Il Natale secondo Bergoglio: fate spazio al silenzio

Posté par atempodiblog le 16 décembre 2014

Il Natale secondo Bergoglio: fate spazio al silenzio
Tratto da: Avvenire

Il Natale secondo Bergoglio: fate spazio al silenzio dans Apoftegmi dei Padri del deserto Santo-Natale

VERSO IL NATALE
Le meditazioni del 1987
Il testo che qui pubblichiamo fa parte di un  libretto di Jorge Mario Bergoglio-Papa Francesco intitolato «La forza del presepe» che  l’editrice Emi manda in libreria domani (pagine 64, euro 6,90) con la prefazione di Antonio Spadaro. Il volume raccoglie alcune riflessioni del 1987, inedite in Italia, dell’allora padre gesuita, dedicate alla festa del Natale. Qui anticipiamo un’ampia parte di una meditazione sul silenzio. Per Bergoglio il Natale è la festa della vita e della luce, ma non va celebrato in maniera sdolcinata né tantomeno consumista. In questa ricorrenza si manifesta l’annuncio più radicale del cristianesimo: Dio si fa carne, creatura, bambino, per  salvare l’umanità tutta dal peccato. E di fronte a tale verità – scrive  Jorge Mario Bergoglio – «non possiamo restare inamidati o  rigidi». Queste meditazioni di Bergoglio ci fanno cogliere lo  spirito del Natale in un’accezione nuova, con la richiesta  di un coraggio rinnovato e di una fede adulta.

L’abate Arsenio diceva  d’essersi pentito  spesso d’aver parlato,  e mai d’aver taciuto.  Intendeva  che il silenzio è una  disciplina interiore alla quale va prestata attenzione. «Se uno non pecca nel parlare, costui è un uomo perfetto, capace di tenere a freno  anche tutto il corpo. Se mettiamo il morso in bocca ai cavalli perché ci obbediscano, possiamo dirigere anche  tutto il loro corpo. Ecco, anche le navi, benché siano così grandi e spinte  da venti gagliardi, con un piccolissimo  timone vengono guidate là dove vuole il pilota. Così anche la lingua: è un membro piccolo ma può vantarsi di grandi cose. Ecco: un piccolo fuoco può incendiare una grande foresta! Anche la lingua è un fuoco, il mondo del male! La lingua è inserita nelle nostre  membra, contagia tutto il corpo e incendia tutta la nostra vita, traendo la sua fiamma dalla Geenna. Infatti ogni  sorta di bestie e di uccelli, di rettili  e di esseri marini sono domati e sono  stati domati dall’uomo, ma la lingua  nessuno la può domare: è un male  ribelle, è piena di veleno mortale. Con essa benediciamo il Signore e Padre,  e con essa malediciamo gli uomini  fatti a somiglianza di Dio. Dalla stessa  bocca escono benedizione e maledizione  » (Gc 3,2-10).

Dice santa Teresa: «È grave colpa quando una sorella abitualmente non osserva il silenzio». I Padri del deserto hanno molto insistito su questo punto.  A modo di esempio: «Ogni lavoro sarà fonte di abbondanza, ma parlare molto spesso sarà fonte di povertà». «Colui che parla molto fa un danno alla  sua anima»; «Il ciarlatano è sempre ignorante. Il saggio parla con parsimonia.  Parlare molto indica stupidità. La voce dell’insensato moltiplica le parole  e gli argomenti»; «Ciò che fai davvero  fallo in silenzio e in preghiera». Tutte queste sentenze si basano sul versetto della Scrittura: «Nel molto parlare non manca la colpa» (Pr 10,19). Infatti la troppa loquacità indica sempre  una certa mancanza di lavoro, un ozio cattivo. San Paolo lo ricorda a proposito  delle vedove giovani: «Non avendo  nulla da fare, si abituano a girare  qua e là per le case e sono non soltanto  oziose, ma pettegole e curiose, parlando di ciò che non conviene» (1Tm 5,13).
I mezzi di comunicazione di massa ci sottopongono a quella che potremmo chiamare un’«alluvione di parole». Mi domando:  «Sono capace  di vivere senza  la radio? Per quanti giorni?». Esiste  un consumismo  di parole: parole  dolci, seduttive,  oggettive, colleriche…  di ogni tipo. Parole che cercano di entrarci  rumorosamente  nel cuore e non apportano niente alla verità. La Parola ha creato l’universo, la Parola di Dio, che ha detto e tutto fu fatto. La parola che usiamo è stata depotenziata  della sua potenza creativa. E noi infatti lo sappiamo, perché istintivamente  diffidiamo delle parole che ci vengono dette, non vi prestiamo fede, diciamo: «Non sono altro che parole…  Non hanno niente a che vedere con la verità». Eppure, quanto ci piace  ascoltarle! E quando dobbiamo esprimere  un sentimento, siccome le parole sono così consumate, a volte non sappiamo come farlo; e allora ricorriamo a una serie di artifizi, anch’essi  menzogneri, che prostituiscono  il sentimento: la «formalità», la «provocazione», la parola «sdolcinata» dell’intimista.

Ma il sentimento resta dentro  e non sappiamo come esprimerlo  nella verità, come  esprimerlo in solitudine.  Ecco il cuore del problema: se non  c’è solitudine non  c’è silenzio, e senza  entrambi non  c’è verità. Il silenzio  è l’espressione  più alta della solitudine  del cuore. Il  silenzio trasforma  la solitudine in  realtà. E quando  non cediamo al  prurito di ascoltare  noi stessi, cioè  alla vanità dell’anti-  silenzio, sfuggiamo  alla solitudine  di quelle innumerevoli   maniere  formali, provocatorie,   intimistiche,  massificanti… Tutte parole che non danno vita, che non nascono da un cuore passato attraverso il crogiolo  della solitudine, nella costanza e nell’affetto. Non nascono – in sostanza  – da un cuore fecondo.

Le parole vere si forgiano nel silenzio. Più ancora: il nucleo stesso della parola  dev’essere silenzioso. Se la parola  è vera, nel suo cuore si annida il silenzio.  E la parola, una volta pronunciata,  torna al silenzio abissale e fecondo  da cui proveniva. La parola muore per fare posto all’amore, alla bellezza, alla verità, che proprio essa ha portato. Ce lo ricordava acutamente  sant’Agostino: «Giovanni la voce,  il Signore, invece, in principio era il Verbo. Giovanni voce nel tempo, Cristo  in principio Parola eterna. […] La voce, senza la parola, colpisce l’orecchio,  non apporta nulla alla mente. […] la parola, a te recata dal suono, è ormai nella tua mente e non si è allontanata  dalla mia. Perciò il suono, proprio il suono, quando la parola è penetrata in te, non ti sembra dire: Egli  deve crescere ed io, invece, diminuire?  La sonorità della voce ha vibrato  nel far servizio, quindi si è allontanata,  come per dire: questa mia gioia è completa. Conserviamo la parola, badiamo a non perdere la parola concepita nel profondo dell’essere».

La nostra parola, il nostro parlare, che nasce dal silenzio, dev’essere contenta di morire  tornando al silenzio da cui era uscita. Il silenzio c’insegna a parlare, dà forza  alla parola, la quale – per questo silenzio  che racchiude – non è mero rumore  (cfr. 1Cor 13,1). Il silenzio c’insegna  a parlare perché mantiene nel nostro intimo il fervore religioso, l’attenzione  allo Spirito Santo. Il silenzio alleva la vita dello Spirito Santo in noi. Al riguardo dice Diadoco di Fotica: «Tenendo aperte di continuo le porte del bagno si perde il calore dell’ambiente  interno; così, quando l’anima cede al desiderio del troppo parlare, anche se è bene ciò che dice, disperde  l’intima presenza a sé stessa per la porta della voce. Priva dei pensieri giusti,  manifesta in modo tumultuoso a  chiunque le capiti il susseguirsi dei  suoi pensieri, perché non possiede  più lo Spirito Santo che la  preservi dalla dissipazione,  con pensieri privi di immagini  sensibili. Il bene rifugge  dalla loquacità, alieno com’è  dal tumultuoso fantasticare.  Grande cosa è il silenzio opportuno,  è il padre del pensiero  penetrante». Altrove parla di «avida ricerca di silenzio» da parte del cuore che voglia custodire la vita divina dentro  di sé. Si tratta di quel «silenzio lungi  dal pesare ad alcuno» a cui si riferisce santa Teresa.

I Padri del deserto riferivano al silenzio  la nostra vita di pellegrini. Dicevano: Peregrinatio est tacere («Il pellegrinaggio  consiste nel tacere»). Questo «peregrinare » è «essere alla ricerca di una patria» (Eb 11,14) senza lasciarsi irretire da questa patria terrena. Parlare  ci inserisce nelle questioni del mondo. La nostra missione apostolica  ci obbliga a parlare. Ma quando in questo parlare manca il nucleo del silenzio  che ci rende pellegrini, finiamo per lasciarci corrompere dallo spirito del mondo, «piantiamo le tende nel mondo». Allora sperimentiamo quel sentimento interiore di fallimento che l’eccesso delle parole ha la caratteristica  di lasciare nel cuore. Le parole c’intrattengono e ci fanno scordare che siamo pellegrini. È proprio il silenzio a mantenerci nella nostra condizione di pellegrini. «Vigilerò sulla mia condotta  per non peccare con la mia lingua;  metterò il morso alla mia bocca finché [poiché sono pellegrino] ho davanti  il malvagio» (Sal 39,2).

Sant’Ignazio, quando si riferisce al silenzio,  parla volentieri di «tranquillità» e «modestia» dell’anima. È significativo  che tutte le doti del silenzio vengano  applicate all’immagine che egli delinea  dei fratelli coadiutori. Quasi che costoro debbano costituire il bastione silenzioso di una comunità, affinché quest’ultima sia in grado di parlare bene  agli uomini. Ci sono anche le Regole della modestia. Ma voglio piuttosto rimarcare  che sant’Ignazio non menziona  il silenzio soltanto come mezzo per la vita spirituale, per la preghiera, per gli Esercizi e via dicendo, ma invece mira a una concezione del silenzio che, nella vita del gesuita, è totalizzante. Il gesuita «tranquillo», «modesto», «silenzioso  » non è un ingenuo che esclude  dalla propria comprensione le voci e i rumori che gli giungono. Al contrario, dev’essere pienamente consapevole  di tutti questi suoni che vengono  a bussare alla porta del suo cuore,  così come dei suoni che escono dal suo stesso cuore, in modo da accogliere  quelli buoni e respingere quelli cattivi.
Parla del silenzio l’apostolo Giacomo quando scrive: «Ma se avete nel vostro cuore gelosia amara e spirito di contesa,  non vantatevi e non dite menzogne  contro la verità» (3,14). Quando nel tuo cuore non c’è silenzio, quando  c’è un rumore cattivo, non esprimerlo  sotto le mille forme della vanagloria:  il sarcasmo, la vanità, l’intimismo,  la fatuità, il pettegolezzo, il fare contrariato e tormentato, il bisogno di avere sempre qualcosa da ridire. Amarezze,  affetti disordinati, risentimenti,  il cullarsi nel proprio egoismo…  tutte queste cose sono mancanza  di silenzio interiore e corrompono la verità.

Infine, il silenzio è l’espressione più  alta e più quotidiana della dignità.  Tanto più nei momenti di prova e  di crocifissione, quando la carne vorrebbe giustificarsi e sottrarsi alla croce. Nel momento supremo dell’ingiustizia,  «Gesù taceva» (Mt 26,63; cfr. anche Is 53,7; At 8,32). Non è stato al gioco del rispondere a quanti gli dicevano  di scendere dalla croce. Tutta la pazienza di Dio, la pazienza di secoli, e anche il suo affetto, emergono qui, in questo silenzio del Cristo umiliato. Nella storia degli uomini fanno irruzione  il silenzio eterno della Parola, la «contemplatività» amorosa del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, tutta la comunione trinitaria dal silenzio dei secoli. È Parola, ma Parola che – nell’ora  dell’annientamento provocato dall’ingiustizia – si fa silenzio. Iesus autem  tacebat. Contempliamo tutto il «viaggio» della Parola di Dio (cfr. Gv 1,1; 14,2-3; 14,10; 16,28); come si fa tenerezza  nel seno di una Madre. Questa  Madre «custodiva tutte queste cose,  meditandole nel suo cuore» (Lc 2,19.51). Nel cuore silenzioso di Maria ha sede la memoria della Chiesa. Il silenzio  «incarnato» del Verbo si esprime  in quel momento d’ingiustizia, di umiliazione, di annientamento, nell’ora  del potere delle tenebre. Quella è la dignità di Gesù, ed è anche la nostra.

Laisser un commentaire