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I “cristiani nascosti” del Giappone, una storia protetta dal manto di Maria

Posté par atempodiblog le 17 mars 2015

I “cristiani nascosti” del Giappone, una storia protetta dal manto di Maria dans Articoli di Giornali e News 15i215z

Tokyo (AsiaNews) – Si concludono oggi i quattro giorni di solenni celebrazioni che la Chiesa giapponese ha indetto per ricordare i 150 anni dalla riemersione dei “cristiani nascosti” di Nagasaki. La portata storica e cattolica di quell’evento, tante volte citato da papa Francesco, è una “grande grazia” per la comunità del Sol Levante: tutto il 2015 dei cattolici giapponesi sarà dedicato alla memoria di questi antenati nella fede. Di seguito pubblichiamo una riflessione sul tema di p. Mario Bianchin, Superiore regionale del Pontificio Istituto Missioni Estere (Pime).

La portata storica di quanto avvenne il 17 marzo 1865 nell’appena costruita chiesa di Oura, su una collina sovrastante il porto, certamente passò inosservata alla popolazione di Nagasaki, anche se forse non alle autorità, a motivo delle quali non tarderanno ad arrivare anche i guai. Perché in Giappone erano ancora vigenti le leggi che proibivano la religione cristiana. Esse saranno tolte a fatica solo nel 1873, non prima di un nuovo infierire della persecuzione che causò nuovi martiri a noi ancora poco noti, come i martiri di Tsuwano.

Ma la rilevanza dell’avvenimento è tale che la Chiesa in Giappone lo ricorda nel suo calendario liturgico,  e quest’anno lo celebra come Festa, sotto il titolo di “Nippon no Shinto Hakken no Seibo” (Santa Madre della scoperta dei Cristiani del Giappone).

L’avvenimento, si racconta, causò tanta gioia da commuovere fino alle lacrime il beato Papa Pio IX. Ma sappiamo come la sua portata ecclesiale non passò inosservata a Papa Francesco, che ce lo additava come esempio eloquente dell’importanza capitale del Battesimo, come del sacramento che ci radica e ci rende capaci di testimoniare e trasmettere autenticamente la Fede santa.

I fatti di quel giorno sono narrati negli annali (o cronache) della Società delle Missioni Estere di Parigi (cfr. Bulletin de la Societe des Missions-Etrangeres), che il Seminario Lombardo per le Missioni Estere (ora Pime) appena fondato, incominciò subito a tradurre e pubblicare in italiano con il titolo “Le Missioni Cattoliche” e che ora si chiama “Mondo e Missione”. Essi si trovano nel “Journal” di p. A.Renaut Mep, del 13 settembre 1875. Qui li ricorderò come sono citati nel libro di p.Joseph Leonard Van Hecken Cicm “The Catholic Church in Japan, since 1859” .

Il p. B.Petitjean , che arrivava a Nagasaki nell’agosto 1864, aveva appena completato la costruzione della chiesa di Oura, iniziata dal suo predecessore p. L.Furet arrivato l’anno prima, e “di proposito si muoveva in città e fuori città vestendo la sua sottana, intendendo in questo modo informare la popolazione che erano tornati i sacerdoti cattolici”. I “cristiani nascosti”, che a centinaia vivevano nei villaggi attorno a Nagasaki, ben presto notarono la presenza di questi stranieri diversi dagli altri anche nell’apparenza, e cominciarono a chiedersi se non fossero ritornati i “Bateren” (i Padri) che avevano insegnato la religione di Gesù ai loro antenati.

Certo, la croce sopra la bella chiesa di Oura era il segno della redenzione di Cristo! E cominciarono a discutere tra di loro sul significato che avrebbero dovuto dare all’arrivo di questi stranieri. Essi sarebbero stati pronti a riconoscerli come gli autentici successori degli antichi “Bateren” – conclusero – se costoro erano uniti al Pontefice di Roma, se onoravano l’immagine della Vergine Maria e se vivevano nel celibato perpetuo.

Fu così che, a cercare il primo contatto, si mossero in piccolo gruppo da Urakami la mattina del 17 marzo 1865 e arrivarono a Oura verso mezzogiorno. P. Petitjean li accolse e li portò in chiesa, con l’intenzione di parlare loro della Fede. “E mentre faceva un breve atto di adorazione davanti all’altare, si sentì toccare la spalla: si girò. Era una donna, che gli dice: ‘Il nostro cuore è come il vostro’ ! E notando il volto sorpreso del padre, insiste chiedendo dove sia Santa Mariasama. Il padre la guida all’altare della Madonna, e vedendo il Bambino in braccio alla Vergine Madre Maria, la donna dice: ‘E’ Jesussama – dice la donna – dove abitiamo noi, ci sono ancora 1300 che hanno il nostro stesso cuore. Alcuni giorni fa siamo entrati nella stagione di Quaresima. Iesususama è nato nell’undicesimo mese (il mese di dicembre)’. Il nome della donna era Elisabetta Tsuru, una ostetrica proveniente da Hamaguchi” (op.cit. pg.15).

Questi i fatti noti, che ci riempiono tutt’oggi di gratitudine, di stupore e di gioia. Forse meno noti sono invece i fatti che fanno da sfondo a questo avvenimento, e che può essere utile brevemente ricordare. Si tratta infatti di un desiderio profondo e reciproco di ricerca: da parte cioè sia dei nuovi missionari che da parte dei fedeli cristiani, che per i 240 anni di persecuzione e di chiusura del Paese avevano conservato e trasmesso la Fede dei loro padri, arrivata in Giappone con la prima predicazione di S. Francesco Saverio nel 1549 .

Ma che cosa aveva reso possibile l’incontro che realizzava il desiderio profondo comune? In breve, ecco la successione degli avvenimenti.

Ciò che aveva scosso il Giappone dal suo isolamento era stata la visita del Commodoro Perry nel 1853, che si era presentato nel porto di Tokyo con una piccola flotta e aveva consegnato a rappresentanti dello Shogunato (il governo del Giappone di allora) una lettera da parte del Presidente degli Stati Uniti. La visita maturò in un Trattato di Amicizia (Treaty of Kanagawa) firmato il 31 marzo 1854 , che concedeva agli Stati Uniti l’accesso ai porti di Shimoda e di Hakodate.

Fu invece opera del primo Console americano Townsend Harris, residente a Shimoda fin dal 1856, preparare la strada per la conclusione del primo Trattato Commerciale e di Amicizia con le Potenze Occidentali noto come “Ansei Treaty” , che sarà firmato per gli Stati Uniti il 20 luglio 1858. Simili Trattati saranno firmati nei giorni successivi dall’Inghilterra e dalla Francia .

Sarà poi il trattato con la Francia a mettere in moto gli eventi che portano al ritorno dei missionari in Giappone e in definitiva alla scoperta dei cristiani nascosti . Basterà qui avervi appena accennato, ma la storia di quest’epoca missionaria è così intensa di avvenimenti significativi per la Missione che varrà la pena ritornarvi.

Una digressione conclusiva mi porta a rilevare un’interessante coincidenza tra questi avvenimenti e le apparizioni della Madonna a Lourdes, che avvengono in questo stesso anno 1858. Soprattutto se si tiene conto del fatto che il Vescovo Theodore Forcade (Mep), primo Vicario Apostolico del Giappone, ma impossibilitato a mettervi piede a motivo dei decreti di persecuzione ancora vigenti, sarà vescovo di Nevers, e si adopererà non solo per l’accoglienza di santa Bernardetta al Convento di Nevers, ma anche per difendere l’autenticità di quegli avvenimenti. La riproduzione della grotta di Lourdes presso le chiese e nei conventi è una scena familiare in Giappone fino ad oggi.

Non saranno segni della protezione particolare di Maria per questa Chiesa del Giappone, la Madre tanto venerata nel periodo di proibizione dai fedeli nascosti sotto le sembianze di “Maria-Kannon”, la cui immagine veniva collocata davanti alla Chiesa di Oura con il titolo “Nostra Signora del Giappone”, nel secondo anniversario di questo giorno memorabile? 

di Mario Bianchin (Superiore regionale del Pime in Giappone)
Fonte: AsiaNews

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ISIS IN ITALIA/ Gli studenti di terza media: “Se arriva ci convertiamo subito”

Posté par atempodiblog le 17 mars 2015

ISIS IN ITALIA/ Gli studenti di terza media: “Se arriva ci convertiamo subito”
di Gianfranco Lauretano – Il Sussidiario

ISIS IN ITALIA/ Gli studenti di terza media: “Se arriva ci convertiamo subito” dans Articoli di Giornali e News n525c

Il fatto che qui si racconta è veramente accaduto. In una terza media di una normale scuola statale di una città italiana di provincia, che non serve nominare perché simile a mille altre, la professoressa di italiano intavola una conversazione coi ragazzi a seguito di una domanda di delucidazione di una di essi sull’Isis, il califfato islamico, e i fatti terribili di cui inevitabilmente sono giunti a conoscenza lei e i compagni.
Ad un certo punto la prof, nel vivo della chiacchierata, butta lì questa domanda: “Ma se davvero gli estremisti islamici riuscissero ad arrivare in Italia, ad occuparla fino alla nostra città, voi cosa fareste?”. La risposta giunge senza apparente esitazione: ci convertiremmo all’islam per salvarci, dicono i ragazzi. Su venticinque, tutti d’accordo eccetto due.

L’episodio, che potrà sembrare irrilevante, è invece indicatore della situazione umana e culturale in cui si trovano gli italiani e molti occidentali e può anche dare qualche indicazione sullo strano appeal che su tanti giovani mediorientali (e anche occidentali) esercitano il califfato, la sua guerra santa, le atrocità che vi si commettono. Pare ormai chiaro, infatti, che le migliaia di combattenti che vi si recano in massa anche dai paesi europei non siano tutti poveri, diseredati, emarginati di una qualche banlieue o sobborgo londinese: ci sono anche borghesi, persone inserite e facoltose, laureati, arabi di seconda o terza generazione, persone insomma che avevano trovato in occidente una vita confortevole. Eppure vanno, spesso scappando perfino dai genitori, come racconta il caso recente di tre studentesse giunte da Londra in Siria.

Il fatto è che lo strano appeal del califfato cresce in presenza di un vuoto, forse di due. Il primo vuoto è il nostro: un vuoto di ideale, di senso della vita. Il cuore dell’uomo, e quello tumultuoso dei giovani, ha segretamente bisogno di vivere per qualcosa che lo trascenda: qualcosa di più grande, di forte, di eterno; non c’è niente da fare. A questa sete cosa offriamo noi? Un certo benessere, molto spettacolo, un po’ di tecnologia e un’idea di libertà tanto assoluta da diventare semplicemente arbitraria e scriteriata. Libertà di far che, alla fine? Certo, milioni dei nostri giovani si accontentano, purché sia permesso loro di innaffiare questo vuoto con un po’ di alcol, di stupefacenti, di sballo; e qualche dovere a cui rispondere — studiare, ad esempio — ma con sempre meno convinzione. Ma quanti genitori, e quali, sanno oggi dare ai figli un senso all’altezza della loro domanda?

Il secondo vuoto è tutto interno al mondo islamico. L’estremismo spinto fino al terrorismo che prende ispirazione dal Corano è infatti un problema anche per gli islamici cosiddetti moderati. Com’è possibile che un’aberrazione oscurantista come l’Isis possa trovare la sua giustificazione nel libro santo dell’islam?

A questo, che è un fatto, possono rispondere solo i teologi e le guide religiose del mondo islamico, ma non si deve sottovalutare l’evidenza che l’islam moderato sta perdendo migliaia e migliaia dei suoi giovani; quella fede che tanti personaggi, ad esempio Obama (il quale non risulta però essere un esperto di islamistica, come tanti altri che ne parlano forse senza ragion veduta), considerano una “religione di pace” sta radicalizzandosi verso forme estreme, violente, razziste: chi non è come noi va sterminato, affermano con nonchalance poco tempo fa impensabile. Una religione dunque che, nell’impatto con la modernità, sembra sbriciolarsi in mille rivoli: è ancora la cronaca a dirci delle profonde e violente divisioni perfino tribali che sussistono tra musulmani, i quali non esitano a scannarsi neppure fra loro.

PS: i due ragazzi della classe succitata che resisterebbero ad ogni intimidazione e obbligo alla conversione hanno una famiglia in cui la fede cristiana è vissuta in modo semplice e quotidiano, ai quali i genitori hanno testimoniato la presenza reale e buona di un grande Amico, che loro hanno liberamente accettato e al quale non rinuncerebbero perfino “di fronte alla morte”.

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Cosa significa a vent’anni, magari con un diploma, sentirsi dire: «Non servi»

Posté par atempodiblog le 17 mars 2015

Cosa significa a vent’anni, magari con un diploma, sentirsi dire: «Non servi» dans Articoli di Giornali e News 2mq6scn

Milano, marzo. Una di quelle mattine limpide e chiare, che segnano una acerba primavera. Cammino per strada, contenta di quest’aria di marzo. Una di quelle mattine in cui il mondo sembra nuovo, rifatto da capo. Alla fermata dell’autobus ci siamo solo io e un ragazzo sui vent’anni. Parla al cellulare, ad alta voce. Sta spiegando a qualcuno che cosa sa fare: «Ho aiutato in negozio mio padre, che è pasticciere… Ho fatto il barista, e me la cavo anche come cameriere…».

Il ragazzo parla in fretta, come se l’interlocutore gli avesse detto che non ha tempo da perdere. Una pausa, ora l’altro gli sta dicendo qualcosa. Il ragazzo, dopo un istante di silenzio: «Capisco, non sono quello che cerca… Ma ascolti, le lascio il mio cellulare, mi chiamo Davide, se avesse bisogno mi chiami…». E chiude e s’infila in tasca il cellulare, mogio. Poi arriva il suo autobus, e il ragazzo se ne va.

Io resto ad aspettare il mio, in questo sole in cui tutto sembra nuovo. Veramente, così mi pareva cinque minuti fa. Cosa mi ha preso? Non sono più contenta come prima, di questo marzo lucente. Qualcosa in me si è messo di traverso. Qualcosa di dolente. Quel ragazzo, ha l’età dei miei figli. Sì, forse è istinto materno: che pena mi fa, sentire uno di vent’anni domandare e quasi mendicare un lavoro con quell’ansia, elencare affannosamente ciò che sa fare, e poi tacere, mentre l’altro risponde che, no, grazie, non serve. Mi fa pena il modo in cui ha chinato la testa, a quel «no, grazie». Quante telefonate avrà fatto? E quanti no si è già sentito dire? E quanti in Italia come lui, della sua età, stamattina, rispondono ad annunci, bussano a porte che non si apriranno?

D’improvviso le cifre spaventose della disoccupazione giovanile per me hanno una faccia. Davide, so solo il suo nome. E in questo sussulto materno capisco non in teoria, ma nella carne, cosa deve essere, a vent’anni, magari con un diploma, sentirsi dire: non servi. A vent’anni, quando le forze sono piene, e la voglia di vivere trabocca, e c’è la speranza, magari, che con “lei” un giorno si possa vivere assieme, sposarsi, avere un figlio.

Ma: grazie, no, non abbiamo bisogno. Siamo al completo. Stiamo già mandando a casa gente. Non servi, ragazzo. Quello che hai studiato, e le tue mani, e le tue gambe svelte, non servono. E tua madre, a casa, che non aspetta che di sentirti dire che finalmente hai trovato. E tuo padre, che ti incrocia in corridoio e quasi di nascosto ti mette in mano i soldi per le sigarette e la benzina, imbarazzato. Noi, che materialmente ai figli abbiamo dato tutto, manchiamo nella cosa più importante: nel dirgli, venite, presto, abbiamo bisogno di voi.

Poi, arriva il mio autobus. E passano le ore, e le parole e le cose da fare si sovrappongono, ma quel ragazzo mi resta dentro come un retropensiero. La faccia che ha fatto, nel chiudere la telefonata. E allora mi rivolgo a un santo di cui ho personalmente testato l’efficacia, e prepotente gli dico: senti, so solo che si chiama Davide, ma tu di certo lo conosci. Devi pensarci tu. E guarda, aggiungo brusca, che è urgente.

di Marina Corradi – Tempi

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«Chi sei?». Nessuna botta, per quanto forte, può cancellare il nostro io

Posté par atempodiblog le 17 mars 2015

«Chi sei?». Nessuna botta, per quanto forte, può cancellare il nostro io dans Articoli di Giornali e News smszd4

Chi sei? Se te lo chiede l’insegnante il primo giorno di scuola, basta dire nome e cognome. Se te lo chiede chi ti fa un colloquio di lavoro, devi sfoderare il meglio del tuo curriculum. Se te lo chiede la/il ragazza/o che ti piace, è probabile che mettere insieme anche solo due parole si faccia assai difficile. Chi sei? Quando se lo chiede un genitore di fronte al figlio appena nato, perfino l’universo intero sembra troppo piccolo per contenere una risposta adeguata.

Poi capita che lo chieda un dottore a un paziente che ha preso una bella botta, e magari si senta rispondere: «Sono Fernando, corro sui kart e vorrei diventare un pilota di Formula 1». Dopo l’incidente capitato ad Alonso lo scorso 22 febbraio sul circuito di Montmeló molte notizie e leggende sulla sua perdita di memoria sono lievitate sugli organi di stampa. Le dichiarazioni ufficiali di casa McLaren confermano che il pilota ha avuto una commozione cerebrale con perdita di memoria temporanea; lo stesso pilota ora ci scherza su Twitter e, pur rispettando i tempi di recupero previsti, ha una gran voglia di tornare a correre in pista.

La domanda «chi sei?» è di quelle che restano aperte fino all’ultimo secondo di vita, proprio perché il tempo ci è dato per rispondere compiutamente a questo interrogativo; eppure capitano incidenti che azzerano il tempo e magari cancellano anche vent’anni di ricordi. E, dunque, il nostro io scompare? Non proprio. In Cina, ad esempio, è capitato che un’anziana di 94 anni, in seguito a un ictus, sia rimasta in coma per due settimane e al suo risveglio non parlava più cinese, bensì inglese. Lei era stata insegnante di inglese per 30 anni. Insomma, quando si tocca quel meraviglioso mistero che è il cervello, accadono cose tremendamente imprevedibili.

Capita che un uomo torni indietro di molti anni a quando era un giovane che sognava di diventare un famoso pilota di Formula 1; o capita che una donna si risvegli sapendosi esprimere solo attraverso quella lingua a cui ha dedicato il lavoro di una vita. Accade che – temporaneamente o meno – le botte della vita riducano il tutto di te a una memoria singola, magari neppure così memorabile. Si dice: «Ho avuto una giornata da dimenticare». E se domattina ci svegliassimo ricordando solo quel brutto giorno da dimenticare? Saremmo, forse, meno noi stessi? Mi viene in mente quel meraviglioso film intitolato Ricomincio da capo in cui il grande Bill Murray si trova a vivere e rivivere il medesimo giorno della marmotta; una di quelle classiche giornate insulse e storte che avrebbe voluto solo dimenticare. Eppure vivendo e rivivendo quel giorno, alla fine diventa più se stesso e impara a scoprire le qualità nascoste dietro un’apparente insignificanza.

Sì, è vero, ci si mette una vita intera a rispondere alla domanda: «chi sei?». Eppure Montale scrisse in un verso mirabile: «Solo il divino è totale nel sorso e nella briciola». Ed è innegabile che la realtà sia quella sostanza non semplicemente realistica, bensì attinente al divino, cioè capace di far baluginare anche solo in un sorso di vita, la totalità di una persona. Basta una briciola di tempo per intuire che tutto il bisogno contenuto nella domanda «chi sei?» si riverbera nel miracolo di accorgersi che «ci sei».

di Annalisa Teggi – Tempi

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