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Il presepe e la figura di Amedir

Posté par atempodiblog le 24 décembre 2014

Il presepe e la figura di Amedir dans Monsignor Bruno Forte Mons-Brino-Forte

Il presepe non vuole però essere soltanto ammirato: il protagonista divino e il protagonista umano non vi sono rappresentati come una memoria di un tempo perduto, ma come un appello rivolto al presente. Essi sono presentati in una forma di racconto “performativo”, che tende cioè a realizzare nel presente quel che viene narrato. Ne è indizio la figura così frequente del turco Amedir, il “guardiano della Nascita”. Secondo la leggenda una ricca principessa possedeva un Bambino Gesù, a custodia del quale aveva posto un Moro, così ostinato nel non volersi far cristiano, che alle insistenze della pia padrona sistematicamente rispondeva con freddezza, precorritrice di un Voltaire: “Quando a me Bambin parlare, me allor cristiano fare”. Un bel giorno ella se lo vide correre incontro gridando: “Me voler cristiano fare e voler Giuseppe chiamare”. Il Bambino aveva parlato, dicendogli: “Giuseppe, cristiano fare”. E così il buon Moro fu battezzato col nome prescelto dal Figlio di Dio.

Il senso della leggenda – trasmessa fra innumerevoli lacrime di commozione – è palese: i “guardiani” del presepe, gli spettatori ammirati e incuriositi, sono chiamati per nome dal piccolo Salvatore, affinché il loro cuore si apra a Lui e la loro vita cambi. Altro indizio non meno significativo di questa “attualità” del presepe è riconoscibile nel fatto che spesso i luoghi e i volti sono quelli della Napoli settecentesca: non si farebbe fatica ad individuare visi resi celebri dalle arti “maggiori”, ma anche i comuni pastori hanno i tratti e gli abbigliamenti che qualunque visitatore avrebbe potuto osservare nelle strade rumorose della città. E i “trionfi” di frutta, verdura e cacciagione dovevano riprodurre uno spettacolo consueto, sul quale riposavano di frequenza gli occhi dei benestanti, pregustando prossime delizie, ma anche dei più poveri, sazi almeno di quello sguardo: “Tranne poche eccezioni – scrive Leonardo Fernandez Moratin, letterato spagnolo in visita a Napoli sul finire del 1793 e l’inizio del 1794 – bisogna confessare che la città di Napoli è forse la più abbondante in commestibili che vi sia in Europa… e il popolo è contento quando, anche senza mangiare, sa che c’è da mangiare” È questo popolo godereccio ed affamato, chiassoso e festaiolo, gravato da contraddizioni sociali forti, ma pur sempre abile nell’“arrangiarsi”, che il presepe intende riprodurre, quasi a dire che Cristo non nasce “altrove” o “in un tempo lontano”, ma “qui ed ora”, in questa “sua” terra e fra questa “sua” gente.

È così che la risposta dei “pastori” puó diventare quella di chi guarda ed è così che il presepe del nostro presente potrebbe assolvere al medesimo compito cui assolse il presepe di Padre Rocco o di Sant’Alfonso: dire il Vangelo in modo che risuoni non come predica moralistica o discorso edificante, ma come dubbio sui nostri non-sensi, annuncio di una speranza possibile, dischiusa per tutti da quell’umile nascita…

dell’Arcivescovo di Chieti-Vasto, Bruno Forte

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Chesterton sui regali di Natale

Posté par atempodiblog le 23 décembre 2014

Elogio cristiano del Natale consumistico dans Antonio Socci Regali-di-Natale

La convinzione che molti, anche fra i credenti, si sono fatti del Natale è che a disturbare un autentico festeggiamento natalizio siano anzitutto il consumismo e la ricerca dei regali di questi giorni. Tanti la pensano così ma – sia detto con rispetto – sbagliano. Non perché il consumismo, laddove eccessivo, non sia un problema, ma perché il falso Natale non è quello con troppi regali ma quello senza Gesù; è quella la Festa senza il Festeggiato. E se da un lato è vero che una smisurata attenzione ai regali può distrarre dal senso del Natale, dall’altro non è certo evitando di farsi dei doni che si sarà automaticamente partecipi, come per magia, dell’essenza natalizia. Anzi.

In tal senso, anticipando sorprendentemente di decenni le polemiche sul consumismo natalizio, il grande Gilbert Keith Chesterton (1874-1936) osservava: «Poco tempo fa ho letto l’affermazione di una signora sull’argomento: dice che lei non “faceva regali” nel senso grossolano, sensuale e terreno dell’espressione ma Cristo stesso è un regalo di Natale. Una nota a favore dei regali materiali è stata buttata giù persino prima della Sua nascita, con i primi spostamenti dei saggi dell’Oriente e della stella: i Tre Magi giunsero a Betlemme portando oro, incenso e mirra. Se avessero portato solo la Verità, la Purezza e l’Amore non ci sarebbero state né un’arte né una civiltà cristiana».

Oltre alla storia dei Magi, pare che a rafforzare la tradizione natalizia dei doni, degli auguri e del pranzo natalizio sia stato – in epoca meno remota – il successo di A Christmas Carol di Charles Dickens (1812-1870), racconto che vide le stampe il 18 dicembre 1843 riscuotendo subito successo e vendendo ben 6.000 copie in appena una settimana. Tuttavia questo nulla dice circa la pericolosità dello scambiarsi dei doni e dello sforzo di chi, a Natale, cerca di essere più buono e generoso. Chiaramente l’impegno non dovrebbe essere limitato alla seconda parte del mese di dicembre e durare tutto l’anno; ma questo dipende dalla capacità di custodire la verità di Natale, non certo dall’astenersi dal fare regali per paura d’inquinarla.

di Giuliano Guzzo

Botti di Capodanno, l'appello dei medici degli ospedali: “E' una tradizione negativa e pericolosa” dans Articoli di Giornali e News Santo-Natale

Freccia dans Viaggi & VacanzePerché anche i cristiani a Natale si scambiano i regali?

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L’importanza di fare bene le omelie

Posté par atempodiblog le 21 décembre 2014

Rileggiamo con calma l’insegnamento del Romano Pontefice (Benedetto XVI) nel n.59 de la Verbum Domini: «Già nell’Esortazione apostolica postsinodale Sacramentum caritatis, avevo ricordato che in relazione all’importanza della Parola di Dio si pone la necessità di migliorare la qualità dell’omelia. Essa infatti “è parte dell’azione liturgica”; ha il compito di favorire una più piena comprensione ed efficacia della Parola di Dio nella vita dei fedeli»

L’omelia non è l’occasione per rivolgersi ai fedeli e comunicare loro qualcosa di diverso dai testi sacri letti. È “parte dell’azione liturgica”, non una aggiunta opzionale. La sua finalità è quella di “favorire una più piena comprensione ed efficacia della Parola di Dio nella vita dei fedeli”.

Tratto da: Collationes

L'importanza di fare bene le omelie dans Fede, morale e teologia 2irt4qp

L’importanza di fare bene le omelie
di Radio Vaticana

(20/12/2014) Con il benestare di Papa Francesco, è stato redatto dalla Congregazione del Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti un “direttorio omiletico”. Costituito da due parti – una dedicata all’omelia in ambito liturgico e l’altra focalizzata sull’arte della predicazione – il documento ambisce a fornire a sacerdoti e seminaristi le coordinate metodologiche e contenutistiche da tener conto nel preparare e pronunciare un’omelia. Federico Piana ne ha parlato con Sergio Tapia-Velasco, docente alla Facoltà di Comunicazione sociale della Pontificia Università della Santa Croce e coordinatore del corso “Ars praedicandi”:

R. – In realtà, tutto inizia con Giovanni Paolo II quando nel 1990 convoca un Sinodo per studiare come si possa migliorare la formazione dei sacerdoti, dei seminaristi. Già in quel momento è venuta fuori  l’idea di fare qualcosa per aiutare i sacerdoti a predicare meglio. Poi, Papa Benedetto in due momenti importanti – sempre a conclusione di un Sinodo, quello dell’Eucaristia, che ha portato poi all’uscita dell’Esortazione “Sacramentum Caritatis” nel 2007 – parlò di queste omelie che risultavano noiose, perché in realtà erano troppo generiche o astratte e non parlavano ai fedeli. E’ stato lo stesso Benedetto che ha chiesto – dopo il Sinodo sulla Parola di Dio nel 2010, scrivendo questa Esortazione Apostolica “Verbum Domini”, al numero 60 – ai responsabili della Congregazione del Culto Divino l’opportunità di redigere un Direttorio Omiletico. Il Direttorio è un tipo di documento, diciamo così, speciale che viene non soltanto a studiare un argomento dal punto di vista teorico, ma cerca di dare una direzione.

D. – In concreto di cosa si tratta?
R. – Si tratta di linee guida che possono ispirare sia il sacerdote che già si trova a esercitare il ministero della Parola, e richiamano soprattutto la responsabilità dei rettori dei seminari nel preparare in questa bella ma anche difficile arte della predicazione i loro seminaristi. Senz’altro tutti possiamo migliorare, ma chi si sta preparando al sacerdozio deve prendersi sul serio nella preparazione in questo ambito.

D. – Come deve essere fatta una omelia “doc”?
R. – Porsi le domande giuste per strutturare l’omelia: che cosa interessa veramente i fedeli? Che cosa dice veramente il testo? Che cosa ha detto questa lettura al mio cuore? Come dice Papa Francesco, è importante non rispondere a domande che nessuno si pone: l’inter-lectio ha proprio lo scopo di “inter-leggere” e capire che cosa dice il testo, cosa hanno bisogno di ascoltare i fedeli e cosa ha detto il testo a me stesso? Altrimenti l’omelia risulta non autentica. L’importante è avere una domanda di partenza e poi si può strutturare il discorso seguendo la retorica classica, ma sempre attenti alle forme di comunicazione contemporanea.

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Il cuore non si guadagna se non colla dolcezza e coll’amore

Posté par atempodiblog le 21 décembre 2014

Il cuore non si guadagna se non colla dolcezza e coll'amore dans Citazioni, frasi e pensieri fdbqtg

Non è dunque né il rimprovero né il rigore né la forza né l’acre invettiva non è l’umiliante correzione o lo zelo impetuoso che opera la conversione del peccatore. Qui si tratta di guadagnare il cuore, e il cuore non si guadagna se non colla dolcezza e coll’amore. Quanto più di ogni argomento valgono sul cuore dell’uomo le attrattive di una dolce ed ingegnosa insinuazione!

Dite di slancio ad un empio, che si converta a Dio: vi renderete ridicolo. Persuadete un libertino, un dissoluto alla vita del ritiro, della mortificazione, dell’orazione, come alla vita più tranquilla e felice: voi gli muovete la bile. Esortate un peccatore ostinato ad abbandonare sull’atto le ree pratiche, ed a cangiare in un subito tenor di vita: voi ne riportate il rifiuto, le beffe, e fors’anche le bestemmie. Imperciocché come volete che, preso così di fronte ed all’aperta il peccatore, schiavo de’ suoi peccati, non si opponga, non vi resista? Come volete, che, urtando così voi direttamente colle passioni di lui, si pieghino queste, e cedano tosto alle aspre e furiose vostre maniere? Non è anzi questo il mezzo di inasprirle sempre più, di accenderne della altre, di risvegliare il puntiglio e la superbia e di sollevare tutte contro il vostro intento?

[...]

Questa è la maniera, o miei dilettissimi, di farci strada al cuore de’ nostri fratelli che vogliamo convertire: non disprezzare il loro giudizio, ma rispettarlo, anzi rimetterci a quello, e fare che essi rientrino liberamente in sé stessi. Il voler pretendere che subito si arrendano alle nostre persuasioni, alla nostra esperienza, al nostro giudizio, egli è per lo più un rendere sospetto le nostre esortazioni; egli è un metterli talvolta in sospetto, che noi parliamo piuttosto per prevenzione o per pregiudizio, per imporre o per dominare sopra di loro.

Tutti ci crediamo pur troppo capaci di esaminare e di giudicare da noi stessi, e tutti siamo pur troppo attaccati alle nostre opinioni, e gelosi de’ nostri giudizj; ma molto più i peccatori ostinati, i quali, quanto più sono accecati dalle passioni ne’ loro giudizj, tanto più sono impegnati dalle medesime a sostenerli. Guai dunque se loro contraddiciamo apertamente! Guai se vogliamo subito dichiararli in errore! Guai se pretendiamo di sottometterli al nostro giudizio! Per illuminarli, per piegarli non bisogna farla da giudici e dir loro, “Voi la fallate! Siete fuori di strada!”; ma bisogna farla da amorosi consiglieri, e pregarli ad esaminare di buona fede la loro vita, a consultare le persone illuminate ed accreditate, e dietro il loro esame e gli altrui lumi darne eglino stessi il loro giudizio.

di Mons. Francesco Maria Zoppi (vescovo)

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Il bambino presso Gesù di Fëdor M. Dostoevskij

Posté par atempodiblog le 21 décembre 2014

Il bambino presso Gesù
di Fëdor M. Dostoevskij

Il testo che segue, composto da una “prefazione” e il racconto vero e proprio, è stato scritto nella fine dell’anno 1876 da Fëdor Michailovič Dostoevskij per il quotidiano Il Messaggero
Tratto da: Note di pastorale giovanile

Il bambino «con la manina»
I bambini sono creature strane, vi appaiono in sogno e vi immaginate di vederli.

Il bambino presso Gesù di Fëdor M. Dostoevskij dans Fedor Michajlovic Dostoevskij Pregare-accanto-al-presepe

Poco prima di Natale e nel giorno della vigilia mi accadeva sempre di incontrare nella via, al solito angolo, un piccino che non poteva avere più di sette anni. Con quel gelo terribile era vestito quasi come d’estate, ma aveva al collo un vecchio cencio, e ciò significava che vi era ancora chi lo vestiva prima di mandarlo fuori casa, lo mandava in giro «con la manina»: termine tecnico che vuol dire chiedere l’elemosina. Sono stati i bambini stessi a coniarlo. Ce n’è una moltitudine come lui, si aggirano per le vostre strade e ripetono in tono lamentoso quelle formule imparate a memoria; ma questo non si lamentava e parlava in un certo modo inusuale e ingenuo e mi guardava fiducioso negli occhi: doveva esser solo agli inizi della professione.

Alle mie domande replicò che aveva una sorella a casa, senza lavoro e malata; forse era la verità, ma solo in seguito scoprii che di piccini così ve ne sono a miriadi; li mandano in giro «con la manina», anche nel gelo più terribile, e se non raccolgono nulla, vi sono senz’altro le botte ad attenderli. Racimolate le copeche, il bimbo ritorna con le dita intorpidite ed arrossate in qualche cantina dove si sta ubriacando una compagnia di perdigiorno, di quelli che «smettono di lavorare in fabbrica il sabato in vista della domenica e non vi fanno ritorno prima del mercoledì sera». Là nelle cantine, si ubriacano con loro anche le mogli affamate e maltrattate, e ancora lì vagiscono affamati i lattanti. Vodka, sporcizia, e depravazione, ma soprattutto vodka. Con le copeche raccolte il piccino viene subito spedito all’osteria, da cui torna con dell’altra vodka. Per divertimento versano anche a lui talvolta in bocca una mezzetta e sghignazzano quando, col respiro mozzato, cade sul pavimento quasi privo di sensi:

… e in bocca l’orribile vodka senza pietà mi versava…

Una volta cresciuto, verrà spedito senza indugio da qualche fabbrica, ma tutti i suoi guadagni li poterà ancora a quei perdigiorno, che di nuovo se li berranno. Tuttavia già prima della fabbrica questi bimbi diventano dei perfetti delinquenti. Vagabondano per la città e conoscono vari posti nelle cantine dove pernottare indisturbati. Uno di loro pernottò per alcune notti di seguito da un portiere dentro una cesta, senza che questi se ne accorgesse neppure. Va da sé che diventano dei ladruncoli. Il furto si trasforma in passione persino per i bambini di otto anni e talvolta senza che siano minimamente consapevoli della criminosità della loro azione. Alla fine sopportano tutto: fame, freddo, botte solo per un’unica cosa, per la libertà, e fuggono dai loro perdigiorno per vagabondare ormai da soli. Sono dei selvaggi e talvolta non paiono neppure in grado di intendere nulla, né dove vivano, da che nazione provengano, né se vi sia Dio o se esista un sovrano; sul loro conto circolano voci tali da sembrare incredibili, ma tuttavia corrispondono ai fatti.

Il bambino sull’albero di Natale da Gesù

Ma io sono un romanziere e mi pare di aver inventato la “storia”. Scrivo «mi pare» perché sono certo di averla inventata, e mi immagino sempre che tutto sia avvenuto in un certo luogo in un certo momento, e che sia accaduto proprio alla vigilia di Natale, in qualche enorme città, con un gelo terribile.

Mi sembra di rivedere in una cantina un bimbo, ancora piccino, di forse sei anni e anche meno. Il bimbo si è svegliato un mattino nella cantina umida e fredda. Ha addosso una specie di camicina e trema. Il suo fiato si trasforma in bianco vapore e lui, seduto sul baule, in un angolo, per la noia, fa fluire questo vapore dalle labbra e si diverte a guardare come vola via.

Tuttavia ha una gran voglia di mangiare. Fin dal mattino, si è avvicinato più volte al tavolaccio dove, su un pagliericcio sottile sottile, con il capo appoggiato ad una sorta di fagotto che le fa da guanciale, giace la madre malata. Come sarà finita lì? Probabilmente era giunta da un’altra città con il suo bambino e si era improvvisamente ammalata. La padrona di quegli “angolini” era stata arrestata dalla polizia due giorni prima; gli inquilini si erano dispersi chissà dove per le feste ed era rimasto solo un perdigiorno che non aveva atteso le feste per bere, e ormai da ventiquattro ore giaceva ubriaco, come morto. In un altro angolo della stanza gemeva per i reumatismi una vecchietta ottantenne che un tempo era stata bambinaia e che ora moriva in solitudine, sospirando, lamentandosi e brontolando contro il bimbo, tanto che lui temeva di avvicinarsi troppo al suo angolo. Da qualche parte nell’andito era riuscito a trovare qualcosa da bere, ma di croste di pane non ne aveva scovate e almeno una decina di volte si era accostato alla madre per svegliarla. Infine gli era venuto il terrore del buio: da un pezzo ormai era scesa la sera, ma i lumi erano ancora spenti. Tastando il viso della mamma si stupì che lei non facesse il minimo movimento e che fosse diventata fredda come il muro. «Fa proprio freddo qui» pensò il bimbo, e restò per un po’ immobile, dimenticando senza volerlo la mano sulla spalla della defunta, poi soffiò sui suoi ditini per riscaldarli, si mise a frugare sul tavolaccio alla ricerca del suo berrettino e si avviò a tentoni verso l’uscita della cantina. Si sarebbe allontanato anche prima, ma aveva sempre temuto il grosso cane che stava tutto il giorno di sopra, sulla scala, davanti alla porta dei vicini. Però il cane non c’era e lui si ritrovò di colpo in strada.

Dio, che città! Non aveva mai veduto nulla di simile. Da laggiù, da dove veniva, il buio era così fitto e un solo fanale illuminava tutta la via. Le casupole di legno avevano le imposte chiuse; non appena imbruniva la via diventava deserta e tutti si rinchiudevano in casa, e solo branchi di cani abbaiavano ed ululavano per tutta la notte. Ma almeno lì stava al caldo e veniva nutrito, mentre qui, mio Dio, magari avesse trovato qualcosa da mangiare! E lo strepito, il fracasso, la gente, le luci, e tutti quei cavalli e quelle carrozze, e che gelo, che gelo! Un vapore gelido fluiva dai cavalli stremati, dal respiro rovente dei loro musi; nella neve soffice i loro ferri tintinnavano contro i sassi, e tutti si spintonavano, e, Signore, sarebbe stato così bello poter mangiare, e i ditini ad un tratto sembravano fare tanto male. Una guardia passò davanti al bimbo, ma voltò il capo dall’altra parte per non vederlo.

Ma ecco un’altra via: com’era ampia! Lì l’avrebbero di certo schiacciato. E come vociavano tutti, come si affrettavano, come correvano sulle loro carrozze, e quante luci, quante luci! Ma questa che cos’è? Oh, che vetro grande, e dietro il vetro una stanza dove la legna arriva fino al soffitto; c’è un abete, e quante luci sull’abete, e stelle e decorazioni d’oro, e quante file di pupazzetti e di cavallini lo avvolgono tutt’intorno; nella stanza si rincorrono dei bimbi lindi e vestiti a festa, e ridono, giocano, mangiano, bevono. Ed ecco, una bambina si è messa a danzare con un bimbo, com’è carina! E ora si può sentire anche della musica attraverso il vetro. Il bimbo guarda pieno di meraviglia e già ride, ma ormai anche i ditini dei piedi gli dolgono, e quelli delle mani, sono tutti arrossati, non si piegano e muoverli fa tanto male. E tutt’ad un tratto, resosi conto del dolore, scoppia in lacrime e fugge via, ma poi scorge di nuovo attraverso un altro vetro un’altra stanza, con gli stessi alberi e una tavola con torte rosse e gialle e di mandorla, e vi siedono quattro ricche signore che te ne danno un po’ non appena ci si avvicina, ogni istante si spalanca la porta e fiumane di signori entrano e si dirigono verso di loro. Il bimbo si intrufola e di colpo la porta si è aperta e lui è entrato. Oh, come lo sgridano, come agitano le braccia! Una signora lo raggiunge in gran fretta e gli ficca in mano una copeca, poi gli apre lei stessa la porta e lo sospinge fuori. Come è spaventato il piccino! La copechina gli è subito scivolata di mano tintinnando sugli scalini: non è riuscito a piegare le sue dita arrossate per ottenerla. Il bimbo fugge via e corre, corre senza sapere dove va. Avrebbe voglia di piangere, ma ha paura e continua a correre, soffiandosi sulle manine. E l’angoscia lo assale poiché all’improvviso si è sentito così solo, così pieno di paura. E poi, di colpo, oh Signore, ma che c’è ancora di nuovo? Una folla di persone osserva rapita: dietro il vetro, sulla finestra, vi sono tre piccoli automi, vestiti di rosso e di verde, e sembrano quasi vivi!

Uno è un vecchietto seduto che pare intento a suonare un grosso violino, mentre gli altri stanno in piedi e suonano dei piccoli violini, dondolando a tempo la testa e guardandosi l’un l’altro, e muovono le labbra proprio come se parlassero, solo che dal vetro non si ode nulla. E il bimbo da principio ha creduto che fossero veri, ma poi ad un tratto ha capito che si trattava di automi ed è scoppiato a ridere. Non aveva mai veduto bambole simili e non pensava neppure che potessero esistere! Avrebbe voluto piangere, ma era così buffo guardarli! All’improvviso gli sembrò che qualcuno lo afferrasse per la camicina: un ragazzaccio cattivo lo colpì alla testa e gli strappò il berretto, facendogli lo sgambetto. Il bimbo ruzzolò a terra, intorno si udirono delle grida, lui rimase inebetito, e poi balzò in piedi e corse via; senza rendersene conto, entrò di corsa dentro un portone, in un cortile sconosciuto, e si sistemò su un mucchio di legna. «Qui non mi troveranno, e poi è buio».

Sedeva tutto rattrappito, senza riuscire a riprendere fiato dalla paura, ma tutt’ad un tratto si sentì così bene le manine e i piedini non gli facevano più male e avvertiva un tale senso di tepore, come se si fosse trovato sopra una stufa; ma poi prese a tremare tutto. Ah, già, si era quasi addormentato. Come era bello addormentarsi lì! «Rimarrò per un po’ e poi andrò di nuovo a guardare gli automi», pensò il bimbo e sorrise, rammentandosene: «parevano proprio vivi!…». E all’improvviso udì sopra di lui la voce della sua mamma che gli cantava una canzoncina: «Mamma, sto dormendo. Ah, come è dormire qui!».

«Vieni da me a vedere l’albero di Natale, piccino», bisbigliò ad un tratto una voce sommessa sopra di lui.

Dapprima pensò che fosse stata la mamma a parlare, ma no, non era stata lei; non riusciva a vedere chi l’avesse chiamato, ma qualcuno si era chinato su di lui e lo aveva abbracciato nel buio e lui gli aveva teso la mano… e poi d’improvviso, che luce! Che albero di Natale! Ma no, non era neppure un albero di Natale, non aveva mai veduto prima di allora alberi simili! Dove si trovava? Era tutto un brillio di luci e vi erano bambole ovunque, anzi no, si trattava di bimbi e di bimbe, ma erano così luminosi, gli vorticavano intorno, volando, e lo baciavano, lo afferravano e lo trascinavano con loro, anche lui volava. E vedeva la sua mamma che lo osservava e rideva gioiosa.

«Mamma! Mamma! Oh, com’è bello qui, mamma!», gridava il bimbo, mentre scambiava dei baci con gli altri bambini, e avrebbe voluto subito raccontare degli automi che aveva scorto dietro il vetro. «Chi siete, bimbi? Bimbe, chi siete?», chiedeva ridendo, pieno d’amore per loro.

«È l’“albero di Natale di Gesù”», fu la loro risposta. Gesù in questo giorno ha sempre un albero di Natale per i piccoli che non ne hanno uno…». E scoprì che tutti i bambini erano proprio come lui, ma che alcuni di loro erano morti assiderati sulle scale davanti alla porta di qualche impiegato di Pietroburgo dentro le ceste in cui erano stati abbandonati, e che altri, affidati dall’orfanotrofio a balie finlandesi, non erano sopravvissuti all’allattamento, o ancora che erano morti al seno inaridito delle loro madri o nel fetore di carrozze di terza classe, ma ora tutti erano lì, nelle sembianze di angeli, da Gesù ed egli era fra di loro, tendeva loro le braccia e li benediceva con le loro madri peccatrici… E anche le madri si trovavano lì in disparte e piangevano, riconoscendo ciascuna il proprio bimbo o la propria bimba che andavano verso di loro e le baciavano, asciugavano le loro lacrime con le manine, scongiurandole di non piangere, poiché si stava tanto bene lì…

Mentre laggiù verso il mattino i portieri ritrovarono il cadaverino di un bimbo capitato lì per caso e morto assiderato dietro un mucchio di legna; rintracciarono anche la sua mamma… Era morta ancor prima di lui: si erano ritrovati in Cielo dal Signore Iddio.

Perché mai avrò scritto una storia come questa, così poco adatta ad un normale ragionevole diario, e ancor meno a quello di uno scrittore? E dire che avevo promesso dei racconti su fatti realmente avvenuti! Eppure, ecco, ho come l’impressione che tutto ciò sia potuto accadere davvero; mi riferisco a quel che è avvenuto in cantina e dietro il mucchio di legna, quanto all’albero di Natale da Gesù non saprei dirvi se sia andata proprio così! Ma non per nulla sono un romanziere e qualcosa devo pur inventare!

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L’esperienza del Natale

Posté par atempodiblog le 20 décembre 2014

L’esperienza del Natale
del Card. Angelo Comastri – Tu sei Trinità

L’esperienza del Natale dans Cardinale Angelo Comastri Santa-Teresa-del-Bambin-Ges

Teresa di Lisieux racconta nel suo manoscritto che un Natale coincise con il momento della sua conversione: era il Natale del 1886, l’anno prima del suo pellegrinaggio a Loreto. Cosa accadde in quel Natale? Racconta Teresa: “Andammo in chiesa a vedere il Dio debole e quel Dio debole mi donò una grande forza. Ricevetti la comunione e nella comunione ricevetti la forza di Dio”. E’ paradossale questo linguaggio di Teresa di Lisieux. Ma cosa accadde in quel Natale? Lo racconta lei stessa.

Uscendo dalla messa di mezzanotte, ritornarono a casa; Teresa era l’ultima figlia, vezzeggiata da tutti, in particolare dal padre; ma il padre era stanco, quella notte; arrivato a casa, non aveva voglia di assistere alla gioia semplice e spontanea della bambina che apriva i vari pacchetti dei regali e uscì in questa esclamazione: “Meno male che è l’ultimo anno”.

Teresa si sentì ferita, stava per piangere.

“A un certo punto”, racconta lei stessa, “mi feci forza, andai incontro al papà, cominciai ad aprire i piccoli regali gioiosamente e ritornò la festa nella mia famiglia”.

Commenta Teresa: “Feci un atto di umiltà e sentii la carità di Dio che mi entrava nel cuore e da quel momento fui felice”.

E’ l’esperienza del Natale, l’esperienza di umiltà che diventa accoglienza dell’amore. Se potessimo vivere un’esperienza di amore vero, proveremmo anche noi la gioia di Dio. Se vivessimo l’amore come dono, l’amore come gratuità, l’amore come oblio di se stessi, troveremmo il Paradiso fin da quaggiù.

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Le persone che lasciano il segno

Posté par atempodiblog le 19 décembre 2014

Le persone che lasciano il segno dans Amicizia 20r1vec

Mi piacciono le persone che lasciano il segno. Non cicatrici. Sono quelle persone che entrano in punta di piedi nella tua vita e la attraversano in silenzio. Parlano i gesti non la voce alta, gridano le emozioni non la rabbia. Mi piacciono le persone che lasciano il segno, lì in quel piccolo posto chiamato cuore… sono quelle che mai se ne andranno perché quel posto se lo sono conquistato con le piccole attenzioni di ogni giorno.

Stephen Littleword

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Si è fatto piccolo per liberarci dalla superbia

Posté par atempodiblog le 18 décembre 2014

“E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità”. (Gv 1,14)

Si è fatto piccolo per liberarci dalla superbia dans Citazioni, frasi e pensieri Papa-Benedetto-XVI

«Nella grotta di Betlemme, Dio si mostra a noi umile “infante” per vincere la nostra superbia. Forse ci saremmo arresi più facilmente di fronte alla potenza, di fronte alla saggezza; ma Lui non vuole la nostra resa; fa piuttosto appello al nostro cuore e alla nostra libera decisione di accettare il suo amore. Si è fatto piccolo per liberarci da quell’umana pretesa di grandezza che scaturisce dalla superbia; si è liberamente incarnato per rendere noi veramente liberi, liberi di amarLo».

Benedetto XVI

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Una stalla ha visto nascere un Re…

Posté par atempodiblog le 18 décembre 2014

Una stalla ha visto nascere un Re... dans Charles Péguy Una-stalla-ha-visto-nascere-un-Re

“…ed essi l’hanno veduto. Tutti loro l’hanno veduto, senza scomodarsi, coloro ch’erano lì e coloro che erano venuti, coloro che erano venuti apposta e coloro che non erano venuti apposta; i pastori, i magi, e l’asino e il bue che gli respirava sopra per riscaldarlo. Era a portata di voce, era a portata di mano, era a portata degli occhi, e ciò non ricomincerà più. Reims, sei la città della consacrazione. Sei dunque la più bella città del regno di Francia. E non c’è cerimonia più bella al mondo, non c’è al mondo cerimonia altrettanto bella della consacrazione del re di Francia, in nessun paese. Ma da dove vieni, città di Reims, che fai, cattedrale di Reims? Chi sei mai? Una stalla, in quel borgo sperduto, in quel povero piccolo borgo di Betlemme, una stalla ha visto nascere una regalità che non disparirà più nei secoli dei secoli, una stalla ha visto nascere un Re che regnerà eternamente”.

Charles Péguy – Il mistero della carità di Giovanna d’Arco

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Natale è la festa dell’infanzia

Posté par atempodiblog le 18 décembre 2014

Ci sarà ancora Natale?

Natale è la festa dell'infanzia dans Citazioni, frasi e pensieri albero-bimbi-2

Natale è la festa dell’infanzia.
Questo giorno è quello di tutte le speranze umane e, per un cristiano, la festa dell’umanità divinizzata nel misterioso piccolo bambino e nella greppia continuerà a brillare ogni anno sopra un mondo accanito a perseguire, costi quel che costi, la sinistra esperienza di una civiltà despiritualizzata, di una civiltà della materia che pretende di ricreare l’uomo a propria immagine e somiglianza e che, in nome di una giustizia e di un’uguaglianza speculative, rovina a poco a poco la persona umana, sostituisce a poco a poco alla coscienza individuale questa mostruosa coscienza collettiva che può realizzarsi totalmente solo in una organizzazione totalitaria della Schiavitù Totale, di cui la storia dell’umanità non offre alcun esempio e di cui l’uomo moderno deve cercare modestamente il modello presso le termiti o le formiche.

Natale è la festa dell’infanzia. Abbiamo il diritto di domandarci se ci saranno ancora per lungo tempo notti di Natale, con i loro angeli e pastori, per questo mondo feroce, così lontano dall’infanzia, così estraneo allo spirito d’infanzia, al genio dell’infanzia; con questo mondo con il suo realismo limitato, con il suo disprezzo del rischio, con il suo odio di ogni sforzo, che si accorda molto meno paradossalmente di quanto si pensi al suo delirio d’azione, alla sua agitazione convulsa.

Che ci verrebbe a fare, in un mondo come questo, un giorno consacrato da duemila anni non soltanto al più augusto mistero della fede, ma all’infanzia eterna che, a ogni generazione, fa debordare attraverso le nostre cloache il suo flusso irresistibile di entusiasmo e di purezza!

Natale è la festa dell’infanzia.

Georges Bernanos, Français, si vous saviez…

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Benigni, tra scivoloni e cose belle

Posté par atempodiblog le 18 décembre 2014

Benigni, tra scivoloni e cose belle
I 10 Comandamenti di Benigni, Parte 2: Promossa, o no?
Fonte: Cattonerd
Tratto da: Una casa sulla Roccia

Benigni, tra scivoloni e cose belle dans Articoli di Giornali e News 2j5j9u0

Roberto tocca note altissime, ma alle volte stecca. Eppure…

È andata in onda ieri sera l’ultima puntata della serie “I Dieci Comandamenti” di Benigni. Se volete sapere cosa ne pensiamo della prima parte, c’è un articolo pronto per voi: I 10 Comandamenti di Benigni – Prima Parte: Promossa ma…

Noi cattolici sapevamo che, nonostante qualche frecciatina contro Santa Romana Chiesa già scoccata nella prima puntata, nella seconda parte ne avremmo potute sentire di cotte e di crude, e purtroppo così è stato. Devo ammettere che, arrivati al VI Comandamento, dentro di me ci sia stato un flusso anomalo di sangue verso il cervello. Già… ma poi, a mente lucida e dirigendo il suddetto sangue verso il cuore, mi sono preparato a scrivere quanto tra poco leggerete.   

Premessa per i cattolici

Immaginatemi in ginocchio, con le mani giunte, e con gli occhi a-là gatto con gli stivali di Shrek. Vi chiedo con tutto il cuore di leggere questo articolo mandando giù quel groppo che avete in gola. Ce l’ho avuto pure io – ve lo assicuro – ma prestatemi orecchio (gli occhi in questo caso) accantonando rabbia e giudizi già formulati.

So benissimo che le accuse fatte alla Chiesa, arrivate al VI Comandamento, sono molto gravi. So benissimo che la Chiesa non ha mai detto, al contrario di quanto dice Benigni, che il sesso fa schifo, né tantomeno ce l’ha con la donna o con il piacere. Ne parlerò più avanti, ma vi chiedo per il momento di chiudere un occhio, forse anche tutti e due, e di lasciare aperti quelli di Dio.

C’è un dettaglio molto importante che dovete sapere; la lettura che Benigni fa ne “I 10 Comandamenti”, in realtà non è cattolica, ma ebraica! Questo spiega come mai, secondo lui, alcuni Comandamenti sarebbero stati “manomessi” dalla Chiesa! Quello che manca in realtà a Roberto, dal nostro punto di vista cristiano, è il compimento degli stessi Comandamenti, ovvero Gesù Cristo. Per Benigni infatti Gesù sembra una semplice postilla, un altro profeta che non fa altro che aggiungere un nuovo Comandamento “più bello e alto degli altri“ (ovvero Luca 10,27). Ma questo, per noi, è limitativo. Cristo non è venuto solo a rendere “gli altri Comandamenti un commento all’ultimo” ma a portare le Parole del Padre ad un livello ancora più alto. Una cosa è mangiare un ottimo piatto con la degustazione di un vino che ne esalta i sapori. Altro è mangiare quello stesso piatto e, una volta finito, bere quel vino a parte. Non funziona allo stesso modo, se ne perde la vera efficacia.

È un errore imperdonabile questo? Riflettendoci… no. Calmi, mi spiego subito.

Noi sappiamo, e nelle discussioni con la gente che si improvvisa teologa lo ribadiamo spesso, che i versetti della Bibbia necessitano di essere contestualizzati. Bene, allora…  

Contestualizziamo il programma

In che epoca è stato trasmesso lo spettacolo? La Bibbia narra la storia di pedagogia che Dio applica ad un popolo che si è allontanato da Lui. Narra dei metodi utilizzati per insegnargli a fare i primi i passi fino a camminare verso il Cielo. Anche le leggi di Dio variano in base alla maturità del popolo che ha davanti (e questo è un parallelo con il nostro percorso di Fede). A riprova di quanto appena affermato, Gesù in persona afferma che alcune leggi erano state dettate in un determinato modo solo perché il popolo aveva ancora un cuore di pietra (Matteo 19,8). Insomma, tornando a noi, in questa nostra epoca del “Dio assente”, del moltiplicarsi degli idoli, di una nuova schiavitù d’Egitto, forse è proprio il caso di riavvicinare le persone al Padre ripartendo dalla pedagogia divina dell’epoca che più assomiglia alla nostra.

Vi ho convinti? Lo spero, ma nel caso non fosse così, almeno prego che abbiate capito che non la sto buttando sul chissenefrega, ma su qualcosa di concreto da cui ripartire.  

Partiamo dagli scivoloni

Piccola frecciatina sul Comandamento “Non Uccidere”: Roberto cede alla fine nell’ammettere che è legittima l’autodifesa, come le guerre di liberazione. E allora perché se la prende tanto con le crociate?

Sul VI Comandamento purtroppo Benigni ne spara di grosse. Arriva ad affermare che la Chiesa si è inventata cose che nella Bibbia non ci sono. Cita due peccati in particolare: la masturbazione e i pensieri erotici.

Come ogni buon cattolico dovrebbe fare, parto da un mea culpa. È vero che da un punto di vista pastorale la Chiesa non sempre è stata all’altezza della situazione per quel che riguardava il sesso. Se nei secoli più addietro, a dirla tutta, era all’avanguardia (checché se ne dica), il patatrac è avvenuto dall’esplosione del libertinismo in poi passando per la rivoluzione sessuale (ma ci stiamo riprendendo eh!). A livello di catechismo insegnato, ci siamo chiusi sulla difensiva e sulla prevenzione. Abbiamo messo, come si suol dire “il carro davanti ai buoi”. Da una parte però, capisco l’apprensione. Quando si ha un fuocherello davanti, si ha tutto il tempo di insegnare tranquillamente al bambino perché è meglio non toccare la fiamma, poiché il massimo che gli può succedere è di scottarsi lievemente. Quando invece intorno hai un incendio, non puoi far altro che correre a bloccarlo. Ti preoccuperai solo dopo, quando lo avrai messo in salvo, di spiegargli il perché dell’imposizione. Con il sesso abbiamo un po’ fatto così. Prima si è cercato di bloccarlo senza dare grosse spiegazioni, nella speranza che i ragazzi e le ragazze non si facessero del male “giocando”, e siamo rimasti fermi nella ancor più vana speranza che i pargoli, finita l’adolescenza, tornassero a farsi spiegare da catechesi per adulti il perché di tale blocco. Insomma, la nomea di “repressi”, per quanto ingiusta, ha qualche fondamento. Se non ammettiamo questo ci chiudiamo al dialogo e quindi alle possibili chiarificazioni!

Ma davvero la Chiesa si è inventata “gli atti impuri”? Ovviamente no. In questo frangente Benigni dimostra che le sue “ricerche” sulla Bibbia fanno acqua da tutte le parti. Prova lampante è che, sia nell’anteprima dello spettacolo della prima puntata che durante questa seconda puntata, affermi di conoscere benissimo “la pagina” di una frase nella Bibbia… anche un ragazzino del catechismo sa che la Bibbia è suddivisa in versetti e che il numero delle pagine non ha alcun valore! Le ha fatte veramente queste ricerche o il testo, che anche lui afferma non essere suo, era un po’ pilotato da altri? A voi la sentenza!

Ma torniamo al comandamento: Disperdere il seme era già considerato sbagliato nell’Antico Testamento, ma Gesù, che non si cura dei principi moralistici, mostra la via di nobiltà più alta e di libertà totale dell’uomo. “Non commettere atti impuri” infatti è stato messo per riassumere il vero senso del Comandamento “Non commettere adulterio”, che è molto più ampio di quello che racconta Roberto: È il Comandamento che non parla solo della fedeltà, ma anche delle purezza di cuore! (Matteo 5,28)

Insomma, Benigni afferma una aspetto giustissimo all’inizio, ovvero che questo Comandamento nel tempo si è allargato. Ecco! Bravo… solo che si è allargato più di quanto Roberto abbia capito… ma forse è giusto così, forse il pubblico non è ancora pronto per il passo successivo. In fondo, bisogna dargliene atto, è stato il primo che in TV, da chissà quanti anni ed in prima serata, ha detto “Che è vietato fare sesso fuori dal matrimonio” (che poi è la famosa fornicazione), e non tanto per la morale, ma per un principio di responsabilità, fedeltà e amore, qualità che per loro essenza devono essere per sempre! La vera castrazione non è nel rimandare il sesso, ma nella sessualità che non si vuole donare completamente. Scusate se non è tutto, ma non è neanche poco!

Leggete poi la stupenda citazione che Benigni estrapola dal Talmud:

“A una donna che si ama si perdonano persino le corna. A una donna che non si ama più non si perdona nemmeno una minestra salata. State molto attenti a non far piangere una donna: poi Dio conta le sue lacrime! La donna è uscita dalla costola dell’uomo, non dai suoi piedi perché debba essere pestata, né dalla testa per essere superiore, ma dal fianco per essere uguale… un po’ più in basso del braccio per essere protetta e dal lato del cuore per essere amata.”

Questo stesso passaggio fu ripreso anche da San Tommaso d’Aquino, che lo ha quindi perpetuato come pilastro della fede cattolica. La donna per il cristianesimo è qualcosa di più nobile di quanto non fosse nell’ebraismo, questo grazie a Maria, colei che riscattò Eva, e che venne (secondo la tradizione cattolica) incoronata Regina dei Cieli. Non vado oltre perché delle accuse di misogina ne abbiamo già parlato nell’articolo su DOGMA.  

Torniamo alle cose belle

Come abbiamo già detto, a Roberto Benigni con i suoi “I 10 comandamenti” va riconosciuto il coraggio di portare in TV valori che oramai si sono persi nel vento. Onestà, fedeltà, castità (sì la prende in giro ma poi fa marcia indietro), famiglia, figli… e la coscienza!!! Ma soprattutto il dominio di sé sopra agli istinti e ai desideri perversi.

Vi sembra roba da niente?

Siamo bombardati da messaggi che stimolano i nostri appetiti e il nostro egoismo. Viviamo in una cultura edonistica che vuole l’uomo schiavo dei suoi più bassi istinti perché colui che insegue le sue voglie è facile da governare come un somaro che insegue la carota del cocchiere! E in quest’epoca che cosa ti va a dire Benigni davanti a milioni di spettatori? Che la felicità ce l’abbiamo già – va solo trovata – e non è nel prendere o nell’appagare i nostri capricci, ma nel donarsi e nell’amare il prossimo. E chi gliel’ha detto? Non qualche santone newage o un filosofo umanista, ma Dio!

Come non commuoversi quando ci ricorda una particolarità bellissima dei Dieci comandamenti, ovvero che iniziano con “Io Sono…”, e finiscono con “… il tuo prossimo”. Spiegatemi come può non sussultarvi il cuore (nonostante gli insulti) nell’udire questa Verità, sapendo per giunta che è stata urlata a tutta la nazione! Verità che ricorda questo passo del Nuovo Testamento:

Se uno dicesse: «Io amo Dio», e odiasse il suo fratello, è un mentitore. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede. (1Giovanni 4,20).

Applausi, davvero, sinceri.

Accantoniamo (anche se mi piange il cuore dirlo) i suoi attacchi alla Chiesa. Mi disse una volta un saggio prete che a difenderLa ci pensa Dio, mentre a noi spetta il compito di curarci del prossimo. E chi lo sa… forse il nostro prossimo, che ha seguito la trasmissione, da ieri sera è un po’ più vicino a Dio. Del resto, ricordiamocelo, a distruggere Santa Romana Chiesa ci hanno provato imperi, dittature e lobby, ma tutti hanno fallito (ce lo aveva promesso Gesù no? Matteo 16,18). Le battute e gli strafalcioni di Roberto non la scalfiranno, ma il resto del programma, se lo aiutiamo con un po’ di Carità cristiana e il perdono, potrebbe portare buoni frutti… perché no?  

Conclusione

Con i suoi “I 10 Comandamenti” Benigni fa un miracolo nonostante i soliti scivoloni che avremmo preferito evitasse… ricordiamoci del resto che Mosè non solo era balbuziente, ma di errori ne ha commessi un bel po’, e nonostante tutto è riuscito a portare il suo popolo verso la Terra Promessa. Come ha fatto? Con l’aiuto di Dio ovviamente.

Quello che manca di più nella sua trasmissione, quasi sicuramente, è stato proprio il non ricordare al suo pubblico che Dio non ci abbandona con delle buone regole da seguire. Non ci ha dato il libretto delle istruzioni per poi andarsene in vacanza. Non è stoicismo né moralismo. È Amore quello che ci indica, e poiché ci ama ci segue e ci sorregge!

Purtroppo (o per fortuna se avete letto la premessa), la sua interpretazione dei Dieci Comandamenti è limitata alla lettura ebraica (in versione comunque tagliuzzata e con qualche aggiunta di cristianesimo). È quindi manchevole della Provvidenza, dello Spirito Santo e della Misericordia Divina. Lo dimostra Beningi quando afferma che la frase più assurda mai pronunciata dal Figlio di Dio, “Ama il tuo nemico”, è troppo alta per noi. Certo che lo è mio caro Roberto, ma noi non siamo soli e non siamo lasciati a noi stessi! Con l’aiuto di Dio ci possiamo arrivare insieme, e da lassù, te lo possiamo assicurare, la vista è ancora più entusiasmante di quella che già vedi!

Benigni chiude lo spettacolo con una poesia che domanda “Che cosa c’è di buono in tutto questo?”. Io rispondo che (forse) Roberto, in questo potente spettacolo che continua, ha contribuito con un suo verso, e che spero che non sia l’ultimo per lui e per il suo pubblico; perché i Dieci comandamenti (quelli cristiani) hanno ancora tanto da insegnare, da mostrare e da illuminare.

Invito tutti ( che il mio articolo vi abbia convinti o meno) a pregare per il percorso di Fede di Roberto Benigni e per quello dei suoi fan.  

Un ultimo consiglio

Per chiunque abbia sentito dentro di sé che c’è del vero nei Comandamenti di Roberto, rinnovo il mio invito a fare un passo ulteriore in questo cammino di scoperta, andando a seguire i percorsi delle 10 parole più vicini a casa vostra.

P.S. La questione dei 4 milioni di cachet per Benigni è una bufala. Non cadete nei tranelli di chi vuole distrarvi.

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Cosa significa se l’immigrato è l’italiano che parte

Posté par atempodiblog le 18 décembre 2014

Come abitare nella grande casa del Pianeta
Cosa significa se l’immigrato è l’italiano che parte
dell’Arcivescovo di Chieti-Vasto, Bruno Forte – Il Sole 24 Ore
Tratto da: Arcidiocesi Chieti-Vasto
Cosa significa se l’immigrato è l’italiano che parte dans Articoli di Giornali e News 2i07vyq
Come ogni anno la Fondazione Migrantes, organismo pastorale della Conferenza Episcopale Italiana, ha pubblicato il Rapporto Italiani nel mondo 2014 (Tau Editrice,Todi 2014, 522pp.), che offre un’ampia documentazione e una precisa informazione sull’emigrazione italiana del passato e sull’attuale mobilità dei nostri connazionali.

In un contesto generale in cui l’immigrazione nel nostro Paese dal Terzo Mondo fa più notizia, anche per i drammatici risvolti legati alle modalità in cui si compie e alla fatica di organizzare un’accoglienza e un’integrazione che siano rispettose della dignità delle persone in gioco, l’attenzione al fenomeno migratorio dall’Italia sembra oscurata, anche se essa appare rilevante e in crescita in rapporto specialmente alla crisi economica e sociale che stiamo attraversando e dalla quale la nostra comunità civile sembra essere fra quelle che fanno più fatica ad uscire. Il volume spazia dall’analisi dei flussi e delle presenze all’indagine storica, a quella sulle esperienze più interessanti in corso, fino alla presentazione di eventi speciali, fra cui la preparazione di Expo Milano 2015. Per dare un solo esempio dell’interesse del materiale raccolto, vorrei segnalare l’attenzione prestata all’emigrazione dei ricercatori italiani, che giunge a conclusioni in parte inattese, soprattutto da chi presenta il fenomeno come una sorta di termometro del disagio del mondo del lavoro nel nostro Paese: “Il problema di un’eventuale fuga dei cervelli dall’Italia torna periodicamente alla ribalta. Tuttavia, non esiste ancora un’opinione condivisa riguardo alla presenza o meno di questo fenomeno” (76). Un dato innegabile è quello della cosiddetta “over-education”, e cioè del fatto che “il sistema universitario italiano produce un numero di dottori di ricerca nettamente superiore a quello richiesto dal sistema produttivo nazionale” (83). Manca insomma quel coordinamento fra la formazione delle competenze e l’impiego effettivo di esse, che sarebbe necessario a garantire l’attività lavorativa nell’ambito di ciò a cui ci si è preparati, spesso per lunghi anni e con molti sacrifici.

Dall’insieme copioso e documentato dei dati presentati, emergono alcune linee operative che mi sembra possano interessare tutti, specialmente quanti hanno a cuore il futuro dei giovani e delle prospettive da offrire loro per motivarne l’impegno: c’è un problema di linguaggio da elaborare, c’è l’urgenza di ripensare la rappresentanza, e cioè il giusto rapporto fra emigrazione italiana e istituzioni del Paese, e c’è la necessità di guardare ai nuovi scenari che vanno profilandosi nel “villaggio globale”. Circa il bisogno di trovare parole giuste sulla mobilità tutta e su quella italiana in particolare, il Rapporto rileva come “le parole siano strumenti potenti nelle mani degli uomini e tale potere può essere diffuso in forma positiva o negativa. Attraverso le parole si fa cultura e si tramandano messaggi, ma si segnalano da più parti carenze e superficialità” (XIII). Non è difficile osservare come i linguaggi usati da alcune parti politiche e da rappresentanti del popolo democraticamente eletti in Italia e all’estero abbiano potuto incidere su un processo di “demonizzazione” dell’altro e del diverso, in specie dell’immigrato e in particolare del clandestino, diffondendo ansie e movimenti di rifiuto, che tra l’altro contrastano col bisogno che l’economia europea e italiana in particolare hanno dei lavoratori stranieri per la loro stessa sopravvivenza. La subcultura, che pesca nelle paure o le produce, non giova né ai cittadini italiani che restano, né a quelli che emigrano, né a quanti vengono fra noi alla ricerca di un nuovo futuro per sé e i propri cari. Linguaggi improntati al fondamentale rispetto della dignità di ogni essere umano risultano alla fine non solo veri, ma anche fecondi nel favorire processi di integrazione positivi per tutti.

Un secondo ambito di attenzione che l’emigrazione italiana richiede oggi più che mai è quello del “ripensare alla rappresentanza”: “Bisogna lavorare per ristabilire un rapporto fiduciario fra i migranti italiani di antica e nuova migrazione e le istituzioni italiane. Un legame che deve non solo basarsi su sentimentalismo, nostalgia e identità, ma che deve trovare concretezza nel riconoscimento della risorsa – culturale, umana ed economica – che il migrante è per il paese da cuiè partito” (ib.). Chi emigra non deve sentirsi “figlio di nessuno”, ma deve poter contare sulla vicinanza degli organismi di rappresentanza degli italiani all’estero, sugli interventi a favore dei lavoratori emigranti fuori dei confini nazionali, oltre che sulla promozione della lingua, della cultura e del prodotto italiano, come via di sensibilizzazione all’apprezzamento e all’accoglienza dei nostri migranti. “Solo quando ci si convincerà delle opportunità che un italiano fuori dell’Italia ha di arricchire e valorizzare il Paese in cui è nato probabilmente si capirà cosa significa parlare propriamente di ‘risorsa migrazione’, dove per ricchezza non si intende solo quella economica, ma anche tutto ciò che di positivo ritorna in termini culturali”.

Infine, occorre aver ben presenti i nuovi scenari mondiali, caratterizzati da un cosmopolitismo che la rete del “villaggio globale” rende al tempo stesso arricchente e aggressivo: il difficile equilibrio da cercare è quello fra identità e rilevanza. La perdita dell’identità della cultura di provenienza non potrà mai favorire la rilevanza e la fecondità della presenza degli Italiani nel mondo: lo sforzo di mantenere il legame con le radici e di alimentarlo nei nuovi contesti di azione è di decisiva importanza. Al tempo stesso, però, va rifiutata ogni forma di chiusura in se stessi o nel circolo rassicurante dei pochi che sembrano proteggere la propria identità: l’apertura all’altro, il dialogo fra le differenze, è ricchezza per tutti, cui nessuno deve rinunciare tirandosi indietro di fronte ai problemi possibili. Vivere “una dimensione identitaria multipla e più appartenenze di luoghi e di spazi, esercitare i diritti di cittadinanza e di effettiva partecipazione democratica” è condizione di autentica umanizzazione e socializzazione per il migrante e di arricchimento per la società che l’accoglie e quella da cui proviene. L’immagine positiva dell’Italia nel mondo dipende anche da come viene assolto questo compito. In questo specifico ambito, vorrei rilevare come sia di grande aiuto la dimensione religiosa, non solo per il patrimonio di tradizioni e di valori che trasmette, ma anche perché in essa l’incontro con l’altro è favorito da un comune porsi davanti al Mistero che tutti supera e avvolge. Non per niente le Chiese e le diverse forme di associazionismo ispirate a valori morali e spirituali sono state luoghi di straordinario e fecondo meticciato e di conservazione viva delle identità in dialogo nel mondo delle migrazioni. Nella grande casa delpianeta, sempre più in continua osmosi fra i diversi, è insomma urgente imparare ad abitare permanendo ciascuno nella fedeltà alle proprie radici ed esercitandosi sempre più nell’accoglienza positiva dell’altro, quali che siano i caratteri della sua alterità. La posta in gioco è il futuro di tutti.

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«La forza del presepe». Meditare il Natale con Papa Francesco

Posté par atempodiblog le 16 décembre 2014

«La forza del presepe». Meditare il Natale con Papa Francesco
Tratto da: La Civiltà Cattolica (Quaderno N°3947 del 06/12/2014, pag.417-422)

Presepe e Dio lontano dans Anticristo Presepe


«Ci avviciniamo al presepe, dove albeggia “una grande luce” (Mt 4,16) […], una luce nascosta nel silenzio di Nazaret e nella pace notturna di Betlemme; eppure presto si manifesterà a tutte le genti (Is 60,1-3; Mt 2,2-9) e ai discepoli (Mt 17,12; Lc 2,32). È la luce del mondo (Gv 8,12; 9,5; 12,46), la luce in cui dobbiamo camminare per esserne figli (Gv 12,36)». Queste sono le parole con le quali iniziava una meditazione dell’allora p. Jorge Mario Bergoglio su Dio visto come luce, raccolta nel volume Nel cuore di ogni padre (Milano, Rizzoli, 2014, p. 159).
«Ci avviciniamo»: come per Ignazio di Loyola, così per Papa Francesco meditare non significa solamente «considerare» o «ragionare», ma soprattutto farsi presenti alla scena del mistero, essere testimoni anche grazie all’immaginazione. Se non si vede la scena della Natività, non si vede la luce. E se la luce non si vede, essa diventa un puro contenuto intellettuale, incapace di toccare il cuore e la sensibilità. Bisogna vivere quella che Papa Francesco ha definito la «teologia del “come se”» (ivi, 199), propria di sant’Ignazio, quella che ci fa entrare nella tensione della presenza: «come se fossi presente». In questo modo possiamo davvero sentirci nel presepe. Questo ci sembra un invito valido per il Natale: proviamo a entrare nella scena del mistero della Natività, sperimentiamo la pace notturna di Betlemme e il silenzio che domina la notte.

Botti di Capodanno, l'appello dei medici degli ospedali: “E' una tradizione negativa e pericolosa” dans Articoli di Giornali e News Santo-Natale

La «luce nascosta». Facciamo «come se» fossimo lì presenti, nella grotta di Betlemme. Quale luce vediamo? La luce abbagliante di un sole invitto che splende accecando con la sua gloria e imponendo adorazione per il solo fatto di risplendere come un faro?

No, vediamo la luce del Signore che è «luce nascosta», scrive Bergoglio; che è kindly light, «luce gentile», gli farebbe eco il beato John Henry Newman. Non è luce accecante, abbagliante, ma luce che si approssima, come la luce di una fiaccola che aiuta nel cammino. La luce, per Bergoglio, non suscita innanzitutto una contemplazione statica, ma apre il cammino. «Camminate mentre avete la luce», scrive l’evangelista Giovanni (12,35). Ecco allora che la «forza del presepe» consiste nell’innescare un processo, nell’iniziare un cammino.

Per Bergoglio, dunque, il mistero del Natale è intimamente dinamico: sveglia la coscienza intorpidita, riscuote l’animo e ci mette in partenza da pellegrini che credono con la fede salda di chi non svende la propria coscienza. Questo percorso, avverte, diventa autentico soltanto quando non rimane intrappolato nel chiacchiericcio alienante. Il mondo della «chiacchiera» nuoce al silenzio del cammino nella Notte santa (cfr J. M. Bergoglio, La forza del presepe. Parole sul Natale, Bologna, Emi, 2014, 23-34). «La strada che il presepe ci prospetta è diversa da quella vagheggiata dalla nostra ambizione» (ivi, 48). 

In questo cammino raccolto si diventa «figli della luce». P. Bergoglio scriveva che la luce «ci trasforma non soltanto avvolgendoci da fuori, ma cambiandoci il cuore, i desideri, l’amore (At 22,6.9.11.13; 9,3; 12,7)» (Id., Nel cuore di ogni padre…, cit., 159). Essere figli significa essere generati e rigenerati da questa luce: essa ci cambia persino i desideri, riorienta la nostra direzione di vita.

Botti di Capodanno, l'appello dei medici degli ospedali: “E' una tradizione negativa e pericolosa” dans Articoli di Giornali e News Santo-Natale

I «figli della luce». Chi è in grado di essere generato dalla luce? «A ricevere questa luce sono i semplici, i fedeli: i pastori, i magi, Elisabetta, Zaccaria, Simeone, Anna, Giuseppe, Maria. Vengono tutti convocati dalla luce, nell’apparente penombra, nella mediocrità di una vita comune» (ivi, 160). È come se qui ci venisse detto: se credi di vivere sotto i riflettori, di vivere una vita illuminata dal successo o da una verità avvertita come possesso, la luce nascosta del Natale non potrà toccarti. «Davanti al presepe si sgretolano tante delle nostre cose che forse brillavano molto, oppure che credevamo importanti, solide! Ma a volte quel luccichio, quell’importanza e quella solidità non hanno alcun altro fondamento se non il pantano delle nostre ambizioni, che crollano davanti a colui che non ha esitato ad annullarsi fino alla morte e morte di croce» (Id., La forza del presepe…, cit., 48).

Solo la «classe media della santità», per citare Joseph Malègue, scrittore tanto caro a Papa Francesco, è in grado di farsi raggiungere da questa luce che rigenera. È davanti «alla semplicità, quasi quotidiana, del presepe» che si fa esperienza della gloria. Chi preferisce la «luce convenzionale» che ha imparato a usare da sempre, non sa aprire la porta al Signore che bussa (cfr Id., Nel cuore di ogni padre…, cit., 160). Davanti al «bambino che piange» prende corpo e forma l’immagine apocalittica del Signore che viene. Sono dunque «i semplici, i giusti, a comprendere che colui che è venuto a calcare la terra fu “la tua destra e il tuo braccio e la luce del tuo volto, perché tu li amavi” (Sal 44,4)» (ivi, 161).

Botti di Capodanno, l'appello dei medici degli ospedali: “E' una tradizione negativa e pericolosa” dans Articoli di Giornali e News Santo-Natale

Una luce che risveglia. E allora ecco — prosegue Bergoglio in una meditazione sulla vocazione —, proprio «così, come siamo, con la nostra vita quotidiana, le nostre lealtà e i nostri peccati, le nostre aspirazioni e le nostre tentazioni, ci conviene avvicinarci al presepe di Gesù nel desiderio che la sua grazia ci tocchi e ci aiuti a continuare a crescere nel suo servizio. E, come schiavi indegni, rinnoviamo la nostra speranza contemplando come in mezzo alla senescenza della famiglia umana ci sia stato dato un bambino. La nostra carità apostolica potrà irrobustirsi davanti alla solitudine di una vergine, più feconda di chiunque altro, e al suo calore materno. E se guardiamo all’uomo che si assume il peso di colui che non ha generato, san Giuseppe, troveremo incoraggiamento ad avere più fede nella nostra peculiare paternità religiosa» (ivi, 254 s).

Essere dunque nella «compagnia di Gesù» significa innanzitutto proprio questo: essere come siamo, leali e peccatori, sapendo che «quel bambino sarà il nostro salvatore» (ivi, 252). E così assumerci le nostre responsabilità generative nei confronti del mondo che abbiamo intorno.

Il nostro compito, dunque, meditando come se fossimo presenti al presepe, è di svegliarci alla luce gentile del Signore che nasce, e imparare a camminare nel mondo. Sperimentare «l’infinita soavità e dolcezza della divinità» (Ignazio di Loyola, Esercizi Spirituali, n. 124) non ci deve spingere a «fare la tenda» nel presepe, ma a metterci in cammino, a crescere con Gesù che cresce e non resta bambino nella grotta. «È ancora il Natale — prosegue Bergoglio — a suggerirci l’inizio di una vita nuova in ciascuno di noi, con tutta la speranza di una crescita che vi è connessa: “È tempo di svegliarvi”, ci ricorda san Paolo (Rm 12,11). Pensiamo qualche volta al mistero per cui due dei quattro evangelisti fanno partire la loro “Buona notizia” con l’incarnazione e il Natale del Signore? E al fatto che uno di loro, Luca, insista tanto sul mistero che “il Bambino cresceva”, come successivamente dirà — negli Atti degli Apostoli — che la Chiesa cresceva? […] Conserviamo ancora la speranza con cui l’abbiamo intrapresa [la vita religiosa e apostolica] allora? O forse l’abbiamo riposta, come facciamo con le cose che vediamo di tanto in tanto finché si scordano? Abbiamo la preoccupazione di “crescere” giorno dopo giorno nel servizio del Signore, di rinnovare il nostro cuore, di mantenerci in “formazione permanente”?» (J. M. Bergoglio, Nel cuore di ogni padre…, cit., 253).

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Lo sguardo vigile di Giuseppe. Contemplare il presepe stando lì come se si fosse presenti significa anche comprendere ciò che accade. Guardiamo a ciò che ha fatto Giuseppe: si è assunto «il peso di colui che non ha generato» (ivi, 255). Non è una definizione comune del patriarca, del padre putativo di Gesù. Eppure è chiaramente una definizione chiave. Bergoglio intuisce che la generatività di Giuseppe consiste proprio nella sua capacità di allevare un figlio non generato da lui, di aver accolto sostanzialmente una realtà non uscita né dal proprio corpo né dalla propria mente. Si è fatto carico del disegno di Dio, portandone il peso.

«Riassumendo — afferma il Papa —, si direbbe che a Giuseppe sia stato detto qualcosa del genere: ricevi la missione di Dio, lasciati guidare da Dio, abbraccia la difficoltà, per salvare il Salvatore. Giuseppe salva la buona fama di Maria, la stirpe di Gesù, l’integrità del bambino, il suo radicamento in terra d’Israele, ma al tempo stesso è stato il primo che Dio ha salvato da una coscienza di giustizia non aperta ai disegni di Dio, da un piano di vita isolato, da una vita, forse senza tante tribolazioni, senza però il conforto di tenere Dio tra le braccia» (ivi, 269).

Facendosi tenere in braccio da Giuseppe, Dio lo ha salvato «da una coscienza di giustizia non aperta ai disegni di Dio». Questa frase ci fa riflettere. A volte i credenti pretendono di avere una chiara e distinta consapevolezza di ciò che è giusto, attribuendo senza umiltà a Dio l’origine del loro senso di giustizia. In realtà, ci dice Bergoglio, solamente tenere in braccio Dio, cioè avere con lui un’esperienza intima, può aprire il nostro cuore ai suoi disegni, senza farli coincidere forzatamente con i nostri. Solo un’esperienza mistica della verità fatta persona — e non di una dottrina o di una legge o di una idea — può permetterci di dischiudere la nostra mente alla giustizia di Dio senza sentircene padroni. «Lo sguardo vigile di san Giuseppe» (ivi, 274) è quello del custode che intuisce di dover allevare e «salvare il Salvatore» della sua stessa vita.

Per Papa Francesco, anche noi, come Giuseppe e Maria, dobbiamo farci carico della speranza evangelica, accoglierla tra le nostre mani e consegnarla a tutto il popolo, specialmente nei tempi difficili e di crisi. Il mistero da contemplare è anche un impegno da vivere a favore di tutti. Non ci spinge solo all’interiorità, ma a farci carico della vita della gente, specialmente delle parti più deboli della società: lavorando, pregando, lottando, non incrociando mai le braccia, accostandoci alle persone di fronte alle quali vengono chiuse le porte, per aprirne loro delle altre, sostenendo gli anziani sofferenti e assimilando la loro saggezza, crescendo i bambini…

Scriveva il Papa in un’altra sua meditazione natalizia: «Nella lotta quotidiana, nella battaglia del momento e nella guerra del tempo, dobbiamo soffrire, e ciò richiede quest’atteggiamento di pazienza e costanza, di resistenza. Non siamo soli e apparteniamo a una famiglia. In seno a quella famiglia troviamo la dottrina, la sicurezza, l’affetto fecondo» (Id., La forza del presepe…, cit., 21 s).

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In una periferia dell’Impero. Da quanto si è detto si comprende perché le considerazioni natalizie di Jorge Mario Bergoglio non hanno nulla di «ideale» e fiabesco, ma sono sempre estremamente realistiche. La tenerezza della Natività coincide con «la forza del presepe»: non richiama mondi infantili e filastrocche. Per il Papa, Betlemme è il luogo di un servizio molto concreto, dove Maria, Giuseppe e tutti noi che contempliamo siamo chiamati a servire Dio e ad accudirlo nelle persone che ci stanno accanto, nello spazio ordinario e a volte ristretto delle cose di tutti i giorni. È molto caro al Papa il motto gesuitico: «Questo è divino: non lasciarsi costringere da ciò che è grande e tuttavia lasciarsi contenere da ciò che è piccolo» (Id., Nel cuore di ogni padre…, cit., 85). La radice di questo motto è proprio il Figlio del Dio di cui non si può pensare nulla di maggiore, che si è fatto piccolo bambino. Nell’orizzonte del Regno di Dio l’infinitesimale può essere infinitamente grande e l’immensità può essere una gabbia. Sembra un paradosso, ma non per Dio che si è fatto carne. Il grande progetto si realizza nel gesto minimo, nel piccolo passo: Dio è nascosto in ciò che è piccolo e in ciò che sta crescendo, anche se noi non siamo in grado di vederlo.

Un’ultima considerazione: nel corso degli anni, la contemplazione del Natale e la «forza del presepe» hanno molto affinato la sensibilità di Papa Francesco e lo hanno portato a comprendere che Dio, centro dell’universo e Signore della storia, si è fatto bambino in silenzio, illuminato da una «luce nascosta» in una periferia dell’Impero. Egli si manifesta a poveri pastori che vivono e sperimentano la periferia della vita. Proprio il significato profondo del Natale lo spingerà a considerare che gli eventi davvero centrali non avvengono mai al «centro», ma nelle periferie, siano esse geografiche o esistenziali.

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Il Natale secondo Bergoglio: fate spazio al silenzio

Posté par atempodiblog le 16 décembre 2014

Il Natale secondo Bergoglio: fate spazio al silenzio
Tratto da: Avvenire

Il Natale secondo Bergoglio: fate spazio al silenzio dans Apoftegmi dei Padri del deserto Santo-Natale

VERSO IL NATALE
Le meditazioni del 1987
Il testo che qui pubblichiamo fa parte di un  libretto di Jorge Mario Bergoglio-Papa Francesco intitolato «La forza del presepe» che  l’editrice Emi manda in libreria domani (pagine 64, euro 6,90) con la prefazione di Antonio Spadaro. Il volume raccoglie alcune riflessioni del 1987, inedite in Italia, dell’allora padre gesuita, dedicate alla festa del Natale. Qui anticipiamo un’ampia parte di una meditazione sul silenzio. Per Bergoglio il Natale è la festa della vita e della luce, ma non va celebrato in maniera sdolcinata né tantomeno consumista. In questa ricorrenza si manifesta l’annuncio più radicale del cristianesimo: Dio si fa carne, creatura, bambino, per  salvare l’umanità tutta dal peccato. E di fronte a tale verità – scrive  Jorge Mario Bergoglio – «non possiamo restare inamidati o  rigidi». Queste meditazioni di Bergoglio ci fanno cogliere lo  spirito del Natale in un’accezione nuova, con la richiesta  di un coraggio rinnovato e di una fede adulta.

L’abate Arsenio diceva  d’essersi pentito  spesso d’aver parlato,  e mai d’aver taciuto.  Intendeva  che il silenzio è una  disciplina interiore alla quale va prestata attenzione. «Se uno non pecca nel parlare, costui è un uomo perfetto, capace di tenere a freno  anche tutto il corpo. Se mettiamo il morso in bocca ai cavalli perché ci obbediscano, possiamo dirigere anche  tutto il loro corpo. Ecco, anche le navi, benché siano così grandi e spinte  da venti gagliardi, con un piccolissimo  timone vengono guidate là dove vuole il pilota. Così anche la lingua: è un membro piccolo ma può vantarsi di grandi cose. Ecco: un piccolo fuoco può incendiare una grande foresta! Anche la lingua è un fuoco, il mondo del male! La lingua è inserita nelle nostre  membra, contagia tutto il corpo e incendia tutta la nostra vita, traendo la sua fiamma dalla Geenna. Infatti ogni  sorta di bestie e di uccelli, di rettili  e di esseri marini sono domati e sono  stati domati dall’uomo, ma la lingua  nessuno la può domare: è un male  ribelle, è piena di veleno mortale. Con essa benediciamo il Signore e Padre,  e con essa malediciamo gli uomini  fatti a somiglianza di Dio. Dalla stessa  bocca escono benedizione e maledizione  » (Gc 3,2-10).

Dice santa Teresa: «È grave colpa quando una sorella abitualmente non osserva il silenzio». I Padri del deserto hanno molto insistito su questo punto.  A modo di esempio: «Ogni lavoro sarà fonte di abbondanza, ma parlare molto spesso sarà fonte di povertà». «Colui che parla molto fa un danno alla  sua anima»; «Il ciarlatano è sempre ignorante. Il saggio parla con parsimonia.  Parlare molto indica stupidità. La voce dell’insensato moltiplica le parole  e gli argomenti»; «Ciò che fai davvero  fallo in silenzio e in preghiera». Tutte queste sentenze si basano sul versetto della Scrittura: «Nel molto parlare non manca la colpa» (Pr 10,19). Infatti la troppa loquacità indica sempre  una certa mancanza di lavoro, un ozio cattivo. San Paolo lo ricorda a proposito  delle vedove giovani: «Non avendo  nulla da fare, si abituano a girare  qua e là per le case e sono non soltanto  oziose, ma pettegole e curiose, parlando di ciò che non conviene» (1Tm 5,13).
I mezzi di comunicazione di massa ci sottopongono a quella che potremmo chiamare un’«alluvione di parole». Mi domando:  «Sono capace  di vivere senza  la radio? Per quanti giorni?». Esiste  un consumismo  di parole: parole  dolci, seduttive,  oggettive, colleriche…  di ogni tipo. Parole che cercano di entrarci  rumorosamente  nel cuore e non apportano niente alla verità. La Parola ha creato l’universo, la Parola di Dio, che ha detto e tutto fu fatto. La parola che usiamo è stata depotenziata  della sua potenza creativa. E noi infatti lo sappiamo, perché istintivamente  diffidiamo delle parole che ci vengono dette, non vi prestiamo fede, diciamo: «Non sono altro che parole…  Non hanno niente a che vedere con la verità». Eppure, quanto ci piace  ascoltarle! E quando dobbiamo esprimere  un sentimento, siccome le parole sono così consumate, a volte non sappiamo come farlo; e allora ricorriamo a una serie di artifizi, anch’essi  menzogneri, che prostituiscono  il sentimento: la «formalità», la «provocazione», la parola «sdolcinata» dell’intimista.

Ma il sentimento resta dentro  e non sappiamo come esprimerlo  nella verità, come  esprimerlo in solitudine.  Ecco il cuore del problema: se non  c’è solitudine non  c’è silenzio, e senza  entrambi non  c’è verità. Il silenzio  è l’espressione  più alta della solitudine  del cuore. Il  silenzio trasforma  la solitudine in  realtà. E quando  non cediamo al  prurito di ascoltare  noi stessi, cioè  alla vanità dell’anti-  silenzio, sfuggiamo  alla solitudine  di quelle innumerevoli   maniere  formali, provocatorie,   intimistiche,  massificanti… Tutte parole che non danno vita, che non nascono da un cuore passato attraverso il crogiolo  della solitudine, nella costanza e nell’affetto. Non nascono – in sostanza  – da un cuore fecondo.

Le parole vere si forgiano nel silenzio. Più ancora: il nucleo stesso della parola  dev’essere silenzioso. Se la parola  è vera, nel suo cuore si annida il silenzio.  E la parola, una volta pronunciata,  torna al silenzio abissale e fecondo  da cui proveniva. La parola muore per fare posto all’amore, alla bellezza, alla verità, che proprio essa ha portato. Ce lo ricordava acutamente  sant’Agostino: «Giovanni la voce,  il Signore, invece, in principio era il Verbo. Giovanni voce nel tempo, Cristo  in principio Parola eterna. […] La voce, senza la parola, colpisce l’orecchio,  non apporta nulla alla mente. […] la parola, a te recata dal suono, è ormai nella tua mente e non si è allontanata  dalla mia. Perciò il suono, proprio il suono, quando la parola è penetrata in te, non ti sembra dire: Egli  deve crescere ed io, invece, diminuire?  La sonorità della voce ha vibrato  nel far servizio, quindi si è allontanata,  come per dire: questa mia gioia è completa. Conserviamo la parola, badiamo a non perdere la parola concepita nel profondo dell’essere».

La nostra parola, il nostro parlare, che nasce dal silenzio, dev’essere contenta di morire  tornando al silenzio da cui era uscita. Il silenzio c’insegna a parlare, dà forza  alla parola, la quale – per questo silenzio  che racchiude – non è mero rumore  (cfr. 1Cor 13,1). Il silenzio c’insegna  a parlare perché mantiene nel nostro intimo il fervore religioso, l’attenzione  allo Spirito Santo. Il silenzio alleva la vita dello Spirito Santo in noi. Al riguardo dice Diadoco di Fotica: «Tenendo aperte di continuo le porte del bagno si perde il calore dell’ambiente  interno; così, quando l’anima cede al desiderio del troppo parlare, anche se è bene ciò che dice, disperde  l’intima presenza a sé stessa per la porta della voce. Priva dei pensieri giusti,  manifesta in modo tumultuoso a  chiunque le capiti il susseguirsi dei  suoi pensieri, perché non possiede  più lo Spirito Santo che la  preservi dalla dissipazione,  con pensieri privi di immagini  sensibili. Il bene rifugge  dalla loquacità, alieno com’è  dal tumultuoso fantasticare.  Grande cosa è il silenzio opportuno,  è il padre del pensiero  penetrante». Altrove parla di «avida ricerca di silenzio» da parte del cuore che voglia custodire la vita divina dentro  di sé. Si tratta di quel «silenzio lungi  dal pesare ad alcuno» a cui si riferisce santa Teresa.

I Padri del deserto riferivano al silenzio  la nostra vita di pellegrini. Dicevano: Peregrinatio est tacere («Il pellegrinaggio  consiste nel tacere»). Questo «peregrinare » è «essere alla ricerca di una patria» (Eb 11,14) senza lasciarsi irretire da questa patria terrena. Parlare  ci inserisce nelle questioni del mondo. La nostra missione apostolica  ci obbliga a parlare. Ma quando in questo parlare manca il nucleo del silenzio  che ci rende pellegrini, finiamo per lasciarci corrompere dallo spirito del mondo, «piantiamo le tende nel mondo». Allora sperimentiamo quel sentimento interiore di fallimento che l’eccesso delle parole ha la caratteristica  di lasciare nel cuore. Le parole c’intrattengono e ci fanno scordare che siamo pellegrini. È proprio il silenzio a mantenerci nella nostra condizione di pellegrini. «Vigilerò sulla mia condotta  per non peccare con la mia lingua;  metterò il morso alla mia bocca finché [poiché sono pellegrino] ho davanti  il malvagio» (Sal 39,2).

Sant’Ignazio, quando si riferisce al silenzio,  parla volentieri di «tranquillità» e «modestia» dell’anima. È significativo  che tutte le doti del silenzio vengano  applicate all’immagine che egli delinea  dei fratelli coadiutori. Quasi che costoro debbano costituire il bastione silenzioso di una comunità, affinché quest’ultima sia in grado di parlare bene  agli uomini. Ci sono anche le Regole della modestia. Ma voglio piuttosto rimarcare  che sant’Ignazio non menziona  il silenzio soltanto come mezzo per la vita spirituale, per la preghiera, per gli Esercizi e via dicendo, ma invece mira a una concezione del silenzio che, nella vita del gesuita, è totalizzante. Il gesuita «tranquillo», «modesto», «silenzioso  » non è un ingenuo che esclude  dalla propria comprensione le voci e i rumori che gli giungono. Al contrario, dev’essere pienamente consapevole  di tutti questi suoni che vengono  a bussare alla porta del suo cuore,  così come dei suoni che escono dal suo stesso cuore, in modo da accogliere  quelli buoni e respingere quelli cattivi.
Parla del silenzio l’apostolo Giacomo quando scrive: «Ma se avete nel vostro cuore gelosia amara e spirito di contesa,  non vantatevi e non dite menzogne  contro la verità» (3,14). Quando nel tuo cuore non c’è silenzio, quando  c’è un rumore cattivo, non esprimerlo  sotto le mille forme della vanagloria:  il sarcasmo, la vanità, l’intimismo,  la fatuità, il pettegolezzo, il fare contrariato e tormentato, il bisogno di avere sempre qualcosa da ridire. Amarezze,  affetti disordinati, risentimenti,  il cullarsi nel proprio egoismo…  tutte queste cose sono mancanza  di silenzio interiore e corrompono la verità.

Infine, il silenzio è l’espressione più  alta e più quotidiana della dignità.  Tanto più nei momenti di prova e  di crocifissione, quando la carne vorrebbe giustificarsi e sottrarsi alla croce. Nel momento supremo dell’ingiustizia,  «Gesù taceva» (Mt 26,63; cfr. anche Is 53,7; At 8,32). Non è stato al gioco del rispondere a quanti gli dicevano  di scendere dalla croce. Tutta la pazienza di Dio, la pazienza di secoli, e anche il suo affetto, emergono qui, in questo silenzio del Cristo umiliato. Nella storia degli uomini fanno irruzione  il silenzio eterno della Parola, la «contemplatività» amorosa del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, tutta la comunione trinitaria dal silenzio dei secoli. È Parola, ma Parola che – nell’ora  dell’annientamento provocato dall’ingiustizia – si fa silenzio. Iesus autem  tacebat. Contempliamo tutto il «viaggio» della Parola di Dio (cfr. Gv 1,1; 14,2-3; 14,10; 16,28); come si fa tenerezza  nel seno di una Madre. Questa  Madre «custodiva tutte queste cose,  meditandole nel suo cuore» (Lc 2,19.51). Nel cuore silenzioso di Maria ha sede la memoria della Chiesa. Il silenzio  «incarnato» del Verbo si esprime  in quel momento d’ingiustizia, di umiliazione, di annientamento, nell’ora  del potere delle tenebre. Quella è la dignità di Gesù, ed è anche la nostra.

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Papa Francesco: “Chiediamo al Signore la grazia di sentirci peccatori”

Posté par atempodiblog le 16 décembre 2014

Papa Francesco:  “Chiediamo al Signore la grazia di sentirci peccatori”

Papa Francesco: “Chiediamo al Signore la grazia di sentirci peccatori” dans Citazioni, frasi e pensieri 2r6fpfb

“Chiedo al Signore la grazia che il nostro cuore sia semplice, luminoso con la verità che Lui ci dà, e così possiamo essere amabili, perdonatori, comprensivi con gli altri, di cuore ampio con la gente, misericordiosi. Mai condannare, mai condannare. Se tu hai voglia di condannare, condanna te stesso, che qualche motivo avrai, eh?”. “Chiediamo al Signore la grazia che ci dia questa luce interiore, che ci convinca che la roccia è soltanto Lui e non tante storie che noi facciamo come cose importanti; e che Lui ci dica – Lui ci dica! – la strada, Lui ci accompagni nella strada, Lui ci allarghi il cuore, perché possano entrare i problemi di tanta gente e Lui ci dia una grazia che questa gente non aveva: la grazia di sentirci peccatori”. (15/12/2014)

“Se il tuo cuore non è un cuore pentito, se tu non ascolti il Signore, non accetti la correzione e non confidi in Lui, tu hai un cuore non pentito. Ma questi ipocriti che si scandalizzano di questo che dice Gesù sui pubblicani e le prostitute, ma poi di nascosto andavano da loro o per sfogare le loro passioni o per fare affari – ma  tutto di nascosto – erano puri! E questi il Signore non li vuole”. (16/12/2014)

Tratto da: Radio Vaticana

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