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Quando l’anima ascolta

Posté par atempodiblog le 10 février 2015

Quando l’anima ascolta
tutto ciò che vive ha lingua,
il più dolce mormorio
porta un segno, un senso preciso: 
alberi e fogliame
conversano vivacemente fra loro, 
onde sui fiumi
parlano alto in tono di gioia, 
venti, prati e nubi,
vie per i piedi sacri di Dio,
sono i traduttori discreti
del Verbo, misterioso…
quando l’anima ascolta.

di Guido Gezelle

Quando l'anima ascolta dans Citazioni, frasi e pensieri 6yla4y

Non vediamo il bene che Iddio ci fa, perché Iddio non cessa mai di farci del bene. Niente, quanto un bene continuo, colpisce meno la coscienza. Non si è riconoscenti all’acqua di scorrere senza posa, né al sole di levarsi ogni mattino. Se Iddio non si occupasse di noi che di tanto in tanto, noi penseremmo di più alla Sua bontà. La riconoscenza è prima di tutto uno stupore.

di Gustave Thibon

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Sentirsi irrequieti, desiderare di essere altrove, partire e scoprire che “no, non è nemmeno qui”

Posté par atempodiblog le 10 février 2015

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Da tutta la vita mi prende certe mattine una irrequietezza, come la necessità assoluta di andare in un luogo diverso da quello in cui mi trovo. Si impadronisce di me l’idea che, se fossi in quella data città, o se vedessi il mare, sarei felice: e che quell’accidia, quella malinconia che ho sempre addosso se ne andrebbero, se fossi altrove.

Tante volte, fin da quando ero ragazza, ho ubbidito a questo istinto di partire, da sola, sospinta dall’idea che “laggiù” sarebbe stato diverso, oppure, addirittura, sarei stata diversa io. E sono partita per le Dolomiti, assaporando i chilometri sull’autostrada, e la pianura che da Verona si stringe nella valle del Brennero: e il verde denso dell’Adige mi pareva già promettere quell’altro mondo, in cui sarei stata felice. E il profilarsi delle prime vette, nella foschia dell’orizzonte, con più forza mi assicurava che lassù sarebbe stato diverso, e mi sarei sentita in pace.

Oppure andavo in una città grande come Londra, e nelle prime ore la maestosità severa del Tamigi, la vitalità intensa di Piccadilly Circus mi incantavano, tanto che mi dicevo: ecco, vedi, qui è diverso. Eppure ogni volta, dopo una breve contentezza, mi sono sentita smarrita: “No, non è qui”. E quante volte sono tornata e sono ripartita – il viaggio, in questi pellegrinaggi, era sempre la cosa più bella, carico di speranza com’era – per altre mete, in auto, gustando i paesaggi che cambiavano, nella illusione di stare andando finalmente dove mi sarei liberata della mia irrequietezza. E sempre no, invece, ogni volta, delusa, “no, nemmeno qui”.

Ormai mi rifiuto di dare retta a questa ingannevole sirena, che tuttavia mi tenta ancora. Se vado a prendere un figlio che arriva a Malpensa mi soffermo a leggere il tabellone delle partenze: Londra, Palermo, Istanbul… E di nuovo mi convinco che sì, forse, in un altrove lontano sarebbe diverso, e, finalmente, sarei un’altra io. L’ultima volta che ci sono cascata, sono tornata a Parigi. Ma, passata l’ebbrezza delle prime ore, mi sono accorta che fra i viali superbi e i palazzi sontuosi, no, non ero lieta neanche lì. E allora, rintanandomi anzitempo in una camera d’albergo, non ho potuto non domandarmi quale sia davvero l’altrove che domando.

Forse non è un luogo dello spazio, ma del tempo? La nostalgia di una prima infanzia, di cui non ho il ricordo? O che sia la memoria di una origine, di un “prima” da cui veniamo, di quel pensiero di Dio in cui, prima di venire al mondo, abitavamo? Ma, “instabilitas loci”, così san Tommaso, ho scoperto, chiamava la sindrome che ho addosso, e la considerava segno di un disordine interiore. E della stessa malattia, ho scoperto, parlano gli antichi, Seneca, e Orazio, tutti testimoniando l’illusione di questo continuo partire. Descrivono precisamente ciò che provo, ma non dicono come se ne guarisce. Forse allora, mi dico, questa irrequietezza me la devo tenere: come un compito, come una spina che non mi lascia tranquilla. Come un segreto da decrittare; o come una domanda, da avanzare, mendicante – la mano tesa e vuota.

di Marina Corradi – Tempi
Tratto da: Una casa sulla Roccia

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La prostituzione e le colpe dei clienti. Non servono ghetti ma educazione

Posté par atempodiblog le 10 février 2015

La prostituzione e le colpe dei clienti. Non servono ghetti ma educazione
I luoghi comuni sul «mestiere che è sempre esistito» si scontrano con un traffico mondiale di vite umane che vale 32 miliardi di dollari l’anno
di Dacia Maraini – Il Corriere della Sera

La prostituzione e le colpe dei clienti. Non servono ghetti ma educazione dans Articoli di Giornali e News 11kdsh0

Quanto sappiamo noi cittadini delle trasformazioni che ha subito e sta subendo il fenomeno della prostituzione nelle grandi metropoli? Ci disturba che le ragazze contrattino sotto casa? Beh, chiediamo agli amministratori di risolvere il problema. Come? Spostando il commercio di sesso da un’altra parte. Obblighiamo le prostitute a chiudersi in una specie di parco segregato, fuori dagli occhi pudichi dei benpensanti e la cosa è risolta.

Ma quanti sanno che ormai non si tratta più di donne adulte e libere che vendono autonomamente il proprio corpo, cosa lecita nel nostro Paese, ma sempre più di donne soggette a tratte internazionali, nuove schiave che vengono trattate peggio degli animali da macello? Dal 70 all’ 80% delle prostitute, secondo le stime dell’Onu, ormai sono straniere in Europa. E quasi la totalità di queste straniere sono private dei passaporti, rese clandestine e senza diritti, proprietà di commercianti di carne umana che le comprano come merce da sfruttare e pretendono di farsi ripagare il prezzo dell’acquisto e del trasporto, aumentato del trecento per cento, dall’attività sessuale forzata e dai ritmi feroci degli accoppiamenti di strada. Un commercio che rende ai trafficanti milioni e milioni di euro, diretto e condotto da varie mafie: quella italiana, in congiunzione con quella nigeriana, rumena, cinese, serba, ecc. Un traffico che gode della complicità, come dice suor Eugenia Bonetti, «di dipendenti e funzionari di ambasciate, uffici di immigrazione, aeroporti, agenzie di viaggio, proprietari di appartamenti, alberghi e tassisti».

Spostare questo commercio in una specie di quartiere a luci rosse, forse può soddisfare qualche cittadino che non vuole essere disturbato, ma non affronta il problema né aiuta a risolverlo. È facile dire che la prostituzione è sempre esistita, che «bisogna abituarsi a conviverci». La legge infatti non la considera illecita. Ma quanti dei 9 milioni di italiani che fanno sesso a pagamento, sanno di essere oggettivamente complici di un traffico di schiave, fatta spesso di minorenni, quasi sempre tenute in soggezione con ricatti in bilico fra la tortura e la minaccia di morte?

Ne sa qualcosa suor Eugenia Bonetti autrice di due libri sul tema: Schiave (edizioni San Paolo) e Spezzare le catene (Rizzoli). Ne sa qualcosa suor Rita Giarretta di Casa Rut di Caserta che raccoglie ragazze disperate, costrette ad abortire quando rimangono gravide, umiliate e minacciate, terrorizzate da proprietari che le tengono sottomesse con la pratica di stupri di gruppo, insulti, violenze e, intimidazioni, al punto da diventare complici dei loro aguzzini, spesso le peggiori nemiche di se stesse.

Tutto questo non esisterebbe se tanti uomini, quasi sempre bravi mariti e bravi padri di famiglia, non fossero spinti a pagare una donna per soddisfare il proprio bisogno di «avventura», di trasgressione erotica, o forse solo mossi dal bisogno di dominare l’altro: se compro un corpo, anche per pochi minuti, questo corpo mi appartiene, posso farne quello che voglio.

Ma chi è questo cliente che ha bisogno di mortificare un corpo trasformandolo in merce? Che ama pagare per non affrontare da pari a pari una persona dell’altro sesso? Che concepisce la soddisfazione sessuale come una rapina notturna? Eppure il cliente «rappresenta un fattore chiave nel determinare la domande che alimenta il fenomeno della tratta della donne e minori, un fenomeno che non può essere semplicisticamente ridotto alla prostituzione e che, più che una questione femminile, dovrebbe essere affrontato come un serio problema maschile».

I vari osservatori della prostituzione internazionale, dicono che sono sempre più donne le protagoniste dei flussi migratori mondiali. Sono le donne che rispondono in maggioranza alla domande di manodopera a basso costo, corrispondente come dicono gli americani ai Tre D: «dirty, dangerous, degrading», ovvero lavori sporchi, pericolosi, degradanti. Oltretutto il fenomeno della tratta, in tempi di crisi, è in aumento e riguarda in prevalenza le donne, e i minori .

La prostituzione non è un fenomeno nuovo, è chiaro, ma è nuovo questo «commercio globale che sfrutta l’estrema povertà e vulnerabilità di molte donne e minorenni immigrate, trasformandole in merci. Sono le schiave del ventunesimo secolo», scrivono Bonetti e Anna Pozzi, «ingannate, schiavizzate e gettate sui nostri marciapiedi o in locali notturni, le prostitute sono l’ennesimo esempio dell’ingiusta discriminazione imposta alle donne dalla nostra società del consumo, da cui nessuno è escluso».

«Avevo 14 anni quando sono stata venduta da uno zio a un trafficante che prometteva lavoro onesto. In Nigeria la vita era un incubo, la mia famiglia è poverissima, si mangiava solo una volta al giorno e a volte a giorni alterni. Io dovevo lavorare notte e giorno per aiutare la mamma, curare i fratellini, prendere l’acqua del pozzo e lavorare nei campi, andare al mercato facendo chilometri a piedi, ero sempre stanca anche perché non mi nutrivo abbastanza. Così, quando mio zio mi ha proposto il viaggio in Italia avrei fatto qualsiasi cosa perché questo sogno si avverasse. Non sapevo che mi aveva venduta e mai avrei potuto immaginare quello che mi avrebbero costretta a fare». Mercy, di Benin City.

Secondo l’Oil (Organizzazione internazionale del lavoro), sarebbero circa 12,3 milioni gli adulti e i bambini costretti al lavoro forzato e alla prostituzione coatta nel mondo. In Italia le vittime della tratta sarebbero, fra le 19.000 e le 26.000. Secondo i dati Caritas invece supererebbero le 30.000 persone.

Il Vienna Forum to fight Human Trafficking, promosso dalle Nazioni Unite, racconta di un traffico che frutterebbe 32 miliardi di dollari l’anno, «assieme a quello di armi e stupefacenti il traffico di esseri umani appare una delle fonti più lucrative in assoluto e coinvolge diversi paesi e aree del mondo. Il giro di affari delle agenzie di turismo sessuale che operano via internet è di 1 miliardo di euro, mentre gli introiti a scopo prostituzionale variano tra i 7,8 e il 13,5 miliardi di euro».

L’industria della prostituzione rappresenta una voce importante nel Pil di molti paesi europei. In Olanda corrisponde a circa il 5%, in Giappone è fra l’1 e il 3%, in paesi come la Thailandia, l’Indonesia, la Malaysia e le Filippine si calcola che rappresenti fra il 2 e il 14 % dell’insieme delle attività economiche. In Italia si quantifica approssimativamente che il giro di affari vada dai 150 ai 250 milioni di euro al mese.

«Quando Madame mi ha detto che dovevo rimborsare 50.000 euro di debito non mi rendevo neppure conto di quanti soldi fossero. Sono nata e cresciuta in un villaggio dell’Edo State in Nigeria. Ho frequentato la scuola fino alla terza elementare. Poi un parente ha convinto la mamma a farmi venire in Italia per un lavoro dignitoso. Fino al mio arrivo qui avevo maneggiato pochi naira per comprare il pane e l’olio di palma. Cinquanta mila euro, una follia, pensavo e invece li ho dovuti rimborsare tutti. Dopo un poco mi sono resa conto di cosa significasse. E che rendevo molto bene alla Madame. Ogni mese infatti le facevo guadagnare almeno cinquemila euro».

È chiaro che nessuno pensa di eliminare con rapide mosse la prostituzione, pratica mondiale legata alla povertà e alla violenza sessuale ed economica, ma pensare di risolvere le cose creando ghetti cittadini è a dir poco ingenuo. Intanto perché non informiamo i cittadini, e quei tantissimi uomini che si credono in diritto di «utilizzare» i corpi delle donne, di cosa c’è dietro questo semplice scambio di prestazioni contro soldi?

Certamente ci sono ancora delle italiane adulte che lucidamente decidono di vendere il proprio corpo (la maggior parte delle escort sa quello che fa). Ricordo le due coraggiose lucciole di Pordenone, Pia Covre e Carla Corso, che negli anni Settanta hanno teorizzato il diritto alla vendita consapevole del proprio corpo e hanno aiutato molte donne della strada a recuperare la stima di sé. Ma, in tempi di globalizzazione, di intensa immigrazione e di crisi economica, il mercato si sta trasformando soprattutto in commercio clandestino e illegale, fortemente legato alla criminalità organizzata. Un commercio che riguarda sempre più minorenni, bambine e bambini di paesi poveri, rapiti nelle campagne più disastrate e portati in bordelli per adulti europei che comprano, assieme al costo del viaggio, anche una notte con una ragazzina che potrebbe essere loro figlia se non loro nipote.

Senza ricorrere alle manette, che servono poco, sarebbe importante impostare una vasta campagna di informazione sugli ultimi dati del mercato, di cui quasi sempre i bravi frequentatori di prostitute dicono di non sapere niente. Sarebbe urgente anche nelle scuole educare alla cura dei sentimenti, criticando la pratica del consumo, che implica l’usa e getta non solo delle braccia e delle menti di chi lavora in nero, ma anche la mercificazione della parte più intima e sensibile del corpo umano, ovvero il sesso.

«Abbiamo bisogno di cambiare la cultura» – insiste Eugenia Bonetti che dal 2012 dirige la coraggiosa associazione internazionale Slaves no more – «dobbiamo fare di tutto per uscire dalla logica del mercato e promuovere la cultura del rispetto e della responsabilità». Parole che certo papa Francesco condivide. E con lui moltissimi laici responsabili: è necessario recuperare il sentimento di giustizia e di solidarietà, se non vogliamo precipitare nel funesto mondo della violenza e dell’abuso .

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