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28 febbraio: La Madonna delle lacrime a Treviglio (Bergamo)

Posté par atempodiblog le 28 février 2015

Il pianto di Maria
28 feb.: La Madonna delle lacrime a Treviglio (Bergamo)
a cura di don Mario Morra Sdb – Rivista Maria Ausiliatrice
Tratto da:
Salesiani don Bosco

Treviglio, in diocesi di Milano e provincia di Bergamo, custodisce un magnifico Santuario dedicato alla Madonna delle Lacrime, frutto della fede generosa e riconoscente di una popolazione religiosissima che sente di dovere la propria salvezza ad un intervento prodigioso della Vergine.

Nella prima metà del 1500 la Lombardia fa le spese delle lotte tra Francesco I, re di Francia, e Carlo V, imperatore di Germania, che vuole impadronirsi dei possedimenti francesi in Lombardia. Luogotenente del re di Francia, a Milano, è  il maresciallo Lautrec, definito dagli scrittori del tempo “più duro del diamante, più crudo della tigre, più saldo dello scoglio”. I Francesi sono costretti a ritirarsi a Como, e di là, per Lecco e Bergamo, a Cremona. Treviglio ritorna sotto il ducato degli Sforza. Alcuni abitanti di Treviglio, aizzati da un certo Giovanni Landriano, della fazione favorevole agli imperiali, insidiano a più riprese le truppe francesi in ritirata, per cui il generale Lautrec ordina la distruzione della città, anche come avvertimento per gli altri paesi.
28 febbraio: La Madonna delle lacrime a Treviglio (Bergamo) dans Apparizioni mariane e santuari 3-Madonna%20delle%20lacrime%20a%20Treviglio
Il 27 febbraio 1522 giunge a Treviglio la notizia che Lautrec muove da Cremona con l’intenzione di saccheggiare e distruggere la città. Sono inutili tutti i tentativi di mediazione da parte dei Consoli e del Clero. La popolazione, perduta ogni speranza umana, pone tutta la sua fiducia in Dio e nella Vergine Maria: le chiese si affollano, si veglia tutta la notte in preghiera. All’alba del 28 febbraio la città si desta gravata da un silenzio funereo, rotto solo da singhiozzi di disperazione. Improvvisamente una voce si diffonde per ogni contrada, accolta da grande emozione: “Miracolo! Miracolo! L’immagine della Vergine in S. Agostino piange e suda!”.

Che cosa è successo? Verso le ore 8 di quel venerdì 28 febbraio 1522, l’Immagine della Madonna dipinta sul muro della chiesa di S. Agostino, annessa al monastero delle Agostiniane, incomincia a spargere abbondantissime lacrime dagli occhi e sudore da tutto il corpo. Alcune donne, più vicine all’Immagine, sentendo delle gocce cadere, pensano che piova; ma dalla finestra il cielo appare sereno e lo stillicidio è abbondante. Inoltre il muro accanto all’immagine è perfettamente asciutto.

Tra la meraviglia e la commozione generale, si constata che gli occhi della Madonna versano lacrime e che tutto il corpo è cosparso di abbondante sudore. Si grida al miracolo, si accorre da ogni parte! I soldati francesi constatano il fatto e, profondamente impressionati, ne informano Lautrec che, a cavallo, giunge subito presso la chiesa di S. Agostino, vi entra e constata che l’Immagine della Madonna è velata di lacrime e di sudore, mentre rimane perfettamente asciutta quella del Bambino, come pure il muro circostante. In preda a grande commozione, piega il ginocchio davanti alla Vergine, tenta egli stesso di asciugare con pannolini quel pianto, ma le lacrime ricompaiono, ed il prodigio continua per sei ore consecutive.

Tutta la città esulta di gioia, ed il generale Lautrec, impressionatissimo, assicura gli abitanti di Treviglio del suo perdono. Le campane della città suonano a festa, tutti esultano! Il generale e gran parte degli ufficiali, in ginocchio, depongono ai piedi della Madonna le armi, le corazze ed i superbi cimieri.

La città riconoscente ha innalzato alla Vergine un magnifico Santuario, vero monumento di fede e di arte, frutto dell’amore degli abitanti di Treviglio a Maria. E la protezione della Madonna su Treviglio si è manifestata nel corso della storia in tante altre occasioni. Il 14 giugno 1617, alla presenza del card. Federico Borromeo, la miracolosa Immagine della Madonna delle Lacrime viene trasferita dalla chiesa di S. Agostino nel nuovo Santuario.

La data del 28 febbraio non è dimenticata, ed ancora oggi è vissuta con grande fede e devozione. Quella mattina, le campane tacciono, come il Venerdì Santo; le gente si raccoglie silenziosa nel Santuario a pregare davanti all’Immagine della Madonna, coperta da un velo. Quando dalla torre scoccano le ore otto, si sciolgono tutte le campane della città in un festoso e lungo concerto, cala la tela che copre il volto di Maria e la gioia di tutti esplode nel canto di ringraziamento.*

*Francesco Rainoni, La Vergine delle lagrime a Treviglio – Il Suo Santuario – Memorie storiche (Treviglio, Grafica Furia 1982).

LITANIE DELL’ADDOLORATA

Signore, pietà – Signore, pietà

Cristo, pietà – Cristo, pietà

Signore, pietà – Signore, pietà

Cristo, ascoltaci – Cristo, ascoltaci

Cristo, esaudiscici – Cristo, esaudiscici

Padre del cielo, che sei Dio – abbi pietà di noi

Figlio, Redentore del mondo, che sei Dio – abbi pietà di noi

Spirito Santo Paraclito, che sei Dio – abbi pietà di noi

Santa Trinità, unico Dio – abbi pietà di noi

 

Santa Maria – prega per noi

Madre addolorata – prega per noi

Madre ai piedi della Croce – prega per noi

Madre priva del tuo Figlio – prega per noi

Madre trafitta dalla spada del dolore – prega per noi

Madre crocifissa nel Cuore – prega per noi

Madre testimone della risurrezione – prega per noi

Vergine obbediente – prega per noi

Vergine penitente – prega per noi

Vergine fedele – prega per noi

Vergine del silenzio – prega per noi

Vergine del perdono – prega per noi

Vergine dell’attesa – prega per noi

Donna esule – prega per noi

Donna paziente – prega per noi

Donna coraggiosa – prega per noi

Donna del dolore – prega per noi

Donna della Nuova Alleanza – prega per noi

Donna della speranza – prega per noi

Novella Eva – prega per noi

Strumento di redenzione – prega per noi

Serva della riconciliazione – prega per noi

Difesa degli innocenti – prega per noi

Coraggio dei perseguitati – prega per noi

Fortezza degli oppressi – prega per noi

Speranza dei peccatori – prega per noi

Consolazione degli afflitti – prega per noi

Rifugio dei miseri – prega per noi

Conforto degli esuli – prega per noi

Sostegno dei deboli – prega per noi

Sollievo degli infermi – prega per noi

Regina dei martiri – prega per noi

Gloria della Chiesa – prega per noi

Vergine della Pasqua – prega per noi

Agnello di Dio, che togli i peccati del mondo.

Perdonaci, Signore.

Agnello di Dio, che togli i peccati del mondo.

Ascoltaci, Signore.

Agnello di Dio, che togli i peccati del mondo.

Abbi pietà di noi.

Prega per noi, Santa Vergine Addolorata.

E saremo degni delle promesse di Cristo.

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“In punta di piedi”, con discrezione e rispetto

Posté par atempodiblog le 27 février 2015

Benedizione delle famiglie: la chiesa a domicilio
La benedizione in punta di piedi: per conoscere le famiglie e far loro sapere che la parrocchia ha sempre le porte aperte.
Single e famiglie, studenti e anziani, diffidenti e devoti a padre Pio, immagini di santi e crocifissi appesi alle pareti, tra il gagliardetto della squadra di calcio e le foto delle vacanze. La benedizione pasquale offre un curioso spaccato della vita di un quartiere cittadino. All’arrivo del prete i più «aprono» ancora il loro cuore
di Graziella Teta – Toscana Oggi

“In punta di piedi”, con discrezione e rispetto dans Benedizione delle famiglie w2uiu

È  il tardo pomeriggio di un brumoso venerdì di febbraio. Don Luca Facchini, borsa a tracolla e aspersorio in mano, si avvia per il quotidiano incontro con gli abitanti dell’Unità Pastorale «Pisa Nova» (San Michele degli Scalzi e Sacra Famiglia). Come lui, in questo periodo tradizionalmente dedicato alla visita e alla benedizione delle famiglie prima della Pasqua, i sacerdoti delle parrocchie cittadine e della provincia dell’intera diocesi, si mettono «in cammino»: suonano campanelli di case e condomini, bussano ad ogni porta. Ma quante di quelle porte si aprono? Come sono accolti i preti? Come vivono le famiglie questa Chiesa che arriva «a domicilio»? Per trovare risposte, il cronista a sua volta ha bussato ad una parrocchia pisana, chiedendo di affiancare il sacerdote impegnato nelle visite per le benedizioni. L’appuntamento è davanti alla canonica: don Luca il vice parroco, uno dei numerosi laici che collaborano con la parrocchia e accompagnano nelle visite (stavolta è il turno di Paola Serraglini, catechista, insegnante neopensionata) e il cronista (in incognito).

Pronti, partiamo. Destinazione: il popoloso quartiere di Pisanova. Una signora affacciata alla finestra ci avvista: «Passate prima da me? Ho poco tempo, devo andare a lavorare». Accontentata. Presenta i figli: «Hanno terminato gli studi, ed ora sono alla ricerca di un’occupazione». I ragazzi osservano incuriositi il sacerdote, rimangono per la benedizione: don Luca asperge l’acqua benedetta e pronuncia la formula rituale – «la pace scenda su questa casa e su chi vi abita» – seguita da un momento di preghiera, recitando insieme un Padre nostro o un Gloria. Poi lascia un ricordo: la bella pubblicazione diocesana dedicata a San Ranieri, patrono della città e dell’Arcidiocesi di Pisa, realizzata per preparare i pisani a celebrare la ricorrenza dell’850° anniversario della morte (1160-2010). Le pagine, arricchite con riproduzioni a colori di opere d’arte, riportano il messaggio dell’arcivescovo Giovanni Paolo Benotto, la sua preghiera di ringraziamento e una descrizione della vita del santo. Infine, i testi della benedizione della famiglia. Il piccolo dono è gradito. La signora ringrazia e porge al sacerdote la busta con un’offerta.

Alla porta successiva il campanello suona a vuoto: don Luca deposita sullo stuoino un cartoncino colorato, intitolato Benedizioni 2010, con il messaggio: «Ciao! Oggi siamo passati per incontrarti e per benedire la tua famiglia e la tua casa. Non ti abbiamo trovato, ma se vuoi possiamo ripassare. Puoi chiamarci in parrocchia». Seguono i recapiti telefonici, e le firme: don Piero, don Luca e la comunità delle suore.

Un’altra porta si apre, ma l’anziano non ci accoglie: «grazie, non mi interessa», dice laconico. Poi saranno tanti altri volti: di un operaio single che si prepara la cena («ed anche il pranzo da portare al lavoro domani, questa settimana faccio il turno di notte»), di una giovane mamma con tre figli e quarto in arrivo, di un’anziana vedova («sono piena di acciacchi», lamenta), di nonni e nipotini riuniti in cucina, davanti ad un piatto di pastasciutta («non aspettiamo i genitori per cenare, arrivano tardi dal lavoro, i bambini devono andare a nanna presto»). E ancora, il vedovo ben contento di ricevere una visita: «la solitudine si sente»; il sacerdote s’informa sulla sua salute: «sto bene, esco a camminare tutti i giorni»; forse, avrebbe bisogno di un aiuto domestico… «in casa mi arrangio da solo; la signora straniera che si occupava delle pulizie mi faceva sparire crocifissi e santini». La coppia di mezz’età ci accoglie con calore, mostrando con orgoglio le foto della numerosa famiglia, quattro figli e sette nipoti. L’uomo, immigrato dal Sud tanti anni fa, si commuove mentre racconta di aver affrontato una grave malattia («ho pregato tanto Padre Pio»). Un’altra coppia s’affanna a spiegare le peripezie affrontate per trovare casa («ma l’alloggio è piccolo, 45 metri quadrati, abbiamo dovuto dar via parte dei mobili, non c’è abbastanza spazio»). Un’anziana, devota a Giovanni Paolo II, ci riceve con il cappotto addosso perché fa freddo, il riscaldamento funziona male. Un’altra signora apre la porta ma, quando vede la tonaca, declina con un leggero sorriso, e richiude. «Lasci stare don, è di un’altra religione», non manca di far sapere la dirimpettaia. Ancora volti giovani e anziani, cani che abbaiano, televisori sempre accesi (talvolta anche durante la benedizione); ancora immagini di madonne, santi e cristi appesi alle pareti, tra il gagliardetto della squadra di calcio e le foto delle vacanze. Qui, annota don Luca, le persone sono accoglienti, semplici; non stupisce che la fede sconfini nella devozione.

Ovunque, aggiunge, entriamo in punta di piedi: per conoscere le famiglie e far loro sapere che la parrocchia ha sempre le porte aperte. Il bilancio alla fine del giro è positivo: su una trentina di visite, pochi gli assenti e i rifiuti. Ma oltre due ore, su e giù per le scale di questi palazzi popolari, tirati su oltre vent’anni fa, ci restituiscono tante storie di vite spesso difficili, afflitte da problemi diffusi: lavoro che manca, solitudine, malattie. Emergono tante povertà, materiali e spirituali. «Illuminate», per qualche istante, dal sacerdote che si fa prossimo a tutti.

Un’occasione preziosa per conoscere i più deboli
Se lo ricorda bene don Piero Dini, parroco di S. Michele degli Scalzi e Sacra Famiglia e direttore del Centro pastorale diocesano per l’evangelizzazione e la catechesi, il periodo quaresimale delle «benedizioni» di dieci anni fa. «Era il mio primo anno qui ed è stata un’esperienza forte. Andavo da solo, casa per casa, suonando ad ogni campanello: a chi mi apriva mi presentavo e dicevo “se credi, preghiamo insieme”. Se non erano credenti, era comunque un’occasione di conoscenza reciproca. Negli anni, ho trovato accoglienza anche da parte di famiglie di diverse fedi e paesi di provenienza. Ma non sono mancate, e non mancano, le porte chiuse: persone che, attraverso l’uscio – senza aprirlo – rifiutano la visita, accampando ogni genere di scusa. Per gli anziani è spesso un conforto ricevere il sacerdote (quando superano la diffidenza dell’estraneo che bussa alla porta), mentre con i giovani, gli studenti, è più difficile stabilire un contatto». Un’esperienza preziosa che don Dini ha riversato nel consiglio pastorale parrocchiale: «Quest’anno – spiega – abbiamo voluto dare un “taglio” diverso: non solo benedizioni per coloro che hanno fede, ma desiderio di incontrare e conoscere meglio le famiglie del territorio e, nel contempo, di far conoscere il “volto della chiesa”: di noi sacerdoti, delle suore, dei laici-testimoni. L’intento è offrire supporto (anche concreto, indicando casi particolari di povertà e solitudine al centro di ascolto della Caritas o alla San Vincenzo), manifestando alle persone il volto gioioso e semplice di una chiesa vicina, che si interessa ai loro problemi». Così ogni giorno (nel nuovo orario, dalle 17,30 in poi, in modo da incontrare anche chi lavora), si muovono tre gruppi che visitano un centinaio di famiglie. Don Piero è affiancato dal vice parroco don Luca Facchini, dalle suore francescane missionarie di Gesù Bambino che operano nella parrocchia della Sacra Famiglia e dai numerosi laici impegnati nelle attività delle due parrocchie, che costituiscono la vasta unità pastorale «Pisa Nova» (circa 14 mila abitanti, dalle Piagge ai quartieri più periferici), espressione delle più diverse situazioni economiche, sociali e culturali. Decine di strade, un lungo itinerario suddiviso in oltre cinquanta tappe, che si snoda attraverso un fitto calendario di visite (annunciate dalla lettera del parroco, già distribuita in anticipo nelle cassette della posta da una squadra di volontari). Altra novità di quest’anno, il questionario (curato da don Dini: cinque domande su fede, chiesa, preti), lasciato alle famiglie in occasione delle visite, da riconsegnare compilato in parrocchia: «Un’iniziativa di valore pastorale, più che un lavoro di ricerca, che vuole essere uno strumento per capire meglio come poter svolgere il mio ministero di sacerdote e parroco». Una «scintilla per far nascere un dialogo», la definisce don Piero.
Graziella Teta

La sfida? non scoraggiarsi davanti al «no, grazie»
Accoglienza, rifiuto, abitudine. Questo l’atteggiamento delle famiglie davanti al parroco che viene a benedire. Anche nei paesi di Pastina e Pomaia, dove i modi di vivere e di pensare si stanno lentamente adeguando a quelli della città. «Questo è il quarto anno che andrò nelle case – spiega don Amedeo Nannini -. Sono in tutto 250 o 300 quelle da visitare». Non molte, ma l’impegno è tanto per un prete che, 4 giorni su 7, vive a Pisa. «Trovo due categorie di persone: chi mi aspetta – a volte un po’ per “routine” - e chi si rifiuta totalmente di farmi entrare. Bisogna trovare motivi di nuovo interesse per chi è già “abituato”, e creare relazioni con chi proprio non vuole saperne…per prima cosa noi preti non dobbiamo cedere alla tentazione di non andare, per timidezza o per paura del “no”».

La campagna ormai non è più un’«oasi» di devozione: «trovo persone che in chiesa non vedo mai, ma che magari hanno delle richieste: “regolarizzare” una convivenza, battezzare un figlio… l’importante è non essere stavolta noi parroci a “chiudere la porta”, a non rompere queste fragili relazioni con dei “no” secchi: come potremmo altrimenti annunciare la “buona notizia”? Solo la visita alle famiglie ci consente di incontrare proprio tutti».
C.G.

«Mi muovo da solo. La gente si “confida” più volentieri»
«Sono arrivato qui quindici anni fa. Da allora le cose sono cambiate. In meglio. Piano piano la gente ha imparato a conoscermi e, generalmente, mi accoglie in casa volentieri». Il bilancio tracciato da monsignor Mario Stefanini, parroco di San Piero a Grado dal 1994, è positivo: «la benedizione delle famiglie è ancora l’unico mezzo veramente efficace per incontrare tutti gli abitanti del territorio». Sono 900 le case che don Mario visita tutti gli anni.

«Una visita che faccio da solo. Prima mi accompagnavano dei chierichetti, oggi gli impegni, la scuola, lo sport non lo permettono più. Ma forse è meglio così: la gente si sente meno imbarazzata se vuole parlare di qualche problema». E i problemi ci sono: il lavoro che manca, le malattie, le separazioni: se ne parla con il parroco, che ascolta e… «prende nota» dei piccoli e grandi drammi dei suoi parrocchiani: perché nessuno resti sconosciuto o venga dimenticato. Il calendario delle visite viene diffuso presto, a dicembre. Ciononostante qualcuno non apre: «ma non sono molti quelli che non si fanno trovare: in media uno ogni 4 o 5. In alcune case trovo una persona da sola – magari un figlio adolescente – lasciata ad aspettare il prete, mentre gli altri sono al lavoro: è segno che comunque la visita interessa».

E chi non crede? «Passo comunque. Li saluto, con tanti ho fatto amicizia». Benedizioni anche come mezzo per tenere aggiornato lo stato d’anime della parrocchia: «incontro famiglie nuove, appena arrivate, giovani sposi». Anche qui qualche coppia convivente, che non chiude la porta in faccia al prete: «a loro dico “vi aspetto in parrocchia, quando volete sono a disposizione…”».
Caterina Guidi

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Sotto quel cappuccio c’è ancora un uomo

Posté par atempodiblog le 27 février 2015

‘Jihadi John’ e la seduzione del nulla
Sotto quel cappuccio c’è ancora un uomo
di Marina Corradi – Avvenire

Sotto quel cappuccio c'è ancora un uomo dans Articoli di Giornali e News 55ryph

Quella sagoma nera senza un  volto, con un  pugnale che luccica nella mano sinistra e accanto, in ginocchio, un prigioniero atterrito, era diventata per noi occidentali una sorta di spettro. Il simbolo di un terrore cieco e di una barbarica violenza. Il boia, peraltro, parlava un inglese perfetto, e anche questo ci smarriva: dunque, in quell’oscuro esercito militano uomini nati e cresciuti fra noi. E ora ‘Jihadi John’, il boia della decapitazione dei giornalisti americani James Foley e Steven Sotloff e di almeno altri quattro ostaggi, ha un nome, ha rivelato la Bbc. Mohamed Emwazi, 27 anni, cittadino britannico originario del Kuwait.

Cresciuto a Londra, in un tranquillo quartiere che niente ha a che fare con le periferie degli emarginati, in una dignitosa casa di mattoni rossi, in una famiglia della classe media. Laureato in informatica alla Università di Westminster. Per il resto, poco è rimasto di lui nel suo quartiere: un ragazzo gentile, dicono, con un debole per i bei vestiti.
Musulmano praticante, andava alla moschea di Greenwich, come migliaia di pacifici islamici londinesi. Fin qui il ritratto del boia della porta accanto. Fino ai vent’anni e oltre, un ragazzo così normale. Poi Emwazi si fa irrequieto: va in Tanzania, lo espellono, va a lavorare in Kuwait e vuole sposarsi, ma, rientrato a Londra, gli viene vietato l’espatrio. I servizi ormai lo tengono d’occhio. Non si sa come, poi, riesca a raggiungere la Siria.

Ma quest’ultima parte della storia è per noi meno misteriosa della prima, di quel ‘prima’ da studente londinese di informatica: la più nuova delle scienze, l’alfabeto del futuro. Uno studia per anni la tecnologia digitale, diventa un maestro della comunicazione virtuale, e poi lo ritroviamo come un unno: con un pugnale in mano, mentre si prepara a sgozzare un uomo inerme.

C’è un salto, fra la storia occidentale di ‘Jihadi John’ e quella violenza barbarica, che non riusciamo a comprendere. Che ci smarrisce, come un beffardo tornare indietro della storia; dove la scienza e la tecnologia compiono meraviglie, e gli uomini, invece, possono restare bestiali come millenni d’anni fa. Un poco, forse, ci conforta che il boia jihadista dall’ottimo accento londinese abbia ora un nome. Con un nome, un passato, una famiglia, è un po’ meno un fantasma. Tuttavia, indecrittabile e sbalorditivo ci resta il suo percorso: gli studi, i vestiti firmati, il metrò mattina e sera, e poi? Poi che succede, in questi ragazzi come gli altri? Potremmo capire un malvivente, e perfino forse un terrorista, ma ammutoliamo di fronte all’odio totale per il nostro mondo che quel boia in nero, cittadino britannico, rappresenta.
Che virus è, quale pestilenza?

Ieri su ‘Le Monde’ un ex militante di un gruppo islamico armato raccontava la sua storia. Un ragazzo di provincia, la madre impiegata, il padre che non c’è, una vita noiosa. L’ex terrorista non spiega chiaramente la sua scelta, ma pronuncia una frase che colpisce. L’idea del ‘martirio’ islamico, racconta, a un certo punto comincia ad affascinarlo: gli succede, dice, di arrivare a desiderare di «dare un senso alla morte, piuttosto che alla vita». Affascinati dalla morte, dunque, una morte spettacolare, sfidata nella guerra, se non addirittura cercata e corteggiata?

Riguardando i video delle decapitazioni si nota che, alle spalle di vittima e carnefice, c’è solo il deserto. Né vegetazione né villaggi né uomini, solo sassi e polvere, soltanto il nulla. Così come la maschera nera nasconde e rinnega ogni fattezza umana. L’adorazione del nulla. Cosicché, saputo il nome del boia dal perfetto accento British, ci resterebbe un desiderio: vederne la faccia. La guarderemmo a lungo, ostinatamente. Certi di trovare, alla fine, un tratto ancora quasi infantile, un segno di espressione, o uno spiraglio nello sguardo ostile: che ci dicano che sotto il cappuccio del boia, nascosto e censurato e negato, tuttavia c’è ancora un uomo.

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Il raccoglimento è la dimora per Iddio stesso

Posté par atempodiblog le 26 février 2015

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Il raccoglimento è la dimora per Iddio stesso. Così possiamo fare la sera. Così anche al mattino.

Qui dieci minuti possono far molto. Tutto quello che si fa e si sopporta durante il giorno riceve l’impronta di tutt’altra fiducia e purezza, quando promana da un tal raccoglimento.

Così al mattino è bene riflettere: «Eccomi qui! Proprio io; con le mie forze; con la vigilanza del mio spirito; col calore e con la prontezza del mio cuore. Dio pure è qui presente. lo vengo da Lui ed ho la Sua grazia in me. La Sua chiamata alla santità mi incalza nel mio interno, perché la traduca in atto… lo so che mi accadrà questo o quello… ed ora affronto la mia giornata armato di quella forza interiore. Voglio far bene la mia parte».

Poi, a sua volta, la sera, la resa dei conti innanzi al Bene vivente, al Dio Santo: «Come ho passato la giornata? Ho dato ascolto alla voce del bene? Vi ho corrisposto?»… Rendiconto, pentimento, rinnovamento del cuore… E poi abbandono totale nelle mani di Dio, che è il padrone di ogni riposo.

E sarà bene che anche durante la giornata si torni a prender contatto, di tanto in tanto, con l’ambito interiore, che si rinnova ogni mattina e ogni sera. Anteo, figlio della terra, era invincibile, perché, ogni qualvolta toccava la madre, acquistava nuove forze. Così è anche dello Spirito. Sia come un tocco leggero alle porte di quel mondo interiore; specialmente quando ci si imbatte in qualche cosa di difficile e di imbarazzante, che esige il massimo sforzo. Ciò porta ogni volta ad un rinnovamento del nostro slancio e delle nostre energie. 

Altre cose di questo genere rimarrebbero ancor da dire. Tuttavia quanto si è detto potrà bastare. Tutto questo – e aggiungo a questo ancora ciò di cui abbiamo parlato al principio: l’interno e segreto processo di maturazione del nostro essere, l’incessante lavorìo dell’esperienza, l’accettazione coraggiosa della vita quotidiana e di ciò che essa ci porta – tutto questo fa sbocciare a poco a poco dentro di noi il centro vitale; fa sì che lo spirito si rinvigorisca e compenetri tutto il nostro essere; che la cella interiore si apra, che il fondo del nostro io si rischiari; e l’energia si concentri e diventi efficace.

E così la «coscienza» diviene a poco a poco quello che deve essere secondo la sua essenza: la voce vivente della santità di Dio in noi.

di Romano Guardini

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La fede fa bene, dice la scienza

Posté par atempodiblog le 24 février 2015

La fede fa bene, dice la scienza
di Francesco Angoli – La Croce – Quotidiano

La fede fa bene, dice la scienza dans Articoli di Giornali e News 161mcef

Quando il fondatore di questo giornale e i suoi collaboratori si battono per il diritto di ogni bambino ad avere un padre e una madre, fanno una battaglia di buon senso, umana, razionale. Ciò che invocano, a monte delle loro argomentazioni, è, in fondo, la natura umana, così come è, accessibile a tutti. Ne deriva, si potrebbe pensare, che sia una battaglia di pura ragione. Come dimostra per esempio il sociologo Giuliano Guzzo nel suo utilissimo e documentatissimo La famiglia è una sola.

Ma la questione è più complicata. La ragione conta, ma non basta. Gli insulti, le maledizioni, l’odio che sovente colpiscono chi difende i bambini – dai ferri del chirurgo, dall’indifferenza della politica e di una certa cultura anti-famiglia, o dal business dell’eterologa e dell’utero in affitto –, lo dimostrano.

Questo perché la ragione umana, in se considerata, è molto debole, fragile. E’ facilmente sopraffatta dall’istinto, dall’egoismo, dalla cattiva volontà. Siamo tutti figli di quel peccato originale che sovente intorbidisce i nostri ragionamenti, inquina le nostre azioni, anche quelle nate con le migliori intenzioni. Per questo a volte non riusciamo a vedere l’evidenza. Per questo Cristo ci ha detto: “Senza di me non potete far nulla”.

Ma come si fa a stare con Cristo? Ci sono la Chiesa, i sacramenti, e la preghiera. Abbiamo tutti bisogno di pregare, cioè di alzare gli occhi al cielo, di vincere i pesi che ci trascinano inevitabilmente verso il basso: l’egoismo, l’orgoglio, l’ira, l’invidia, la stanchezza… Abbiamo tutti necessità di ossigenare non solo il nostro corpo, cui dedichiamo sovente molte, anche troppe attenzioni, ma anche la nostra anima.

“Si potrebbe comparare il senso del sacro – scriveva il premio Nobel per la medicina Alexis Carrel in una meditazione intitolata La preghiera – al bisogno di ossigeno. E la preghiera avrebbe qualche analogia con la funzione respiratoria. Essa dovrebbe essere, allora, considerata come l’agente delle relazioni naturali tra la coscienza e il suo mondo. Come un’attività biologica dipendente dalla nostra struttura. In altri termini, come una funzione normale del nostro corpo e del nostro spirito”.

Nella preghiera, infatti, l’uomo entra in relazione con la sua Origine e il suo Fine, con il substrato, il cuore, per così dire, di ogni cosa. E così facendo, vede, alla luce di Dio, se stesso: nella preghiera – è sempre Carrel che parla – “l’’uomo si vede tale quale è. Scopre il suo egoismo, la sua cupidigia, i suoi errori di giudizio, il suo orgoglio. Egli si abitua a compiere i suoi doveri morali. Tenta di guadagnare l’umiltà intellettuale. Così si apre davanti a lui il regno della grazia”.

Senza preghiera, senza meditazione, senza esame di coscienza, la nostra anima si secca, la nostra coscienza si assopisce piano piano, il nostro istinto animalesco si trova liberato e non esita a mostrare la sua faccia malvagia. Pregare è, in questo senso, la strada per raggiungere l’umiltà, per sconfiggere l’odio (che tenta, talora, di impadronirsi di noi), per diventare più simili agli angeli che alle belve.

Abbiamo dunque bisogno di preghiera: di quella individuale, ma anche di messe celebrate bene, di chiese belle, costruite da artisti di fede, di canti dignitosi, ricchi di senso del sacro, del soprannaturale (magari anche di un po’ di musica gregoriana, ché, per le canzonette, non serve andare in chiesa).

La preghiera guarisce lo spirito, lo ritempra come un bagno freddo, lo predispone a vivere le cose belle e le avversità della giornata con un gusto e una gioia particolari.

Il già citato Carrel, convertitosi a Lourdes, affermava che la preghiera talora guarisce l’anima; talora aiuta a sopportare con incredibile forza i mali del corpo; talora persino guarisce il corpo stesso.

Oggi svariati studi provano che la dimensione spirituale interagisce profondamente con quella fisica. Il mensile Le Scienze del gennaio 2015, riporta varie indagini secondo le quali grazie alla meditazione “avvengono cambiamenti fisiologici… e effetti psicologici benefici”, scientificamente rilevabili. Scrivono gli autori dell’articolo: “Quindici anni di ricerche non hanno solo mostrato che la meditazione produce cambiamenti significativi sia nel funzionamento sia nella struttura del cervello dei praticanti esperti. Gli studi iniziano ora a dimostrare che queste pratiche contemplative potrebbero avere un impatto sostanziale su alcuni processi biologici critici per la salute del corpo”.

Tra i numerosi studi scientifici pubblicati negli ultimi anni, ne segnalo soltanto tre. Il primo, sul Psychol Health 2009 Jan;28(1):117-24, analizza “il rapporto esistente tra l’assiduità nel frequentare la chiesa e la salute del corpo in età matura” e conclude suggerendo che esista “un legame più diretto tra la presenza regolare in chiesa e il benessere”.

Un altro studio, a cura di Rita W.Law, dell’Università dell’Arizona, in Journal of Aging and Health.2009 Sep;21(6):803-23, conclude: “è emerso che la frequentazione di una chiesa ha un effetto protettivo contro il manifestarsi di problemi di natura depressiva tra gli anziani. Inoltre, essere sposati o sposarsi si accompagnava alla diminuzione di stati depressivi, mentre la cessazione del matrimonio produceva l’effetto contrario”.

Il terzo studio, del 2014, pubblicato sul Journal of Aging and Health 26(4): 540-558, a cura di due professori dell’Università del Michigan, indaga se “la vita sociale in associazioni religiose” sia connessa o meno con una migliore salute fisica. I risultati: le persone che vanno più spesso in chiesa riceveranno più supporto spirituale dai membri della chiesa; questo comporta una speranza maggiore; la maggior speranza è collegata ad una miglior salute percepita.

Davanti ad un figlio inatteso o malato, a un matrimonio in crisi o ad una malattia difficile da sopportare – tanto per citare tre “croci” piuttosto diffuse –, servono certamente speranza e fiducia: le possiamo trovare proprio nella preghiera, che ci permette di percepire che non siamo soli, ma figli amati di un Padre buono.

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Riscopriamo la bellezza della domenica!

Posté par atempodiblog le 22 février 2015

Riscopriamo la bellezza della domenica!
C’è un giorno della settimana che può aiutarci a ritrovare la nostra anima e ad essere più vicini a Dio
di Carlo Climati – Zenit

Riscopriamo la bellezza della domenica! dans Articoli di Giornali e News xd5wg6
Immagine tratta da: Fino alle 20. E chiusi di Domenica

Le nuove generazioni sono sempre più soffocate nelle idolatrie ingannevoli di un’epoca materialista, in cui la presenza di Dio sembra trovare pochissimo spazio. In questo terreno culturale (ma forse sarebbe meglio dire “non culturale”) si inserisce il problema del rapporto tra i giovani ed un particolare giorno della settimana, che dovrebbe rappresentare un momento d’autentico incontro con il Signore: la domenica.

Oggi, purtroppo, alcuni giovani non sono abituati a considerare nel modo giusto questo momento d’incontro. E non è neppure colpa loro. Negli ultimi anni, ad esempio, c’è la tendenza a tenere aperti i negozi anche quando è festa.

Perciò la domenica si trasforma in un giorno frenetico. La gente si dedica ad un tipo di shopping che, spesso, diventa più stressante di un lavoro. Dopo aver faticato tutta la settimana, le persone continuano a correre per fare spese e conquistare l’ultimo prodotto imposto dalla dittatura degli spot pubblicitari.

Che cosa si può fare per invitare i giovani a riscoprire il significato della domenica, in una società materialista come quella di oggi? La sfida più grande è certamente quella di riuscire a divertirsi in modo sano, evitando gli eccessi. Può essere l’occasione per ritrovare la propria anima, in un mondo sempre più freddo e privato della spiritualità.

Per vivere in modo cristiano la propria domenica, non basta andare a Messa. Ci sono molte altre ore da vivere. Bisogna sforzarsi di trascorrerle nel modo giusto, senza offendere la nostra dignità di esseri umani.

Per molti ragazzi, la domenica rischia di trasformarsi in un’occasione per frequentare ambienti pericolosi. Ad esempio, certe cattive discoteche in cui circola la droga o dove la musica è talmente assordante da impedire qualunque tipo di dialogo.

Un altro modo sbagliato di trascorrere la domenica è quello di recarsi al cinema vedendo film con cattivi contenuti. E’ necessario educare i ragazzi ad un buon uso del tempo libero, da vivere ricordando la presenza del Signore al proprio fianco.

E’ certamente possibile divertirsi frequentando gli amici, andando a ballare, oppure recandosi al cinema. L’importante è utilizzare la testa e selezionare bene gli ambienti da frequentare. Non è necessario isolarsi dal mondo. E’ sufficiente tenere in mente la presenza di Dio, al proprio fianco, come principale protagonista della domenica.

Con il Signore al proprio fianco, sarà possibile fare qualunque cosa. Sarà Lui a dettarci la strada da seguire, evitando di farci finire nei posti sbagliati. Bisogna ballare con Dio. Andare al cinema con Dio. Passeggiare con Dio. Respirare con Dio.

In che modo? Imparando a selezionare le proposte che ci fanno certi amici. Se una discoteca offre la droga, è meglio non andarci. Se un film propone cattivi contenuti, è giusto non vederlo. Se ci invitano ad ubriacarci in qualche locale, dobbiamo dire “no”. Sarà la presenza di Dio, nella nostra domenica, ad aiutarci a trovare gli ambienti più sani, per il corpo e per l’anima.

Questo è già sufficiente per vivere bene il giorno del Signore. Ma se si vuole fare qualcosa di più, le occasioni non mancano. Oltre a divertirsi, ci si può organizzare per dedicarsi ad un’opera buona: la visita a un ammalato, un pensiero gentile rivolto ad un amico, un impegno nel volontariato.

Per le nuove generazioni, la domenica può ancora rappresentare una splendida occasione per rivolgere il proprio sguardo verso l’infinito. Non solo con la breve parentesi della Messa, ma anche per tutte le altre ore, sforzandosi di vivere in modo totalmente cristiano la propria giornata.

E poi, partendo dalla domenica, sarà possibile imparare a scoprire la presenza di Dio anche negli altri giorni della settimana.

Il Signore deve stare sempre al nostro fianco. Ogni ora, ogni minuto, ogni secondo del nostro tempo. Non soltanto la domenica.

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Una Madre dono della bontà e misericordia di Dio

Posté par atempodiblog le 21 février 2015

Una Madre dono della bontà e misericordia di Dio dans Citazioni, frasi e pensieri San-massimiliano-maria-kolbe

Tu (o DIO) ci hai comandato di diventare bambini, se vogliamo entrare nel regno dei cieli. Tu sai bene che un bambino ha bisogno di una madre: Tu stesso hai stabilito questa legge di amore. La tua bontà e la tua misericordia, perciò, ha creato per noi una Madre, la personificazione della Tu bontà e del Tuo amore infinito, e dalla croce, sul GOLGOTA, hai offerto Lei a noi e noi a LEI…  Inoltre hai stabilito di costituirla Dispensatrice e Mediatrice di tutte le Tue grazie: Tu non rifiuti nulla a Lei, ma neppure Lei è capace di rifiutare alcunché a nessuno…  Diamo uno sguardo dentro noi stessi: non è forse vero che ogni volta che ci siamo offerti con tutta l’anima all’Immacolata, Madre di DIO e Madre nostra, è sempre entrata la pace nel nostro cuore? Chi non lo ha ancora sperimentato, ci provi! Si accorgerà quanto è potente, quanto è buona la Madre di DIO e Madre nostra.

San Massimiliano Maria Kolbe
Tratto da: Missionarie dell’Immacolata

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Se il Rosario si recita in azienda

Posté par atempodiblog le 20 février 2015

Se il Rosario si recita in azienda
Parte da Torino l’iniziativa di “Impresa Orante”: dire il rosario nei luoghi di lavoro per combattere la crisi e riscoprire il valore educativo della preghiera
Mauro Pianta  - Vatican Insider

Il Rosario

Il Rosario recitato sui luoghi di lavoro. La crisi si combatte anche così. Ne è convinta Maria Chiara Martina, imprenditrice torinese nel campo della moda e della comunicazione che – insieme con alcuni e colleghi e supportata dall’Opera dei Giuseppini del Murialdo – ha lanciato l’iniziativa “Impresa Orante”.

«Vogliamo mettere al lavoro la preghiera», spiega Martina a Vatican Insider.  «Visto il tempo in cui ci tocca vivere e le fatiche che sperimentiamo a causa di un’economia confusa e alterata nella sua natura, con gravi ripercussioni sul nostro territorio e nel nostro Paese (e non solo), abbiamo deciso di giocare la partita tirando fuori una carta inaspettata: la preghiera ed, in particolare, la preghiera del Rosario recitata nei luoghi di lavoro che si apriranno all’esperienza di diventare “cellule” di Impresa Orante».

Si parte da Torino con una messa che verrà celebrata venerdì 20 febbraio, alle ore 19, nella cappella del Murialdo presso il Collegio Artigianelli (corso Palestro 14). Poi, ogni venerdì dalle 18 alle 19, ogni azienda organizzerà il momento di preghiera. Osserva Martina: «Finora abbiamo avuto molte adesioni, oltre che a Torino, nel basso Piemonte e nel comasco. E’ una scommessa, vedremo cosa succederà…». «Abbiamo deciso – prosegue l’imprenditrice – di provare a cambiare punto di vista, a scommettere anche sulla dimensione intangibile della realtà, attingendo al patrimonio spirituale in cui ci riconosciamo, utilizzandolo in modo un po’ particolare. I nostri nonni avevano molta più confidenza con questo “strumento” e non temevano di utilizzarlo per affrontare la quotidianità concreta. E’ giunto il momento di riscoprirlo…».

Eccola, dunque, la sfida di Impresa Orante: «Scommettere sul potere della preghiera capitanata da Maria per trasformare la realtà, convertire i cuori di chi ha in mano le redini dell’economia, sostenere chi soffre per la mancanza del lavoro e credere in una rinascita».

«E’ bello vedere la fede calata nella realtà», dice don Danilo Magni, direttore dell’Opera del Murialdo torinese, assistente spirituale di Impresa Orante. «E’ bello vedere imprenditori che non si arrendono, che sono capaci ancora di scommesse grandi, giocando un po’ fuori dagli schemi soprattutto coniugando spiritualità ed economia con modalità “aziendale” oserei dire!».

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San Francesco nella Questua vedeva un momento per salvare le anime

Posté par atempodiblog le 15 février 2015

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Particolare dell’Allegoria della Pietà con le sue opere di F. De Mura (Palazzo Zevallos Stigliano)

San Francesco nella Questua vedeva un momento per salvare le anime:

Come già detto nelle Fonti Francescane troviamo scritto:

Nella questua cercava più il vantaggio delle anime di chi donava, che un aiuto materiale alla carne e voleva essere di esempio agli altri sia nel dare che nel ricevere”.

Tratto da: Santuario Maria SS. della Delibera

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Il Papa ai neo-cardinali: cercare i lontani senza pregiudizi, non isolarsi in una casta

Posté par atempodiblog le 15 février 2015

Il Papa ai neo-cardinali: cercare i lontani senza pregiudizi, non isolarsi in una casta
La “strada della Chiesa” è andare a “cercare, senza pregiudizi e senza paura, i lontani”. E’ uno dei passaggi più forti dell’appassionata omelia di Francesco nella Messa, nella Basilica di San Pietro, con i 20 nuovi cardinali all’indomani del Concistoro. Il Papa ha esortato i porporati a seguire Gesù, che ha scosso la mentalità “chiusa nella paura e autolimitata dai pregiudizi”, impegnandosi nel servire gli emarginati del nostro tempo. Ancora, il Papa ha messo in guardia i neo-cardinali dalla tentazione di isolarsi in una casta, che, ha ammonito, non ha nulla di ecclesiale.
di Alessandro Gisotti – Radio Vaticana

Il Papa ai neo-cardinali: cercare i lontani senza pregiudizi, non isolarsi in una casta dans Fede, morale e teologia 24y7gjl

Gesù ha compassione di un lebbroso che supplica di purificarlo e lo guarisce. Francesco ha svolto la sua omelia muovendo dal passo del Vangelo domenicale che mostra una delle immagini più potenti della misericordia divina. Il lebbroso, ha infatti rammentato il Papa rivolgendosi innanzitutto ai 20 nuovi cardinali, era “abbandonato dai propri familiari, evitato dalle altre persone, emarginato dalla società”. Era considerato impuro e, dunque, la finalità del suo isolamento era “salvare i sani, proteggere i giusti” dal rischio del contagio.

Gesù vince i pregiudizi e reintegra il lebbroso emarginato
Gesù però, ha soggiunto, “si lascia coinvolgere nel dolore e nel bisogno della gente”, non si “vergogna di avere ‘compassione’”, “patire-con” il sofferente e per questo agisce in concreto per “reintegrare l’emarginato”. Così facendo, quindi, “rivoluziona e scuote con forza quella mentalità chiusa nella paura e autolimitata dai pregiudizi”:

“Gesù, nuovo Mosè, ha voluto guarire il lebbroso, l’ha voluto toccare, l’ha voluto reintegrare nella comunità, senza ‘autolimitarsi’ nei pregiudizi; senza adeguarsi alla mentalità dominante della gente; senza preoccuparsi affatto del contagio. Gesù risponde alla supplica del lebbroso senza indugio e senza i soliti rimandi per studiare la situazione e tutte le eventuali conseguenze! Per Gesù ciò che conta, soprattutto, è raggiungere e salvare i lontani, curare le ferite dei malati, reintegrare tutti nella famiglia di Dio. E questo scandalizza qualcuno!”

Gesù, ha proseguito Francesco in una Basilica petrina gremita di fedeli, “non ha paura di questo tipo di scandalo! Egli non pensa alle persone chiuse che si scandalizzano addirittura per una guarigione, che si scandalizzano di fronte a qualsiasi apertura, a qualsiasi passo che non entri nei loro schemi mentali e spirituali”. Non pensa a quanti si scandalizzano difronte “a qualsiasi carezza o tenerezza che non corrisponda alle loro abitudini di pensiero e alla loro purità ritualistica. Egli ha voluto integrare gli emarginati, salvare coloro che sono fuori dall’accampamento”.

Effondere la misericordia di Dio a chi la chiede con cuore sincero
Francesco ha così constatato che ci “sono due logiche di pensiero e di fede: la paura di perdere i salvati e il desiderio di salvare i perduti”:

“Anche oggi accade, a volte, di trovarci nell’incrocio di queste due logiche: quella dei dottori della legge, ossia emarginare il pericolo allontanando la persona contagiata, e la logica di Dio che, con la sua misericordia, abbraccia e accoglie reintegrando e trasfigurando il male in bene, la condanna in salvezza e l’esclusione in annuncio”.

Queste due logiche, ha ribadito, “percorrono tutta la storia della Chiesa: emarginare e reintegrare”. E tuttavia, ha sottolineato, dal Concilio di Gerusalemme, la “strada della Chiesa” è “sempre quella di Gesù, della misericordia e dell’integrazione”: non “fare entrare i lupi nel gregge, ma accogliere il figlio prodigo pentito”:

“La strada della Chiesa è quella di non condannare eternamente nessuno; di effondere la misericordia di Dio a tutte le persone che la chiedono con cuore sincero; la strada della Chiesa è proprio quella di uscire dal proprio recinto per andare a cercare i lontani nelle “periferie” essenziali dell’esistenza; quella di adottare integralmente la logica di Dio; di seguire il Maestro che disse: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati; io non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori» (Lc 5,31-32)”.

La strada della Chiesa è cercare i lontani senza paura e pregiudizi
Guarendo il lebbroso, ha annotato il Papa, “Gesù non reca alcun danno a chi è sano, anzi lo libera dalla paura; non gli apporta un pericolo ma gli dona un fratello; non disprezza la Legge ma apprezza l’uomo, per il quale Dio ha ispirato la Legge”. Ed ha evidenziato che la carità “non può essere neutra, asettica, indifferente, tiepida o imparziale”. La carità, piuttosto, “è creativa nel trovare il linguaggio giusto per comunicare con tutti coloro che vengono ritenuti inguaribili e quindi intoccabili”. “Il contatto – ha detto – è il vero linguaggio comunicativo, lo stesso linguaggio affettivo che ha trasmesso al lebbroso la guarigione”.

“Cari nuovi Cardinali, questa è la logica di Gesù, questa è la strada della Chiesa: non solo accogliere e integrare, con coraggio evangelico, quelli che bussano alla nostra porta, ma uscire, andare a cercare, senza pregiudizi e senza paura, i lontani manifestando loro gratuitamente ciò che noi abbiamo gratuitamente ricevuto. «Chi dice di rimanere in [Cristo], deve anch’egli comportarsi come lui si è comportato» (1 Gv 2,6). La totale disponibilità nel servire gli altri è il nostro segno distintivo, è l’unico nostro titolo di onore!”.

Servire chi soffre senza isolarsi in una casta
E sempre rivolgendosi ai nuovi porporati, nel giorno in cui hanno ricevuto il titolo cardinalizio, il Papa li ha esortati “a non avere paura di accogliere con tenerezza gli emarginati; a non avere paura della tenerezza” e “della compassione”. Maria, ha soggiunto, “ci rivesta di pazienza nell’accompagnarli nel loro cammino, senza cercare i risultati di un successo mondano”:

“Cari fratelli, guardando a Gesù e alla nostra Madre, vi esorto a servire la Chiesa in modo tale che i cristiani – edificati dalla nostra testimonianza – non siano tentati di stare con Gesù senza voler stare con gli emarginati, isolandosi in una casta che nulla ha di autenticamente ecclesiale. Vi esorto a servire Gesù crocifisso in ogni persona emarginata, per qualsiasi motivo; a vedere il Signore in ogni persona esclusa che ha fame, che ha sete, che è nuda”.

Sul Vangelo degli emarginati si rivela la nostra credibilità
Il Signore, ha ripreso il Papa, è “presente anche in coloro che hanno perso la fede” o “che si dichiarano atei”. “Non scopriamo il Signore se non accogliamo in modo autentico l’emarginato”, ha poi ammonito ricordando “l’immagine di San Francesco che non ha avuto paura di abbracciare il lebbroso e di accogliere coloro che soffrono qualsiasi genere di emarginazione”. In realtà, ha concluso Francesco, proprio “sul Vangelo degli emarginati, si gioca, si scopre e si rivela la nostra credibilità!”.

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Vita da single cattolico

Posté par atempodiblog le 15 février 2015

Vita da single cattolico
Abbiano ricevuto questa mail di un lettore che preferisce rimanere anonimo che pone una questione interessante.
dal blog di Costanza Miriano
Vita da single cattolico dans Riflessioni 2cymhjp
Ok, ora si dirà che ci sono cose peggiori, che in realtà c’è gente che soffre (davvero). Va bene, sono d’accordo. C’è gente che nel mondo muore di fame, di malattia, per la guerra ecc. Non lo nego, nella maniera più assoluta. Ma al mondo c’è sempre chi sta peggio di te, e quindi alla fine nessuno dovrebbe lamentarsi di nulla.
Però, se c’è una cosa che ho imparato negli ultimi mesi, è che ogni sofferenza risuona in modo diverso in ognuno di noi, e quindi va ascoltata.
Certo la sofferenza di cui voglio parlare non è paragonabile a chi vive nelle più grandi difficoltà. Ma è una sofferenza che esiste, e ogni tanto andrebbe rispolverata: sto parlando della sofferenza di chi è affettivamente solo.

Che quella del single, oggi, è una condizione sempre più diffusa, e sempre più oggetto di malintesi. C’è chi del single a vita ne fa un modello da seguire. Riconosco le notevoli comodità di una vita che non dipende dagli altri, che si può gestire in massima libertà. Ma non è quella la libertà che io cerco. Ok, da solo a volte si sta pure bene: posso decidere quando alzarmi e quando andare a letto, decidere dove andare, cosa fare, cosa mangiare, come vestirmi, quando e come fare la lavatrice e stirare.
Eppure sarei falso se negassi che la vita di un single è profondamente sola. C’è qualcosa, sicuramente, qualcosa di enorme che ci spinge quotidianamente a cercare l’altro. A volte, spesso anzi, lo si trova. Non sempre, però, dall’incontro con l’altro nasce il dono del sè. Ma questo è un altro problema. Il problema di chi vive la relazione in egoismo, chiusura e possesso, invece di amore, dono e apertura. Nel caso specifico, stiamo parlando di chi la persona non riesce nemmeno a trovarla.
E qui immagino le battute di molti, forse anche i giudizi al vetriolo, qualche frecciata: come se la condizione di single fosse una colpa, come se il single fosse un incapace sociale non in grado di iniziare nuove relazioni. Che se poi arriva ai 30 o ai 40 o… è solo colpa sua. Se poi il single è anche cattolico, doppia maledizione: vallo a proporre un modello di vita come quello cattolico (vade retro!).
Diciamo la verità, la società è cambiata, e il single cristiano è il più discriminato. A volte, lo dico con una punta di risentimento, anche all’interno della stessa Chiesa. Perché non è infrequente sentire battute sulla propria condizione vocazionale. “Allora quando ti sposi?”, “Eh, ma allora devi decidere, o ti sposi o…” o cosa? Ma io non mi faccio certo prete perchè non sono sposato, nè rimodulo la mia scelta perchè attualmente non riesco a conoscere la persona giusta. E poi stiamo attenti all’abuso del termine “vocazione”: perchè si rischia di confondere le idee delle persone, oppure di caricarle di macigni troppo grossi da essere trasportati. La vocazione primaria del cristiano è quella di amare, di vivere il Vangelo. Chissà, forse anche nella condizione di single.
Forse all’interno della stessa Chiesa bisognerebbe riconsiderare questa condizione, che a volte è dolorosa, perchè non ricercata. Accogliere meglio i single, e non vederli come bug del sistema. Perchè le motivazioni che spingono una persona a cercare l’”anima gemella” (che poi non ci credo all’anima gemella) sono davvero valide. Però a volte c’è la tentazione di sentirsi sbagliati, di non aver compreso qualcosa della propria vita. O di perdere la fiducia nelle persone, negli altri, nel mondo.
Ma poi chissà, la vita è davvero strana. E non rimane che guardare là in alto e sperare, pregare, attendere, con fiducia: affidarsi a Dio. Che poi è l’unica cosa sensata da fare.
Anonimo

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Essere innamorati non vuol dire amare

Posté par atempodiblog le 14 février 2015

“Ma essere innamorati non vuol dire amare. Si può essere innamorati e odiare. Ricordatelo!”.

Fëdor Dostoevskij – I fratelli Karamazov

Essere innamorati non vuol dire amare dans Citazioni, frasi e pensieri Caspian

In realtà, per quanto se ne dica, la condizione dell’«essere innamorati» di solito non dura. Se la vecchia frase finale delle favole, «e vissero sempre felici», significasse: «si sentirono, nei cinquant’anni seguenti, esattamente come si sentivano il giorno prima di sposarsi», direbbe una cosa che probabilmente non è mai stata vera né mai lo sarà, e che sarebbe, se si avverasse, indesiderabilissima. Chi sopporterebbe di vivere in quello stato di eccitazione anche solo per cinque anni? Che ne sarebbe del nostro lavoro, del nostro appetito, del sonno, delle amicizie? Ma va da sé che cessare di essere «innamorati» non significa cessare di amare. L’amore in questo secondo senso – l’amore distinto dall’«essere innamorati» – non è soltanto un sentimento.

Clive Staples Lewis – Il cristianesimo così com’è

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Concistoro. Francesco: cardinale è uomo di carità e speranza

Posté par atempodiblog le 14 février 2015

Concistoro. Francesco: cardinale è uomo di carità e speranza
Quella cardinalizia non è una dignità “decorativa”, perché chi vi è chiamato deve avere una sola “parola-guida”: la carità. È quanto Papa Francesco ha detto ai 20 nuovi cardinali creati durante il Concistoro presieduto nella Basilica di San Pietro. Alla cerimonia ha preso parte anche il Papa emerito, Benedetto XVI.
di Alessandro De Carolis – Radio Vaticana

Concistoro. Francesco: cardinale è uomo di carità e speranza dans Fede, morale e teologia 6r7r41

Una berretta rossa non è il fregio posto sul capo di un uomo di comando, ma il simbolo di un uomo chiamato a un servizio più grande. Grande come la carità cristiana, che trabocca di benevolenza, è orientata alla giustizia, è piena di speranza, è incline al perdono. Un uomo che non ha altro amore che la Chiesa e sostiene il Papa come un fratello.

Non siete decorativi
Papa Francesco pone se stesso e i 20 nuovi cardinali – 19 presenti in Basilica, unica eccezione l’ultranovantenne colombiano Pimiento Rodríguez – di fronte al manifesto dell’eccellenza cristiana, quella descritta da San Paolo nel suo “Inno alla carità”. Lì, afferma, un cardinale soprattutto trova il suo dover essere, poiché dice subito, nelle prime righe della sua allocuzione…

“…quella cardinalizia è certamente una dignità, ma non è onorifica. Lo dice già il nome – ‘cardinale’ – che evoca il ‘cardine’; dunque non qualcosa di accessorio, di decorativo, che faccia pensare a una onorificenza, ma un perno, un punto di appoggio e di movimento essenziale per la vita della comunità”.

Amate senza confini
La cerimonia inizia e si snoda con grande solennità. Banditi gli applausi, a rimarcare non l’assenza di gioia, ma il bisogno di raccoglimento. Davanti all’altare, sulla sinistra, lo spesso emiciclo scarlatto delle porpore culmina nel punto in bianco dove siede il Papa emerito Benedetto. L’ascolto è di un silenzio solido quando Francesco, scomponendo l’Inno paolino, ricorda quali sentimenti debbano battere in un “cardine” della Chiesa:

“Quanto più si allarga la responsabilità nel servizio alla Chiesa, tanto più deve allargarsi il cuore, dilatarsi secondo la misura del cuore di Cristo. Magnanimità è, in un certo senso, sinonimo di cattolicità: è saper amare senza confini, ma nello stesso tempo fedeli alle situazioni particolari e con gesti concreti. Amare ciò che è grande senza trascurare ciò che è piccolo; amare le piccole cose nell’orizzonte delle grandi (…) Saper amare con  gesti benevoli. Benevolenza è l’intenzione ferma e costante di volere il bene sempre e per tutti, anche per quelli che non ci vogliono bene”.

Vostro interesse sia il bene di tutti
La carità inoltre “non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia d’orgoglio” – tentazioni, riconosce il Papa, dalle quali “non sono immuni” neanche le “dignità ecclesiastiche” – e poi non “non manca di rispetto” e “non cerca il proprio interesse”. In questo caso, osserva Francesco, il problema nasce in chi è troppo “autocentrato” su di sé da non badare alla dignità degli altri:

“Chi è auto-centrato cerca inevitabilmente il proprio interesse, e gli sembra che questo sia normale, quasi doveroso. Tale ‘interesse’ può anche essere ammantato di nobili rivestimenti, ma sotto sotto sotto è sempre il ‘proprio interesse’. Invece la carità ti de-centra e ti pone nel vero centro che è solo Cristo. Allora sì, puoi essere una persona rispettosa e attenta al bene degli altri”.

Dio ci scampi dal rancore
Trasparente Papa Francesco nel punto in cui si sofferma a considerare la carità che non si arrabbia, né tiene la contabilità del “male ricevuto”. Certo, ammette, “al pastore che vive a contatto con la gente non mancano le occasioni di arrabbiarsi”. E ancor più non gli difettano nel rapporto “tra confratelli”, perché “in effetti noi siamo meno scusabili”. Ma anche qui, ribadisce, “è la carità, e solo la carità, che ci libera”:

“Ci libera dal pericolo di reagire impulsivamente, di dire e fare cose sbagliate; e soprattutto ci libera dal rischio mortale dell’ira trattenuta, ‘covata’ dentro, che ti porta a tenere conto dei mali che ricevi. No. Questo non è accettabile nell’uomo di Chiesa. Se pure si può scusare un’arrabbiatura momentanea e subito sbollita, non altrettanto per il rancore. Dio ce ne scampi e liberi!”.

Uomini di perdono e speranza
Un uomo della carità, ancora, “non gode dell’ingiustizia e si rallegra della verità”, quest’ultima un’espressione che Francesco sottolinea con piacere perché chi è di Dio, dice, “è affascinato dalla verità” che ritrova nella carne di Gesù. Il commento finale è sulle ultime quattro virtù della carità, che “tutto” scusa, crede, spera e sopporta:

“L’amore di Cristo, riversato nei nostri cuori dallo Spirito Santo, ci permette di vivere così, di essere così: persone capaci di perdonare sempre; di dare sempre fiducia, perché piene di fede in Dio; capaci di infondere sempre speranza, perché piene di speranza in Dio; persone che sanno sopportare con pazienza ogni situazione e ogni fratello e sorella, in unione con Gesù, che ha sopportato con amore il peso di tutti i nostri peccati”.

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Dite “Amici” ed entrate

Posté par atempodiblog le 14 février 2015

Sentite bene questo: saper entrare con cortesia nella vita degli altri. E non è facile, non è facile. A volte invece si usano maniere un po’ pesanti, come certi scarponi da montagna! L’amore vero non si impone con durezza e aggressività. Nei Fioretti di san Francesco si trova questa  espressione: «Sappi che la cortesia è una delle proprietà di Dio… e la cortesia è sorella della carità, la quale spegne l’odio e conserva l’amore» (Cap. 37).

Papa Francesco

Dite “Amici” ed entrate dans Amicizia Dite-amici-ed-entrate

Dite “Amici” ed entrate
di don Fabio Bartoli – La fontana del villaggio

Nel Signore degli Anelli c’è una scena in cui Gandalf deve decifrare un enigma per entrare nelle miniere di Moria, l’antico regno dei Nani, e la risposta all’enigma è: dite “amici” ed entrate.

Amico è la parola d’ordine segreta che apre la via verso il profondo, verso l’intimità dell’altro, verso il regno splendente nascosto in fondo all’uomo. Solo chi si dichiara “amico” sarà fatto entrare perché chi facesse entrare altri che non sono amici mostrerebbe di aver poca considerazione di sé e del proprio valore. Mi lascerò abitare solo da chi si lascia abitare da me. Mi consegnerò solo a colui che si arrende a me.

La soglia di Moria è tenebrosa, entrare nell’amicizia, nel cuore dell’altro, non vuol dire necessariamente entrare in un luogo di delizie. La Compagnia dell’Anello giunge a Moria credendo di trovare in essa un luogo di riparo e un rifugio e si trovano invece a dover affrontare mille pericoli nell’attraversarla.

Così ciò che distingue l’amicizia non è il fatto che sia in sé piacevole, anzi, a volte non lo è affatto, ma è sempre uno scendere nel profondo, un avanzare dentro l’amico passo dopo passo, uno scendere nelle sue profondità, che a volte sono profondità infernali, insieme. Anzi nel fondo della miniera quasi sempre è nascosto un balrog, un demone infernale, e solo la presenza dell’amico mi darà il coraggio di affrontarlo e scacciarlo.

Per questo l’amico è essenziale, perché senza di lui non inizierei questo cammino dentro di me, è troppo faticoso, troppo oscuro. L’amico è colui che mi permette di conoscermi davvero, colui che apre a me stesso la via delle mie profondità, colui che mi dà il coraggio di riappropiarmi del mio regno perduto.

Come accade a Gimli e Legolas, mentre si addentrano nelle miniere, aprendogli la mia casa interiore e lasciandomi abitare dall’amico, visito io stesso questa casa: dò aria a stanze dove non entravo magari da decenni, scopro corridoi e collegamenti che nemmeno sapevo che esistessero e lui mi mostra bellezze che ignoravo, il suo sguardo amante su di me mi restituisce fiducia in me stesso, la sua presenza mi consente di affrontare nemici che mi avevano sempre terrorizzato.

Essendo penetrato nel mio intimo, l’amico è il solo autorizzato a giudicarmi. Si sente spesso dire che per essere oggettivi bisogna giudicare le cose “da fuori”, cioè senza farsi influenzare da valutazioni personali. In realtà però, tutti noi quando veniamo giudicati vorremmo essere giudicati “da dentro”, cioè a partire dalle nostre motivazioni e dai nostri sentimenti. Solo un amico può giudicarci così, conoscendo pienamente il perché delle nostre scelte e il processo che le ha generate.

Non voglio essere troppo tranciante, ma non credo che sia davvero possibile una vita interiore senza amicizia, perché credo che senza un amico sia impossibile conoscersi davvero. Nel nostro immaginario l’uomo spirituale è il solitario che dedica lunghe ore all’introspezione e alla meditazione e sicuramente queste due dimensioni sono indispensabili a chi voglia crescere interiormente, ma la sapienza della Chiesa ha sempre saputo quanto è difficile inoltrarsi da soli in certe vie e l’eremitaggio è sempre stata una eccezione, mentre i monaci, cioè i pionieri dell’interiorità, si sono generalmente organizzati in cenobi, comunità di amici appunto, che si sostengono a vicenda in questa avventura. Basta leggere anche pochi degli apoftegmi dei padri del deserto per rendersi conto di quanta stima avessero del valore dell’amicizia quelle aquile solitarie dello spirito.

Nell’amore dell’amico capisco di essere amabile io stesso. Proprio perché è libero e gratuito, proprio perché non ho alcun diritto ad esso, il fatto che l’amico mi ami mi dice che c’è in me qualcosa di prezioso e degno di essere amato in sé. Per questo bisogna avere il coraggio di farlo entrare senza riserve nelle proprie profondità, perché solo se si rischia, aprendosi incondizionatamente, si può ricevere la guarigione interiore prodotta dall’amore incondizionato. Per questo si dice che chi trova un amico trova un tesoro, è proprio così: è il tesoro di te stesso, o meglio è te stesso come un tesoro ciò che trovi lasciando entrare l’amico nelle tue profondità.

Naturalmente chi entra nelle profondità dell’altro dovrà farlo con una delicatezza infinita. Dimostrerebbe di non aver compreso quanto è rara e preziosa la fiducia ricevuta colui che si addentrasse nell’intimità di un amico con il passo spavaldo del conquistatore, con l’occhio del padrone, di chi dispone di qualcosa che è suo.

È vero, egli si è donato a me, in un certo modo mi ha autorizzato ad entrare, ma questo non lo rende mia proprietà, anzi, proprio la confidenza che mi è stata data deve riempirmi di timore, nella preoccupazione di ferire colui che con tanta generosità mi ha offerto i suoi tesori più preziosi. “La mia casa è la tua casa”, dicono i sudamericani accogliendo un ospite e lo stesso vale nell’amicizia, ma questo non ci autorizza a sporcare ed invadere la casa che ci accoglie.

Grazie all’amico infine io percepisco la mia vita come storia. Una storia non è un semplice succedersi di eventi, ma è il filo che collega questi eventi tra loro. Senza un amico la vita assomiglia ad un libro le cui pagine siano state strappate e rimescolate a caso, è una vita senza una trama. Aiutandomi a riconciliarmi con il mio passato, rendendomi amabile il presente, l’amico mi proietta verso il futuro, mi permette di guardare avanti con speranza. Accanto all’amico vedo con più lucidità la meta ed ho la consapevolezza che il cammino sarà meno faticoso.

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Pensieri di santa Bernadette

Posté par atempodiblog le 11 février 2015

L’alfabeto di una santa
Fonte: “Pensieri spirituali tratti dal Diario intimo e dalle Lettere di Santa Bernadette”
a cura di Mirella Mostarda – Diocesi Terni, Narni e Amelia

Pensieri di santa Bernadette dans Fede, morale e teologia 2vwdxqf

Amore: Avrò sempre abbastanza salute, ma mai abbastanza amore per Nostro Signore”.
“Non vivrò nessun istante se non amando. Colui che ama, fa tutto senza sacrificio, o meglio, il suo sacrificio, lo ama”.

Croce: “La croce è il patrimonio degli amici che il Signore ama di più; quaggiù la sofferenza, in cielo la vera felicità. La Santa Vergine non mi ha ingannata. Mi ha detto che non sarei stata felice in questo mondo, ma nell’altro. La prima parte l’ho già avuta”.

Debolezza: “Io sono molto debole; ho gran bisogno dell’aiuto delle preghiere di anime buone, per non abusare del favore che ho ricevuto dal Cielo, malgrado ne fossi indegna”.

Delizia: “Quando Nostro Signore sarà nel vostro cuore, abbandonatevi a Lui e gustate in pace le delizie della sua presenza. Amate, adorate, ascoltate, lodate e direi anche gustate… Soltanto l’eternità ci riserva gioie più grandi…”.

Difetti: “Io vorrei che si raccontassero anche i difetti dei santi e quanto hanno fatto per correggersi. Questo sarebbe molto più utile dei loro miracoli e delle loro estasi”.

Grotta: “È stato il mio cielo, non la rivedrò più. Vorrei tornare una volta sola alla mia grotta, quando nessuno mi vede, perché io sono attaccata a quella roccia con tutta me stessa!”.

Lacrime: “Soffro: e verso di Voi elevo i miei gemiti, o mio Consolatore. Riverso le mie lacrime sul vostro Cuore adorabile. A Lui confido i miei sospiri, le mie angosce, le mie pene. Che aumenti il mio amore, che renda meno pesante il mio dolore”.

Pane: “Preghiera a Gesù di una povera mendicante: O Gesù, dammi, ti prego, il pane dell’umiltà, il pane dell’obbedienza, il pane della carità, il pane della forza per spezzare la mia volontà, per unirla alla Tua, il pane della mortificazione interiore, il pane del distacco da ogni cosa e creatura, il pane della pazienza per sopportare le pene che il mio cuore soffre. O Gesù, Voi mi volete crocifissa: ‘Fiat’. Il pane della forza per ben soffrire, il pane di vedere sempre solo Voi e null’altro”.

Paura: Mia cara sorella, ho paura…Ho ricevuto tante grazie e ne ho fatto tanto poco profitto!”.

Sì: Sì, mio Dio, sì. In tutto e per tutto, sì”.

Umiltà: Il Rosario è la mia preghiera prediletta: d’altronde sono troppo ignorante per poterne comporre una”.

Verità: “A forza di voler infiorare le cose, si finisce per snaturarle”.

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