La favola di Natale (di Giovannino Guareschi)

Posté par atempodiblog le 12 décembre 2014

La favola di Natale (di Giovannino Guareschi)
Tratto da: Racconti, fiabe, filastrocche e… non solo

La favola di Natale (di Giovannino Guareschi) dans Giovannino Guareschi Santo-Natale

Natale è la festa della famiglia e tutti si danno da fare per trascorrerla insieme in allegria; se gli adulti hanno da fare, i bambini non sono da meno.

In molte famiglie è tradizione che i figli recitino nel giorno della festa una poesia e allora … che fatica imparare le poesie! E se poi in famiglia ci sono più poesie da imparare c’è il rischio che mezzo quartiere sia costretto a impararle.

Forse Margherita ha ragione quando dice che occorre la maniera forte coi bambini: il guaio è che, a poco a poco, usando e abusando della maniera forte, in casa mia si lavora soltanto con le note sopra il rigo.

La tonalità, anche nei più comuni scambi verbali, viene portata ad altezze vertiginose e non si parla più, si urla. Ciò è contrario allo stile del «vero Signore», ma quando Margherita mi chiede dalla cucina che ore sono, c’è la comodità che io non debbo disturbarmi a rispondere perché l’inquilino del piano di sopra si affaccia alla finestra e urla che sono le sei o le dieci.

Margherita, una sera del mese scorso, stava ripassando la tavola pitagorica ad Albertino e Albertino s’era impuntato sul sette per otto.

Sette per otto?”, – cominciò a chiedere Margherita. E, dopo sei volte che Margherita aveva chiesto quanto faceva sette per otto, sentii suonare alla porta di casa.

Andai ad aprire e mi trovai davanti il viso congestionato dell’inquilino del quinto piano  (io sto al secondo).

Cinquantasei!”, – esclamò con odio l’inquilino del quinto piano.

Rincasando, un giorno del dicembre scorso, la portinaia si sporse dall’uscio della portineria e mi disse sarcastica: “Natale, è Natale è la festa dei bambini – è un emporio generale – di trastulli e zuccherini!”.

Ecco, – dissi tra me – Margherita deve aver cominciato a insegnare la poesia di Natale ai bambini.

Arrivato davanti alla porta di casa mia, sentii appunto la voce di Margherita:

“È Natale, è Natale – è la festa dei bambini!…”.

“È la festa dei cretini!” – rispose calma la Pasionaria. Poi sentii urla miste e mi decisi a suonare il campanello.

Sei giorni dopo, il salumaio quando mi vide passare mi fermò.

“Strano”, – disse – “una bambina così sveglia che non riesce a imparare una poesia così semplice. La sanno tutti, ormai, della casa, meno che lei”.

“In fondo non ha torto se non la vuole imparare”, – osservò gravemente il lattaio sopravvenendo. “È una poesia piuttosto leggerina. È molto migliore quella del maschietto: O Angeli del Cielo – che in questa notte santa – stendete d’oro un velo – sulla natura in festa…”.

“Non è così”, – interruppe il garzone del fruttivendolo. “O Angeli del Cielo – che in questa notte santa stendete d’oro un velo – sul popolo che canta…”.

Nacque una discussione alla quale partecipò anche il carbonaio, e io mi allontanai.

Arrivato alla prima rampa di scale sentii l’urlo di Margherita: “…che nelle notti sante – stendete d’oro un velo – sul popolo festante…”.

Due giorni prima della vigilia, venne a cercarmi un signore di media età molto dignitoso.

“Abito nell’appartamento di fronte alla sua cucina”, – spiegò. “Ho un sistema nervoso molto sensibile, mi comprenda. Sono tre settimane che io sento urlare dalla mattina alla sera: È Natale, è Natale – è la festa dei bambini – è un emporio generale – di trastulli e zuccherini. Si vede che è un tipo di poesia non adatto al temperamento artistico della bambina e per questo non riesce a impararla. Ma ciò è secondario: il fatto è che io non resisto più: ho bisogno che lei mi dica anche le altre quartine. lo mi trovo nella condizione di un assetato che, da quindici giorni, per cento volte al giorno, sente appressarsi alla bocca un bicchiere colmo d’acqua. Quando sta per tuffarvi le labbra ecco che il bicchiere si allontana. Se c’è da pagare pago, ma mi aiuti”.

Trovai il foglio sulla scrivania della Pasionaria.

Il signore si gettò avidamente sul foglio: poi copiò le altre quattro quartine e se ne andò felice.

“Lei mi salva la vita” - disse sorridendo.

La sera della vigilia di Natale passai dal fornaio, e il brav’uomo sospirò.

“È un pasticcio” – disse. – “Siamo ancora all’emporio generale. La bambina non riesce a impararla, questa benedetta poesia. Non so come se la caverà stasera. Ad ogni modo è finita!” – si rallegrò.

Margherita, la sera della vigilia era triste e sconsolata.

Ci ponemmo a tavola, io trovai le regolamentari letterine sotto il piatto.

Poi venne il momento solenne.

“Credo che Albertino debba dirti qualcosa”, – mi comunicò Margherita.

Albertino non fece neanche in tempo a cominciare i convenevoli di ogni bimbo timido: la Pasionaria era già ritta in piedi sulla sua sedia e già aveva attaccato decisamente:

“O Angeli del Cielo – che in queste notti sante – stendete d’oro un velo – sul popolo festante…”. Attaccò decisa, attaccò proditoriamente, biecamente, vilmente e recitò, tutta d’un fiato, la poesia di Albertino.

“È la mia!”,  singhiozzò l’infelice correndo a nascondersi nella camera da letto.

Margherita, che era rimasta sgomenta, si riscosse, si protese sulla tavola verso la Pasionaria e la guardò negli occhi.

“Caina!”,  urlò Margherita.

Ma la Pasionaria non si scompose e sostenne quello sguardo. E aveva solo quattro anni, ma c’erano in lei Lucrezia Borgia, la madre dei Gracchi, Mata Hari, George Sand, la Dubarry, il ratto delle Sabine o le Sorelle Karamazoff.

Intanto Abele, dopo averci ripensato sopra, aveva cessato l’azione.

Rientrò Albertino, fece l’inchino e declamò tutta la poesia che avrebbe dovuto imparare la Pasionaria.

Margherita allora si mise a piangere e disse che quei due bambini erano la sua consolazione.

La mattina un sacco di gente venne a felicitarsi, e tutti assicurarono che colpi di scena così, non ne avevano mai visti neanche nei più celebri romanzi gialli.

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