in Turchia), pronto ad aiutare le vittime mettendo in pericolo la propria vita. Nella dolce Aleppo, la città siriana che ora è semidistrutta dalla terribile guerra civile, c’è un albergo (chissà se le sue mura sono ancora in piedi) che si chiama «Baron» e che ospitò clandestinamente centinaia di armeni, distribuendoli poi nelle case di coloro che rifiutavano il diktat del potere centrale.

Fino a qualche anno fa, in Turchia, era un gravissimo reato parlare, a qualsiasi titolo, del genocidio armeno. Bastava una dichiarazione (il caso di Orhan Pamuk), o un romanzo (il caso di Elif Shafak) per venir denunciato e doverne rispondere, in tribunale, come un qualsiasi criminale. Adesso che tra Turchia e Armenia vi è una certa normalizzazione dei rapporti, la tensione si è stemperata. Complici le passate qualificazioni per il mondiale di calcio, quando le due nazionali si sono incontrate, e i rispettivi capi di Stato si sono scambiati le visite stringendosi la mano. Numerosi studiosi turchi dicono d’essere pronti a discutere di quella macchia di cent’anni fa (l’anniversario è il prossimo 24 aprile). Molti ormai accettano l’idea che vi fu un «massacro sistematico» del popolo armeno, anche se alcuni sostengono che la popolazione armena, in territorio turco, non arrivava al milione di persone. Qualcuno si spinge fino ad accettare quella parola, «genocidio». Certo, per le sensibilità di Ankara, è stata come una frustata il duro e autorevole richiamo di papa Francesco, che ha parlato di quello armeno come del primo genocidio del 20esimo secolo, seguito da quello degli ebrei e, ora, quello dei cristiani massacrati dagli integralisti islamici assassini.

Numerosi storici e osservatori internazionali si interrogano, da decenni, sulle ragioni di tanta ostinazione. Ambasciatori e consiglieri di una delle più efficienti diplomazie del mondo, quella turca appunto, si fanno un punto d’onore di spiegare e rintuzzare le critiche che si affollano su Ankara. In discussione non c’è soltanto il problema linguistico o terminologico («genocidio» o «massacro sistematico»?), quanto un’accusa che, all’inizio del secolo scorso, fu rivolta agli armeni: quella di essere stati al fianco del più grande nemico della Turchia, la Russia. Che vi siano state compagnie di soldati inquadrate nelle Forze armate di Mosca è indubbio. Ma tutto ciò non giustifica ovviamente lo sterminio di un popolo. Anche oggi che l’Armenia è uno Stato indipendente, e che si pone come un ponte tra l’Eurasia e la Ue, la Russia è sempre al centro degli interessi economici di Erevan, come ha spiegato il presidente armeno ieri al Corriere.

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Poco tempo per evitare il peggio

Posté par atempodiblog le 15 avril 2015

Cosa fare in Libia
Poco tempo per evitare il peggio
Il cordoglio e la pietà per quanti vengono  inghiottiti dal  cimitero che chiamiamo Mediterraneo si uniscono ormai all’ansia della fretta e alla paura dell’impotenza
di Franco Venturini – Corriere della Sera

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Il cordoglio e la pietà per quanti continuano ad essere inghiottiti in quell’immenso cimitero che chiamiamo Mediterraneo si uniscono ormai all’ansia della fretta e alla paura dell’impotenza. Sono «soltanto» dieci i morti di ieri. Ma negli ultimi quattro giorni i migranti sono stati quasi settemila. E siamo soltanto in aprile, all’alba della buona stagione. Chi dedica ai flussi migratori dalla Libia una attenzione professionale ritiene che l’Italia abbia due mesi, tre al massimo, prima che sulle nostre coste meridionali si abbatta uno tsunami di diseredati: 250.000 secondo gli ottimisti, 500.000 per chi crede che a mettersi in moto sarà un «bacino» più ampio costantemente alimentato dal moltiplicarsi delle guerre, dal Corno d’Africa allo Yemen, dalla Siria più che mai in fiamme all’Iraq dove si tenta di contenere l’Isis. Per avere un termine di paragone, nel 2014 la cifra corrispondente fu di 170.000 per tutto l’anno.

Inevitabilmente, se le cose andranno così, molti moriranno nel tentativo di raggiungere l’Europa toccando le rive italiane. A loro andrà ancora una volta il nostro dolore, mentre Guardia costiera, Marina militare e tanti altri si dedicheranno a salvare i più fortunati. Ma non ci si può più fermare a questo. L’arrivo di una massa di immigrati senza precedenti tenderà a destabilizzare la nostra politica interna favorendo i partiti del tanto peggio tanto meglio, assorbirà risorse economiche che non ci sono, farà piovere sull’Europa sacrosante indignazioni, ma l’Europa poco farà per darci una mano, inaridita com’è dalle competenze nazionali e dalla scarsità di mezzi e di volontà politiche . L’ opinione pubblica italiana non deve farsi travolgere. Deve invece pensare al costo delle guerre e delle miserie, anche di quelle lontane. Ma soprattutto, se è vero che abbiamo due o tre mesi di tempo, dobbiamo identificare nella Libia il primo interesse nazionale italiano e tentare, con i nostri alleati, di battere sul tempo i negrieri del XXI secolo. Si dice che siano ventimila i miliziani libici che gestiscono i campi di coloro che attendono il barcone di turno. Gestiscono, cioè torturano, violentano, estorcono denaro dalle famiglie d’origine e poi consegnano i disgraziati agli scafisti. Non sarebbe impossibile colpire la loro logistica, ma chi ci coprirebbe le spalle? Quale governo libico legittimerebbe la nostra azione? Come potremmo evitare di unire tante altre bande e tante altre milizie contro lo straniero, per di più ex colonizzatore?

Il negoziato e la politica anche per questo tengono ancora banco. Perché in Libia, se si vuole evitare un disastro ancora più grande e indirizzare tutti contro l’espansione territoriale dell’Isis, bisogna far nascere un unico interlocutore. E bisogna farlo imponendo un limite di tempo alle rivalità, alle vendette, alle ambizioni smodate delle fazioni che hanno sin qui messo i bastoni tra le ruote al rappresentante dell’Onu Bernardino León. Ad Algeri è cominciato ieri il secondo round di incontri tra parlamentari di parti opposte. Domani si tornerà anche al più importante tavolo di Rabat, e León spera di strappare un accordo sulla sua complessa proposta istituzionale: un governo di unità con a capo un presidente, e al suo fianco un consiglio presidenziale composto da tecnici indipendenti; un Parlamento basato su quello odierno di Tobruk ma arricchito da una fetta di quello di Tripoli; un Consiglio di Stato e una assemblea costituzionale. Ottimo per trovare un posto a tutti, ma potrebbe funzionare? Certamente no se l’ex generale Haftar continuerà a fare la guerra con l’appoggio di Egitto ed Emirati, trovandosi di fronte gli islamisti foraggiati dal Qatar e dalla Turchia. Certamente no se si accentuerà la tendenza alla disgregazione politica e militare presente su entrambi i fronti, a tutto vantaggio dell’Isis.

L’onda anomala di umanità straziata e straziante è ormai alle porte, lo spazio ancora a disposizione della diplomazia è minimo. E anche l’uso della forza non può essere oggetto di facile retorica, se si tiene in conto che una operazione di peace keeping in Libia, con l’accordo dell’Onu e dopo un eventuale successo negoziale, richiederebbe da sessantamila a settantamila uomini pronti a combattere e a morire, non soltanto ad istruire o ad assistere. Dalla Libia, per un verso o per l’altro, è in arrivo una sfida alla tenuta del nostro fronte interno. Quello stesso fronte che subisce involuzioni deleterie in altri Paesi mediterranei, a cominciare dalla Francia con il riciclato Front National e dalla Grecia con la neonazista Alba Dorata.

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Udienza generale. Teoria gender è passo indietro. Ampia sintesi

Posté par atempodiblog le 15 avril 2015

Udienza generale. Teoria gender è passo indietro. Ampia sintesi
Il Papa ha dedicato la catechesi odierna durante l’udienza generale in Piazza San Pietro “a un aspetto centrale del tema della famiglia: quello del grande dono che Dio ha fatto all’umanità con la creazione dell’uomo e della donna e con il sacramento del matrimonio. Questa catechesi e la prossima riguardano la differenza e la complementarità tra l’uomo e la donna, che stanno al vertice della creazione divina”. Le due che seguiranno, saranno sul Matrimonio.
di Radio Vaticana

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Differenza tra uomo e donna è per la comunione
Papa Francesco ha iniziato con un breve commento al primo racconto della creazione, nel Libro della Genesi. “Qui leggiamo che Dio, dopo aver creato l’universo e tutti gli esseri viventi, creò il capolavoro, ossia l’essere umano, che fece a propria immagine: «a immagine di Dio lo creò: maschio e femmina li creò» (Gen 1,27). Come tutti sappiamo – ha detto – la differenza sessuale è presente in tante forme di vita, nella lunga scala dei viventi. Ma solo nell’uomo e nella donna essa porta in sé l’immagine e la somiglianza di Dio: il testo biblico lo ripete per ben tre volte in due versetti (26-27): uomo e donna sono immagine e somiglianza di Dio. Questo ci dice che non solo l’uomo preso a sé è immagine di Dio, non solo la donna presa a sé è immagine di Dio, ma anche l’uomo e la donna, come coppia, sono immagine di Dio. La differenza tra uomo e donna non è per la contrapposizione, o la subordinazione, ma per la comunione e la generazione, sempre ad immagine e somiglianza di Dio”.

L’essere umano ha bisogno della reciprocità tra uomo e donna
“L’esperienza ce lo insegna: per conoscersi bene e crescere armonicamente l’essere umano ha bisogno della reciprocità tra uomo e donna. Quando ciò non avviene, se ne vedono le conseguenze. Siamo fatti per ascoltarci e aiutarci a vicenda. Possiamo dire che senza l’arricchimento reciproco in questa relazione – nel pensiero e nell’azione, negli affetti e nel lavoro, anche nella fede – i due non possono nemmeno capire fino in fondo che cosa significa essere uomo e donna”.

Teoria del gender, espressione di frustrazione: è passo indietro
“La cultura moderna e contemporanea ha aperto nuovi spazi, nuove libertà e nuove profondità per l’arricchimento della comprensione di questa differenza. Ma ha introdotto anche molti dubbi e molto scetticismo. Per esempio, io mi domando, se la cosiddetta teoria del gender non sia anche espressione di una frustrazione e di una rassegnazione, che mira a cancellare la differenza sessuale perché non sa più confrontarsi con essa. Eh, rischiamo di fare un passo indietro. La rimozione della differenza, infatti, è il problema, non la soluzione. Per risolvere i loro problemi di relazione, l’uomo e la donna devono invece parlarsi di più, ascoltarsi di più, conoscersi di più, volersi bene di più. Devono trattarsi con rispetto e cooperare con amicizia. Con queste basi umane, sostenute dalla grazia di Dio, è possibile progettare l’unione matrimoniale e familiare per tutta la vita. Il legame matrimoniale e familiare è una cosa seria, e lo è per tutti, non solo per i credenti. Vorrei esortare gli intellettuali a non disertare questo tema, come se fosse diventato secondario per l’impegno a favore di una società più libera e più giusta”.

La voce della donna abbia peso reale nella società e nella Chiesa
“Dio ha affidato la terra all’alleanza dell’uomo e della donna: il suo fallimento inaridisce il mondo degli affetti e oscura il cielo della speranza. I segnali sono già preoccupanti, e li vediamo. Vorrei indicare, fra i molti, due punti che io credo debbono impegnarci con più urgenza. Il primo. E’ indubbio che dobbiamo fare molto di più in favore della donna, se vogliamo ridare più forza alla reciprocità fra uomini e donne. E’ necessario, infatti, che la donna non solo sia più ascoltata, ma che la sua voce abbia un peso reale, un’autorevolezza riconosciuta, nella società e nella Chiesa. Il modo stesso con cui Gesù ha considerato la donna, – ma diciamo che il Vangelo è così – in un contesto meno favorevole del nostro, perché in quei tempi la donna era proprio al secondo posto , no? E Gesù l’ha considerata in una maniera che dà una luce potente, che illumina una strada che porta lontano, della quale abbiamo percorso soltanto un pezzetto. Ancora non abbiamo capito in profondità quali sono le cose che ci può dare il genio femminile, le cose che la donna può dare alla società e anche a noi, che sa vedere le cose con altri occhi che completano il pensiero degli uomini.  E’ una strada da percorrere con più creatività e audacia”.

Crisi di fiducia in Dio genera crisi alleanza uomo-donna
“Una seconda riflessione riguarda il tema dell’uomo e della donna creati a immagine di Dio. Mi chiedo se la crisi di fiducia collettiva in Dio, che ci fa tanto male, ci fa ammalare di rassegnazione all’incredulità e al cinismo, non sia anche connessa alla crisi dell’alleanza tra uomo e donna. In effetti il racconto biblico, con il grande affresco simbolico sul paradiso terrestre e il peccato originale, ci dice proprio che la comunione con Dio si riflette nella comunione della coppia umana e la perdita della fiducia nel Padre celeste genera divisione e conflitto tra uomo e donna. Da qui viene la grande responsabilità della Chiesa, di tutti i credenti, e anzitutto delle famiglie credenti, per riscoprire la bellezza del disegno creatore che inscrive l’immagine di Dio anche nell’alleanza tra l’uomo e la donna. La terra si riempie di armonia e di fiducia quando l’alleanza tra l’uomo e la donna è vissuta nel bene. E se l’uomo e la donna la cercano insieme tra loro e con Dio, senza dubbio la trovano. Gesù ci incoraggia esplicitamente alla testimonianza di questa bellezza che è l’immagine di Dio”.

Dare a uomo e donna stessa dignità e uguaglianza
Infine, salutando i fedeli di lingua araba, ‎il Papa ha detto: “Dio creò l’uomo, maschio e femmina, a ‎sua ‎immagine, dando ad entrambi la stessa dignità e uguaglianza: ‎lavoriamo, nella ‎Chiesa e nella società, affinché tale uguaglianza ‎venga rispettata, rifiutando ogni ‎forma di‏ ‏sopruso o di ‎ingiustizia, in particolare contro le donne”.

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Perché alcuni peccati li assolve solo il Papa?

Posté par atempodiblog le 15 avril 2015

Perché alcuni peccati li assolve solo il Papa?
In occasione del Giubileo Papa Francesco invierà dei “missionari della carità” con l’autorità di rimettere i peccati riservati alla Sede apostolica
di Chiara Santomiero – Aleteia
Tratto da: Una casa sulla Roccia

Perché alcuni peccati li assolve solo il Papa? dans Fede, morale e teologia 90204g

Il Codice di diritto canonico prevede che ci siano dei peccati che i sacerdoti normali non possono assolvere e quindi bisogna ricorrere a qualcuno più in alto, cioè ad un penitenziere maggiore.

Avviene qualcosa di simile nella cura delle malattie: quando un medico non è abbastanza esperto, si ricorre ad uno specialista. E’ il caso dell’aborto, la cui assoluzione è riservata al vescovo o a un confessore da lui delegato. Per farsi assolvere dai peccati riservati al vescovo si ricorre al canonico penitenziere che si trova in ogni Chiesa cattedrale. Per un antico privilegio mai revocato possono assolvere dall’aborto anche i sacerdoti religiosi degli ordini mendicanti come domenicani, francescani, agostiniani e carmelitani.

I peccati che non possono essere assolti nemmeno dal vescovo sono cinque e per essi si deve ricorrere direttamente al Papa. Nella bolla di indizione del Giubileo straordinario della Misericordia “Misericordiae vultus” papa Francesco ha disposto che alcuni “Missionari della Misericordia” da lui inviati in tutto il mondo in occasione della Quaresima avranno l’autorità di rimettere anche questi peccati.

Si parla di peccati riservati alla Santa sede secondo la dizione del Codice di diritto canonico del 1917, valida ancora oggi. Sono:

– la profanazione dell’Eucarestia. Il Can 1367 prevede che “Chi getta via le specie consacrate oppure le sottrae o le ritiene a scopo sacrilego, incorre nella scomunica latae sententiae riservata alla Sede Apostolica”. La formula “latae sententiae” significa che non c’è bisogno di una dichiarazione esplicita per incorrere in questa pena severa, ma basta commettere l’atto per cui la pena è prevista.

– la violenza fisica contro il Pontefice: “Chi usa violenza fisica contro il Romano Pontefice, incorre nella scomunica latae sententiaeriservata alla Sede Apostolica” (Can. 1370, § 1).

l’assoluzione del complice nel peccato contro il sesto comandamento, cioè chi compie atti sessuali con un sacerdote non può essere assolto da lui. Se il sacerdote lo facesse l’assoluzione non è valida, eccetto in punto di morte, come previsto dal Can 977, e quindi il sacerdote incorre in una scomunica riservata alla Santa Sede, come previsto dal Can 1378, par.1.

– l’ordinazione episcopale da parte di un vescovo senza mandato del Papa. “Il Vescovo che conferisca la consacrazione episcopale senza il mandato pontificio, e, similmente, chi riceve la consacrazione dalle sue mani, incorrono nella scomunica latae sententiae riservata alla Sede Apostolica” (Can. 1382).

– la violazione del sigillo sacramentale (Can. 1388, par.1), cioè quando un sacerdote rivela i contenuti della confessione. Il sigillo o segreto sacramentale è inviolabile, e pertanto non è assolutamente lecito al confessore tradire anche solo in parte il penitente con parole o in qualunque altro modo e per qualsiasi causa. All’obbligo di osservare il segreto sono tenuti anche l’interprete per la confessione, se c’è, e tutti gli altri ai quali in qualunque modo sia giunta notizia dei peccati dalla confessione (Can. 983).

In punto di morte chi si confessa, anche se lo fa presso un sacerdote sospeso a divinis, ottiene sempre una assoluzione valida.

Con la pubblicazione nel 2010 delle nuove Norme sui “gravioribus delictis” sono state introdotte altre fattispecie di peccato riservate alla Santa Sede, tra cui l’attentata ordinazione delle donne, e sono state precisate norme riguardo ai primi cinque peccati. Più specificamente è stata inseritia la registrazione e divulgazione compiute maliziosamente delle confessioni sacramentali, sulle quali già era stato emesso un decreto di condanna nel 1988.

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Fedor Dostoevskij e la persecuzione dei cristiani in Medio Oriente

Posté par atempodiblog le 15 avril 2015

Fedor Dostoevskij e la persecuzione dei cristiani in Medio Oriente
di Francesco Mario Agnoli – Libertà e Persona

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Martedì 24 marzo un redattore del quotidiano “La Voce di Romagna” si è andato a leggere il “Diario di uno scrittore” di Fedor Dostoevskij e ne ha tratto un breve articolo così presentato: “Dostoevskij aveva previsto tutto 140 anni fa: I cristiani vengono massacrati per opera di un’odra musulmana selvaggia e l’Europa è indifferente”. In realtà più che di una previsione si tratta di una constatazione. Solo che la Storia a volte si ripete.

Siamo nell’estate del 1876 e l’Europa e la Russia sono, come oggi, alle prese con la “questione d’Oriente”. Una questione che 140 anni fa era incentrata sulle convulsioni preagoniche dell’Impero turco e i cristiani perseguitati e massacrati non erano ancora quelli armeni (non ci mancava tanto), o di oggi, ma quelli della Bosnia, dell’Erzegovina e, soprattutto, della Bulgaria (a difesa dei quali la Russia farà, di lì a un anno, guerra alla Turchia). L’ortodosso, slavofilo Dostoevskij si indigna e scrive: nel “Diario” (che in quegli anni veniva regolarmente pubblicato ogn i due mesi): “Tutta l’Europa, o per lo meno, i suoi rappresentanti più eminenti, quegli stessi uomini e quelle stesse nazioni che hanno gridato contro la schiavitù, hanno distrutto il commercio dei negrieri, distrutto in casa loro il dispotismo, proclamato i diritti dell’uomo, creata la scienza e sbalordito il mondo con la sua forza, che hanno animato e celebrato l’anima umana con l’arte e i suoi ideali, acceso l’entusiasmo e la fede nel cuore degli uomini, promettendo loro in un prossimo futuro giustizia e verità; a un tratto questi stessi popoli e nazioni, tutti (quasi tutti), in un dato momento hanno voltate le spalle a milioni di esseri infelici, cristiani, uomini, loro fratelli, morenti, insultati, e aspettano con impazienza, e sperano l’istante in cui essi saranno schiacciati, come serpi, come cimici, e ammutoliranno finalmente le loro disperate grida di aiuto, che ora irritano e agitano l’Europa. Perché proprio serpi e cimici li ritengono, anzi peggio: decine, centinaia di migliaia di cristiani vengono massacrati come si elimina una rogna perniciosa, vengono estirpati dalla faccia della terra con tutte le radici. Sotto gli occhi dei fratelli morenti le sorelle vengono violentate, sotto gli occhio delle madri i bambini lattanti vengono scagliati in aria e ripresi a volo con le baionette; i villaggi sono distrutti, le chiese ridotte in macerie, tutto spietatamente sterminato, e ciò per opera di un’orda musulmana selvaggia, infame, maledetta, avversaria della civiltà”.

Sembra il quadro dell’Iraq e, ancor più, della Siria di oggi, con i cristiani perseguitati e uccisi dall’orda musulmana dell’IS (“autentico islam” lo ha definito il consulente della Casa Bianca Edward Luttwak ) e della Jihad. E anche oggi, come allora, non si tratta “dell’opera di una schiera di briganti, raccoltisi casualmente durante una rivolta o il disordine di una guerra (…) I briganti agiscono per ordine ricevuto, per disposizione dei ministri e dei dirigenti dello Stato, dello stesso sultano”. Magari non sarà proprio di un’armata al dichiarato servizio di un sultano o di un presidente della Repubblica, ma certamente, oggi come allora, nemmeno di briganti o altri disperati riuniti dal caso o da qualche sventura. In centoquarant’anni le armi della diplomazia si sono affinate, l’ipocrisia è aumentata e divenuta di rigore per chi non vuole finire nell’elenco degli “Stati canaglia”. Di conseguenza, difficilmente uno Stato, un governo sono disposti ad arruolare ufficialmente i briganti sotto le proprie insegne, a dare apertamente l’ordine delle stragi. E’ più che sufficiente fornire un “progetto”, i mezzi, le armi, l’addestramento per attuarlo, i “santuari”, dove riparare e riorganizzarsi in caso di bisogno. E non sono pochi gli Stati del Vicino Oriente sui quali grava il serio sospetto di avere contribuito, in un momento o nell’altro, in un modo o nell’altro alla nascita o alla crescita dell’Is.

All’epoca di Dostoevskij l’Europa si mostrò indifferente alla sorte dei cristiani ortodossi della Bosnia, dell’Erzegovina e della Bulgaria, tutti sotto dominio turco, ma alla fine consentì, sia pure ponendo condizioni (fra queste non toccare Costantinopoli,, mano libera all’Austria su Bosnia e Erzegovina), di intervenire alla Russia, che, scottata dalla guerra di Crimea, non osava farlo senza il placet europeo. Oggi l’Occidente (l’Europa al di qua e al di là dell’Atlantico, come alcuni amano dire) fa di peggio. Dopo avere finanziato e organizzato i ribelli anti-Assad ed essere stato sul punto di scendere in campo al loro fianco (intervento bloccato all’ultimo momento dall’appello del Papa, dallo sdegno dell’opinione pubblica mondiale, e, soprattutto, dalla Russia di Putin), si appresta a mettere in campo una nuova orda musulmana, che per i cristiani di Siria non sarà migliore di quella che già tanti di loro ha costretto all’esilio e tante stragi e distruzioni ha causato.

La rivista Al-Monitor riferisce che gli Usa si apprestano ad inviare in Turchia 400 esperti militari per addestrare in una base militare turca, situata nella città di Kirsehir, nell’Anatolia centrale (e in altre minori in Arabia Saudita e Qatar), nell’arco di tre anni 15.000 guerriglieri, definiti “moderati” (evidentemente sotto l’aspetto religioso in contrapposizione a “fondamentalisti”), precisando che i primi 2.000, da preparare in tempi brevi, saranno soprattutto turkmeni, provenienti dalle zone di Damasco e Aleppo.    Il vescovo Georges Abou Khazen, vicario apostolico di Aleppo per i cattolici di rito latino, in una recente intervista a Radio Vaticana, ne ha tratto le debite conclusione, dicendo che la guerra proseguirà finché potenze straniere la alimenteranno, e ha aggiunto: “Statunitensi e turchi hanno appena dichiarato di avere un piano di sostegno e addestramento dei gruppi ribelli per i prossimi tre anni. Quindi hanno già messo in programma che la guerra durerà altri tre anni, e la gente qui continuerà a soffrire e a morire per altri tre anni”. Il vescovo e tutti i cristiani di Siria sanno benissimo che i cosiddetti “moderati”, oltre ad avere una invincibile propensione a passare con i fondamentalisti, non sono molto meglio nel rapporto con i cristiani.

Dostoevskij è scomparso da tempo, ma forse si può ancora sperare nella Russia di Putin.

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Quando Ungaretti credette

Posté par atempodiblog le 15 avril 2015

Quando Ungaretti credette dans Articoli di Giornali e News Giuseppe_Ungaretti_basco-1

Pasqua 1928: Giuseppe Ungaretti – il grande poeta da tutti conosciuto per le sue poesie scritte al fronte durante la prima guerra mondiale-, dopo un periodo trascorso a Subiaco, approda “definitivamente” alla fede cattolica. Suggella la sua conversione con una poesia, La pietà, che inizia con un’ ammissione, “Sono un uomo ferito”,

e continua con versi di questo tenore: “Non ne posso più di stare murato/nel desiderio senza amore/…Fulmina le mie povere emozioni/liberami dall’inquietudine. Sono stanco di urlare senza voce…”.

La conversione di Ungaretti non giunge all’improvviso. Da giovane, come quasi tutti gli uomini di cultura italiani, si innamora del socialismo. Sono gli anni in cui la religione è sostituita dalla politica. La politica è vista come la strada verso la salvezza; è l’azione vera; è la via e la vita. Lo pensano Ungaretti, Mussolini, Battisti, Marinetti e tanti altri.

Pagheremo questa illusione con la prima guerra mondiale e con i suoi figli: comunismo, nazionalsocialismo e fascismo. Cioè con le religione atee della politica. Con l’uomo faber salutis suae; con il sogno di edificare il paradiso in terra. Sogno che genererà l’inferno dei gulag comunisti, dei lager nazisti e la seconda guerra mondiale.

Ungaretti è pienamente figlio di questo tempo. Uno dei tanti socialisti o nazionalisti o nazional-socialisti ante litteram che si gettano con entusiasmo nella prima guerra mondiale, in quell’inutile carneficina che inaugurerà la graduale autodistruzione dell’Europa. Questa guerra, pensa Ungaretti, porrà fine a tutte le guerre. Incendierà il mondo vecchio, per creare il mondo nuovo.

Ma non esiste solo l’utopia; ci sono anche i fatti. Al fronte, sulle montagne del Carso, sull’Isonzo, Ungaretti depone l’ideologia, perché tocca con mano la realtà: l’odio, la morte, la distruzione, la carne dilaniata dei compagni uccisi; ma anche la speranza, l’attaccamento alla vita, il rapporto di solidarietà tra i commilitoni, e il senso di Dio.

Qui, infatti, nel dolore e nella durezza di ogni giorno, Dio riaffiora. Nasce così una poesia poco studiata, benché contenuta nella celebre raccolta “L’Allegria”. E’ del 1916, e si intitola Dannazione. Sono pochi, bellissimi versi: “Chiuso tra cose mortali/ (anche il cielo stellato finirà)/ perché bramo Dio?”.

Il sentimento religioso è già tutto qui: ogni cosa muore, persino “i cieli, passeranno”; eppure nell’uomo, e solo in lui, vi è il desiderio di Dio. Un desiderio che non può rimanere “murato”, e che non può neppure essere saziato da cose, ideologie, illusioni mortali.

L’uomo desidera nulla di meno di Dio, del Bene, della Verità. Desidera nulla di meno dell’Amore. E questo desiderio, potremmo chiosare, balzando dalla poesia alla filosofia, trascende la nostra carne: non viene dai nostri atomi, nè dal nostro intestino. Sgorga dalla nostra anima immortale.

In una nota a Sentimento del tempo, Ungaretti scrive: “La sensazione dell’assenza radicale dell’essere è forse, in realtà, sensazione dell’assenza divina? Solo Dio può sopprimere il vuoto, essendo, Egli, l’Essere, essendo, Egli, la Plenitudine? E’ il sentimento dell’assenza di Dio in noi, rappresentato non simbolicamente, rappresentato, in realtà, da quell’orrore del vuoto, da quella vertigine, da quel terrore? Michelangelo e alcuni uomini dalla fine del ‘400 sino al ‘700 avevano, in Italia, quel sentimento, il sentimento dell’orrore del vuoto, cioè dell’orrore di un mondo privo di Dio”.

Nel 1931, già convertito, Ungaretti scrive un’altra poesia intitolata, come quella del 1916, Dannazione, ma molto più lunga. Sono riflessioni dell’uomo di fede che vacilla, che sente di poter di perdere il tesoro trovato, e che nel contempo ha una consapevolezza ormai incancellabile del suo valore: “Quest’anima/ che sa le vanità del cuore/e perfide ne sa le tentazioni/e del mondo conosce la misura/ e i piani della nostra mente giudica tracotanza,/ perché non può soffrire/ se non rapimenti terreni?/ Tu non mi guardi più, Signore…/E non cerco se non oblio/ nella cecità della carne”.

La carne: cioè gli inganni del mondo, le tentazioni che distolgono l’uomo dal vero oggetto del suo desiderio, che lo accecano; ma anche la realtà, il dolore, la gioia vera sperimentata nella vita concreta. Così, in Pietà, il poeta, memore del detto cristiano “caro cardo salutis est” (la carne è il cardine della salvezza), innalza una preghiera: “Purificante amore/ fa ancora che sia scala di riscatto/la carne ingannatrice”.

In generale, per Ungaretti, la Passione precede la Pasqua. E l’uomo che sa vedere oltre la sconfitta, il dolore, la morte, comprende che quello di Cristo è “un amore non vano”; capisce che Cristo è sempre accanto all’uomo, anche là dove il suo nome viene apertamente rinnegato e combattuto.

Lo ribadirà anche nel pieno della seconda guerra mondiale (1944), in Mio fiume anche tu, avendo come sfondo un’altra guerra, l’occupazione di Roma, gli stermini: “… Vedo ora nella notte triste, imparo,/ So che l’inferno s’apre sulla terra/Su misura di quanto/ L’uomo si sottrae, folle,/ Alla purezza della Tua passione…/Cristo, pensoso palpito,/Astro incarnato nell’umane tenebre,/Fratello che t’immoli/ Perennemente per riedificare/ Umanamente l’uomo,/Santo, Santo che soffri,/Maestro e fratello e Dio che ci sai deboli,/Santo, Santo che soffri/ Per liberare dalla morte i morti/ E sorreggere noi infelici vivi,/ D’un pianto solo mio non piango più,/Ecco, Ti chiamo, Santo,/ Santo, Santo che soffri”.

di Francesco Agnoli – La Croce – Quotidiano
Tratto da: Libertà e Persona

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