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L’importanza di fare bene le omelie

Posté par atempodiblog le 21 décembre 2014

Rileggiamo con calma l’insegnamento del Romano Pontefice (Benedetto XVI) nel n.59 de la Verbum Domini: «Già nell’Esortazione apostolica postsinodale Sacramentum caritatis, avevo ricordato che in relazione all’importanza della Parola di Dio si pone la necessità di migliorare la qualità dell’omelia. Essa infatti “è parte dell’azione liturgica”; ha il compito di favorire una più piena comprensione ed efficacia della Parola di Dio nella vita dei fedeli»

L’omelia non è l’occasione per rivolgersi ai fedeli e comunicare loro qualcosa di diverso dai testi sacri letti. È “parte dell’azione liturgica”, non una aggiunta opzionale. La sua finalità è quella di “favorire una più piena comprensione ed efficacia della Parola di Dio nella vita dei fedeli”.

Tratto da: Collationes

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L’importanza di fare bene le omelie
di Radio Vaticana

(20/12/2014) Con il benestare di Papa Francesco, è stato redatto dalla Congregazione del Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti un “direttorio omiletico”. Costituito da due parti – una dedicata all’omelia in ambito liturgico e l’altra focalizzata sull’arte della predicazione – il documento ambisce a fornire a sacerdoti e seminaristi le coordinate metodologiche e contenutistiche da tener conto nel preparare e pronunciare un’omelia. Federico Piana ne ha parlato con Sergio Tapia-Velasco, docente alla Facoltà di Comunicazione sociale della Pontificia Università della Santa Croce e coordinatore del corso “Ars praedicandi”:

R. – In realtà, tutto inizia con Giovanni Paolo II quando nel 1990 convoca un Sinodo per studiare come si possa migliorare la formazione dei sacerdoti, dei seminaristi. Già in quel momento è venuta fuori  l’idea di fare qualcosa per aiutare i sacerdoti a predicare meglio. Poi, Papa Benedetto in due momenti importanti – sempre a conclusione di un Sinodo, quello dell’Eucaristia, che ha portato poi all’uscita dell’Esortazione “Sacramentum Caritatis” nel 2007 – parlò di queste omelie che risultavano noiose, perché in realtà erano troppo generiche o astratte e non parlavano ai fedeli. E’ stato lo stesso Benedetto che ha chiesto – dopo il Sinodo sulla Parola di Dio nel 2010, scrivendo questa Esortazione Apostolica “Verbum Domini”, al numero 60 – ai responsabili della Congregazione del Culto Divino l’opportunità di redigere un Direttorio Omiletico. Il Direttorio è un tipo di documento, diciamo così, speciale che viene non soltanto a studiare un argomento dal punto di vista teorico, ma cerca di dare una direzione.

D. – In concreto di cosa si tratta?
R. – Si tratta di linee guida che possono ispirare sia il sacerdote che già si trova a esercitare il ministero della Parola, e richiamano soprattutto la responsabilità dei rettori dei seminari nel preparare in questa bella ma anche difficile arte della predicazione i loro seminaristi. Senz’altro tutti possiamo migliorare, ma chi si sta preparando al sacerdozio deve prendersi sul serio nella preparazione in questo ambito.

D. – Come deve essere fatta una omelia “doc”?
R. – Porsi le domande giuste per strutturare l’omelia: che cosa interessa veramente i fedeli? Che cosa dice veramente il testo? Che cosa ha detto questa lettura al mio cuore? Come dice Papa Francesco, è importante non rispondere a domande che nessuno si pone: l’inter-lectio ha proprio lo scopo di “inter-leggere” e capire che cosa dice il testo, cosa hanno bisogno di ascoltare i fedeli e cosa ha detto il testo a me stesso? Altrimenti l’omelia risulta non autentica. L’importante è avere una domanda di partenza e poi si può strutturare il discorso seguendo la retorica classica, ma sempre attenti alle forme di comunicazione contemporanea.

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Il cuore non si guadagna se non colla dolcezza e coll’amore

Posté par atempodiblog le 21 décembre 2014

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Non è dunque né il rimprovero né il rigore né la forza né l’acre invettiva non è l’umiliante correzione o lo zelo impetuoso che opera la conversione del peccatore. Qui si tratta di guadagnare il cuore, e il cuore non si guadagna se non colla dolcezza e coll’amore. Quanto più di ogni argomento valgono sul cuore dell’uomo le attrattive di una dolce ed ingegnosa insinuazione!

Dite di slancio ad un empio, che si converta a Dio: vi renderete ridicolo. Persuadete un libertino, un dissoluto alla vita del ritiro, della mortificazione, dell’orazione, come alla vita più tranquilla e felice: voi gli muovete la bile. Esortate un peccatore ostinato ad abbandonare sull’atto le ree pratiche, ed a cangiare in un subito tenor di vita: voi ne riportate il rifiuto, le beffe, e fors’anche le bestemmie. Imperciocché come volete che, preso così di fronte ed all’aperta il peccatore, schiavo de’ suoi peccati, non si opponga, non vi resista? Come volete, che, urtando così voi direttamente colle passioni di lui, si pieghino queste, e cedano tosto alle aspre e furiose vostre maniere? Non è anzi questo il mezzo di inasprirle sempre più, di accenderne della altre, di risvegliare il puntiglio e la superbia e di sollevare tutte contro il vostro intento?

[...]

Questa è la maniera, o miei dilettissimi, di farci strada al cuore de’ nostri fratelli che vogliamo convertire: non disprezzare il loro giudizio, ma rispettarlo, anzi rimetterci a quello, e fare che essi rientrino liberamente in sé stessi. Il voler pretendere che subito si arrendano alle nostre persuasioni, alla nostra esperienza, al nostro giudizio, egli è per lo più un rendere sospetto le nostre esortazioni; egli è un metterli talvolta in sospetto, che noi parliamo piuttosto per prevenzione o per pregiudizio, per imporre o per dominare sopra di loro.

Tutti ci crediamo pur troppo capaci di esaminare e di giudicare da noi stessi, e tutti siamo pur troppo attaccati alle nostre opinioni, e gelosi de’ nostri giudizj; ma molto più i peccatori ostinati, i quali, quanto più sono accecati dalle passioni ne’ loro giudizj, tanto più sono impegnati dalle medesime a sostenerli. Guai dunque se loro contraddiciamo apertamente! Guai se vogliamo subito dichiararli in errore! Guai se pretendiamo di sottometterli al nostro giudizio! Per illuminarli, per piegarli non bisogna farla da giudici e dir loro, “Voi la fallate! Siete fuori di strada!”; ma bisogna farla da amorosi consiglieri, e pregarli ad esaminare di buona fede la loro vita, a consultare le persone illuminate ed accreditate, e dietro il loro esame e gli altrui lumi darne eglino stessi il loro giudizio.

di Mons. Francesco Maria Zoppi (vescovo)

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Il bambino presso Gesù di Fëdor M. Dostoevskij

Posté par atempodiblog le 21 décembre 2014

Il bambino presso Gesù
di Fëdor M. Dostoevskij

Il testo che segue, composto da una “prefazione” e il racconto vero e proprio, è stato scritto nella fine dell’anno 1876 da Fëdor Michailovič Dostoevskij per il quotidiano Il Messaggero
Tratto da: Note di pastorale giovanile

Il bambino «con la manina»
I bambini sono creature strane, vi appaiono in sogno e vi immaginate di vederli.

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Poco prima di Natale e nel giorno della vigilia mi accadeva sempre di incontrare nella via, al solito angolo, un piccino che non poteva avere più di sette anni. Con quel gelo terribile era vestito quasi come d’estate, ma aveva al collo un vecchio cencio, e ciò significava che vi era ancora chi lo vestiva prima di mandarlo fuori casa, lo mandava in giro «con la manina»: termine tecnico che vuol dire chiedere l’elemosina. Sono stati i bambini stessi a coniarlo. Ce n’è una moltitudine come lui, si aggirano per le vostre strade e ripetono in tono lamentoso quelle formule imparate a memoria; ma questo non si lamentava e parlava in un certo modo inusuale e ingenuo e mi guardava fiducioso negli occhi: doveva esser solo agli inizi della professione.

Alle mie domande replicò che aveva una sorella a casa, senza lavoro e malata; forse era la verità, ma solo in seguito scoprii che di piccini così ve ne sono a miriadi; li mandano in giro «con la manina», anche nel gelo più terribile, e se non raccolgono nulla, vi sono senz’altro le botte ad attenderli. Racimolate le copeche, il bimbo ritorna con le dita intorpidite ed arrossate in qualche cantina dove si sta ubriacando una compagnia di perdigiorno, di quelli che «smettono di lavorare in fabbrica il sabato in vista della domenica e non vi fanno ritorno prima del mercoledì sera». Là nelle cantine, si ubriacano con loro anche le mogli affamate e maltrattate, e ancora lì vagiscono affamati i lattanti. Vodka, sporcizia, e depravazione, ma soprattutto vodka. Con le copeche raccolte il piccino viene subito spedito all’osteria, da cui torna con dell’altra vodka. Per divertimento versano anche a lui talvolta in bocca una mezzetta e sghignazzano quando, col respiro mozzato, cade sul pavimento quasi privo di sensi:

… e in bocca l’orribile vodka senza pietà mi versava…

Una volta cresciuto, verrà spedito senza indugio da qualche fabbrica, ma tutti i suoi guadagni li poterà ancora a quei perdigiorno, che di nuovo se li berranno. Tuttavia già prima della fabbrica questi bimbi diventano dei perfetti delinquenti. Vagabondano per la città e conoscono vari posti nelle cantine dove pernottare indisturbati. Uno di loro pernottò per alcune notti di seguito da un portiere dentro una cesta, senza che questi se ne accorgesse neppure. Va da sé che diventano dei ladruncoli. Il furto si trasforma in passione persino per i bambini di otto anni e talvolta senza che siano minimamente consapevoli della criminosità della loro azione. Alla fine sopportano tutto: fame, freddo, botte solo per un’unica cosa, per la libertà, e fuggono dai loro perdigiorno per vagabondare ormai da soli. Sono dei selvaggi e talvolta non paiono neppure in grado di intendere nulla, né dove vivano, da che nazione provengano, né se vi sia Dio o se esista un sovrano; sul loro conto circolano voci tali da sembrare incredibili, ma tuttavia corrispondono ai fatti.

Il bambino sull’albero di Natale da Gesù

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Ma io sono un romanziere e mi pare di aver inventato la “storia”. Scrivo «mi pare» perché sono certo di averla inventata, e mi immagino sempre che tutto sia avvenuto in un certo luogo in un certo momento, e che sia accaduto proprio alla vigilia di Natale, in qualche enorme città, con un gelo terribile.

Mi sembra di rivedere in una cantina un bimbo, ancora piccino, di forse sei anni e anche meno. Il bimbo si è svegliato un mattino nella cantina umida e fredda. Ha addosso una specie di camicina e trema. Il suo fiato si trasforma in bianco vapore e lui, seduto sul baule, in un angolo, per la noia, fa fluire questo vapore dalle labbra e si diverte a guardare come vola via.

Tuttavia ha una gran voglia di mangiare. Fin dal mattino, si è avvicinato più volte al tavolaccio dove, su un pagliericcio sottile sottile, con il capo appoggiato ad una sorta di fagotto che le fa da guanciale, giace la madre malata. Come sarà finita lì? Probabilmente era giunta da un’altra città con il suo bambino e si era improvvisamente ammalata. La padrona di quegli “angolini” era stata arrestata dalla polizia due giorni prima; gli inquilini si erano dispersi chissà dove per le feste ed era rimasto solo un perdigiorno che non aveva atteso le feste per bere, e ormai da ventiquattro ore giaceva ubriaco, come morto. In un altro angolo della stanza gemeva per i reumatismi una vecchietta ottantenne che un tempo era stata bambinaia e che ora moriva in solitudine, sospirando, lamentandosi e brontolando contro il bimbo, tanto che lui temeva di avvicinarsi troppo al suo angolo. Da qualche parte nell’andito era riuscito a trovare qualcosa da bere, ma di croste di pane non ne aveva scovate e almeno una decina di volte si era accostato alla madre per svegliarla. Infine gli era venuto il terrore del buio: da un pezzo ormai era scesa la sera, ma i lumi erano ancora spenti. Tastando il viso della mamma si stupì che lei non facesse il minimo movimento e che fosse diventata fredda come il muro. «Fa proprio freddo qui» pensò il bimbo, e restò per un po’ immobile, dimenticando senza volerlo la mano sulla spalla della defunta, poi soffiò sui suoi ditini per riscaldarli, si mise a frugare sul tavolaccio alla ricerca del suo berrettino e si avviò a tentoni verso l’uscita della cantina. Si sarebbe allontanato anche prima, ma aveva sempre temuto il grosso cane che stava tutto il giorno di sopra, sulla scala, davanti alla porta dei vicini. Però il cane non c’era e lui si ritrovò di colpo in strada.

Dio, che città! Non aveva mai veduto nulla di simile. Da laggiù, da dove veniva, il buio era così fitto e un solo fanale illuminava tutta la via. Le casupole di legno avevano le imposte chiuse; non appena imbruniva la via diventava deserta e tutti si rinchiudevano in casa, e solo branchi di cani abbaiavano ed ululavano per tutta la notte. Ma almeno lì stava al caldo e veniva nutrito, mentre qui, mio Dio, magari avesse trovato qualcosa da mangiare! E lo strepito, il fracasso, la gente, le luci, e tutti quei cavalli e quelle carrozze, e che gelo, che gelo! Un vapore gelido fluiva dai cavalli stremati, dal respiro rovente dei loro musi; nella neve soffice i loro ferri tintinnavano contro i sassi, e tutti si spintonavano, e, Signore, sarebbe stato così bello poter mangiare, e i ditini ad un tratto sembravano fare tanto male. Una guardia passò davanti al bimbo, ma voltò il capo dall’altra parte per non vederlo.

Ma ecco un’altra via: com’era ampia! Lì l’avrebbero di certo schiacciato. E come vociavano tutti, come si affrettavano, come correvano sulle loro carrozze, e quante luci, quante luci! Ma questa che cos’è? Oh, che vetro grande, e dietro il vetro una stanza dove la legna arriva fino al soffitto; c’è un abete, e quante luci sull’abete, e stelle e decorazioni d’oro, e quante file di pupazzetti e di cavallini lo avvolgono tutt’intorno; nella stanza si rincorrono dei bimbi lindi e vestiti a festa, e ridono, giocano, mangiano, bevono. Ed ecco, una bambina si è messa a danzare con un bimbo, com’è carina! E ora si può sentire anche della musica attraverso il vetro. Il bimbo guarda pieno di meraviglia e già ride, ma ormai anche i ditini dei piedi gli dolgono, e quelli delle mani, sono tutti arrossati, non si piegano e muoverli fa tanto male. E tutt’ad un tratto, resosi conto del dolore, scoppia in lacrime e fugge via, ma poi scorge di nuovo attraverso un altro vetro un’altra stanza, con gli stessi alberi e una tavola con torte rosse e gialle e di mandorla, e vi siedono quattro ricche signore che te ne danno un po’ non appena ci si avvicina, ogni istante si spalanca la porta e fiumane di signori entrano e si dirigono verso di loro. Il bimbo si intrufola e di colpo la porta si è aperta e lui è entrato. Oh, come lo sgridano, come agitano le braccia! Una signora lo raggiunge in gran fretta e gli ficca in mano una copeca, poi gli apre lei stessa la porta e lo sospinge fuori. Come è spaventato il piccino! La copechina gli è subito scivolata di mano tintinnando sugli scalini: non è riuscito a piegare le sue dita arrossate per ottenerla. Il bimbo fugge via e corre, corre senza sapere dove va. Avrebbe voglia di piangere, ma ha paura e continua a correre, soffiandosi sulle manine. E l’angoscia lo assale poiché all’improvviso si è sentito così solo, così pieno di paura. E poi, di colpo, oh Signore, ma che c’è ancora di nuovo? Una folla di persone osserva rapita: dietro il vetro, sulla finestra, vi sono tre piccoli automi, vestiti di rosso e di verde, e sembrano quasi vivi!

Uno è un vecchietto seduto che pare intento a suonare un grosso violino, mentre gli altri stanno in piedi e suonano dei piccoli violini, dondolando a tempo la testa e guardandosi l’un l’altro, e muovono le labbra proprio come se parlassero, solo che dal vetro non si ode nulla. E il bimbo da principio ha creduto che fossero veri, ma poi ad un tratto ha capito che si trattava di automi ed è scoppiato a ridere. Non aveva mai veduto bambole simili e non pensava neppure che potessero esistere! Avrebbe voluto piangere, ma era così buffo guardarli! All’improvviso gli sembrò che qualcuno lo afferrasse per la camicina: un ragazzaccio cattivo lo colpì alla testa e gli strappò il berretto, facendogli lo sgambetto. Il bimbo ruzzolò a terra, intorno si udirono delle grida, lui rimase inebetito, e poi balzò in piedi e corse via; senza rendersene conto, entrò di corsa dentro un portone, in un cortile sconosciuto, e si sistemò su un mucchio di legna. «Qui non mi troveranno, e poi è buio».

Sedeva tutto rattrappito, senza riuscire a riprendere fiato dalla paura, ma tutt’ad un tratto si sentì così bene le manine e i piedini non gli facevano più male e avvertiva un tale senso di tepore, come se si fosse trovato sopra una stufa; ma poi prese a tremare tutto. Ah, già, si era quasi addormentato. Come era bello addormentarsi lì! «Rimarrò per un po’ e poi andrò di nuovo a guardare gli automi», pensò il bimbo e sorrise, rammentandosene: «parevano proprio vivi!…». E all’improvviso udì sopra di lui la voce della sua mamma che gli cantava una canzoncina: «Mamma, sto dormendo. Ah, come è dormire qui!».

«Vieni da me a vedere l’albero di Natale, piccino», bisbigliò ad un tratto una voce sommessa sopra di lui.

Dapprima pensò che fosse stata la mamma a parlare, ma no, non era stata lei; non riusciva a vedere chi l’avesse chiamato, ma qualcuno si era chinato su di lui e lo aveva abbracciato nel buio e lui gli aveva teso la mano… e poi d’improvviso, che luce! Che albero di Natale! Ma no, non era neppure un albero di Natale, non aveva mai veduto prima di allora alberi simili! Dove si trovava? Era tutto un brillio di luci e vi erano bambole ovunque, anzi no, si trattava di bimbi e di bimbe, ma erano così luminosi, gli vorticavano intorno, volando, e lo baciavano, lo afferravano e lo trascinavano con loro, anche lui volava. E vedeva la sua mamma che lo osservava e rideva gioiosa.

«Mamma! Mamma! Oh, com’è bello qui, mamma!», gridava il bimbo, mentre scambiava dei baci con gli altri bambini, e avrebbe voluto subito raccontare degli automi che aveva scorto dietro il vetro. «Chi siete, bimbi? Bimbe, chi siete?», chiedeva ridendo, pieno d’amore per loro.

«È l’“albero di Natale di Gesù”», fu la loro risposta. Gesù in questo giorno ha sempre un albero di Natale per i piccoli che non ne hanno uno…». E scoprì che tutti i bambini erano proprio come lui, ma che alcuni di loro erano morti assiderati sulle scale davanti alla porta di qualche impiegato di Pietroburgo dentro le ceste in cui erano stati abbandonati, e che altri, affidati dall’orfanotrofio a balie finlandesi, non erano sopravvissuti all’allattamento, o ancora che erano morti al seno inaridito delle loro madri o nel fetore di carrozze di terza classe, ma ora tutti erano lì, nelle sembianze di angeli, da Gesù ed egli era fra di loro, tendeva loro le braccia e li benediceva con le loro madri peccatrici… E anche le madri si trovavano lì in disparte e piangevano, riconoscendo ciascuna il proprio bimbo o la propria bimba che andavano verso di loro e le baciavano, asciugavano le loro lacrime con le manine, scongiurandole di non piangere, poiché si stava tanto bene lì…

Mentre laggiù verso il mattino i portieri ritrovarono il cadaverino di un bimbo capitato lì per caso e morto assiderato dietro un mucchio di legna; rintracciarono anche la sua mamma… Era morta ancor prima di lui: si erano ritrovati in Cielo dal Signore Iddio.

Perché mai avrò scritto una storia come questa, così poco adatta ad un normale ragionevole diario, e ancor meno a quello di uno scrittore? E dire che avevo promesso dei racconti su fatti realmente avvenuti! Eppure, ecco, ho come l’impressione che tutto ciò sia potuto accadere davvero; mi riferisco a quel che è avvenuto in cantina e dietro il mucchio di legna, quanto all’albero di Natale da Gesù non saprei dirvi se sia andata proprio così! Ma non per nulla sono un romanziere e qualcosa devo pur inventare!

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