Cosa significa a vent’anni, magari con un diploma, sentirsi dire: «Non servi»

Posté par atempodiblog le 17 mars 2015

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Milano, marzo. Una di quelle mattine limpide e chiare, che segnano una acerba primavera. Cammino per strada, contenta di quest’aria di marzo. Una di quelle mattine in cui il mondo sembra nuovo, rifatto da capo. Alla fermata dell’autobus ci siamo solo io e un ragazzo sui vent’anni. Parla al cellulare, ad alta voce. Sta spiegando a qualcuno che cosa sa fare: «Ho aiutato in negozio mio padre, che è pasticciere… Ho fatto il barista, e me la cavo anche come cameriere…».

Il ragazzo parla in fretta, come se l’interlocutore gli avesse detto che non ha tempo da perdere. Una pausa, ora l’altro gli sta dicendo qualcosa. Il ragazzo, dopo un istante di silenzio: «Capisco, non sono quello che cerca… Ma ascolti, le lascio il mio cellulare, mi chiamo Davide, se avesse bisogno mi chiami…». E chiude e s’infila in tasca il cellulare, mogio. Poi arriva il suo autobus, e il ragazzo se ne va.

Io resto ad aspettare il mio, in questo sole in cui tutto sembra nuovo. Veramente, così mi pareva cinque minuti fa. Cosa mi ha preso? Non sono più contenta come prima, di questo marzo lucente. Qualcosa in me si è messo di traverso. Qualcosa di dolente. Quel ragazzo, ha l’età dei miei figli. Sì, forse è istinto materno: che pena mi fa, sentire uno di vent’anni domandare e quasi mendicare un lavoro con quell’ansia, elencare affannosamente ciò che sa fare, e poi tacere, mentre l’altro risponde che, no, grazie, non serve. Mi fa pena il modo in cui ha chinato la testa, a quel «no, grazie». Quante telefonate avrà fatto? E quanti no si è già sentito dire? E quanti in Italia come lui, della sua età, stamattina, rispondono ad annunci, bussano a porte che non si apriranno?

D’improvviso le cifre spaventose della disoccupazione giovanile per me hanno una faccia. Davide, so solo il suo nome. E in questo sussulto materno capisco non in teoria, ma nella carne, cosa deve essere, a vent’anni, magari con un diploma, sentirsi dire: non servi. A vent’anni, quando le forze sono piene, e la voglia di vivere trabocca, e c’è la speranza, magari, che con “lei” un giorno si possa vivere assieme, sposarsi, avere un figlio.

Ma: grazie, no, non abbiamo bisogno. Siamo al completo. Stiamo già mandando a casa gente. Non servi, ragazzo. Quello che hai studiato, e le tue mani, e le tue gambe svelte, non servono. E tua madre, a casa, che non aspetta che di sentirti dire che finalmente hai trovato. E tuo padre, che ti incrocia in corridoio e quasi di nascosto ti mette in mano i soldi per le sigarette e la benzina, imbarazzato. Noi, che materialmente ai figli abbiamo dato tutto, manchiamo nella cosa più importante: nel dirgli, venite, presto, abbiamo bisogno di voi.

Poi, arriva il mio autobus. E passano le ore, e le parole e le cose da fare si sovrappongono, ma quel ragazzo mi resta dentro come un retropensiero. La faccia che ha fatto, nel chiudere la telefonata. E allora mi rivolgo a un santo di cui ho personalmente testato l’efficacia, e prepotente gli dico: senti, so solo che si chiama Davide, ma tu di certo lo conosci. Devi pensarci tu. E guarda, aggiungo brusca, che è urgente.

di Marina Corradi – Tempi

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«Chi sei?». Nessuna botta, per quanto forte, può cancellare il nostro io

Posté par atempodiblog le 17 mars 2015

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Chi sei? Se te lo chiede l’insegnante il primo giorno di scuola, basta dire nome e cognome. Se te lo chiede chi ti fa un colloquio di lavoro, devi sfoderare il meglio del tuo curriculum. Se te lo chiede la/il ragazza/o che ti piace, è probabile che mettere insieme anche solo due parole si faccia assai difficile. Chi sei? Quando se lo chiede un genitore di fronte al figlio appena nato, perfino l’universo intero sembra troppo piccolo per contenere una risposta adeguata.

Poi capita che lo chieda un dottore a un paziente che ha preso una bella botta, e magari si senta rispondere: «Sono Fernando, corro sui kart e vorrei diventare un pilota di Formula 1». Dopo l’incidente capitato ad Alonso lo scorso 22 febbraio sul circuito di Montmeló molte notizie e leggende sulla sua perdita di memoria sono lievitate sugli organi di stampa. Le dichiarazioni ufficiali di casa McLaren confermano che il pilota ha avuto una commozione cerebrale con perdita di memoria temporanea; lo stesso pilota ora ci scherza su Twitter e, pur rispettando i tempi di recupero previsti, ha una gran voglia di tornare a correre in pista.

La domanda «chi sei?» è di quelle che restano aperte fino all’ultimo secondo di vita, proprio perché il tempo ci è dato per rispondere compiutamente a questo interrogativo; eppure capitano incidenti che azzerano il tempo e magari cancellano anche vent’anni di ricordi. E, dunque, il nostro io scompare? Non proprio. In Cina, ad esempio, è capitato che un’anziana di 94 anni, in seguito a un ictus, sia rimasta in coma per due settimane e al suo risveglio non parlava più cinese, bensì inglese. Lei era stata insegnante di inglese per 30 anni. Insomma, quando si tocca quel meraviglioso mistero che è il cervello, accadono cose tremendamente imprevedibili.

Capita che un uomo torni indietro di molti anni a quando era un giovane che sognava di diventare un famoso pilota di Formula 1; o capita che una donna si risvegli sapendosi esprimere solo attraverso quella lingua a cui ha dedicato il lavoro di una vita. Accade che – temporaneamente o meno – le botte della vita riducano il tutto di te a una memoria singola, magari neppure così memorabile. Si dice: «Ho avuto una giornata da dimenticare». E se domattina ci svegliassimo ricordando solo quel brutto giorno da dimenticare? Saremmo, forse, meno noi stessi? Mi viene in mente quel meraviglioso film intitolato Ricomincio da capo in cui il grande Bill Murray si trova a vivere e rivivere il medesimo giorno della marmotta; una di quelle classiche giornate insulse e storte che avrebbe voluto solo dimenticare. Eppure vivendo e rivivendo quel giorno, alla fine diventa più se stesso e impara a scoprire le qualità nascoste dietro un’apparente insignificanza.

Sì, è vero, ci si mette una vita intera a rispondere alla domanda: «chi sei?». Eppure Montale scrisse in un verso mirabile: «Solo il divino è totale nel sorso e nella briciola». Ed è innegabile che la realtà sia quella sostanza non semplicemente realistica, bensì attinente al divino, cioè capace di far baluginare anche solo in un sorso di vita, la totalità di una persona. Basta una briciola di tempo per intuire che tutto il bisogno contenuto nella domanda «chi sei?» si riverbera nel miracolo di accorgersi che «ci sei».

di Annalisa Teggi – Tempi

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“Mi confesso – I confess”

Posté par atempodiblog le 16 mars 2015

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Vivai: pallone giovane, eclissi italiana

Posté par atempodiblog le 15 mars 2015

Vivai: pallone giovane, eclissi italiana
di Andrea Saronni – Avvenire

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Un seme qua e là, pochi ma buoni, sparsi per i vari campi. Però sparsi, appunto. E nonostante i virgulti che specie in questo girone di ritorno della Serie A si stanno affacciando al campo restituendo un filo di sorriso ad Antonio Conte, il rapporto tra calcio italiano e giovani rimane in modalità “relazione complicata” per quanto riguarda i vivai, intesi come settori giovanili dei club nella loro complessità, le “cantere”, insomma, giusto per usare il termine spagnoleggiante sdoganato anche in Italia dopo il trionfo della scuola tutta possesso, tecnica e “guardiolismi” assortiti del Barcellona.

Barcellona che è stato (ed è) il massimo esempio della coniugazione del potere economico e politico del calcio che conta e di investimento continuo sulle fondamenta tecniche, vale a dire il settore giovanile. E alla faccia di campagne acquisti all’estero che corrispondono a punti di Pil di Paesi poveri – Neymar due anni addietro, Suarez la scorsa estate, qualcuno parla di Pogba alla fine dell’embargo stabilito dalla Fifa –, i blaugrana sono sempre e comunque tra le fabbriche di giovani giocatori più concrete e produttive d’Europa.

A testimoniarlo, i numeri diffusi recentemente dal Cies, un centro di studi specializzato in tematiche calcistiche insediato a Neuchatel in Svizzera. Gli esperti elvetici si sono presi la briga di analizzare gli organici di ben 31 campionati di massima divisione del continente, e di fare la conta dei calciatori a seconda del vivaio di provenienza, inteso come club in cui il giocatore abbia militato per almeno tre stagioni negli anni della crescita. Ne è scaturito che la Champions League delle accademie se la sia aggiudicata un’altra garanzia assoluta, cioè l’altro grande top club europeo capace di sfornare campioni a cavallo delle generazioni: l’Ajax, che vanta qualcosa come 77 elementi usciti da Amsterdam per pedatare in ogni angolo del continente. Il suddetto Barcellona invece ha conquistato il gradino basso del podio con 57 calciatori, e in mezzo si è collocato il Partizan di Belgrado, gettonato soprattutto nei Paesi balcanici (74 giocatori).

Spontaneo scorrere la classifica, strutturata su una “top 100” e attendere che il dito si fermi su nomi più famigliari: si scende fino alla casella 77 per trovare l’Inter; e quindi alla posizione 89, a cui è assegnata non casualmente l’Atalanta, unica società italiana in cui ancora trovino discreto spazio nella formazione della domenica elementi cresciuti nel club. Due squadre su cento, mica male come percentuale: e i riscontri diventano ancora peggiori quando dai numeri si passa alle cifre, intese come danari. Perché oltre a non riuscire a costruire calciatori da Serie A con continuità, evidentemente le nostre non riescono nemmeno a monetizzare bene i pochi prospetti venuti su ammodo: nella classifica, dei redditi da cessione del cartellino goduti negli ultimi cinque anni – stilata sempre dall’osservatorio di Neuchatel – solo il Genoa (15°) può vantare entrate importanti, pari per l’esattezza a 24,5 milioni incassati per le cessioni di Cofie, Sturaro, El Shaarawy, Boakye e Lazarevic. Poi, due posizioni più sotto, ancora la sempiterna Atalanta, che curiosamente mai come quest’anno è risultata una delle squadre dall’età media più avanzata, quasi a scusarsi, a non volere discostarsi dalla logica “usato sicuro” che è quella adottata dalle consorelle più grandi.

La politica dei giovani in Italia, nel suo complesso, continua dunque a essere nelle parole e non nei fatti: se il Cies svizzero si spingesse oltre, vale a dire andasse a indagare dove davvero vanno a finire i 18-20 giovanotti che ogni anno compongono le rose delle squadre Primavera dello Stivale, scoprirebbero un sottobosco fatto di Lega Pro, di Dilettanti, di fughe (o ritorni) all’estero, in chissà quali campionati: non è solo questione di procuratori o di esterofilia spinta – pur presentissima – delle nostre società di punta, ma semmai, e questo è il grave, di valori tecnici che non sono spendibili in Serie A, anche al netto dell’inevitabile scotto del debutto.

Uno ogni tanto, quando capita, se è bravo: questa è l’autoproduzione del pallone all’italiana. E va detto che, forse, questo si sta dimostrando un momento buono per i campioncini “spot”, dal sampdoriano Romagnoli (vivaio e proprietà Roma) all’empolese Rugani, made in Juve così come lo sfortunatissimo Mattiello, che aveva benissimo impressionato alle sue prime uscite da titolare col Chievo.

Accontentiamoci, per ora, di questi semi isolati, sperando che prima o poi vengano gettati in terreni fertili, preparati per coltivazione e produzione. Perché quella della Serie A vecchia negli anni, povera nelle tasche e di seconda mano sul terreno di gioco, diventi presto solo una antipatica e superata fase storica.

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Si domanda molto più con le lacrime che con le parole

Posté par atempodiblog le 14 mars 2015

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San Pietro penitente di Guido Reni

“Si domanda molto più con le lacrime che con le parole… ‘Ecco il luogo del mondo dove tutto diviene facile’. Facile anche il peccato, il tradimento. Ma facile essere riabbracciati. E piangere di gratitudine”.

di don Giacomo Tantardini

Tratto: Lo Straniero

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Papa Francesco annuncia un Giubileo straordinario: Anno Santo della Misericordia

Posté par atempodiblog le 14 mars 2015

Un Giubileo straordinario, un Anno Santo della Misericordia: è l’annuncio che Papa Francesco ha fatto ieri pomeriggio, nella Basilica Vaticana, durante l’omelia della celebrazione penitenziale con la quale il Papa ha aperto l’iniziativa “24 ore per il Signore”. Un annuncio accolto dall’applauso dei presenti. Durante l’omelia Francesco ha sottolineato la ricchezza della misericordia di Dio evidenziando “con quanto amore ci guarda Gesù, con quanto amore guarisce il nostro cuore peccatore”.
di Adriana Masotti – Radio Vaticana

Papa Francesco annuncia un Giubileo straordinario: Anno Santo della Misericordia dans Commenti al Vangelo 2j2g6f6

“Ho deciso di indire un Giubileo straordinario che abbia al suo centro la misericordia di Dio. Sarà un Anno Santo della Misericordia. Lo vogliamo vivere alla luce della parola del Signore: “Siate misericordiosi come il Padre. (…) Questo Anno Santo inizierà nella prossima solennità dell’Immacolata Concezione e si concluderà il 20 novembre del 2016, Domenica di Nostro Signore Gesù Cristo Re dell’universo e volto vivo della misericordia del Padre”.

E’ l’annuncio con cui Papa Francesco conclude la sua omelia per la liturgia penitenziale celebrata questo pomeriggio nella Basilica Vaticana, un Giubileo straordinario che Francesco vede come una opportunità attraverso cui “la Chiesa possa rendere più evidente la sua missione di essere testimone della misericordia”.

“Affido l’organizzazione di questo Giubileo al Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione, perché possa animarlo come una nuova tappa del cammino della Chiesa nella sua missione di portare ad ogni persona il Vangelo della misericordia, ha continuato, sono convinto che tutta la Chiesa, che ha tanto bisogno di ricevere misericordia, perchè siamo peccatori, potrà trovare in questo Giubileo la gioia per riscoprire e rendere feconda la misericordia di Dio, con la quale tutti siamo chiamati a dare consolazione ad ogni uomo e ogni donna del nostro tempo”.

E al tema della misericordia Papa Francesco ha dedicato dedica l’intera omelia: come ricorda l’apostolo Paolo, dice, riferendosi alla prima lettura, “Dio non cessa mai di mostrare la ricchezza della sua misericordia nel corso dei secoli”. Il Vangelo, continua, “ci apre un cammino di speranza e di conforto”. E del brano che racconta l’episodio della peccatrice che lava i piedi di Gesù e li asciuga con i suoi capelli, li bacia e li unge d’olio profumato, mentre Simone, il padrone di casa che ha invitato il Maestro alla sua tavola la giudica quale peccatrice, Francesco sottolinea due parole che ritornano con insistenza: amore e giudizio.

 “C’è l’amore della donna peccatrice che si umilia davanti al Signore; ma prima ancora c’è l’amore misericordioso di Gesù per lei, che la spinge ad avvicinarsi. (…) “Ogni gesto di questa donna parla di amore ed esprime il suo desiderio di avere una certezza incrollabile nella sua vita: quella di essere stata perdonata. E questa certezza è bellissima. E Gesù le dà questa certezza: accogliendola le dimostra l’amore di Dio per lei, proprio per lei! Dio le perdona molto, tutto, perché «ha molto amato».  “Questa donna ha veramente incontrato il Signore. (…) Per lei non ci sarà nessun giudizio se non quello che viene da Dio, e questo è il giudizio della misericordia. Il protagonista di questo incontro è certamente l’amore, la misericordia,  che va oltre la giustizia”.

 Simone il fariseo, al contrario, afferma il Papa, “non riesce a trovare la strada dell’amore”(…) “Nei suoi pensieri invoca solo la giustizia e facendo così sbaglia. Il suo giudizio sulla donna lo allontana dalla verità e non gli permette neppure di comprendere chi è il suo ospite. Si è fermato alla superficie, non è stato capace di guardare al cuore”.

 “Il richiamo di Gesù spinge ognuno di noi a non fermarsi mai alla superficie delle cose, soprattutto quando siamo dinanzi a una persona. Siamo chiamati a guardare oltre, a puntare sul cuore per vedere di quanta generosità ognuno è capace. Nessuno può essere escluso dalla misericordia di Dio; tutti conoscono la strada per accedervi e la Chiesa è la casa che tutti accoglie e nessuno rifiuta. Le sue porte permangono spalancate, conclude il Papa, perché quanti sono toccati dalla grazia possano trovare la certezza del perdono”.

Un’accoglienza che trova la sua immagine simbolica proprio nel rito iniziale del Giubileo straordinario appena annunciato: l’apertura della Porta santa della Basilica di San Pietro, l’8 dicembre prossimo.

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Il nazismo ha odiato la Chiesa

Posté par atempodiblog le 14 mars 2015

C’è qualcosa di nazista ancora oggi, tra noi?
Il nazismo ha odiato la Chiesa
di Francesco Agnoli – La Croce – Quotidiano

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Il nazismo è stato, con il comunismo, l’esperienza più terribile, sanguinosa, distruttiva che l’umanità abbia mai vissuto. Pochi ricordano che la II guerra mondiale nacque proprio dall’alleanza tra i due mostri, con il patto von Ribbentrop-Molotov del 1939; non tutti hanno chiaro quanto profonde siano le somiglianze tra nazismo e comunismo, da una parte, ed eresie gnostiche antiche e medievali, dall’altra; non tutti hanno presente quanti siano i punti di contatto tra queste ideologie di sangue e il pensiero dominante odierno, in molti campi, soprattutto della bioetica.

Per tutti però vi è una certezza: il nazismo è stato malvagio, terribile, spaventoso.

Ma cosa pensava, il nazismo, della Chiesa cattolica?

Andiamo alle fonti, ignorando per un attimo la congerie incredibile di libri con cui si è spesso voluta dare del nazismo una lettura indirizzata e spesso tendenziosa.

Partiamo dal celeberrimo Mein Kampf di Adolf Hitler.

Qui si possono rintracciare almeno due idee interessanti: la Chiesa cattolica è, per il futuro dittatore della Germania, “in conflitto con le scienze esatte e con l’indagine scientifica”, mentre il cristianesimo si è imposto grazie ad una “fanatica intolleranza”. “Oggi il singolo deve constatare con dolore, scrive Hitler, che nel mondo antico, assai più libero del moderno, comparve col cristianesimo il primo terrore spirituale” (Adolf Hitler, Mein Kampf, Ed. Sentinella d’Italia, Monfalcone, 1990, p. 111, 105, 106).

Quest’idea la troviamo assai diffusa in tutta la politica del primo Novecento. Anche il giovane Mussolini, ancora socialista, sostiene che la Chiesa è oscurantista e intollerante. Analoghi pensieri li troviamo espressi negli scritti di Lenin e Stalin, nei medesimi anni.

Adolf Hitler ritorna sul cristianesimo, più e più volte, nel corso dei suoi Discorsi a tavola, con i gerarchi nazionalsocialisti, tra il 1941 e il 1944. Andiamo ancora ai testi originali, trascritti e ordinati dal gerarca nazista Martin Bormann.

La sera dell’11 luglio 1941 Hitler afferma: “Il colpo più duro che l’umanità abbia ricevuto è l’avvento del cristianesimo. Il bolscevismo è figlio illegittimo del cristianesimo. L’uno e l’altro sono una invenzione degli Ebrei. E’ dal cristianesimo che la menzogna cosciente in fatto di religione è stata introdotta nel mondo. Si tratta di una menzogna della stessa natura di quella che pratica il bolscevismo quando pretende di apportare la libertà agli uomini, mentre in realtà vuol far di loro solo degli schiavi… Il cristianesimo è stata la prima religione a sterminare i suoi avversari in nome dell’amore. Il suo segno è l’intolleranza” (Adolf Hitler, Conversazioni a tavola di Hitler, Goriziana, Gorizia, 2010, p. 45)

Nella notte tra il 20 e il 21 febbraio 1942 Hitler afferma,: “Il cristianesimo (a differenza delle religioni animiste pagane, ndr) promulga i suoi dogmi con la forza. Una simile religione porta con sé l’intolleranza e la persecuzione. Non ce n’è di più sanguinose”.

Subito dopo parla dell’osservatorio astronomico che sta facendo costruire a Linz, per combattere l’ignoranza scientifica (idem, p. 308). Il 9 aprile 1942, nel pieno dei massacri di cui è colpevole, afferma: “La Chiesa si è piegata alla necessità di imporre il suo codice morale con la massima brutalità. Non ha indietreggiato neppure dinnanzi alla minaccia di rogo, dando alle fiamme, a migliaia, uomini di grande valore. La nostra società attuale è più umana di quanto non lo sia mai stata la Chiesa” (idem, p. 389).

Ai cristiani e alla Chiesa, nelle 680 pagine dei Discorsi, tra una dichiarazione di vegetarianismo e una di animalismo, Hitler imputa almeno le seguenti colpe: di aver incendiato Roma all’epoca di Nerone; di aver rovinato l’impero romano; di aver distrutto biblioteche e testi antichi; di aver torturato i nemici; di aver bruciato milioni di streghe; di aver negato “le gioie dei sensi”; di instillare una “ribellione contro la natura, una protesta contro la natura” (promuovendo il matrimonio monogamico e indissolubile…); di privilegiare i malformati e i malriusciti, i poveri e gli ignoranti; di proporre un “paradiso insipido”, tutto canti e alleluia; di minacciare la gente con l’inferno (Hitler non ci credeva proprio, ad un giudizio finale); di basarsi su una “storia puerile”, “invenzione di cervelli malati”, che inventa un Dio personale che non esiste, l’assurdità della resurrezione, e un “preteso aldilà” che negherebbe importanza alla vita terrena… Riguardo ai preti essi sono immancabilmente “ripugnanti”, “perversi” e i missionari “gli ultimi dei maiali”.

Quanto al rapporto tra scienza e fede il pensiero già espresso nel Mein Kampf ritorna anch’esso, insistentemente. La sera del 24 ottobre 1941: “la religione è in perpetuo conflitto con lo spirito di ricerca. L’opposizione della Chiesa alla scienza fu talvolta così violenta da sprizzare scintille”, tanto che oggi l’Evoluzione è in contrasto con la credenza puerile nella Creazione (idem, p. 110). Il mondo antico, pre-cristiano, invece, “amava la chiarezza. La ricerca scientifica vi veniva incoraggiata” (idem, p. 301).

Cosa intende Hitler per “scienza”? All’epoca, non solo per lui, sono “scientifici” l’eugenetica (con i suoi corollari: eutanasia di persone malate e aborti di bambini malformati o nati da matrimoni misti), il razzismo (i nazisti ritenevano di avere dalla loro la biologia e l’evoluzionismo, nella sua versione materialista), e la produzione di bambini tramite gli accoppiamenti stabiliti dal regime, tra ariani e ariane certificati. Con annessa nascita di migliaia di bambini senza genitori.

C’è qualcosa di nazista ancora oggi, tra noi?

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I due anni di un Papa

Posté par atempodiblog le 13 mars 2015

I due anni di un Papa. Il racconto
Papa Francesco, i due anni di un pontefice che scuote la Chiesa
Protagonista di grandi cambiamenti in Vaticano, continua a vivere nel segno dell’umiltà. Come quando portò fuori dalla sua stanza una sedia alla guardia svizzera per farla riposare
di Gian Guido Vecchi – Corriere della Sera

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Nella stanza 201 della Domus Sanctae Martae la sveglia suona puntuale ogni mattina alle 4.45, le luci si accendono alle finestre del secondo piano che si affacciano a Nord sulle piazzetta e la facciata meridionale della Basilica di San Pietro. Non ci sono aiutanti di camera né procedure di vestizione, Bergoglio fa da sé e non si cura di quanto è sempre accaduto, con variazioni inessenziali, nei secoli precedenti. Giusto due anni fa cominciava il Conclave che l’indomani, alle 18.50 del 13 marzo, avrebbe eletto l’arcivescovo di Buenos Aires. Il cardinale occupava la stanza 207, il Papa si limitò a spostarsi nella 201 e cambiò tutto. Ne sa qualcosa la guardia che pochi giorni dopo vegliava in corridoio sul sonno pontificio.

Marzo 2013, prima dell’alba. Si apre la porta ed esce il Papa che vede accanto alla soglia un giovane svizzero, irrigidito sull’attenti, lo sguardo fisso davanti a sé. «Sei stato in piedi tutta la notte, figlio?». Il ragazzo deglutisce e mormora che in effetti non proprio tutta, ha dato il cambio a un collega. Francesco annuisce, rientra in camera e ne esce con una sedia. Si narra anche di un panino con la marmellata. La guardia svizzera cerca di obiettare che il regolamento vieta di sedersi (per tacere della colazione servita dal Pontefice, chi lo sente il comandante), ma il Papa lo rassicura – anche perché in Vaticano, in fin dei conti, comanda lui – e il ragazzo si siede.

Ecco, i «muri» hanno cominciato a crollare anche così. A partire dalla scelta di non vivere nell’«imbuto rovesciato» dell’Appartamento apostolico ma in albergo, «non posso vivere da solo», riservando a sé quella cinquantina scarsa di metri quadri: anticamera, studio con tavolino e due librerie a parete, stanzetta da letto monastica, arredi ridotti all’essenziale di legno scuro, luci al neon. Non è stato facile, ma in un paio d’anni chi vive e lavora in Vaticano e soprattutto nel «Convitto» – il Papa gesuita chiama l’albergo così, come in una comunità di religiosi – ha finito col farci l’abitudine. «Mah, io cerco di essere libero, ci sono appuntamenti di ufficio, di lavoro… Veramente mi piacerebbe poter uscire, però non si può… Ma poi la vita, per me, è la più normale che posso fare», ha spiegato ai giornalisti che gli chiedevano se non si sentisse prigioniero, lui che a Buenos Aires girava in metrò. «No, no. All’inizio sì, ma adesso sono caduti alcuni muri, non so, tipo “il Papa non può!”. Un esempio, per farvi ridere: vado a prendere l’ascensore e subito viene uno, perché il Papa non poteva scendere in ascensore da solo! E perché? Ma tu vai al tuo posto, che io scendo da solo!».  Nel senso che non vuole accompagnatori: se invece le porte si aprono e c’è già qualcuno, altri ospiti o dipendenti che all’inizio tentavano imbarazzati di uscire («ma no, ci stringiamo e ci stiamo tutti»), Francesco non si fa problemi, conversa, chiede delle famiglie, «la normalità della vita».

Una vita fitta di impegni e incontri, quella del Papa. Ma la seconda delle «malattie» che a Natale elencava alla Curia è quella della «eccessiva operosità» che «fa trascurare la parte migliore: sedersi sotto i piedi di Gesù». Prima di scendere per la messa delle sette – ogni mattina dal lunedì al venerdì, tranne il mercoledì dell’udienza generale – il Papa gesuita, formato alla meditazione ignaziana, resta per due ore da solo in camera. Ufficio mattutino, preghiera dei Salmi, Letture del giorno e preparazione dell’omelia. Qualche minuto prima delle sette è già nella cappella in fondo all’atrio. Dai dipendenti vaticani ai fedeli delle parrocchie romane, ogni giorno la messa si riempie di poche decine di fedeli. Il Papa saluta e parla con tutti, si sofferma ancora a pregare, quindi va a fare colazione nel «refettorio» comune. Siede a un tavolo laterale a sinistra dell’ingresso con i due segretari e gli aiutanti, il suo tovagliolo in una bustina come gli altri ospiti, salvo la scritta «P. Francesco», perché all’inizio glielo cambiavano tre volte al giorno e a lui – come ha raccontato Aldo Maria Valli nel libro Con Francesco a Santa Marta – non sembrava il caso: «Ma che spreco! Perché bisogna cambiare un tovagliolo pulito?».

Poi gli impegni cominciano. Nello studio del Papa arrivano i «cifrati» dalle nunziature del mondo, la rassegna stampa, una selezione delle migliaia di lettere che gli arrivano dai fedeli, documenti vari. Le udienze di tabella e gli incontri avvengono di norma al Palazzo apostolico – salvo eccezioni, come quando accolse a Santa Marta Shimon Peres e Abu Mazen – così Francesco si sposta quasi ogni mattina nella residenza ufficiale: nella bella stagione si concede una passeggiata, sorvegliata con discrezione dai gendarmi vaticani, ma di solito usa la Ford Focus blu targata SCV 00919 che era assegnata ai servizi generali prima che Bergoglio («ecco, quella per me va bene») la vedesse per caso parcheggiata. Avanti e indietro dal Palazzo apostolico a Santa Marta, da una a tre volte al giorno secondo i casi, c’è anche la macchina della Gendarmeria che porta al Papa la borsa di documenti inviata dalla Segreteria di Stato.

Verso le 13 Francesco torna nel refettorio, dove pranzano anche gli altri ospiti – funzionari della Segreteria di Stato e vescovi, sacerdoti e religiosi – e il personale. Capita che vada a salutare in cucina. Qui si misura la portata della scelta di Bergoglio, capace di spezzare quel clima da «corte» rinascimentale nel quale il «potere» in Vaticano era misurato dall’essere o meno ammessi all’Appartamento del Papa. Dopo pranzo Francesco risale in camera per una mezz’ora di riposo, poi si ricava un altro spazio di preghiera prima di ricominciare a lavorare nello studio di Santa Marta per tutto il pomeriggio.  Incontri, lettere, telefonate. Chi gli è vicino racconta di ritmi serrati, le uniche pause dedicate al Rosario. La cena è alle 20 ma «la sera, tra le sette e le otto, sto davanti al Santissimo per un’ora di adorazione», spiegava a padre Antonio Spadaro, direttore della Civiltà Cattolica . «La preghiera per me è sempre una preghiera “memoriosa”… Per me è la memoria di cui Sant’Ignazio parla nella prima settimana degli Esercizi nell’incontro misericordioso con Cristo Crocifisso. E mi chiedo: “Che cosa ho fatto per Cristo? Che cosa faccio per Cristo? Che cosa devo fare per Cristo?”».

Dal refettorio, finito di cenare, Francesco torna in camera presto, intorno alle 21. Il letto sormontato da un Crocifisso, un armadio, un mobile con sopra una statuetta di legno policroma che si è portata da Buenos Aires e raffigura San Giuseppe dormiente. «Il riposo di Giuseppe gli ha rivelato la volontà di Dio», raccontava in gennaio alle famiglie di Manila. «Sul mio tavolo ho un’immagine di San Giuseppe che dorme. E mentre dorme si prende cura della Chiesa. Quando ho un problema, una difficoltà, io scrivo un foglietto e lo metto sotto San Giuseppe, perché lo sogni».

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La croce è troppo pesante

Posté par atempodiblog le 13 mars 2015

La croce è troppo pesante

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Signore, la croce è troppo pesante per te e tuttavia tu la porti per noi perché il Padre lo vuole. Il suo carico è superiore alle tue forze e tuttavia tu non la rifiuti. Cadi, ti rialzi e prosegui ancora.

Insegnami a capire che ogni vera sofferenza presto o tardi, in un modo o nell’altro risulterà alla fine troppo pesante per le nostre spalle, perché non siamo creati per il dolore, ma per la felicità. Ogni croce sembrerà superiore alle forze. Sempre si udrà il grido stanco e pieno di paura: “Non ne posso più!”.

Signore, aiutami in quell’ora con la forza della tua pazienza e del tuo amore affinché non mi perda d’animo. Tu sai quanto grande può essere il peso di una croce. Non ci imputare il diventar deboli, ma aiutaci a rialzarci.

Rinnovami nella pazienza, infondimi la tua forza nell’anima. Allora mi rialzerò di nuovo, accetterò il mio peso e andrò oltre. Amen.

Romano Guardini

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San Pietroburgo, una finestra sull’Occidente

Posté par atempodiblog le 12 mars 2015

San Pietroburgo, una finestra sull’Occidente
La conformazione urbanistica della città è palesemente europea, anzi italiana: molti furono gli architetti, nostri connazionali, che vi lavoravano. La prima costruzione ad essere realizzata fu la chiesa dei SS. Pietro e Paolo, che custodisce le tombe degli Zar. Compresi i santi martiri, trucidati dalla rivoluzione comunista. E poi la chiesa di S. Isacco, con la quarta cupola più grande al mondo. E la chiesa di santa Caterina, unica costruzione cattolica sopravvissuta al totalitarismo bolscevico.
di Luigi Vinciguerra – Radici Cristiane

San Pietroburgo, una finestra sull’Occidente dans Apparizioni mariane e santuari 344sard
La Piazza del Palazzo venne progettata in stile impero dall’architetto napoletano Carlo Rossi per celebrare la vittoria di Alessandro I sugli invasori francesi (lo Zar è immortalato da un enorme colonna di 25 m al centro della piazza – uno dei più grandi monoliti esistenti al mondo – alla cui sommità si trova nuovamente il simbolo cittadino dell’angelo con la Croce).

Per quasi settant’anni, dal 1924 al 1991 la città più occidentale dell’Impero russo è stata conosciuta come Leningrado: vent’anni prima aveva già subito un cambiamento toponomastico, diventando Pietrogrado, in quanto il suffisso –burgo era percepito come “troppo tedesco” e quindi Nicola II preferì modificarlo con il suffisso slavo. Ciò non evitò che proprio tale città fosse al centro della rivoluzione d’ottobre, chiamata così l’azione di forza che dal 7 all’8 novembre 1917 (ma 25 e 26 ottobre secondo il calendario giuliano ancora in uso nell’Impero russo) avvenne a Pietrogrado, culminando nella presa del Palazzo d’Inverno, dove si era asserragliato il governo provvisorio, guidato dall’imbelle Kerenskji. Tale azione fu sollecitata da Lenin, giunto da due settimane nella città russa, la più vicina al confine con la Finlandia.
La città non è la più occidentale – anzi, addirittura “la finestra della Russia sull’Occidente” – solo in virtù della propria posizione geografica, dal suo affacciarsi sul Baltico, dell’essere il punto privilegiato degli scambi culturali e commerciali con il resto dell’Europa: la sua stessa conformazione urbanistica è palesemente europea; anzi, ad essere più precisi, è italiana, poiché lo Zar Pietro il Grande, dopo aver strappato i territori della Neva agli svedesi nel 1703 nel corso della cosiddetta Grande Guerra del Nord (1700 – 1721), affidò all’architetto ticinese Domenico Trezzini il compito di supervisionare il progetto (che coinvolse anche vari architetti italiani) di realizzare la nuova capitale dell’Impero russo. Pietro era un ammiratore della cultura occidentale e per favorire lo sviluppo della nuova capitale emanò un decreto che impediva la costruzione di edifici di pietra al di fuori della nuova città, che volle dedicare al Santo di cui portava il nome.
Così, in pochi anni, San Pietroburgo divenne il principale centro russo: la prima costruzione ad essere realizzata fu la fortezza di Pietro e Paolo, attualmente al centro della città, sul fiume Neva. All’interno di questo imponente complesso c’è la Cattedrale dei SS. Pietro e Paolo, caratterizzata dall’altissimo campanile, sul cui pinnacolo dorato, all’altezza di oltre 120 metri, svetta un angelo a grandezza quasi naturale che sorregge una Croce, uno dei simboli della città.
La chiesa – in uno stile denominato “barocco petrino” – fu Cattedrale (nel senso di sede vescovile: la Chiesa ortodossa utilizza il termine di cattedrale anche per indicare una chiesa importante, come una basilica) fino al 1859, quando cedette tale titolo alla chiesa di Sant’Isacco (in stile neoclassico). Nel 1919 i bolscevichi chiusero la cattedrale al culto, trasformandola cinque anni più tardi in un museo. All’inizio del nuovo millennio – nonostante in gran parte sia rimasta un’area museale – la chiesa è stata riaperta al culto.

La tomba degli Zar
Ma la chiesa dei SS. Pietro e Paolo non è importante solo in quanto prima costruzione di San Pietroburgo, per l’imponenza del campanile o per il particolare stile “barocco petrino”: il motivo il motivo che rende unica e meta di pellegrinaggi è costituito dalla presenza della tombe degli Zar. Da Pietro il Grande a Nicola II (con le sole eccezioni di Pietro II e Ivan VI) tutti i sovrani russi riposano sotto le volte di questa chiesa. A fianco dell’ultimo Zar hanno trovato sepoltura anche tutti i membri della Famiglia Reale martirizzati ad Ekaterinburg il 18 luglio 1918 a Casa Ipatiev.
Va notato che la Chiesa ortodossa russa – a differenza, aggiunge qualcuno polemicamente, di ciò che è avvenuto da parte della Chiesa cattolica nei confronti di Luigi XVI e Maria Antonietta – ha elevato Nicola II all’onore degli altari fin dal 1981 assieme agli altri martiri di Ekaterinburg: infatti risultano santi anche la Zarina Alessandra, i loro cinque figli Olga, Tatiana, Maria, Anastasia e Alexei, nonché ilmedico di corte Eugenio Botkin, il garzone Alexei Trupp (che era cattolico), il cuoco Ivan Kharitonov, la domestica della Zarina Anna Demidova ed anche due servi uccisi nel settembre 1918, la dama di compagnia Anastasia Hendrikova e l’insegnante privata Catherin Adolphovna Schneider (protestante).
La data della canonizzazione non è un errore di chi scrive: si tratta proprio del 1981, cioè quando l’Unione Sovietica sembrava ancora imbattibile: la canonizzazione, per di più con il titolo di “vittime dell’oppressione dall’Unione Sovietica” avvenne infatti all’interno della Chiesa ortodossa fuori dalla Russia, quella cioè in esilio. Nel 2000 la Chiesa ortodossa russa “ufficiale”, finalmente libera dal giogo comunista, riconobbe la canonizzazione ed aggiunse ai martiri della Famiglia Imperiale, il titolo di “portatori di passione della Chiesa Ortodossa Russa”. La canonizzazione si estese anche ad altri martiri dell’oppressione dell’Unione Sovietica, uccisi il giorno successivo ad Alapaevsk, a 180 km da Eketerinburg: la Granduchessa Elizaveta Fëdorovna, sorella di Alessandra; i Principi Ivan, Igor Konstantinovič e Kostantin Konstantinovič, il Granduca Sergej Michajlovič e il principe Vladimir Pavlovič Paley; il segretario personale del Granduca Sergio, Fyodor Remez, e ruor Varvara Jakovleva.
Tornando alle tombe imperiali, va aggiunto che ai santi martiri – traslati a San Pietroburgo nel 1998 – si aggiunsero nel 2006 anche i resti della Zarina madre, Maria Feodorovna, nata Dagmar di Danimarca e consorte di Alessandro III, la cui parentela con Giorgio V d’Inghilterra non fu forse estranea alla sua salvezza (di fatto fu l’unica rappresentante della Corona russa a salvarsi dalla rivoluzione bolscevica). Morta in Danimarca nel 1928 ed ivi sepolta, venne fatta traslare, anche grazie all’intervento di Vladimir Putin, affinché riposasse accanto al marito, come da ella auspicato.
Le tombe imperiali, protette da una cancellata, sono oggetto di continui omaggi da parte dei visitatori. Qualcosa di simile accade anche ai confini opposti della Russia “occidentale”, all’inizio della Siberia: infatti è meta di continui pellegrinaggi pure la chiesa sul Sangue ad Ekaterinburg, eretta dieci anni fa sul luogo della strage (Casa Ipatiev, dove fu consumato l’eccidio, venne fatta abbattere dall’allora presidente del locale Partito Comunista Boris Elstin, per evitare gli omaggi dei visitatori).

Altri monumenti
Tra gli altri monumenti di San Pietroburgo spicca la chiesa di S. Isacco, che vanta la quarta cupola più grande del mondo (dopo S. Pietro a Roma, S. Maria del Fiore a Firenze e S. Paolo a Londra) ed il Palazzo d’Inverno, sede del museo Hermitage (il più grande del mondo), che reca ancora vestigia degli appartamenti imperiali (i “bolari” del Partito imponevano agli altri la povertà, ma a se stessi riservavano comodità regali, per cui molti mobili degli Zar sono giunti fino a noi).

La notevolissima collezione di quadri venne regolarmente acquistata dagli Zar, che usavano comprare, anziché depredare come facevano altri eserciti rivoluzionari, portatori di “libertà, fraternità ed uguaglianza” e razziatori di opere d’arte… E, a proposito di Napoleone, un’altra notevole costruzione – ed attuale cattedrale cittadina – è la chiesa di Nostra Signora di Kazan, costruita in omaggio alla vittoria del1812 e al cui interno si trova la tomba del pietroburghese Michail Illarionovič Kutuzov, il generale che costrinse l’imperatore “dei Francesi” a capitolare. Durante il comunismo era stata trasformata in “museo dell’ateismo”.
La Piazza del Palazzo, progettata in stile impero dall’architetto napoletano Carlo Rossi per celebrare la vittoria di Alessandro I sugli invasori francesi (lo Zar è immortalato da un’enorme colonna di venticinque metri al centro della piazza – uno dei più grandi monoliti esistenti al mondo – alla cui sommità si trova nuovamente il simbolo cittadino dell’angelo con la Croce), presenta da un lato il Palazzo d’Inverno, dall’altro il Palazzo dell’Ammiragliato, al cui centro si trova l’Arco della Vittoria, anch’esso celebrativo del successo bellico contro Napoleone.
Va infine ricordata la chiesa di Santa Caterina, l’unica costruzione cattolica sopravvissuta al comunismo (sotto la cui oppressione fu adibita a deposito di motociclette). Prima della rivoluzione bolscevica a S. Pietroburgo si contavano almeno dieci parrocchie cattoliche: un numero perfettamente comprensibile, se si pensa anche solo a quanti artisti italiani vi venissero a lavorare e vi stabilissero assieme alle loro botteghe, come il fiorentino Bartolomeo Rastrelli (cui si deve il Palazzo d’Inverno) ed il veneziano Alberto Cavos (che progettò gli interni del Teatro Bolscioj di Mosca prima e del Teatro Mariinskij di San Pietroburgo, ultimati i quali venne commissionata a Giuseppe Verdi l’opera lirica La forza del destino). Tutti questi artisti, come quelli citati in precedenza, morirono a San Pietroburgo: segno tra l’altro dell’affezione, che avevano sviluppato verso questa meravigliosa città.

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Esame di coscienza. I consigli di Papa Francesco

Posté par atempodiblog le 11 mars 2015

Esame di coscienza. I consigli di Papa Francesco
Fonte: Avvenire

Esame di coscienza. I consigli di Papa Francesco dans Fede, morale e teologia nd78jk

ESAME DI COSCIENZA
Consiste nell’interrogarsi sul male commesso e il bene omesso: verso Dio, il prossimo e se stessi.

Nei confronti di Dio
Mi rivolgo a Dio solo nel bisogno?

Partecipo alla Messa la domenica e le feste di precetto?
Comincio e chiudo la giornata con la preghiera?
Ho nominato invano Dio, la Vergine, i Santi?
Mi sono vergognato di dimostrarmi cristiano?
Cosa faccio per crescere spiritualmente? Come? Quando?
Mi ribello davanti ai disegni di Dio?
Pretendo che egli compia la mia volontà?

Nei confronti del prossimo
So perdonare, compatire, aiutare il prossimo?
Ho calunniato, rubato, disprezzato i piccoli e gli indifesi?
Sono invidioso, collerico, parziale?
Ho cura dei poveri e dei malati?
Mi vergogno della carne di mio fratello, della mia sorella?
Sono onesto e giusto con tutti o alimento la “cultura dello scarto”?
Ho istigato altri a fare il male?
Osservo la morale coniugale e familiare insegnata dal Vangelo?
Come vivo le responsabilità educative verso i figli?
Onoro e rispetto i miei genitori?
Ho rifiutato la vita appena concepita?
Ho spento il dono della vita?
Ho aiutato a farlo?
Rispetto l’ambiente?

Nei confronti di sé
Sono un po’ mondano e un po’ credente?

Esagero nel mangiare, bere, fumare, divertirmi?
Mi preoccupo troppo della salute fisica, dei miei beni?
Come uso il mio tempo?
Sono pigro?
Voglio essere servito?
Amo e coltivo la purezza di cuore, di pensieri e di azioni?
Medito vendette, nutro rancori?
Sono mite, umile, costruttore di pace?

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Mons. Gianfranco Girotti: Il confessore deve evitare il “complesso di colpa” nel penitente

Posté par atempodiblog le 11 mars 2015

I sacerdoti siano consapevoli di essere “depositari di un ministero prezioso e insostituibile”
Mons. Gianfranco Girotti: Il confessore deve evitare il “complesso di colpa” nel penitente
di Mirko Testa - Zenit

Mons. Gianfranco Girotti: Il confessore deve evitare il “complesso di colpa” nel penitente dans Fede, morale e teologia Confessionale-con-grata 

Il confessore deve evitare il pericolo di creare l’“angoscia del peccato” o il “complesso di colpa” nel penitente e rendere visibile l’amore misericordioso di Dio. E’ quanto ha detto mons. Gianfranco  Girotti, Reggente della Penitenzieria Apostolica [...].

[...] Girotti ha posto da subito l’accento sulla necessità che i sacerdoti siano consapevoli di essere “depositari di un ministero prezioso e insostituibile”.

Inoltre, ha aggiunto, “è assolutamente necessario che, per svolgere bene e fedelmente il suo ministero, ogni confessore, con uno studio assiduo, sotto la guida del magistero della Chiesa, e soprattutto con la preghiera, deve procurarsi la scienza e la prudenza necessaria a questo scopo”.

“Nei seminari, è vero, l’approccio alla confessione è solo quello della teologia o della morale”, ha ammesso. Tuttavia,  per fare ben il confessore “occorrono anche conoscenze precise su quanto stabilisce la Chiesa riguardo a determinate situazioni che possono presentarsi in confessionale”.

Da qui la necessità per i sacerdoti “di prepararsi sotto il profilo culturale, psicologico e soprattutto ascetico, pensando che sono chiamati ad interessarsi di cose che non esaltano ma rivelano tutta la debolezza e talvolta la bassezza della condizione umana”.

Senza dimenticare, inoltre, che “la realtà umana è storica e dinamica, cosicché mentre il giudizio astratto può restare immutato, la valutazione degli atti concreti esige una sensibilità teologica e morale molto alta, per non accrescere l’evidente scollamento tra i fedeli e il Sacramento della Penitenza”.

In confessionale, ha continuato, si possono presentare anche i casi più impensati, che possono cogliere impreparato il sacerdote, come quando si affrontano i temi relativi alla bioetica.

Per questo ha invitato a non dimenticare “che il presbitero ha sempre una parola autorevole da dire nelle delicate questioni odierne riguardanti aspetti della pratica medica”.

“Può chiedere allora un po’ di tempo, di pronunziarsi sull’accusa, e consultare la Penitenzieria Apostolica, che entra in causa nelle situazioni in cui il sacerdote non ha la facoltà di assolvere, e nei casi in cui si può trovare impreparato o a disagio”, ha suggerito.

Tra i consigli offerti ai sacerdoti il Reggente della Penitenzieria Apostolica ha evidenziato il fatto che il penitente “ha bisogno di essere incoraggiato a riporre tutta la sua fiducia nell’infinita misericordia di Dio”, per cui ogni confessione dei peccati “deve prorompere in un canto gioioso di lode e di ringraziamento al Padre che ‘per primo ci ha amati’”.

Inoltre, ha ricordato, “nell’imporre la penitenza bisogna badare alla sua concreta fattibilità da parte del penitente, privilegiando quelle forme che aiutano a crescere spiritualmente, come l’assistere a una S. Messa, il fare la comunione, o anche aiutare il prossimo in difficoltà o contribuire a sostenere le opere parrocchiali, coniugando vita interiore e impegno sociale, come via maestra del cristiano impegnato”.

“Ad un penitente che torna a confessarsi dopo lunghi anni che è stato lontano dalla Chiesa è imprudente dare penitenze complesse e defaticanti, mentre ad una buona monaca di clausura ordinariamente si può assegnare una diuturna preghiera”, ha aggiunto.

Nel penitente occorre però anche “curare la consapevolezza del peccato e delle sue conseguenze e far nascere la ferma decisione di aprire un nuovo capitolo nei rapporti con Dio e con il prossimo nel cuore della Chiesa”.

“E’ bene poi ricordare che il fedele che ha raggiunto l’età della discrezione è tenuto a confessare i peccati gravi almeno una volta l’anno”, e che il penitente “ha la possibilità di confessare i peccati al confessore che preferisce, legittimamente approvato, anche di altro rito”.

In più, il penitente “ha la possibilità di servirsi di un interprete”, “evitati ovviamente gli abusi e gli scandali e fermo restando l’obbligo del segreto”.

Mons. Girotti ha quindi passato in rassegna gli obblighi legati al sigillo sacramentale e al segreto dei penitenti, un tema che la Chiesa ha avuto sempre a cuore e per la cui violazione stabilisce pene severissime che risalgono al IV Concilio Lateranense del 1125, che promulgò la prima legge universale in materia.

A questo proposito, ha sottolineato che il Codice di Diritto Canonico (Can. 1550, §2, 2°) esclude, infatti, “come incapaci dal rendere testimonianza in giudizio i sacerdoti, relativamente a tutto ciò che hanno appreso nella confessione sacramentale, anche nel caso in cui sia stato il penitente a chiedere la deposizione”.

Diversamente, ha osservato, il confessore “peccherebbe d’ingiustizia verso il penitente e di sacrilegio nei confronti del sacramento stesso”, tradendo “la fiducia che il fedele ripone in lui, in quanto ministro di Dio” e rendendo “odioso il Sacramento della Penitenza agli occhi dei fedeli”.

Mons. Girotti ha poi ricordato che il Nuovo Codice di Procedura Penale entrato in vigore in Italia nel 1989 “riconosce il sigillo sacramentale, come parte del segreto professionale accordandovi una particolare tutela” e vincola al sigillo sacramentale esclusivamente il confessore, mentre “tutte le altre persone che per qualsiasi ragione venissero a conoscenza del contenuto di una confessione, come per es. l’interprete o altri che eventualmente ascoltassero, sono vincolati, invece dal segreto”.

“Tale distinzione di responsabilità determina, infatti, in caso di violazione, una diversità di pena”, ha spiegato.

Inoltre, ha proseguito mons. Girotti, “il sacerdote è tenuto al sigillo sacramentale verso chiunque, compreso il penitente. Se, infatti, il confessore desidera parlare con il penitente dei peccati confessati occorrerà il suo permesso, a meno che ciò non avvenga immediatamente dopo la confessione – in tale ipotesi questo sarebbe da considerarsi come la continuazione morale della confessione - oppure il penitente stesso, in successivi incontri, ritorni su qualche considerazione relativa alla precedente confessione”.

Inoltre, ha precisato, “neppure la morte del penitente potrà sciogliere il confessore da questo vincolo.

Infine, mons. Girotti ha ricordato che la Chiesa, a partire da un decreto emanato nel 1988 dalla Congregazione per la Dottrina della Fede,  punisce con particolare severità anche “chi viola il segreto relativo alla confessione, registrando per mezzo di strumenti tecnici oppure divulgando per mezzo di strumenti di comunicazione sociale, ciò che viene detto dal confessore e dal penitente”.

“In questo caso – ha concluso  –, l’interessato incorre nella pena specifica della scomunica latae sententiae”.

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Proteggere l’intimità della persona

Posté par atempodiblog le 11 mars 2015

Non è lecito ad alcuno ledere illegittimamente la buona fama di cui uno gode, o violare il diritto di ogni persona a difendere la propria intimità.
Codice di Diritto Canonico n. 220 (Libro II – Il popolo di Dio. Parte I – I fedeli cristiani)

“Nulla disgusta maggiormente un’anima del fatto che si dica ad altri ciò che essa ha detto in fiducia, cioè in segreto”.
Santa Faustina Kowalska

“Compito del parroco, e di ogni sacerdote è quello di tutelare e difendere l’intimità di ogni persona, intesa come spazio vitale in cui proteggere la propria personalità oltre agli affetti più cari e più personali. Scopo del segreto, sia sacramentale, sia extra sacramentale, è proteggere l’intimità della persona, cioè custodire la presenza di Dio nell’intimo di ogni uomo. Chi viola questa sfera personalissima e ‘sacra’, compie non solo un atto di ingiustizia, un delitto canonico, ma un vero e proprio atto di irreligiosità”.
Card. Mauro Piacenza (Penitenziere Maggiore di Santa Romana Chiesa)

Proteggere l’intimità della persona dans Apparizioni mariane e santuari Santuario-di-Torreciudad

Il santuario di Torreciudad, dove nei confessionali la privacy è completamente assicurata

[…] E’ qui, in questa cornice spettacolare, al centro di un paesaggio di incredibile maestà e bellezza, circondato da pareti rocciose lambite dalle acque, che si eleva, come una fortezza celeste, il santuario mariano di Torreciudad, grazie all’amore per la Madre di Dio e allo zelo per le anime di San Josemaría Escrivá de Balaguer, fondatore dell’Opus Dei.

[…] Scendo nella cripta del santuario dove incrocio tre cappelle dedicate rispettivamente alla Madonna di Loreto, alla Vergine del Pilar e alla Madonna di Guadalupe. Qui è il luogo che San Josemaría ha previsto per le confessioni. Ai lati di ogni cappella vi è una fila di confessionali dove, contrariamente a quello che succede un po’ ovunque, la privacy è completamente assicurata, mentre nel vestibolo di ingresso si trovano dei libretti che aiutano a preparare la confessione. Noto un po’ ovunque nel santuario una particolare attenzione per predisporre i servizi per gli invalidi e nella cappella del Pilar vi è un confessionale per i sordi e per i portatori di handicap.

Tratto da: Pellegrino a quattro ruote — Padre Livio Fanzaga

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Papa: anzianità è vocazione, non ora di tirare remi in barca

Posté par atempodiblog le 11 mars 2015

Papa: anzianità è vocazione, non ora di tirare remi in barca
La società tende a scartare gli anziani, ma il Signore non ci scarta, “ci chiama a seguirlo in ogni età della vita”. Lo ha detto Papa Francesco all’udienza generale in Piazza San Pietro, durante la quale ha proseguito la riflessione sui nonni, iniziata mercoledì scorso, concentrandosi in particolare sul valore e sull’importanza del loro ruolo nella famiglia.
di Giada Aquilino – Radio Vaticana

Papa: anzianità è vocazione, non ora di tirare remi in barca dans Fede, morale e teologia ildtlk

Le famiglie accolgano le persone anziane “con riconoscenza”, per ricevere la loro testimonianza di saggezza “necessaria alle giovani generazioni”. Questa l’esortazione del Papa che, immedesimandosi, ha subito voluto condividere una riflessione con la piazza gremita:

“Anch’io sono nell’età dei nonni
“Anch’io appartengo a questa fascia di età. Quando sono stato nelle Filippine, i filippini, gli abitanti delle Filippine, il popolo filippino mi salutava, dicendo ‘Lolo Kiko’, cioè nonno Francesco”.

Eppure, ha aggiunto, la società di oggi tende a scartare gli anziani: ma “di certo non il Signore”:

“Il Signore non ci scarta mai. Lui ci chiama a seguirlo in ogni età della vita, e anche l’anzianità contiene una grazia e una missione, una vera vocazione del Signore. L’anzianità è una vocazione. Non è ancora il momento di ‘tirare i remi in barca’”.

La vecchiaia ci è data per pregare, la preghiera degli anziani è un dono
Riflettendo sul brano evangelico di Luca dedicato alla presentazione di Gesù al Tempio da parte di Maria e Giuseppe, quando Simeone e Anna – “vecchi straordinari” – dimenticarono “il peso dell’età” e scoprirono nel Bambino Gesù “una nuova forza, per un nuovo compito: rendere grazie e rendere testimonianza per questo Segno di Dio”, il Pontefice ha invitato a diventare “poeti della preghiera”. Abbiamo bisogno – ha detto – di “anziani che preghino, perché la vecchiaia ci è data proprio per questo”, la loro preghiera è un “grande dono”:

“La preghiera degli anziani e dei nonni è un dono per la Chiesa, è una ricchezza! Una grande iniezione di saggezza anche per l’intera società umana: soprattutto per quella che è troppo indaffarata, troppo presa, troppo distratta”.

L’esempio di Benedetto XVI
In tale prospettiva, un pensiero al suo predecessore:

“Guardiamo a Benedetto XVI, che ha scelto di passare nella preghiera e nell’ascolto di Dio l’ultimo tratto della sua vita”.

Anziani, esempio di fedeltà coniugale
Soffermandosi sulla Giornata per gli anziani, svoltasi l’anno scorso in Piazza San Pietro, Francesco ha voluto ricordare non solo “le storie di anziani che si spendono per gli altri”, ma anche quelle di coppie salde nella loro unione, giunte per festeggiare anche i 50 o 60 anni di matrimonio:

“E’ importante farlo vedere ai giovani che si stancano presto; è importante la testimonianza degli anziani nella fedeltà”.

L’invito del Papa è stato allora a riflettere su questo periodo della vita “diverso dai precedenti”, che va forse anche inventato “perché le nostre società non sono pronte, spiritualmente e moralmente”, a dare ad esso il suo pieno valore. Anche la spiritualità cristiana “è stata colta un po’ di sorpresa”: occorre quindi “delineare una spiritualità delle persone anziane”, perché se “una volta” non era così normale avere tempo a disposizione, oggi – ha proseguito – “lo è molto di più”. D’altra parte gli anziani, pregando, possono “ringraziare il Signore per i benefici ricevuti e – ha aggiunto – riempire il vuoto dell’ingratitudine che lo circonda”:

“Possiamo intercedere per le attese delle nuove generazioni e dare dignità alla memoria e ai sacrifici di quelle passate. Noi possiamo ricordare ai giovani ambiziosi che una vita senza amore è una vita arida. Possiamo dire ai giovani paurosi che l’angoscia del futuro può essere vinta. Possiamo insegnare ai giovani troppo innamorati di sé stessi che c’è più gioia nel dare che nel ricevere”.

Incoraggiamento ai giovani
Perché i nonni e le nonne formano quella che il Papa ha definito una “‘corale permanente di un grande santuario spirituale”, in sostegno alla “comunità che lavora e lotta nel campo della vita”. La preghiera, poi, “purifica incessantemente il cuore”, prevenendo l’indurimento del cuore nel risentimento e nell’egoismo:

“Com’è brutto il cinismo di un anziano che ha perso il senso della sua testimonianza, disprezza i giovani e non comunica una sapienza di vita! Invece com’è bello l’incoraggiamento che l’anziano riesce a trasmettere al giovane in cerca del senso della fede e della vita”!

Chiesa sfidi cultura scarto, per abbraccio tra giovani e anziani
Questa è dunque la “missione dei nonni”, la “vocazione degli anziani”, secondo il Pontefice, perché – ha spiegato – “le parole dei nonni hanno qualcosa di speciale, per i giovani”, che comprendono tale importanza: lo stesso Francesco, ha confessato, conserva ancora nel breviario le parole che la nonna gli scrisse il giorno dell’ordinazione sacerdotale.

“Come vorrei una Chiesa che sfida la cultura dello scarto con la gioia traboccante di un nuovo abbraccio tra i giovani e gli anziani”.

Santa Teresa
Nei saluti finali nelle varie lingue, il Papa ha tra l’altro rivolto un penisero particolare ai pellegrini della Corea: conserva – ha detto – “un vivo ricordo” della visita dell’agosto scorso nel Paese asiatico. Ai pellegrini di lingua italiana, la sollecitazione in questo tempo quaresimale “ad impegnarsi nella costruzione di una società a misura d’uomo in cui – ha sottolineato – ci sia spazio per l’accoglienza di ciascuno, soprattutto quando è anziano, ammalato, povero e fragile”. Infine ha menzionato “il vigore spirituale” di Santa Teresa di Gesù, nel quinto centenario della nascita ad Ávila. Al termine dell’udienza i partecipanti al pellegrinaggio carmelitano “Cammino di Luce” hanno portato al Pontefice il bastone della Santa, che Francesco ha toccato “con amore e gioia”, ha raccontato padre Antonio González, segretario generale dell’organizzazione per l’anniversario.

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Il Papa a Tor Bella Monaca tra gente “buona” con l’unico “difetto” di essere povera

Posté par atempodiblog le 9 mars 2015

Il Papa a Tor Bella Monaca tra gente “buona” con l’unico “difetto” di essere povera
Nel quartiere alla periferia di Roma, Francesco incontra malati, suore e fedeli. Intavola un dialogo con i bambini e nell’omelia ricorda che la “doppia faccia” allontana da Cristo
di Salvatore Cernuzio – Zenit

Il Papa a Tor Bella Monaca tra gente “buona” con l'unico “difetto” di essere povera dans Fede, morale e teologia 28i1fli

“La gente di Tor Bella Monaca è gente buona. Ha solo un difetto, lo stesso che avevano Gesù, Giuseppe e Maria, quello di essere poveri. La povertà, con la differenza che Gesù e Giuseppe avevano lavoro, tanta gente non ha invece da dar da mangiare ai figli”.

Realista e sensibile ai drammi dell’uomo, Papa Francesco nella sua visita di oggi pomeriggio nel quartiere romano di Tor Bella Monaca posa subito lo sguardo sulle difficoltà e le problematiche sociali che segnano questa zona nella periferia sud della Capitale.

Nell’incontro con il Consiglio pastorale, poco prima della Messa nella parrocchia di Santa Maria Madre del Redentore, Francesco parla infatti della “ingiustizia e discriminazione” che mettono a dura prova la “bontà” delle persone, e denuncia la piaga della disoccupazione che spinge spesso giovani o genitori di famiglia a cedere a guadagni facili ma illeciti.

“Grazie per quello che fate”, dice quindi il Papa. Ed invita alla vicinanza e all’ascolto perché “quando la gente si sente accompagnata e ben voluta non cade nella rete dei cattivi, dei mafiosi che sfruttano la gente povera per farle fare il lavoro sporco. Poi se la polizia li trova, trova la povera gente e non i mafiosi che pagano la loro sicurezza, voi lo sapete”.

Bisogna perciò “stare vicino alla gente”, ha insistito Bergoglio: “Noi non possiamo andare con il ‘tu devi, tu devi’, ma con quella vicinanza che è la carezza che Gesù ci ha insegnato”. Vicinanza quindi “anche a quello che io so che ha fatto fuori due, tre persone”. “Sì, avvicinati” anche a lui, dice il Papa, “perché anche quello ha un cuore e c’è tanta ingiustizia” e non si combatte questa “facendo manifestazioni politiche e poi andando a mangiare una bella pizza con la birra tutti insieme, ma con la vicinanza concreta”.

Parole, queste, che rimarranno incise nel cuore dei circa 40mila abitanti venuti in grandissimo numero ad accogliere il Santo Padre. Chi con bandierine o striscioni, chi armato di tablet e smartphone, chi pronto a sollevare i propri neonati per una benedizione.

A proposito di bambini, proprio i piccoli sono stati i protagonisti dei primi momenti di Bergoglio a Tor Bella Monaca. Un migliaio di loro, provenienti dall’oratorio o dalle altre realtà della parrocchia, hanno incontrato il Pontefice nel campo sportivo fuori dal Centro Caritas di Santa Giovanna Antida, regalandogli una maglia di calcio.

È seguito poi il consueto ‘botta e risposta’. Domande semplici, da catechismo, del tipo: “Cosa ha provato quando è stato eletto Papa?”; “Se Dio perdona tutti, come mai esiste l’inferno?” e “Che vuol dire vivere da cristiano?”. Francesco risponde a tono, con frasi semplici ma di effetto, come: “Precetti e divieti da soli non ti fanno un buon cristiano. Cristiano è l’amore di Gesù”. Racconta poi ai bimbi dell’orgoglio di Satana, dell’inferno e del rifiuto di Dio; ricorda quindi la storia del buon ladrone crocifisso accanto a Gesù, per spiegare che “va all’Inferno chi rifiuta il perdono del Dio e va in Paradiso chi invece chiede e accetta il perdono di Dio”.

Prima dei ragazzi, il Papa si era fermato a poca distanza presso il Centro in via dell’Archeologia, nel quale operano le Missionarie della Carità, per volontà della stessa Madre Teresa che vide nel quartiere romano – all’epoca solo una ‘striscia’ di terra della Casilina – la possibilità di vivere il loro carisma “tra i più poveri dei poveri”. Il Papa ha quindi abbracciato circa 80 disabili e malati in rappresentanza di quelli assistiti dalle suore, e ha salutato cinque famiglie bisognose, italiane e straniere.

L’appuntamento nel Centro è durato così a lungo che il Santo Padre è arrivato con circa mezz’ora di ritardo nella grande parrocchia a forma di vela, progettata dell’architetto Pierluigi Spadolini e dell’ingegnere Riccardo Morandi per l’esterno. Una parrocchia giovane, edificata tra il 1985 ed il 1987, il cui interno è corredato da cemento e legno d’ulivo, visitata già da Giovanni Paolo II nel 1988.

Francesco vi entra a capo chino per la Santa Messa, seguito dal cardinale Vallini e dal vescovo di settore Marciante, accolto dal parroco don Francesco De Franco. Intanto i canti e le chitarre dei giovani delle comunità neocatecumenali accompagnano l’ingresso del Vescovo di Roma.

Nell’omelia, tutta a braccio, il Papa si sofferma sul Vangelo di Giovanni in cui Gesù caccia via i mercanti dal tempio. “Due cose mi colpiscono di questo Vangelo: un’immagine e una parola”, dice. L’immagine è quella di Gesù che “con la frusta in mano”, scaccia “tutti questi che approfittavano del tempio per fare affari, questi affaristi che vendevano animali per i sacrifici, scambiavano monete… C’era il tempio sacro con questo sporco fuori”. E Gesù va a fare quindi un po’ di “pulizia”.

La frase è invece che “tanta gente credeva in lui. Ma Lui non si fidava di loro perché conosceva tutti…”. Una frase “terribile”, osserva il Papa, perché significa che “noi non possiamo ingannare Gesù, Lui ci conosce da dentro”. Cristo “non si fidava” di questa gente. E questa – suggerisce Bergoglio – “può essere una bella domanda a metà Quaresima: Gesù si fida di me?”: “Gesù si fida di me? O faccio la doppia faccia? Faccio il cattolico, il vicino alla chiesa, poi vivo come un pagano”.

“Gesù lo sa, Lui sa” qual è la verità. Perché Gesù “conosce tutto quello che è dentro il nostro cuore”. Quindi “noi – ammonisce il Papa – non possiamo ingannare Gesù”, come “non possiamo fare finta di essere santi, chiudere gli occhi, fare così… e poi portare una vita che Lui non vuole”.

Sappiamo con che appellativo Cristo bolla questi doppia faccia: “ipocriti”. Meglio allora essere “peccatori” che ipocriti, dice infatti Papa Francesco: “Ci farà bene entrare oggi nel nostro cuore e guardare Gesù e dire: ‘Signore guarda ci sono cose buone, ma anche ci sono cose non buone. Gesù tu ti fidi di me? Sono peccatore…’. Quello non spaventa Gesù – soggiunge – A Lui quello che lo allontana è la doppia faccia, fare il giusto per coprire il peccato nascosto. ‘Ma io vado in Chiesa tutte le domeniche…’. Ma se il tuo cuore non è giusto, se tu non fai giustizia, se tu non ami, se tu non vivi secondo lo spirito delle Beatitudini, non sei cattolico, sei ipocrita!”.

Allora “entriamo nel nostro cuore”, esorta Francesco, sicuramente troveremo “cose che non vanno bene”, troveremo tante “sporcizie”, quante ne ha trovate Gesù fuori dal tempio. “Peccati di egoismo, superbia, orgoglio, cupidigia, invidia, gelosie… tanti peccati”. Ma proprio per questo dobbiamo rivolgerci al Signore e gridare: “Io voglio che tu ti fidi di me… Allora io ti apro la porta e tu pulisci la mia anima”.

E dobbiamo farlo senza alcuna paura, dice il Papa, perché se Gesù per fare pulizia fuori dal tempio usava una frusta con le cordicelle, per pulire la nostra anima utilizza un’altra ‘arma’: la misericordia. “Aprite il cuore alla misericordia di Gesù”, esorta infatti il Pontefice; diciamogli: “Vieni pulisci con la tua misericordia, con le tue parole dolci, con le tue carezze”. E “se noi apriamo il nostro cuore alla misericordia di Gesù, perché pulisca la nostra anima, Gesù si fiderà di noi”.

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